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Servizio quotidiano - 27 febbraio 2010
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Documenti
- Giovanni, il contemplativo dell'amore
- L'agenda sociale della speranza
- La carità intellettuale testimoniata
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Giovanni, il contemplativo dell'amore
ROMA, sabato, 27 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio per la Quaresima di quest'anno di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.
* * *
In quest’Anno Sacerdotale, indetto da Papa Benedetto XVI nel centocinquantesimo anniversario della nascita al cielo del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney (1786-1859), dedico alla figura dell’Apostolo Giovanni, che la tradizione identifica col “discepolo che Gesù amava”, il messaggio per la Quaresima, tempo forte di preghiera e di riflessione, di conversione e di carità operosa. Vorrei così offrire un piccolo aiuto alla conoscenza e all’imitazione del discepolo dell’amore, modello non solo per tutti i sacerdoti e i consacrati, ma anche per ogni battezzato che voglia prendere sul serio la chiamata alla sequela di Gesù nel sacerdozio battesimale. Che la grazia del Signore renda sempre più luminoso, vero e fecondo il nostro cammino comune nell’imitazione e nella testimonianza di Cristo! Che il Signore doni alla nostra Chiesa numerosi e santi sacerdoti e tanti giovani desiderosi di diventarlo sull’esempio del discepolo amato…
1. Il discepolo dell’amore L’Autore del quarto Vangelo resta avvolto da una grande discrezione: gli ultimi versetti del capitolo 21 lo identificano con il “discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: ‘Signore, chi è che ti tradisce?’” (v. 20). Di lui Pietro chiede a Gesù: “Signore, e lui?”. E Gesù gli risponde: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” (vv. 21-22). Con questo Gesù non vuol dire che quel discepolo non sarebbe morto (v. 23), ma che è per eccellenza il discepolo dell’attesa, proteso all’incontro con l’Amato andato a prepararci un posto nel seno del Padre. Questo discepolo è evidentemente uno dei tre più intimi del Signore, che sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Non è Pietro, in quanto si accompagna a lui (come nella visita al sepolcro al mattino del giorno dopo il sabato: Giovanni 20,2-10); non è Giacomo, fatto uccidere di spada da Erode molto presto, come ci dice At 12,2 (intorno al 44). Dunque, è Giovanni. Già questo essere avvolto dalla discrezione ce ne fa intravedere le caratteristiche: è il contemplativo dell’amore, il discepolo tradizionalmente indicato come il più giovane, perché presenta i tratti dell’audacia e della tenerezza che proprio i giovani sono capaci di avere (è l’unico che resta ai piedi della Croce, l’amato per eccellenza) e vede l’invisibile, perché guarda con gli occhi dell’amore. Così lo percepisce la tradizione cristiana, come testimonia ad esempio Clemente di Alessandria (210): “Vedendo che gli altri avevano riferito solo i fatti materiali, Giovanni, l’ultimo di tutti, incoraggiato dai suoi amici e divinamente ispirato dallo Spirito santo, scrisse il vangelo spirituale”. Dal cuore dell’Amato scaturisce la buona novella dell’amore…
2. Alcuni tratti storici Giovanni è figlio di Zebedeo e proviene dall’ambiente della Galilea. Insieme a Giacomo, suo fratello, era socio di una piccola azienda di pesca, di cui facevano parte altri due fratelli, Simone e Andrea. Probabilmente, Giovanni aveva seguito inizialmente il Battista, e potrebbe essere quello dei due discepoli non nominato (l’altro è Andrea, che subito dopo va a chiamare suo fratello Simone), che erano accanto a Giovanni quando questi indicò in Gesù che passava l’Agnello di Dio (Giovanni 1,35), e che seguirono Gesù. La discrezione con cui si presenta non impedisce che traspaiano i momenti salienti della sua storia di fede e d’amore al Cristo: la vocazione (Giovanni 1,35-39); la presenza accanto al Maestro nell’Ultima Cena (13,23); la domanda sul traditore (13,25s); il dialogo con Gesù accanto alla Madre ai piedi della Croce (19,26s); la visita con Pietro al sepolcro la mattina di Pasqua (20,2-10). A lui anziano è attribuita l’Apocalisse, nella quale sono innegabili gli influssi della sua attitudine simbolica e contemplativa. Del suo cammino di fede ripercorriamo sette tratti, che parlano specialmente alla vita spesa nella sequela di Gesù e su cui vorrei invitare tutti a verificarsi …
3. La vocazione Giovanni è un vero cercatore di Dio: è andato dal Battista, ma quando il Battista indica Gesù come l’Agnello di Dio, non esita a lasciarlo per andare da Gesù. La domanda: “Maestro, dove abiti?”, dice il desiderio di restare con lui (cf. 1,35-39). Giovanni ha capito che seguire Gesù è trovare la dimora vera della propria vita. La risposta di Gesù è un invito a fidarsi, a credere senza vedere: “Venite e vedrete”. Prima si va, poi si vede! I due fanno così: per Giovanni è talmente grande l’impressione di quell’incontro, che segnerà per sempre la sua vita, che ne ricorda l’ora precisa con un’accuratezza cronachistica: “Erano circa le quattro del pomeriggio”. La vocazione è l’incontro con Qualcuno, non con qualcosa, un incontro che avviene nel tempo e nello spazio, in un’ora decisiva e in un contesto che ci restano scritti nel cuore. È così che matura la decisione di seguire Gesù per stare con Lui e vivere di Lui...
4. L’intimità con Gesù Nel cosiddetto “libro dell’addio” (i capitoli 13-17 del Quarto Vangelo), nel momento drammatico in cui si consuma il tradimento di Giuda, ora dell’amore supremo (“li amò sino alla fine”: 13,1) e di supremo dolore (è giunta “l’ora”), Giovanni è colui che sta vicino a Gesù più di ogni altro. Egli dimostra con la sua vita che fede e amore sono inseparabili, come lo sono amore e dolore, vicinanza all’Amato e partecipazione al suo soffrire. I segni dell’amore sono chiari: è il discepolo amato (v. 23), figura d’ogni discepolo dell’amore, che sta nel seno di Gesù (v. 23), come il Figlio sta e si muove nel seno del Padre ((cf. 1,18). È alla domanda di Giovanni che Gesù rivela la sua conoscenza del traditore, che continua però ad essere amato da Lui, come dimostra l’offerta del boccone (v. 26: gesto di predilezione e di riguardo), che seguirà Giuda anche nella notte, senza lasciarlo (v. 30: l’amore non abbandona l’amato infedele). La confidenza mostra l’intimità di Giovanni con Gesù: la fede è un essere così innamorati di Dio, da entrare nella relazione più profonda con Lui, dove ci si dice tutto, in una trasparenza totale di dolore e amore.
5. Il destinatario del testamento del Signore Il dialogo con Gesù ai piedi della Croce (19,26s) rivela il tesoro che il Maestro affida al discepolo. È l’ora in cui tutto viene a compiersi. In quest’ora suprema e definitiva, Giovanni è con la Madre di Gesù ai piedi della Croce. È il testamento del Profeta abbandonato, che si rivolge alla “donna”, figura d’Israele e della Chiesa e Madre sua, ed al discepolo dell’amore, figura d’ogni discepolo, stabilendo fra loro un rapporto così profondo, che il discepolo prende la donna nel cuore del suo cuore. Gesù lascia in testamento all’amato un triplice tesoro: Israele, la Chiesa, la Madre. Il discepolo dell’amore amerà la “santa radice” Israele come l’ha amata Gesù, amerà la Chiesa come il frutto della passione di Gesù, amerà la Madre come sua. Gesù lascia il discepolo in una rete di rapporti d’amore, che al tempo stesso gli affida: la fede è accogliere patti di pace, legami di unità, e viverli nella fedeltà dei giorni, in obbedienza al Signore crocifisso. La sequela dell’Amato si compie nella Chiesa dell’Amore...
