Aime Cesaire
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Francis*PAC
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23:54 SPORT Dopo 120 minuti finisce 0-0. Casillas para due penalty, Buffon solo uno: avanti la Spagna, va in semifinale contro
la Russia. Partita molto tattica, iberici pericolosi quasi solo da fuori
(un palo su svista del nostro nr. 1), azzurri pericolosi con Di Natale e Camoranesi FOTOSTORIA del matchCosì i siti spagnoliToni: baffi o no? Vota Video Foto Forum Il tifo
La marcia trionfale di Barack Obama, che ora è in testa ai sondaggi per le presidenziali, ha fatto riesplodere negli Stati Uniti le polemiche sulla "affirmative action", cioè su quelle politiche che da mezzo secolo hanno difeso le minoranze in particolare i neri creando corsie preferenziali negli appalti pubblici, nelle assunzioni e nelle iscrizioni universitarie. Avviate da John Kennedy nel 1961, perfezionate da Lyndon Johnson, avallate dalla Corte Suprema, queste politiche avevano l'obiettivo di ovviare alle discriminazioni della storia. Ma se un afroamericano come Obama riesce ad arrivare alle soglie della Casa Bianca – questa è la tesi che si sente ripetere sempre più spesso – vuol dire che la società americana si è finalmente liberata dai fardelli del razzismo e quindi che non c'è più bisogno della "affirmative action".
E' così? E' tempo di voltare pagina eliminando quella che molti considerano un "razzismo all'inverso"?
La comunità afroamericana risponde di no: secondo un sondaggio del Pew Research Center, un thinktank di Washington, il 57 per cento dei neri sostiene che le minoranze hanno ancora bisogno di un trattamento preferenziale. E semmai il caso di Obama dimostra che l'"affirmative action" funziona bene e che va quindi mantenuta.
Ma i bianchi sono molto più scettici, specie in quelle zone d'America in cui la recessione e la delocalizzazione hanno avuto effetti socioeconomici devastanti. Il 48 per cento di loro, sempre secondo il sondaggio del Pew, sono convinti che gli Stati Uniti abbiano "esagerato" nel favorire le minoranze. E anche il mondo del business vuole liberarsi dai vecchi lacciuioli, come conferma una recente inchiesta del "Wall Street Journal".
E' probabile che dietro alla rabbia di tanti bianchi, di cui si fa interprete il repubblicano John McCain, ci sia inconsciamente qualche strascico di razzismo, ma sono soprattutto frustrati per un sistema che li penalizza e che ha motivazioni sempre meno convincenti.
Prendiamo l'esempio delle grandi università americane, dove per entrare la selezione è impietosa: a parità di merito, per gli studenti afroamericani (specie se maschi) è molto più facile essere ammessi dei loro colleghi bianchi. Nel 2005 l'Mit (Massachusetts Institute of Technology) ha accolto solo il 15,9 per cento delle domande di iscrizione, ma la percentuale era doppia (31,6) per i giovani neri. Una preferenza, questa – dicono i critici – che poteva forse essere valida in altri tempi, quando le differenze economiche tra gruppi razziali erano fortissime, ma finiscono ora per dare un indebito vantaggio ai figli della crescente borghesia nera. Michelle Obama – ricordano – guadagna più di 14 mila euro al mese, mentre Stan O'Neal, l'exchief executive, anche lui afroamericano, incassò nel 2006 48 milioni di dollari tra bonus e stipendio.
Già prima di queste elezioni l'"affirmative action" era nel mirino di iniziative politiche e referendum, come quello che l'ha sostanzialmente abrogata in California. Per Barack Obama rischia ora di diventare un problema esplosivo. Il candidato democratico ne ha sempre difeso la filosofia, ma si rende anche conto che l'opposizione al sistema delle preferenze è molto forte in stati come il Michigan e West Virginia, che hanno un ruolochiave per la Casa Bianca e dove gli elettori si chiedono se non sia l'ora di sostituire un sistema di preferenze basate sul colore della pelle con aiuti alle fasce di reddito più basse.
a.zampaglione@repubblica.it
Secondo il Rapporto sui diritti globali 2008, l'Italia è un Paese in lutto dove si muore di lavoro e inquinamento.