6. Il testimone della resurrezione Andando con Pietro al sepolcro la mattina di Pasqua (20,1-8), Giovanni corre per andare a vedere Gesù: è mosso dalla sete di chi ama. Arriva per primo e aspetta: è il rispetto dell’amore, che sa far posto all’altro. Vede e crede: sarà il testimone oculare, colui che ha visto e può perciò contagiare l’amore che apre gli occhi della fede e fa riconoscere il Signore. Dichiarerà in maniera toccante all’inizio della prima lettera: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi –, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena” (1 Giovanni 1,1-4). Chi ha conosciuto e visto e toccato l’Amato, non può tenerselo per sé: ne diventa il testimone innamorato e irradiante. La fede vive nell’amore diffusivo di sé. La testimonianza scaturisce dalla sovrabbondanza del cuore toccato dal Maestro e ardente di amore…
7. Il discepolo dell’attesa Il misterioso dialogo fra Gesù e Pietro riguardo al discepolo amato (Giovanni 21,20-24) ne mette in luce un tratto peculiare: Giovanni è colui che attende il ritorno di Gesù. Il discepolo dell’amore è proteso nella speranza verso la gioia dell’incontro faccia a faccia. Il ricordo dell’Amato non è in lui nostalgia o rimpianto, ma tenerezza, speranza, vigilanza, attesa. L’amore non vive di passato, ma schiude al futuro e lo tira nel presente per il suo stesso ardore. Chi è innamorato di Dio è anche inseparabilmente testimone di speranza, perché sa che il futuro sta nelle mani dell’Amato, fedele per sempre. Proprio così è e resta un cercatore di Dio (come ricorda la Lettera ai cercatori di Dio dei Vescovi Italiani, che consiglio a tutti, credenti e non credenti, per aprirsi alle sorprese del Vivente!).
8. Il contemplativo dell’amore Giovanni è ormai vecchio: vive raccolto in Dio. Si presenta come fratello e compagno nella tribolazione a causa del suo amore fedele a Gesù. Vive la gioia dell’incontro liturgico nel giorno del Signore. È allora che è rapito in estasi, in Spirito (Apocalisse 1,9-19). Vede la voce: come solo il contemplativo sa fare, sa “vedere” attraverso le parole della rivelazione, ha l’intelligenza del simbolo, il gusto delle cose di Dio. E la rivelazione che vede è il grande messaggio di richiamo, di consolazione e di speranza per le “sette Chiese”, simbolo di tutta la Chiesa in ogni tempo e in ogni luogo (come dice il numero sette), che sono provate dalla persecuzione esterna e dalla prova interna della fede legata a quello che appare a molti il ritardo della venuta del Signore. Il discepolo dell’amore, carico di vita e di esperienza di fede, sa orientare gli occhi suoi e altrui all’Agnello immolato in piedi, al Cristo morto e risorto, mostrando come la prova presente è nient’altro che un lavare le proprie vesti nel sangue dell’Agnello per entrare con Lui nella sua gloria. La fede del discepolo dell’amore introduce alla speranza dell’amore vittorioso, della gioia senza tramonto della Gerusalemme celeste: “Colui che attesta queste cose dice: ‘Sì, verrò presto!’ Amen. Vieni, Signore Gesù” (22,20).
9. Il settimo sigillo: la settima caratteristica del discepolo amato è avvolta nel silenzio di Dio. È quanto l’iniziativa sorprendente del Signore prepara dall’eterno per ognuno di noi ed a cui dobbiamo aprirci nella docilità del cuore e nella perseveranza della fede orante ed amorosa. Possiamo aiutarci a farlo rispondendo alle domande che Giovanni pone alla vita di ognuno di noi. Sono le domande a cui vorrei chiedervi di dare risposta nella preghiera, nella penitenza e nei gesti dell’amore di questa Quaresima, offrendo in modo speciale tutto a Dio per la santificazione dei sacerdoti e per le vocazioni sacerdotali: sono pronto a rispondere all’invito di Gesù: “Vieni e vedi” o voglio vedere prima di affidarmi? Amo il Signore? Accetto di lasciarmi amare da Lui? Vivo il mio amore a Cristo nell’amore agli altri, alla Chiesa? Sono testimone dell’Amato? È vivo in me il desiderio di Dio, l’attesa del Suo volto? Ho la speranza dell’amore che sa attendere e invocare? Comunico agli altri la speranza anche nelle ore più buie della vita e della storia?
10. Proviamo a dare risposta a queste domande dopo aver invocato così il Maestro, il Dio con noi e per noi: Signore Gesù, Tu vieni a noi nel Tuo Spirito come il Vivente, che sovverte e inquieta i nostri progetti e le nostre difese. Aiutaci, Ti preghiamo, a non crocefiggere Te sulla croce delle nostre attese, ma a crocefiggere le nostre attese sulla Tua croce. Fa’ che ci lasciamo turbare da Te, perché, rinnegando noi stessi, possiamo prendere la nostra croce ogni giorno e seguirTi. Tu sai che noi non sappiamo dirTi la parola dell’amore totale: ma noi sappiamo che anche il nostro povero amore Ti basta, per fare di noi dei discepoli fedeli fino alla fine. È questo umile amore che T’offriamo: prendilo, Signore, e dì ancora e in modo nuovo la Tua parola per noi: “Seguimi”. Allora, la nostra vita si aprirà al futuro della Tua croce, per andare non dove avremmo voluto o sognato o sperato, ma dove Tu vorrai per ciascuno di noi, abbandonati a Te, come il discepolo dell’amore e dell’attesa, in una confidenza infinita. Allora, non saremo più noi a portare la croce, ma sarà la Tua croce a portare noi, colmando il nostro cuore di pace, e i nostri giorni di speranza e di amore. Amen! Alleluia!
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L'agenda sociale della speranza
ROMA, sabato, 27 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'editoriale di Claudio Gentili dedicato all'agenda sociale della speranza, che appare sul n. 1 del 2010 de La Società, la rivista scientifica di studi e ricerche sulla dottrina sociale della Chiesa (www.fondazionetoniolo.it).
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Si svolgerà dal 14 al 17 ottobre 2010, a Reggio Calabria, la 46° edizione delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, sul tema "Cattolici nell'Italia di oggi. Un'agenda di speranza per il futuro". Lo ha annunciato il vescovo di Ivrea, Arrigo Miglio, presidente del Comitato scientifico e organizzatore dei tradizionali incontri di riflessione, il primo dei quali avvenne a Pistoia nel 1907.
Monsignor Miglio, il quale è anche presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, ha spiegato che sulla scia di quanto discusso nell'ultima edizione, svoltasi a Pistoia-Pisa nel 2007, "si è voluto declinare il tema su alcuni punti concreti e urgenti per il nostro Paese, traducendoli in un'agenda di speranza".