Nel 2007 sono stati 1260. Quattro morti al giorno. Ogni sei ore una vittima. Per il 2008 è ancora presto per fare i bilanci, ma con giornate che registrano anche oltre 10 morti, la questione sicurezza sul lavoro è diventata la vera emergenza nazionale, una "battaglia" che fa più vittime delle guerre guerreggiate, solo che a morire non sono soldati, mercenari o contractor, ma lavoratori che escono al mattino e non fanno più rientro a casa la sera.
Sono questi i dati che emergono dal Rapporto sui Diritti Globali 2008 (Ediesse, pp.1352, euro 30,00), presentato prima a Roma poi, nei giorni scorsi, a Milano con una performance teatrale ("Dormono, dormono sulla collina"), che per oltre due ha tenuto incollati alle sedie del Teatro Litta un pubblico attento e partecipativo di spettatori.
«Dal 2003 al 2007 i morti sul lavoro in Italia sono stati almeno 6.654. Nello stesso periodo, in Iraq sono rimasti uccisi 4.213 soldati della coalizione internazionale. Vale a dire che un muratore, un metalmeccanico o un agricoltore del nostro Paese ha molte più probabilità di morire di un soldato attivo in una zona di guerra. Nello stesso periodo, in Iraq sono rimasti uccisi 4.213 soldati della coalizione internazionale. A queste cifre si aggiungono quelle degli incidenti sul lavoro: 913.500», commenta Sergio Segio, coordinatore del Rapporto sui Diritti Globali, che quest'anno esce con una copertina nera in segno di lutto, una scelta fatta per denunciare in questa sesta edizione, la deriva totale delle condizioni di vita nel mondo e in Italia, dove lo scenario è costellato da morti, tanti morti, soprattutto sul lavoro, ma non solo.
Il voluminoso testo - che ogni anno viene realizzato e promosso grazie alla volontà della Cgil, dall'Arci, di ActionAid, di Antigone, del Cnca, del Forum ambientalista, del Gruppo Abele e di Legambiente, descrive una situazione con numeri da far accapponar la pelle. "Se volessimo sdrammatizzare - ha detto in apertura di serata Segio - potremmo dire, parafrasando Celentano, che la situazione non è buona".
Se i caduti del 2007 sono stati 1260 (dei quali 295 nell'edilizia e 1130 nell'industria e nei servizi), il numero degli incidenti sul lavoro (quelli denunciati, ovviamente), sfiora quasi il milione: 913.500 (poco di meno del 2006 anno in cui se ne verificarono 928.158, con 1341 morti), con costi umani e sociali altissimi. L'Inail li ha quantificati in 45 miliardi e mezzo nel 2005 (pari al 3,21% del Pil), una cifra a cui gli esperti sono arrivati sommando gli 11.760 miliardi di costi assicurativi, i 14.377 miliardi per gli interventi e i dispositivi di prevenzione e i 19.307 per altre spese legate ai danni da lavoro (dal tempo impiegato per soccorrere le vittime ai guasti delle macchine alla perdita d'immagine). Se si sommassero le spese medico-cliniche, quelle sanitarie, quelle per la riabilitazione, gli indennizzi per invalidità temporanea e le pensioni d'invalidità, si avrebbe una dimensione realistica dell'impatto economico della sicurezza trascurata sui conti del Paese.
Nel 2008 la situazione non sembra essere migliorare. Sommando i costi assicurativi, quelli per gli interventi di prevenzione, per le spese legate ai danni da lavoro o quelle medico cliniche si arriva ad una quota di oltre 45 miliardi.
"Di conseguenza - ha aggiunto Segio - il Paese è sempre più povero e con problemi di redditi e lavoro, specie per le famiglie, i giovani e gli immigrati, a cui un'azienda su cinque fa ricorso per lavori dequalificanti, faticosi e manuali.
Dall'impietoso quadro che emerge dal Rapporto, nel 2007 i lavoratori a termine erano 2.269.000, quelli a tempo parziale 2.421.000, con una maggioranza di donne. La presenza femminile nel sommerso è stata calcolata in 1.350.000 unità. I salari sono cresciuti meno dell'inflazione. Il 32% delle donne e il 60% dei lavoratori precari guadagnano meno di 1.000 euro al mese. Di conseguenza, gli italiani si percepiscono più poveri o comunque a rischio povertà: il 32,1% parla di un peggioramento economico (nel 2007 era il 25,7%) e per il 13,7% si tratta di un cambiamento negativo, molto significativo soprattutto nel Nord Est. Tra i beni percepiti come più costosi benzina, alimentari, casa e trasporti.
Anche sullo sbandierato bisogno di sicurezza emergono dati interessanti.L'Italia risulta essere un Paese relativamente sicuro: gli omicidi sono 1,19 ogni 100 mila abitanti. Più sicuri rispetto al resto d'Europa anche per quanto riguarda i reati di strada. Si è però diffuso un sentimento di paura, esagerato rispetto alla realtà dei fenomeni criminali. Il panico cresce soprattutto nei confronti degli stranieri, finendo per assumere derive xenofobiche. Gli immigrati sono invece spesso vittime di violenza: del 16% degli omicidi, del 24% di stupri, del 5,7% degli scippi, del 12,3% delle rapine in casa, del 9,9% delle estorsioni. Infine, l'Italia è all'ottavo posto della classifica mondiale per la spesa militare: nel 2007 sono stati spesi infatti 29,9 miliardi di euro. Nel 2008 la spesa è stata aumentata di 2 miliardi.
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Il premier parla da Bruxelles, al termine del Consiglio europeo, ma i temi internazionali passano immediatamente in secondo piano di fronte alle domande dei giornalisti sulla giustizia. Berlusconi si scalda, ripete che gli emendamenti al decreto sicurezza «non sono norme salva-premier» e dice di essere «indignato» per questo: «Dirò ai miei legali che non voglio approfittare di questa norma perchè voglio allontanare qualunque sospetto. Questa è una norma salva-tutti».
L'affondo contro le procure è durissimo: «Non permetterò che accada come nel '94 - dice - allora ho visto sovvertire il voto popolare e non permetterò che succeda di nuovo». «In alcun modo - continua Berlusconi - non permetterò che il voto popolare e la volontà degli italiani siano sovvertiti da chi, infiltrandosi nella magistratura, la usa per sovvertire la democrazia».
Poi Berlusconi passa ad attaccare l'altro suo bersaglio preferito, la giustizia italiana, arrivando a chiamare i giudici inflitrati che vogliono sovvertire il voto. «Annuncio una conferenza la prossima settimana per denunciare la situazione della magistratura italiana - ha detto il presidente del Consiglio - e tutta la mia indignazione e la volontà di non vedere la volontà popolare essere sovvertita da chi infiltrandosi nella magistratura la usa per sovvertire la democrazia». «Una cosa è certa - aveva esordito il premier rispondendo a una domanda - io nel '94 ho visto sovvertire il voto popolare da parte di una minoranza rivoluzionaria che sta nella nostra magistratura. C'è stato un sovvertimento della democrazia. Ho patito 15 anni di persecuzione per far sì che questo non possa più accadere». «Non pemetterò in alcun modo che il voto popolare, che la volontà degli italiani sia sovvertita da infiltrati nella magistratura che il resto della magistratura non sa mettere in un angolo che usano accuse false e risibili come quella che mi è stata rivolta nel '94 quando sono stato assolto perché il fatto non sussiste- ha aggiunto Berlusconi che ha dimenticato di aggiungere che aveva tolto lui il reato per cui era giudicato -, per un fatto che non esiste neanche nel codice penale, una invenzione pura di Pm e di giudici che usano il loro potere nell'ordine giudiziario che non è un potere ma soltanto un ordine per sovvertire la democrazia italiana questo non lo posso permettere».
Riferendosi al caso Mills il premier dice che «in ciò di cui sono accusato non c'è nemmeno l'ombra dell'ombra dell'ombra di una possibilità di verità e questo lo giuro davanti ai miei cinque figli, se fosse dimostrato che è vero forse mi ritirerei dalla politica e cambierei anche paese. Non conoscevo la persona, sono fatti che non esistono, risibili, come abbiamo dimostrato....Ancora mi devo vedere scrivere su certi giornali che "Berlusconi ritesse la sua tela di ragno attorno alla magistratura?" È una cosa a cui non posso sottostare».
Le reazioni non si sono fatte attendere. «Non si possono rivolgere accuse tanto generiche quanto gravi e ingiustificate - afferma il segretario dell'Anm Giuseppe Cascini -. Non c'è nessuna indicazione a fatti e condotte per svolgere un ragionamento. Siamo in presenza di invettive che rendono impossibili qualsiasi reazione». «L'indipendente esercizio della funzione giudiziaria è un valore fondamentale di uno Stato democratico - ricorda Cascini - è molto grave che ciò venga messo in discussione ai più alti livelli istituzionali e per giunta in un contesto internazionale, esponendo l'Italia e le sue istituzioni a una grave crisi di credibilità».