"Un'agenda - ha precisato Mons. Miglio - non ancora scritta ma da scrivere, con due attenzioni particolari: scegliere pochi punti ma prioritari e sceglierli non da soli, ma coinvolgendo tutto il mondo dell'associazionismo cattolico, le Chiese locali, le diocesi e tutte quelle persone che vorranno collaborare, in un'azione di discernimento comunitario la più allargata possibile".
Dunque l'invito ai cattolici, impegnati ora nel cammino di preparazione dell'evento, è quello di lavorare alla redazione dell'agenda, basata su pochi e fondamentali punti, scelti grazie al contributo di tutti.
Per parte nostra "La Società" dedicherà i prossimi numeri all'approfondimento dei temi dell'agenda sociale per il futuro. "Speranza, responsabilità, agenda". Sono queste le tre parole-chiave insomma del "biglietto di invito" lanciato a tutto il mondo cattolico, e non solo, in vista della prossima Settimana sociale.
La prima parola-chiave è speranza, non ottimismo: la nostra speranza relativa alla città si fonda sull'esistenza di soggetti capaci di concorrere al futuro, con cui noi entriamo in dialogo.
La seconda parola chiave è responsabilità, partendo dalla consapevolezza espressa da Benedetto XVI a Cagliari:"serve una nuova generazione di cattolici capaci di assumersi responsabilità pubbliche".La terza parola-chiave è agenda, che però non è un programma politico di parte, ma nasce dall'idea di costruire una alleanza ampia, sulla condivisione di alcune priorità che non sono né di destra né di sinistra, ma sono indispensabili per l'evoluzione civile del nostro Paese. Dire agenda sociale vuol dire uscire dal clima di rissa e di contrapposizione ideologica e provare a ragionare in modo pacato sul nostro futuro.
Tornare a crescere in tutti i sensi, tenendo accesi i riflettori in difesa della vita e della famiglia, ridando autorità agli insegnanti e ai genitori, riconoscendo la dignità umana di ogni migrante, con diritti e doveri conseguenti, che sono alla base della loro integrazione, riorientando i nostri stili di vita e la crescita economica per assicurare un pianeta abitabile alle future generazioni, adattando l'economia sociale di mercato europea alle nuove sfide, accrescendo la giustizia sociale e le pari opportunità, assumendo misure più efficaci per ridurre la povertà e l'esclusione sociale. Sono questi alcuni dei punti fondamentali su cui si è avviata una corale riflessione in vista della 46ª Settimana sociale dei cattolici italiani di Reggio Calabria.
Il discernimento che dà sostanza al cammino di preparazione si svolge in un periodo difficile della vita del nostro Paese e dell'intera comunità internazionale. Questo rende ancora più concreto l'obiettivo di declinare la nozione di bene comune in una agenda di speranza. Quest'opera di discernimento ha trovato forte impulso dalla pubblicazione della terza Enciclica di Benedetto XVI e dal risveglio di riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa che ha suscitato.
"L'amore è una forza straordinaria che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità - leggiamo al numero 1 della Caritas in veritate - nel campo della giustizia e della pace". La forza di questo amore e la luce della sua verità alimentano la speranza nella ricerca del bene comune particolarmente in momenti difficili come quelli che stiamo vivendo.
Tra i problemi sociali prioritari, vi è senza dubbio quello della situazione demografica del Paese. Dal 1985 al 2010 i giovani italiani (dai 15 ai 24 anni) si sono dimezzati, passando da oltre 9 milioni a 5 milioni e 800 mila. Mentre nel nostro Paese la disoccupazione adulta (8 %) è inferiore alla media europea, abbiamo un gravissimo problema di disoccupazione giovanile (26 %). La nostra società sembra incapace di puntare al futuro e i giovani nel mercato del lavoro soffrono di una vera e propria apartheid. L'età media dei membri dei consigli di amministrazione delle banche è da noi di 15 anni più elevata rispetto alla media OCSE. Gli over 65 hanno ormai superato gli under 15. In Parlamento solo 8 deputati su 100 hanno meno di 40 anni. La nostra classe insegnante è la più vecchia d'Europa. Solo lo 0,2 % degli insegnanti ha meno di 30 anni. L'età media dei ricercatori supera i 40 anni. Per rigenerare la polis bisogna ripartire dai giovani, dall'educazione, dal lavoro e dalla famiglia.
Dopo il '68 è andato in crisi il concetto di autorità e tra "padri-amiconi" e "insegnanti-socializzatori" in molti casi si smarrisce la trasmissione di quel patrimonio di valori che rendono i giovani capaci di affrontare con sicurezza le sfide della vita.
La società non può abdicare al suo compito educativo. L'educazione infatti è il primo veicolo per salvaguardare il patrimonio distintivo dei valori e dei saperi di una società, ma anche il suo patrimonio di conoscenze tecnologiche e di cultura d'impresa.
Nella ricerca di soggetti sociali vitali capaci di cooperare alla rigenerazione della polis vi è al centro la famiglia, che il Concilio Vaticano II definì "scuola di arricchimento umano", perché la famiglia concorre alle generazione di ricchezze di ogni genere: dal capitale umano e sociale, alla educazione, ai fattori propriamente economici.
La famiglia è una fonte di risorse che debbono tornare a generarsi e circolare più liberamente.
Affermare la bellezza della famiglia non basta. Occorre con vigore richiedere politiche familiari adeguate a sostenere i diritti della famiglia (a partire da una riforma fiscale che riconosca il quoziente familiare) e contrastare trasformazioni legislative che privano i più deboli, cioè i figli, di un loro fondamentale diritto: una famiglia vera, con un padre e una madre, in cui essere attesi, accolti, amati, educati.
Altro tema fondamentale è quello dell'immigrazione. Si deve arrivare ad un radicale cambiamento della mentalità comune che conduca a vedere nei flussi migratori un'opportunità di sviluppo e non un problema di ordine pubblico. Occorre gestire meglio i flussi migratori in modo compatibile con la nostra capacità di accoglienza. Una proposta concreta sulla quale convergere può essere la messa in campo di un impegno volto a riconoscere i diritti degli immigrati, a rivedere la normativa sulla cittadinanza a partire dai figli minori nati in Italia, a facilitare la partecipazione sociale e politica e l'integrazione.
Occorre tornare a crescere soprattutto nel campo del lavoro, senza paure nei confronti del mercato. C'è l'esigenza di una rinnovata saldatura tra etica ed economia, soprattutto dopo la crisi. Non a caso il padre della moderna economia di mercato, Adam Smith, che molti credono un economista, insegnava filosofia morale a Glasgow e, prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, ha scritto La teoria dei sentimenti morali. Dunque senza etica non c'è buona economia, il mercato non è di per se stesso anti-sociale, il profitto è un misuratore di efficienza e non può diventare un idolo, senza valori non c'è intrapresa economica vera. L'occupazione non la porta la cicogna. Essa è frutto dell'intraprendenza umana. L'abitudine a contrapporre sul piano educativo lavoro e impresa, tipica di una certa cultura anti-industriale, che è dura a morire, non ha più ragion d'essere. Ai giovani tra i tanti mestieri è indispensabile proporre anche quello dell'imprenditore.
L'Italia non ha materie prime e la sua ricchezza dipende dalla qualità e dal genio dei suoi cittadini, per questo bisogna smetterla di studiare poco e male. Il triste primato che possediamo tra i paesi dell'OCSE nel numero dei giovani della generazione "né- né" (che non lavorano e non studiano) va al più presto superato.