L'Associazione nazionale magistrati ha poi deciso di chiedere un incontro al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dopo le nuove accuse rivolte ai giudici dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Lunedì intanto la Prima Commissione del Csm comincerà a discutere delle accuse rivolte da Silvio Berlusconi ai magistrati del processo Mills. Un dibattito che ora potrebbe allargarsi alle dichiarazioni fatte oggi dal presidente del Consiglio da Bruxelles su giudici e pm sovversivi; parole che hanno suscitato «sconcerto» a Palazzo dei marescialli, perchè, dicono i consiglieri, «riportano a un clima di scontro che si pensava superato e fanno "saltare" i rapporti tra istituzioni».
Alla Commissione presieduta dal togato di Magistratura Indipendente Antonio Patrono è stata infatti assegnata la pratica aperta tre giorni dal Comitato di presidenza di Palazzo dei marescialli a tutela del pm Fabio De Pasquale e dei componenti del collegio giudicante, presieduto da Nicoletta Gandus, accusati dal premier di agire per finalità politiche, nella lettera da lui inviata al presidente del Senato Renato Schifani.E ora in quel fascicolo potrebbero finire anche le ultime esternazioni di Berlusconi.
«Le ultime scelte fatte da Berlusconi lo rendono di fatto incompatibile con il dialogo», ha detto Massimo D'Alema. Parlando a margine dell'assemblea costituente del Partito democratico, l'ex ministro degli Esteri ha sottolineato un «ritorno delle ostilità verso i magistrati» e l'utilizzo di «norme dettate da interessi personali».
«Se Berlusconi non avesse commesso reati, la magistratura non avrebbe indagato», spiega Francesco "Pancho" Pardi, senatore dell'Italia dei Valori, che poi aggiunge: «Non si può restare a guardare, di fronte alle leggi canaglia del governo. Ci stiamo preparando a scendere in piazza».
ROMA — Arturo Parisi va avanti nella sua battaglia. Anche dopo il diverbio con Veltroni. E dopo le accuse che gli hanno lanciato, eccezion fatta per Marini che lo ha riconosciuto come un avversario interno autorevole benché «ruvido». Quindi Parisi non lascia. Anzi raddoppia e chiede le dimissioni del segretario. Arturo Parisi
Professore, la vicenda dell'altro ieri è chiusa?
«Quel che è avvenuto è gravissimo, ma era esattamente quello che purtroppo mi attendevo, però, per "tranquillizzarli", voglio dire che non mi arrenderò: continuerò la mia battaglia per la legalità nel partito. Il Pd è stato attraverso l'Ulivo l'obiettivo della mia vita. No. Non facciano conto sulla mia resa».
Che cosa avrebbe voluto sentire da Veltroni?
«Mi auguravo che, invece di assumere nientemeno che a spartiacque la lettera di Berlusconi a Schifani, confermando la subalternità del governo ombra al calendario e all'agenda del governo sole, ci annunciasse che la campagna elettorale era finita e con essa l'inevitabile menzogna che è implicita nella propaganda, e che era iniziata finalmente la stagione della verità, il momento di prendere sul serio la risposta degli elettori».
E invece niente.
«Dicono che seppure dopo due mesi questa volta Veltroni abbia riconosciuto la sconfitta. Quale riconoscimento? Al massimo la sua è stata l'inevitabile presa d'atto della sconfitta elettorale. Nulla ci ha detto invece sulla sconfitta politica, niente su Roma, sulla Sicilia, sulle altre amministrative, che dalla Sardegna alla Val d'Aosta sono state anch'esse un disastro: ci ha detto di più sulla sconfitta delle amministrative del 2007. Mi sembrava di essere nella gag di Totò».
Scusi!?
«Sì, quella in cui un signore schiaffeggia Totò chiamandolo Pasquale, e più lo schiaffeggia e più Totò ride. Tanto che quello gli chiede: "Ma come, più io ti meno più tu ridi?" E Totò gli risponde: "E che sò Pasquale io? Volevo vedere dove andavi a finire". Veltroni è così: pensa che gli schiaffi che gli han dato gli elettori siano sempre diretti al governo Prodi. E in questo modo siamo arrivati al ridicolo di un Pd che continua a presentarsi come partito a vocazione maggioritaria, mentre in Sicilia prende il 12,5 per cento».
Che avrebbe detto se avesse preso la parola all'Assemblea?
«Avrei detto che il problema non è la sconfitta elettorale. Quella era inevitabile. E' stata scelta a tavolino nel momento in cui abbiamo deciso di alleggerirci dall'ossessione della quantità delle risposte. Ma il fatto è che non l'abbiamo sostituita con la qualità della proposta».
Si riferisce alla separazione dal Prc?
«Si, per la quantità, alla separazione consensuale con Bertinotti. Ma senza la qualità Veltroni non ha vinto e non vincerà domani né dopodomani. E' questo che fa delle elezioni un fallimento totale».
Non le sembra di essere troppo duro, Professore?
«Serio, non duro. Sì. Lo riconosco. Ho difficoltà a riconoscermi nel clima zuccheroso, buonista e sorridente che ha da sempre caratterizzato la leadership veltroniana. Non avevamo bisogno di Tremonti per riconoscere che il tempo presente è dominato dalla paura. Questo Veltroni ieri lo ha riconosciuto. Quello che tarda a comprendere sono gli elettori che quando ci vedono sorridere non riescono proprio a capire cosa abbiamo da ridere. Ci sono state stagioni nella quali "pensare positivo" era di moda, e bastava copiare alla lettera gli slogan e le forme della propaganda americana. Questa è invece una stagione nella quale c'è bisogno di una guida e di un pensiero che sia almeno serio, se non forte, e comunque nostro».
E quale «pensiero serio» formulerebbe su questo Pd?
«Diciamo che questa è la premessa che mi costringe a riconoscere che purtroppo la formula che finora ho usato non è più sufficiente. Mi illudevo di poter distinguere la leadership dal leader e perciò chiedevo a Veltroni di cambiare linea. Sono passati due mesi pieni e di fronte ai ripetuti avvertimenti che ci vengono dagli elettori e dall'interno del partito la linea non è cambiata. E' evidente allora che a questo punto bisogna cambiare leader».
Che le importa di chiedere che Veltroni se ne vada, visto che dicono che lei uscirà dal Pd e fonderà un suo movimento?
«Si illudono: devono provare a cacciarmi. Non sarò io ad andarmene. So che è questo il loro sogno. Troverò il modo di tenerli svegli. E' bene che ricordino che il Pd è stato per me (come per molti) il mio partito molto prima che per loro».
Quindi, cambiare leader. Non lo chiede nessuno, però.
«La passione per il Pd mi impone come dovere morale di dire in pubblico quello che quasi tutti dicono in privato. Anche a costo di fare la parte del bambino che dice "il re è nudo". Quello che mi scandalizza di più è la slealtà verso Veltroni: preferiscono tutti tirare di fioretto, ferirlo di punta, mettendo nel conto che l'avversario si dissangui a poco a poco. Ma così si dissanguano anche il Pd e la democrazia italiana. E' per questo che son stato d'accordo con Veltroni che voleva aprire la fase congressuale. Apriamola, dissi, per capire chi siamo e dove andiamo. Purtroppo, però, il rifiuto è stato corale. In molti preferiscono lavorare a sfiancare il partito e il suo leader senza assumersene la responsabilità. Più tempo passa, più credo nella regola secondo la quale chi perde va via, senza tragedie, per evitare che la crisi di una leadership si trasformi nella crisi del partito».
ROMA - C'è una traccia finalmente consistente per accertare che fine abbia fatto Emanuela Orlandi, la figlia del commesso della Casa Pontificia del Vaticano scomparsa 25 anni fa, il 22 giugno del 1983, quando aveva quindici anni. Una super-testimone, interrogata in gran segreto, ha rivelato ai magistrati un particolare da loro ritenuto decisivo per tentare di ricostruire la vicenda. Il mistero, ancora una volta, ruota attorno alla Banda della Magliana, la famigerata organizzazione (nata alla fine degli anni '70 dalla fusione di vari gruppi criminali) in contatto con camorra, mafia, destra eversiva e loggia P2. A un sequestro deciso e ordinato per chissà quale (ancora) oscuro motivo dai boss che nulla avrebbe a che vedere, al contrario di quello che era stato ipotizzato fino a poco tempo fa, con i Lupi Grigi e con i colpi di pistola esplosi contro Giovanni Paolo II a piazza San Pietro, il 13 maggio dell'81, dal turco Alì Agca.