L'Agenda sociale dei cattolici non può ignorare l'impegno per il miglioramento del sistema scolastico e universitario, ispirato a criteri di equità ed efficienza, la costruzione di un efficace sistema di formazione degli adulti, lo sviluppo della ricerca da parte delle piccole e medie imprese, adeguati programmi di borse di studio capaci di attirare studenti e ricercatori dal mondo intero.
Non si può conservare un sistema di Welfare tagliato su una società che non c'è più, che in nome della protezione sociale contribuisce a conservare aree di assistenzialismo parassitario e a ignorare i problemi dei giovani. Occorre ripensare il sistema di Welfare in profondità, passando dal Welfare State alla Welfare society.
Questo comporta alcune precise conseguenze:
l'attenzione alla famiglia e in particolare ai bambini non tutelati dai ridicoli e insufficienti attuali assegni familiari;
una rete di protezione per i giovani e per le forme non stabili di lavoro, con interventi previdenziali e formativi che garantiscano sicurezza di progettare il futuro (accesso ai mutui, borse formazione, prima casa, sussidi contro la disoccupazione etc);
il finanziamento di servizi sociali e sanitari per i disabili e le persone anziane non autosufficienti.
Occorre aggiornare il "software politico del Paese", preparando prima di tutto con la formazione alla coscienza sociale, una nuova generazione di cattolici a servizio del bene comune, come ci ha ricordato Benedetto XVI.
Ci vengono incontro in questa opera di discernimento sociale i risultati della 84ª Settimana Sociale dei Cattolici di Francia che si è tenuta a Parigi dal 20 al 22 novembre 2009 alla presenza di circa 4.000 partecipanti, sul tema "Nuove solidarietà, nuova società". I nostri fratelli d'oltralpe hanno insistito sull'esigenza di andare oltre "l'aspetto meramente economico della solidarietà per valorizzarne le dimensioni morali e politiche", scoprendo "le risorse mobilitate dalle nuove forme di solidarietà", in particolare verso i giovani e nel mondo del lavoro.
Un tema che non può essere estraneo al percorso di costruzione dell'agenda sociale è costituito dalle prossime celebrazioni per il 150° anniversario dell'unità d'Italia. Un'occasione come quella del 2011 va colta per una pacata riflessioni su quel che unisce oggi gli italiani (oltre alla squadra di calcio), sull'idea di Stato e di Nazione e sul ruolo dei cattolici (emarginati nella fase iniziale di costruzione del nuovo stato nazionale ma sempre presenti in tutte le fasi di evoluzione dell'idem-sentire tra governanti e governati). Occorre superare la retorica del "risorgimento incompiuto" e sviluppare una memoria comune, una narrazione nazionale condivisa. In questo compito è fondamentale rileggere il contributo che i cattolici hanno dato amando l'Italia e costruendo reti di relazioni solidali in questi 150 anni.
In Italia esiste una élite di intellettuali pretende di indirizzare l'atteggiamento morale del Paese, rispolverando l'antico pregiudizio illuminista per cui il popolo, in sé ignorante, va emancipato liberandolo dall'influenza della Chiesa.
C'è ancora chi vuol mantenere in vigore contrapposizioni tra laici e cattolici che oggi hanno sempre meno fondamento culturale e antropologico. La dignità della persona fin dal concepimento, la famiglia ecologica (cioè fondata, come recita l'art 29 della Costituzione su un dato di natura), la libertà di educazione, la tutela della vita, lungi dall'essere un discrimine, sono divenuti un vero punto di incontro tra laici e cattolici.
Il tempo che viviamo e che ci attende sembra perciò rivelarsi come una straordinaria fase creativa, ben distinta da quella che negli anni settanta ha vissuto una lunga eclissi caratterizzata dalla contaminazione tra la teologia politica e l'evidenza di una debolezza culturale e di proposta del movimento cattolico.
"Il bisogno di definizioni e di formulazioni, la urgenza di ‘prendere posizione' di fronte alle più vive e dibattute questioni sociali ed economiche si fa ogni giorno più sentire nel campo cattolico, a mano a mano che si fa strada la convinzione che la distruttiva crisi di civiltà che andiamo attraversando trova la sua prima ragione nell'abbandono e nella negazione dei principi che il messaggio cristiano pone a fondamento della umana convivenza e dell'ordine sociale, così come del comportamento e della morale personale. Il riconoscimento di questa verità, che costituisce la più eloquente apologia del Cristianesimo, avrebbe tuttavia solo un valore negativo e di pura constatazione storica, se non fosse accompagnato da una immediata istanza e da un positivo impegno di ricerca, di ricostruzione, di affermazione di un ordine sociale che elimini e riformi gli elementi di dissoluzione, di involuzione, di incoerenza rispetto ai fini essenziali dell'uomo e della società."
Sembrano parole scritte oggi. E invece risalgono a 60 anni fa. Con queste parole, infatti, si apriva nel 1945 l'introduzione di una raccolta di riflessioni di un gruppo di giuristi e studiosi del mondo cattolico riuniti nel 1943 nella Foresteria del Monastero di Camaldoli. Il documento che ne uscì fu chiamato "Codice sociale di Camaldoli" ed ebbe una straordinaria influenza nella formulazione della stessa Costituzione e poi nella legislazione della Repubblica italiana. Esso dimostrò praticamente cosa vuol dire coniugare i valori non già alla declamazione retorica ma all'azione sociale.
Il Manifesto fondativo di Retinopera, "Prendiamo il largo", del 26 marzo 2002, riprendeva una riflessione non lontana dal Codice di Camaldoli:
"Esiste e diventa più forte la coscienza di una crescente urgenza del tempo in cui viviamo. Particolarmente nelle nostre democrazie affluenti dell'Occidente sono oggi presenti delle sfide travolgenti - che sono anche delle opportunità - nelle quali sono messi a rischio: da un lato il bene della persona umana nella sua integrità, quale conseguenza di prevalenti tendenze individualistiche e relativistiche, ove i valori sono dettati dall'esperienza, il libero arbitrio individuale è ritenuto l'unica fonte di razionalità rispetto al bene dell'uomo e il valore fondante la comunità; ove prevalgono chiusure di fatto al valore della vita; dall'altro la stessa democrazia, che rischia una sostanziale implosione, ridotta a fare i conti con la società emozionale di massa, la società dei consumi che ha sostituito la società dei produttori, i cambiamenti imposti dalla globalizzazione, i localismi e i particolarismi: una miscela che può favorire l'emergere di nuove forme di populismo se non di veri e propri, pur se più sofisticati, totalitarismi".
E' profonda la differenza della situazione storica del tempo del Codice di Camaldoli (guerra, ricostruzione, bisogni primari da soddisfare) e i nostri (una società che trascura i bisogni e cavalca i desideri).
Come la Rerum Novarum poneva la questione operaia al centro della questione sociale, e come con la Populorum Progressio era lo sviluppo il nuovo nome della pace, la questione antropologica è oggi al cuore della attualizzazione della Dottrina Sociale della Chiesa, come hanno chiaramente evidenziato il lungo Magistero di Giovanni Paolo II e il Magistero di Benedetto XVI, in particolare nell'ultima Enciclica Sociale Caritas in veritate.