La svolta sugli accertamenti per la sparizione di Emanuela Orlandi è arrivata inaspettata. Il procuratore aggiunto Italo Ormanni (nominato in settimana da Palazzo Chigi responsabile del Dipartimento per gli affari di giustizia del ministero di via Arenula) e i pm Simona Maisto e Andrea De Gasperis hanno lavorato in silenzio, affidando alla polizia le prime verifiche e cercando riscontri al racconto della donna. Che non è una delle tante figure più o meno equivoche apparse in tutti questi anni nelle varie inchieste: è stata a lungo la donna di uno dei boss della banda della Magliana, conoscerebbe molti segreti dell'organizzazione e, soprattutto, avrebbe avuto un ruolo attivo nel rapimento.
È questo il passaggio più delicato dell'inchiesta. Tutto, allo stato, ruota attorno al racconto della super-testimone, che avrebbe fornito almeno un particolare che può essere riscontrato e che, in parte, è stato già ritenuto credibile dagli investigatori: ha detto di aver fatto salire Emanuela Orlandi su un'auto da lei guidata nel luogo in cui era stato fissato un appuntamento con un'altra macchina che l'aveva prelevata, quella sera del 22 giugno dell'83 (era domenica) quando aveva finito la lezione di musica. Forse proprio quella Bmw nera nella quale un vigile urbano (l'ultimo che la ricorda) ha sostenuto di averla vista entrare davanti al palazzo del Senato. E la super-testimone avrebbe anche aggiunto a Ormanni, alla Maisto e a De Gasperis di averla a sua volta lasciata in un altro posto e il motivo per cui si sarebbe prestata a fare questa operazione: glielo aveva chiesto il boss di cui era la compagna e aveva eseguito il compito, senza chiedere spiegazioni, né tantomeno opporsi. Sui motivi del sequestro, allo stato, i magistrati non hanno elementi precisi. Negli ambienti investigativi viene solo escluso che emerga qualcosa che lo leghi all'attentato al Papa di 27 anni fa, alla pista bulgara e ai Lupi Grigi di Agca.
Un appello al Papa per squarciare il «pesante silenzio» calato sulla vicenda è stato lanciato dalla mamma di Emanuela, Maria Orlandi (che è stata sentita dai magistrati insieme alla figlia Natalina e all'altro figlio): la famiglia continua a pensare di poter riabbracciare Emanuela, che adesso avrebbe 40 anni. «Penso che un po' di coscienza la si debba avere. Sono passati venticinque anni nei quali c'è stata sottovalutazione e, soprattutto, troppo silenzio, quasi che si volesse dimenticare. Ma per me non accadrà mai», ha detto Maria Orlandi. La quale pensa che «se papa Ratzinger facesse un appello, anche se è passato tanto tempo, oltre che a fare piacere servirebbe a smuovere le coscienze». E l'ex giudice istruttore dell'attentato a Karol Wojtyla, Ferdinando Imposimato, conferma le novità: «So che la procura si sta muovendo. Sono fiducioso».
Con i capelli neri non velati e il collo nudo in vista, al posto del chador prescritto, una ragazza scappa da un'aula universitaria. La telecamera la riprende per un istante. In primo piano, un uomo dagli occhiali spessi, con il colletto della camicia sollevato e sbottonato, all'inizio fa finta di niente. Poi guarda fisso dentro la telecamera, sembra accorgersi improvvisamente che la scena è stata ripresa, cerca di scappare, ma un gruppo di ragazzi lo afferra per la camicia e blocca l'uscita. Un'immagine del video
La ragazza è una studentessa dell'università di Zanjan, provincia rurale situata 300 km a nord-ovest di Teheran. Ha denunciato di aver subito molestie sessuali da parte di quell'uomo, Hassan Madadi, un vicerettore dell'università, oltretutto incaricato della «moralizzazione » dell'ateneo. Il vicerettore è stato sospeso e, secondo l'agenzia ufficiale iraniana Fars, arrestato. Ma la stessa sorte è toccata alla ragazza, il cui nome non è stato divulgato. Non sono chiare le accuse contro di lei, ma il procuratore locale avrebbe detto che rendere pubblica l'esistenza di certi crimini è peggio che commetterli.
In Iran i rapporti sessuali tra coppie non sposate sono illegali. Le pene: dalle frustate alla forca. Il video è stato girato sabato 14 giugno. Diffuso su YouTube, in una settimana è stato visto 400.000 volte. Gli autori sono studenti. Hanno fatto irruzione in aula durante un incontro tra il vicerettore e la ragazza, convocata, pare, per discutere la sua condotta poco etica. Dalle riprese non è certa la dinamica degli eventi. Gli studenti sostengono di aver sorpreso Madadi mentre si spogliava. Diversi siti web iraniani dicono che la ragazza aveva già denunciato all'Associazione islamica studentesca i tentativi del vicerettore di costringerla ad avere rapporti e che esisterebbe una registrazione audio delle avances. Ma sui blog c'è pure chi sospetta che sia «tutto un complotto contro il poveruomo. La ragazza potrebbe averlo sedotto» (Mike, Los Angeles Times) o forse era consenziente (Hassani, Global Voices). Gli studenti hanno consegnato l'uomo alle autorità. E in serata e nei due giorni successivi, in migliaia hanno bloccato il campus con un sit-in davanti alla palestra, rifiutando di entrare in aula nonostante gli esami in corso. Nei video diffusi sul web, centinaia di studentesse, chador nero e zainetto in spalla, protestano mano nella mano con i colleghi maschi. Hanno chiesto il licenziamento del vicerettore e di altri dirigenti e le scuse del ministero dell'Istruzione. Quest'ultimo li costringe a rispettare un rigidissimo codice di abbigliamento e comportamento, oltre a reprimere le libertà politiche, ma già in passato studenti di altre università hanno denunciato molestie da parte di professori. Le proteste si sono fermate dopo che il rettore Alireza Nedaf ha annunciato la sospensione di Madadi e promesso che il caso verrà esaminato da un comitato composto anche da studenti. «Se vi è stata corruzione, c'è la volontà di appoggiare gli studenti nell'eliminarla», ha detto. Ma il ministro della Scienza Mohammadi Mehdi Zahedi ha condannato il video- denuncia, accusando gli studenti di «diffondere immagini pornografiche». «Questo tipo di azioni — ha detto — sono contrarie all'etica islamica».
COPENAGHEN (DANIMARCA) - Nel 2000, quando fu inaugurato, la stampa scandinava lo salutò come l'ultima avveniristica infrastruttura che avrebbe unito ancora di più il popolo danese a quello svedese. Ma a distanza di quasi due lustri il ponte di Öresund, costruzione di oltre 15 km, costata più di 3 miliardi di dollari che collega la capitale danese con Mälmoe, in Svezia, sta creando notevoli dissidi tra i due paesi scandinavi. Copenaghen, infatti, è invasa quotidianamente da numerosi cittadini svedesi: essi attraversano il ponte per incontrarsi con le lucciole locali e aggirare le severe norme in materia di prostituzione che vigono nel loro paese.
INVASIONE - Questa quotidiana invasione ha fatto aumentare a dismisura il numero di lucciole che vivono a Copenaghen: secondo recenti statistiche negli ultimi anni il numero delle prostitute che vivono nella capitale danese è raddoppiato e oggi si contano più di 6000 squillo. Il Times di Londra, che dedica un ampio articolo ai viaggi dei giovani svedesi alla ricerca di sesso a pagamento, sostiene che questo aumento vertiginoso di lucciole è stato causato dall'opposta legislazione in materia di prostituzione che vige nei due paesi scandinavi: in Svezia, sebbene la prostituzione sia legale, la legge punisce severamente chi frequenta le prostitute (si rischia fino a 6 mesi di galera), in Danimarca, invece, la prostituzione è completamente depenalizzata e chi va con le lucciole non rischia nulla.
MARIJUANA E SESSO - Per attraversare il ponte bisogna pagare 30 euro, ma la somma non scoraggia i giovani scandinavi che, stimolati anche dalla possibilità di comprare liberamente marijuana nel quartiere di Christiana (territorio parzialmente autogovernato di Copenaghen) partono in massa verso la capitale danese. Carl, uno dei tanti cittadini svedesi che attraversano il ponte per «comprare sesso in Danimarca è molto critico verso la legge che punisce i clienti delle prostitute: «Qui, a Copenaghen, mi sento davvero libero. Finalmente posso respirare».