L'Agenda sociale della speranza si presenta come un cantiere aperto, in progressiva costruzione, ma anche con alcune scelte immediate sulle quali far convergere la riflessione comune.
Senza la formazione di una nuova classe dirigente l'agenda resterà un libro dei sogni. Senza un impegno corale dell'associazionismo cattolico nella formazione sociale e politica l'impegno formativo resterà una pia aspirazione. La sfida più importante è quella di un piano di formazione-ricerca pluriennale per sviluppare itinerari condivisi sulla Dottrina Sociale della Chiesa, per rilanciare un condiviso senso del bene comune, dai valori cristiani alle virtù politiche, dalla coscienza del proprio mandato ad essere costruttori di imprese culturali e sociali alla fiducia e all'investimento sulle istituzioni, come forma concreta di tutela dei più deboli e di promozione del bene di tutti.
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La carità intellettuale testimoniata
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La carità come esempio incarnato: San Francesco.
E’ arduo parlare di “carità intellettuale” attraverso la parola scritta. Si finisce inevitabilmente per essere retorici e soprattutto poco persuasivi. Si tratta, infatti, di un tema che viaggia con la vita delle persone, con i loro comportamenti, con le reazioni che suscitano negli altri[1]. Per questo motivo, prima di avventurarmi nel tema specifico della carità intellettuale, vorrei cominciare la riflessione con un esempio di carità “incarnata”, e mi viene subito in mente Francesco, santo patrono d’Italia[2].
Ci sono uomini che trasmettono l’idea di ciò che il mondo, e l’Europa in particolare, sarebbero potuti diventare se alla proclamazione della giustizia si fosse accompagnata sempre una radicale testimonianza personale.
Francesco è uomo che trasforma le cose, che sa volgere il male in bene; che, pellegrino tra i popoli, conosce la strada giusta per toccare il cuore delle persone e convertirle. Papà Pietro lo volle chiamare Francesco in onore delle ricchezze che la sua famiglia aveva raggiunto in Francia; ma oggi Francesco evoca povertà, umiltà, testimonianza di giustizia, anelito alla pace[3].
Davanti ad un mondo che corre frenetico, dove tanti valori sembrano vacillare, l’inquietudine e l’attività operosa del frate di Assisi ci manda un messaggio di speranza. E’ un messaggio che richiama ciascuno di noi alla consapevolezza che nella vita talvolta occorra fare silenzio4. Occorre aprirsi alla bellezza del creato e raccogliersi in meditazione per coglierne gli aspetti più autentici.
Francesco non parla soltanto ai credenti, ma ad ogni uomo e ad ogni donna, a ciascuno di noi. Cosa significa infatti, andando contro ogni comune intendimento della sua epoca, interessarsi dei ceti sociali più deboli, andare incontro a quel prossimo che viene rifiutato dalla società, il povero, il malato, l’ultimo, il perdente? Già il perdente! Chi nella vita si sente inutile e umiliato nella sua dignità e girovaga ancora oggi nelle grandi metropoli del mondo. Francesco gli andrebbe incontro a braccia aperte[5]. E noi?
Francesco era un operatore di pace ed in nome della pace ha viaggiato fino ai confini dell’Europa per diffondere il messaggio evangelico. Proprio quelle radici cristiane dell’Europa – storicamente incontestabili e che tanto avremmo voluto menzionate nella Costituzione europea – assumono con Francesco la coloritura di radici di pace, radici di accoglienza, radici del “farsi ultimo”.
C’è un lascito dell’eredità di Francesco che dovremmo riportare nel nostro lessico di docenti, uomini dell’intelletto: è la parola fratellanza, l’espressione fraternità. Fratello Francesco, e ne sono ancora buoni testimoni i frati Minori e le Clarisse, proprio dello spirito della condivisione ha fatto l’architrave della regola francescana. La forza dell’amore fraterno, specie nei luoghi pubblici e della cultura, è una turbina straordinaria più potente di milioni di parole e ragionamenti eruditi[6].
In effetti, sul piano della cultura giuridica, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre del 1948, vi è ancora una cenno alla fraternità[7]. Eppure da allora nessun documento ufficiale di istituzioni internazionali ne ha fatto più menzione. Il mondo universitario, specie quello cristianamente ispirato, può farsi interprete della necessità di un richiamo alla fratellanza nelle sedi normative e interpretative, che non ha solo un significato trascendente quale discendenza da un unico Padre, ma è segno di collaborazione tra i popoli e segno di eguale dignità in diritti e doveri di tutti gli uomini che abitano la terra[8].
Nel segno e nel ricordo di Francesco, tocca oggi a ciascuno di noi impegnarci nel cammino di crescita culturale senza lasciare che qualcuno rimanga indietro o possa sentirsi escluso. Così la carità da straordinario dono dello spirito si incarna nella forma specifica di carità intellettuale e passa attraverso la vocazione di ciascuno di noi[9]. Con l’avvertenza che il suo esercizio non è prerogativa dei soli professori ma anche di chiunque, dotato dei lumi dell’intelletto, abbia a cuore il bene e l’avvenire dei nostri figli.
2.L’armoniosa comunicazione tra carità incarnata e Dottrina sociale della Chiesa.
La testimonianza francescana, vivida ed esemplare, ben si armonizza nella sistematica del pensiero sociale della Chiesa. E’ proficuo perciò collocare la storia irripetibile del poverello d’Assisi nel grande libro della dottrina sociale, al fine di verificare se, dall’incontro tra un virtuosissimo percorso umano di carità e i principi elaborati dalla sapienza della Chiesa, non nasca qualcosa di utile anche per noi che siamo chiamati di fare della carità la ragion d’essere del nostro impegno culturale ed accademico.
Provo perciò a radicare questo percorso in alcune premesse contenute nel “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa” (Introduzione e parte prima), dove si affrontano le finalità e i presupposti.
Sta, infatti, nella natura stessa dell'elaborazione dottrinale l'esigenza di porsi, oltre che come strumento di discernimento della realtà, anche come “guida per ispirare, a livello individuale e collettivo, comportamenti e scelte tali da permettere di guardare al futuro con fiducia e speranza” (n. 10).
Il richiamo ad un’ispirazione delle azioni non solo individuali ma anche collettive è diretta conseguenza della dinamica che lega tra loro le persone umane, esseri razionali e relazionali, proprio “nella figliolanza dell’unico Padre” (n. 19). Il volto di chi mi sta accanto, ma anche di chi non conosco, ma so essermi uguale, invita a pensare all’altro come a me stesso: è il comandamento dell’amore reciproco “che costituisce la legge di vita del popolo di Dio” e “deve ispirare, purificare ed elevare tutti i rapporti umani nella vita sociale e politica” (n. 33).
Il comandamento dell’amore prende forma, nell’agire quotidiano, nel comandamento della comprensione e del dialogo: ”il rispetto e l’amore devono estendersi anche a coloro che pensano o agiscono diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, poiché quanto più con onestà e carità saremo intimamente comprensivi verso il loro modo di pensare, tanto più facilmente potremo instaurare il dialogo con loro” (n. 43; Conc. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 28). La fonte trascendente si rivela indispensabile per vivere nella grazia “necessaria” il rapporto con gli altri: Croce e Risurrezione rinnovano ogni giorno il cuore del cristiano (n. 44; “Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”, 1 Cor 3,22-23).
Ecco che l’’ispirazione cristiana dell’agire sociale si plasma nella carità (n. 54), perché l’amore reciproco tra gli uomini è “lo strumento più potente di cambiamento, a livello personale e sociale” (n. 55): si stagliano vivide le figure di altri grandi operatori di amore, cristiani e non, che, accanto a Francesco, hanno trasformato le strutture sociali e, in definitiva, la cultura di intere generazioni, con la loro testimonianza vissuta nel mondo e per il mondo; come non ricordare la Beata Teresa di Calcutta, “Missionaria della Carità”. L’impegno del cristiano per gli altri si radica nel fiat, in quel sì totale di Maria che corrisponde alla “consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva, su Dio che è fonte di ogni elargizione, dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili” (n. 59; Lett. enc. Redemptoris Mater, 37)[10]. Non dunque un generico altruismo, ma carità che è donazione, coma Maria, “totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di Lui” (n. 59)[11].
3. Il ruolo della Chiesa al servizio del sapere: le Università cattoliche.
Il ruolo della Chiesa si impregna di una splendida capacità di donazione proprio nella particolare coloritura umana che la connota nel dare concretezza al progetto di Dio, a cominciare dall’impegno missionario nei luoghi di cultura. Essa è “tenda della compagnia di Dio […] ministra di salvezza non astrattamente o in senso meramente spirituale, ma nel contesto della storia e del mondo in cui l’uomo vive” (n. 60); di qui discende la missione evangelizzatrice, collegata alla promozione umana nella comunità (n. 66-67). La dottrina sociale si realizza nell'adesione del credente che, con la coerenza dei comportamenti, è coinvolto "in tutto il suo vissuto e secondo tutte le sue responsabilità" (n. 70).
E’ una prerogativa della Chiesa quella di partecipare attivamente alla formazione della cultura, in particolare della cultura accademica[12]. Ed è una prerogativa millenaria, che si iscrive nel solco della tradizione culturale europea, di cui il pensiero cristianamente ispirato è parte integrante.
Ed è un fatto che, ancora oggi, all’inizio di questo millennio, larga parte degli europei si rivolgano al Magistero della Chiesa cattolica, quale riferimento di valori che sentono propri, che rappresentano un orizzonte condiviso e per questo sono valori “popolari”: la pace, il dialogo interreligioso, l’opzione preferenziale verso gli ultimi, la dignità della vita umana, l’importanza sociale della famiglia[13].
E in questa missione si iscrive anche il servizio nelle Università e alle Università, luoghi dove, per definizione, si formano le culture dei popoli e si promuove lo scambio di idee e di saperi scientifici e umanistici. Un servizio oggi forse più delicato e impegnativo che deve tenere conto di uno sviluppo sempre più grande dei confini delle conoscenze umane, del progresso scientifico e, ancor più, del mutato contesto italiano ed europeo in cui si svolge. Che è un contesto globale, senza confini, ma che proprio per questo ben si adatta alla vocazione universale propria della cultura e della ricerca scientifica[14].
Certamente oggi le Università, ed in particolare le Università cattoliche, operano in una situazione sociale e culturale profondamente mutata rispetto al passato. Le Università di ispirazione cristiana sono chiamate ad assicurare la fedeltà alla Chiesa nell’ambito di una cultura “cristiana” che sappia testimoniare la concreta possibilità e la singolare fecondità dell’alleanza tra ragione e fede, facendo della ricerca e dell’insegnamento un’espressione di amore profondo per l’arricchimento del tesoro delle conoscenze umane[15].
Soltanto così la missione universitaria risulterà anche uno dei principali strumenti per la crescita di un Paese: per la capacità di riunire persone aventi in comune la voglia approfondire, di costruire, di operare per il bene comune; per la forza di modificare gli eventi permettendo persino lo sviluppo dell’economia[16].
4. La testimonianza dei cattolici impegnati nella trasmissione del sapere.
E veniamo alla missione specifica di noi docenti[17].
Un aspetto determinante sta nella forza, la genialità, la perseveranza e l’incrollabile fiducia di chi opera nelle realtà accademiche.
L’Università non sarebbe altro che una scatola vuota e inutile se non ci fossero uomini e donne che dedicano molto del loro tempo. In questo sta la peculiare missione del docente, attraverso i suoi caratteri di gratuità, come stile di partecipazione alla vita universitaria, di solidarietà con gli altri professori e gli studenti, come strumento per conseguire i migliori risultati nella ricerca e nella didattica.
Siamo chiamati ad armonizzare i migliori metodi scientifici per la ricerca con una forte testimonianza morale insieme solida e dinamica, che sostenga ed esalti la libertà dell’agire saldandola con la responsabilità propria di chi vuole trasmettere il sapere con rettitudine e spirito di servizio[18]. Siamo cioè chiamati ad assicurare la fedeltà alla Chiesa nell’ambito di una cultura “cristiana” che sappia testimoniare la concreta possibilità e la singolare fecondità dell’alleanza tra ragione e fede, facendo della ricerca e dell’insegnamento un’espressione di amore profondo per l’arricchimento del tesoro delle conoscenze umane[19].
La vera gloria dell’Università sta nel servizio che noi sapremo rendere nella promozione di una comunità di fede autentica e nella formazione di persone attraverso un’alta cultura cristianamente ispirata. Solo così si realizzerà l’obiettivo, decisivo, di offrire le migliori soluzioni per la promozione dello sviluppo dei popoli sulla base dei valori fondamentali della vita umana e della pace, che comincia all’interno di ciascuno di noi[20].
E’ un progetto ambizioso certo, ma, con l’umiltà e lo stupore propri di chi si pone davanti alle cose che contano sapendo di essere la tessera di un mosaico più grande, penso che possiamo tracciare nuovi orizzonti del sapere, che intrecciandosi tra loro consentano di scorgere lo splendore della verità[21]. Orizzonti armonici con il creato e sulla base dei diritti inalienabili della persona umana.
Noi docenti siamo chiamati ad uno sforzo continuo di miglioramento delle nostre competenze e di capacità di discernimento nella ricerca perché si sviluppi nel contesto di una coerente visione del mondo[22]. Siamo chiamati ad essere testimoni ed educatori di vita cristiana, che nella sua autenticità umana, sarà comprensibile a tutti, anche a chi non possiede il dono della fede.
5. Impegno di carità.
Il circolo argomentativo si chiude recuperando la premessa da cui si è partiti, che sta, in definitiva, nella bontà dell’agire in concreto.
Valga questo esempio.
Otto di mattina: esame all’Università, Facoltà di Architettura, Scienza delle costruzioni. Immaginiamoci un’aula più o meno ampia, con pochi banchi ed una lunga cattedra dove dovrebbe svolgersi l’esame. Decine di studenti che attendono l’arrivo del professore. Il professore non arriva e, invece, entra il bidello che appende al muro un cartello con su scritto “esame rinviato a data da destinarsi”.
Secondo scenario. Questa volta, sette di mattina. Fila all’entrata della segreteria. Una parte di queste persone attende fino alle 11: purtroppo la coda è troppo lunga e arrivati ad un certo punto si blocca la fila e non si fa entrare più nessuno.
La mente dello studioso di diritto, ma anche del cittadino animato da senso comune, corre subito alla nostra Carta costituzionale: art. 34 (…”diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”). Bisognerebbe leggerla più spesso la Costituzione! Perché rimane ancora oggi l’architrave su cui si fonda la Democrazia e la libertà del popolo ed è tra le più ammirate nel mondo intero.