LE CIFRE - Tuttavia le autorità svedesi rispondono alle critiche dei cittadini mostrando dati eloquenti. Secondo le statistiche diffuse dalla polizia scandinava, le leggi ferree che puniscono i clienti delle prostitute hanno portato a una sensibile diminuzione del numero di lucciole in Svezia: se nel 1998 si contavano 2500 ragazze di strada, nel 2003 erano già scese a 1500 e il loro numero è diminuito ancora di più negli ultimi anni. Probabilmente molte di queste ragazze hanno attraversato il ponte di Öresund e hanno cominciato a lavorare nella più tollerante Copenaghen. Secondo Kajsa Wahlberg, ispettore della polizia svedese che lavora nell'unità addetta alla lotta al traffico della prostituzione, è giusto punire chi sfrutta le donne: «Non abbiamo un problema con le prostitute» taglia corto Wahlberg. «Noi ce la prendiamo con gli uomini che comprano sesso».
NEW YORK – È l'evento architettonico-ambientalista del secolo: la "Rotating Tower" che sta per sorgere a Dubai, capitale mondiale dell'architettura avveniristica, ma che è stata interamente progettata in Italia. Per la precisione a Firenze, dal 58enne architetto fiorentino David Fisher, che terrà la conferenza stampa di presentazione all'Hotel Plaza di New York, il 24 giugno prossimo.
PRIMA ARCHITETTURA DINAMICA AL MONDO - L'anticipazione della vigilia è comprensibile, visto che la rivoluzionaria torre di Fisher è stata annunciata come «la prima architettura interamente girevole al mondo». Un grattacielo di 313 metri distribuiti su 68 piani di altezza, con un budget di circa 330 milioni di dollari, che cambierà continuamente forma e produrrà elettricità in misura decisamente superiore al proprio fabbisogno grazie allo sfruttamento dell'energia eolica e solare. Gli abitanti della torre potranno scegliere a piacimento il panorama e la luce del giorno che desiderano, grazie ad un meccanismo che consente ad ogni piano di ruotare in modo autonomo. «Gli spostamenti avranno una velocità molto lenta -, spiega Fisher - così da non risultare fastidiosi per gli inquilini, che non percepiranno il movimento». Oltre a porre fine all'era dell'architettura statica ed immutabile, la rivoluzione di Fisher ne inaugura una nuova, all'insegna della dinamicità.
SOSTENIBILITA' AMBIENTALE - Grazie allo sfruttamento dell'energia del sole e del vento, il grattacielo sarà autosufficiente dal punto di vista energetico. Le turbine montate orizzontalmente tra un piano e l'altro e i pannelli solari che troveranno posto sui tetti dei singoli appartamenti produrranno energia elettrica in misura significativamente superiore al fabbisogno, consentendo all'edificio di venderla all'esterno. In un anno la torre dovrebbe fornire circa 190 milioni di kilowatt di energia, per un valore di oltre 7 milioni di euro.
LUSSO SFRENATO - Al suo interno la torre girevole ospiterà un albergo a sei stelle, uffici e appartamenti di varia grandezza e, negli ultimi piani, cinque "ville" da 1.500 mq ciascuna. Ogni villa avrà a disposizione un parcheggio auto al proprio piano servito da uno speciale ascensore. Sul tetto, la "Penthouse" avrà addirittura una piscina e un giardino. E se non bastasse la "Rotating Tower" sarà dotata di un eliporto "a scomparsa" al 64° piano: una piattaforma "magica" che si materializzerà per consentire l'atterraggio dell'elicottero, dissolvendosi nel nulla subito dopo.
GRATTACIELO INDUSTRIALE - La Rotating Tower è la prima torre realizzata con sistemi industriali. Il 90% dell'edificio sarà costruito in moduli realizzati in fabbrica e poi assemblati in cantiere, che richiederanno la presenza di soli 90 tra tecnici e operai contro gli oltre 2.000 di una equiparabile fabbricato tradizionale. La conseguente, drammatica riduzione nel rischio di incidenti ed infortuni - in un'era segnata in Italia da continue morti sul lavoro - è uno degli aspetti forse più rilevanti di questa torre.