Le libertà costituzionali sono indissolubilmente legate ai diritti fondamentali. Art. 3, comma 2, “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli… che limitando di fatto la libertà… impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Compito della Repubblica certo, ma chi lo assolve poi in concreto quel compito: uomini, donne, persone con le loro radici, il loro modo di declinare i valori in cui credono.
La prima condizione per assolvere quella missione di libertà è che sia percepita con la responsabilità di chi sente che agisce non per un interesse proprio ma per una libertà e dunque un diritto fondamentale altrui.
Tale responsabilità, tale impegno - è ovvio - può avere un fondamento tutto umano, oppure morale, ma è certamente un atto libero.
Ecco allora che si disegna un circolo libertà individuale – responsabilità – libertà altrui che può essere virtuoso, oppure fallimentare.
Virtuoso, quando la responsabilità, significa consapevolezza delle proprie azioni. Ed è allora che quei principi teorici, contenuti nella Costituzione, nella nostra coscienza, e che coincidono con i principi elaborati all’esperienza della Dottrina sociale, rivivono. Soltanto dal farsi concreto di quei principi accadrà che quello studente che se ne è tornato a casa senza aver potuto dare l’esame riacquista fiducia perché sa dove rivolgersi, con chi entrare in dialogo, ritrova l’Università, il loro ruolo.
E a questo punto la carità non è più qualcosa di astratto ma diventa qualcosa di vivente, di incarnato.
E’ un circolo invece fallimentare se la responsabilità non è sentita. La libertà è fine a se stessa (il caso del professore assenteista o dell’impiegato irresponsabile). Certamente si resta responsabili, e cioè si dovrà comunque rendere ragione del proprio comportamento. Ma non si raggiungerà l’obiettivo di garantire le libertà e i diritti altrui. Il cerchio libertà individuale – responsabilità – tutela della libertà altrui resta monco di quest’ultimo segmento, che è decisivo per valutare la bontà della missione.
Dunque libertà e responsabilità sono sempre indissolubilmente legate ma vanno orientate. Allora una parola per la nuova agenda della cultura accademica discende dalla scommessa che, dinanzi ad un generale smarrimento post ideologico e post 11 settembre, l’Università torni ad “orientare”. E siccome orientare significa letteralmente disporsi in un certo modo rispetto ai punti cardinali, e cioè scegliere, rispetto a libertà e responsabilità i docenti devono scegliere se muoversi nell’orizzonte dell’interesse degli studenti, o solo di se stessi. Significa stabilire la propria esatta posizione in questa prospettiva.
La missione della trasmissione del sapere, se davvero libera e responsabile, insomma deve dare l’orientamento, deve mostrare agli studenti l’ago della bussola, come ci si orienta.
Per questo motivo il tema più qualificante per il docente non può che essere quello di offrire il metodo perché lo studente apprenda nella carità. Perché dare un metodo per apprendere nella carità è il più grande atto di fiducia che i docenti possono fare agli studenti, significa lasciare la bussola nelle loro mani, consentire che si orientino da soli, avendo indicato la strada.
Qui gioca un ruolo straordinario, una parola antichissima e ormai espunta dal vocabolario culturale: verità[23].
L’orientare del sapere si fa orientarsi dei discenti. E’ l’applicazione più compiuta del principio di sussidiarietà. Sussidiarietà non più percepita soltanto come “agire” dell’Università, ma come “scelta” dello studente.
Ma poter scegliere non basta. Perché l’orientarsi sia davvero libero occorre che circolino informazioni, vi sia aggiornamento, cioè ricerca; e anche qui libertà e responsabilità assumono, rispetto al grande tema della cultura, il preciso significato di garanzia di pluralismo dei metodi nella ricerca della verità. Dunque il paradigma dell’orientare l’Università verso la libertà e l’apprendimento dei metodi migliori fondati sulla carità affinchè gli studenti siano capaci di orientarsi da soli con scelte consapevoli, si realizza offrendo loro il massimo aggiornamento nell’informazione scientifica secondo verità.
E’ proprio questo rapporto della cultura con la verità che costituisce il punto focale, anzi il punto debole, del dibattito maggiore e fondamentale delle nostre società contemporanee [24]. Non si deve dimenticare che anche la verità è un diritto dello studente, ed è il primo.
E il modo migliore per apprenderla, come metodo e come fine, è testimoniarla, la verità: questo, in definitiva, mi pare il significato più fecondo dell’espressione “carità intellettuale” [25].
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1) Di quanto sia importante l’esperienza della vita pratica rispetto all’erudizione “[s]e ne accorse quel professore universitario, cui la domestica chiese di poter prendere dalla stufa un po’ di carboni accesi per il ferro da stiro. ‘Fate pure – disse – ma dov’è il recipiente in cui mettere i carboni?’. ‘Qui’ rispose la serva; e mostrò il palmo della mano. Vi sparse uno strato di cenere fredda, sopra la cenere pose i carboni e se ne andò ringraziando. ‘Toh! – disse il professore – con tutta la mia scienza questo non lo sapevo!’” (Albino Luciani – Giovanni Paolo I, Illustrissimi. Lettere ai Grandi del passato, Padova, 2006, p. 270).
2) Per una lettura sempre proficua, soprattutto per gli aspetti più originali ed inespressi della spiritualità di Francesco, v. G. Polidoro, Francesco uomo cristiano, Firenze, 1981.
3) Vale la pena di rileggere i due volumetti di é. Leclerc, La sapienza di un povero, Milano, 1995, trad. it. F. Visconti di Modrone e F. Olgiati, e La tenerezza del padre, Milano, 1984, trad. it. S. Olgiati.
4) Il valore del silenzio e i suoi effetti virtuosi richiamano alla mente un’altra figura che ha profondamente inciso nella cultura europea: Benedetto da Norcia “il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo” (così lo descrive J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, 2005, Siena, p. 28); in questo modo “Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli” (ibidem). Cfr., anche, M.G. Masciarelli, Abitare il silenzio, Roma, 1998, passim.
5) Lo stato di innamoramento di San Francesco per la povertà è davvero efficacemente descritto da O.L. Scalfaro (in Le “chiacchierate” alla sala Francescana di S.Damiano, Assisi, 1985, p. 289): “Innamorato vuol dire un essere preso tutto, in tutte le sue forze, incantato, attratto da un altro essere; innamorato vuol dire un punto di cottura che porta l’anestesia totale…”. Sul rapporto tra povertà e carità, si rileggano anche le belle pagine, dense di esperienza, di P. Mazzolari, in Tra l’argine e il bosco, Brescia, 1962, spec. p. 189 e ss.
6) Scrive papa Benedetto XVI (Deus Caritas est, 2005, 28): “ L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo”.
7) Cfr. Giovanni XXIII, Pacem in terris, 1963, IV: l.c., 285 e Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, 2003, 5.
8) Il riflesso divino e naturale dei diritti umani oggi reclama un’apertura delle intelligenze, della ragione; eppure – così si conclude il Discorso all’Università di Ratisbona di papa Benedetto XVI – “[L]'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza […]. ‘Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio’, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università” (2006).
9) Si veda L. Leuzzi, Chiesa di Dio, non temere. Il cristianesimo dopo Ratisbona, Catanzaro, 2006, spec. p. 67 e 68.
10) Come Maria – ci ricorda Madre Teresa – “[c]osì pure noi: chiediamo a Dio di volerci usare, oggi, per continuare a essere in tutto il mondo – ma particolarmente nelle nostre comunità – fili di collegamento tra il cuore degli uomini e la sorgente dell’energia, Gesù” (Madre Teresa, Meditazioni per ogno giorno dell’anno liturgico, Milano, 1996, p. 14).
11) Cfr. F. Rodero – A. Izquierdo, Alla scuola di Maria, Città del Vaticano, 1998, p. 159 ss.
12) Questa l’esortazione di papa Giovanni Paolo II:”…vale la pena che membri del clero, sacerdoti e vescovi, entrino personalmente in contatto con il mondo della scienza e con i suoi protagonisti. In particolare, il vescovo dovrebbe non solo avere cura dei suoi atenei cattolici, ma anche mantenere uno stretto legamecon tutta la vita universitaria: leggere, incontrarsi, discutere, informarsi su quanto avviene in quell’ambito. Ovviamente egli non è chiamato a essere scienziato, ma pastore. Come pastore, però, non può disinteressarsi di questa componente del suo gregge, giacché a lui spetta il compito di ricordare agli studiosi il dovere di servire la verità e di promuovere, così, il bene comune” (in Alzatevi, andiamo!, Milano, 2004, p. 72-73).
13) Una missione particolare è affidata ai cattolici italiani: “Tocca a noi infatti - non con le nostre povere risorse, ma con la forza che viene dallo Spirito Santo - dare risposte positive e convincenti alle attese e agli interrogativi della nostra gente: se sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all'Europa e al mondo, perché è presente ovunque l'insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo” (Discorso di papa Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona, 2006).
14) L’itinerario degli scritti di Giovanni Battista Montini segnano un percorso esemplare nella cultura del ‘900 di un intelletto di carità, da cui questo scritto vorrebbe prendere le mosse (si veda, in particolare, Paolo VI, Carità intellettuale. Testi scelti 1921-1978, a cura di G. M. Vian, Milano, 2005).
15) Come sempre senza peli sulla lingua, J. Guitton: “Oggi grandi studiosi sono anche grandi credenti” (con F. Pini, in L’infinito in fondo al cuore. Dialoghi su Dio e sulla fede, Milano, 1998, p. 56 ss.).
16) Quell’economia legata al diritto, alla giustizia e non al primordiale istinto al profitto, come viene declinata nel pensiero di G. Capograssi (del quale vedi, in particolare, Riflessioni sull'autorità e la sua crisi, Milano, 1959).
17) Si tratta di un impegno concreto nella storia partendo dal “discernimeto” dei segni del tempo, che consente di cogliere “l’impegno del cristiano nella società e nel mondo di oggi. Viene colta l’urgenza della missione. La missione è il compito da svolgere ora; Dio comunica la sua volontà per ciascuno degli uomini attraverso la storia stessa perché intervengano nella storia: una volta compresa e accolta e messa in pratica, si realizza nella storia. La responsabilità personale nella storia corrisponde alla chiamata che Dio fa a ciascuno” (P. Scarafoni, I frutti dell’albero buono. Santità e vita spirituale cristocentrica, Roma, 2004, p. 123).
18) Insuperata ed efficacissima l’espressione di Paolo VI: “L’umiltà, per sé, è sapienza” (da A. Izquierdo, L.C., in Esercizi spirituali con Paolo VI, Città del Vaticano, 1999, p. 44).
19) Ci ricorda André Frossard (in Dio. Le domande dell’uomo, Alessandria, 1990, p. 178) che “La religione non è mai stata il nemico della conoscenza. A quest’ultima chiede semplicemente di non rinchiudersi nei dati del sensibile”.
20) Sottolinea Giovanni Paolo II, in Parole sull’uomo, a cura di A. Montonati, Milano, 1989, p. 487: “La società chiede all’Università non soltanto specialisti, ferrati nei loro specifici campi del sapere, della cultura, della scienza e della tecnica, ma soprattutto costruttori di umanità, servitori della comunità dei fratelli, promotori della giustizia perché orientati alla verità. In una parola, oggi, come sempre, sono necessarie persone di cultura e di scienza, che sappiano porre i valori della coscienza al di sopra di ogni altro, e coltivare la supremazia dell’essere sull’apparire. La causa dell’uomo sarà servita se la scienza si allea alla coscienza” (i corsivi sono dell’a).
21) Cfr. Ciò che conta è lo stupore. Articoli e interviste su Charles Péguy con una prefazione del cardinale Roger Etchegaray, Milano, 2001, passim. Uno stupore che si fa ardore spirituale, che talvolta può mancare, ma che rimane sempre l’orizzonte verso cui muovere: fondamentali gli insegnamenti ascetici de L’imitazione di Cristo (a cura di U. Nicolini, Milano, 1988, spec. p. 121 ss.).
22) Il tema della natura necessariamente “spirituale” dell’intelletto è ben argomentata da R. Lucas Lucas, in L’uomo spirito incarnato. Compendio di filosofia dell’uomo, Milano, 1993, spec. p. 139 ss.
23) Verità nel senso più profondo, che non ammette nessuna esagerazione e neppure per “pii motivi”, come esemplarmente, testimonia in questo brano Santa Teresa del Bambino Gesù: “Mi fa bene, quando penso alla sacra Famiglia, immaginarmi una vita del tutto comune. Non quello che viene raccontato, o che viene ipotizzato. Per esempio, che Gesù Bambino, dopo aver fatto degli uccellini di terra, ci soffiasse sopra e desse lora la vita. No, Gesù Bambino non faceva miracoli inutili di questo genere…” (da Novissima verba, 20 agosto, in J. Guitton, Il genio di Teresa di Lisieux, Torino, 1995, p. 16-17). Ma si rilegga direttamente Sainte Thérèse de l’enfant-jésus et de la sainte-face, Histoire d’une âme. Manuscrits autobiographiques, Lonrai, 1997, passim.
24) Il richiamo alla verità si intreccia con il valore dell’obbedienza a Dio, cui talvolta osta l’orgoglio, “il faccio da me” – come ricorda Giuseppe Lazzati – “cioè il senso che la obbedienza a Dio, sia il togliere qualche cosa alla mia personalità, mentre la mia personalità tanto più è se stessa quanto più esegue la volontà di Dio, perché chi mi ha pensato e mi pensa è Lui, cioè è come l’artista che scolpisce e se si trova sotto la pietra che si lascia scolpire ne viene fuori il Michelangelo, ma se la pietra dice no, non vien fuori nulla” (G. Lazzati, La contemplazione, in Dieci ore di religione, a cura di Marco Garzonio, Milano, 1986, p. 166).
25) E questo mi pare anche il senso di una bella pagina di Giovanni Paolo II, dove, ricordando il periodo dello studio intenso per conseguire l’abilitazione alla libera docenza, rimprovera a se stesso la contestuale riduzione del lavoro pastorale: “Mi costò, ma da allora mi preoccupai sempre che la dedizione allo studio scientifico della teologia e della filosofia non mi inducesse a «dimenticarmi» di essere sacerdote; piuttosto doveva aiutarmi a diventarlo sempre di più” (Giovanni Paolo II, Dono e Mistero, Città del Vaticano, 1996, p. 73).
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