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ZENIT
Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano - 22 maggio 2010
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Educare: una responsabilità, un compito, una gioia
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Il Vs. Ecc.mo Vescovo mi ha chiesto di sottoporre alla vostra riflessione alcune considerazioni che prendono spunto dalla Carta formativa della Scuola cattolica dell’Infanzia, un documento che ho pubblicato nel settembre scorso.
1. Essenzialmente il rapporto educativo è un rapporto fra un’autorità ed una libertà.
Il contenuto di questo rapporto è costituito dall’offerta di una proposta di vita fatta dalla persona autorevole alla persona in formazione.
Che cosa si intende per «proposta di vita»? Se paragoniamo la vita alla costruzione di un edificio, ciò che è il progetto per l’edificio è la «proposta di vita» [che costituisce il contenuto del rapporto educativo] per la persona educanda.
In queste semplici osservazioni è racchiuso tutto: il compito, la responsabilità, la gioia di educare. Ma anche i gravi problemi.
2. Esistono alcuni presupposti che implicitamente o esplicitamente devono essere ammessi dall’educatore, altrimenti la relazione educativa non può neppure essere istituita, o rischia comunque di isterilirsi.
→ La libertà ed il suo esercizio non è un assoluto al di sopra del quale e prima del quale non esiste nulla. Mi spiego con un esempio molto semplice. Hitler e Madre Teresa hanno vissuto secondo un progetto esistenziale liberamente scelto e realizzato. Sono sicuro che nessuno di voi però pensa che sia la vita di Hitler che la vita di Madre Teresa meritano lo stesso giudizio, dal momento che ambedue erano liberamente vissute.
L’esempio ci fa capire una cosa di fondamentale importanza. Esistono progetti di vita buoni e progetti di vita cattivi. O – il che equivale – esiste una verità circa ciò che è bene e ciò che è male, che precede l’esercizio della nostra libertà e in base alla quale esso è giudicato.
Perché una persona si assume il compito e la responsabilità di fare ad un’altra una precisa proposta di vita? Perché ritiene che questa proposta sia vera: dica cioè la verità circa ciò che è il bene e il male della persona. Ed anche perché ritiene che l’altro possa sbagliarsi nel progettare la sua vita: siamo al secondo presupposto.
→ La persona umana nasce avendo nel cuore un desiderio illimitato di beatitudine, e in questo desiderio di beatitudine la mano creatrice di Dio ha seminato una inestinguibile sete di verità e di bontà. La persona umana, quando giunge nel mondo, è come una grande promessa che può essere realizzata e può essere delusa. Non può essere lasciata a se stessa: ha bisogno di essere, e chiede di essere aiutata a realizzarsi nella verità e nel bene. L’atto educativo nasce dalla condivisione del destino dell’altro. Non una condivisione qualsiasi, ma che si concretizza precisamente nell’indicazione della via che porta alla beatitudine.
→ Tutto questo comporta da parte dell’educatore una visione della persona umana; l’educatore deve saper rispondere alla domanda: chi è l’uomo? Il rapporto educativo si radica sempre in un’antropologia.
3. A questo punto abbiamo tutti gli elementi per definire il rapporto educativo dal punto di vista della fede cristiana.
Esso si istituisce quando l’educatore fa alla persona educanda la proposta cristiana della vita. È fondamentale capire che cosa significa «proposta cristiana della vita».
Gli storici dell’arte cristiana ci dicono che sui più antichi sarcofagi Cristo era spesso raffigurato sotto la figura del filosofo e del pastore. Tralasciamo la considerazione della seconda raffigurazione, e riflettiamo sulla prima.
Nell’antichità, filosofo era colui che insegnava «l’arte di essere uomo in modo retto – l’arte di vivere e morire». Raffigurando Cristo come filosofo, i nostri fratelli di fede volevano dirci: «Egli ci dice chi in realtà è l’uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la via e questa via è la verità» [Benedetto XVI, Lett. Enc. Spe salvi 6].
La proposta cristiana della vita è l’indicazione di come realizzare la nostra umanità secondo la via indicataci da Cristo e sempre presente nella Tradizione della Chiesa.
Due precisazioni importanti. La proposta cristiana non si aggiunge estrinsecamente alla realizzazione della nostra umanità, ma è la modalità della perfetta realizzazione della medesima. Quando poi si parla di “vita umana” si intende tutto ciò che concretamente costituisce la trama della nostra vita quotidiana. L’educazione dunque cristiana si definisce in riferimento alla proposta di vita propria della visione cristiana [cfr. art. 2 della Carta formativa].
Possono sorgere dentro di noi a questo punto due difficoltà nei confronti della definizione cristiana di educazione.
La prima: in un contesto sempre più pluralistico, anche dal punto di vista religioso, non è contrario ad una pacifica convivenza sociale educare la persona ad una forte identità? Questa difficoltà fa parte oggi del comune sentire, e sembra essere come una specie di dogma indiscutibile. In realtà è profondamente disumana e disumanizzante. Per varie ragioni. Ne accenno alcune.
Essa parte da una visione astratta della persona umana, cioè falsa. Ogni persona umana nasce all’interno di una cultura e di una tradizione. Realizza cioè la comune umanità nella molteplice diversità delle culture. La convivenza fra varie persone non si ottiene azzerando le diversità, credendo in questo modo di raggiungere la natura umana “pulita” da ogni incrostazione storica. Sarebbe come se, partendo dal fatto che di ogni uomo è proprio il linguaggio, si ritenesse che esista una sola lingua uguale per tutti.
Poiché è questa una visione astratta, non reale, ideologica, c’è un solo modo per proporla: imporla per legge. [cfr. il tentativo di una Costituzione Europea]. Pensare di creare comunione interpersonale, vera convivenza mediante le regole, è un’illusione. Se non altro perché non esiste regola capace di far rispettare le regole.
La seconda difficoltà: educare nel modo suddetto non è contro la libertà della persona? Anche questa idea che vede l’educazione e la libertà come due grandezze confliggenti è oggi comune, ma va rifiutata.
La libertà umana non è della stessa natura della spontaneità animale. La libertà umana è un auto-determinarsi, e quindi un scegliere in base alla conoscenza di ciò che scelgo. È la verità circa il bene e il male la radice della libertà. Il pensare che la libertà della persona possa nascere come per generazione spontanea da un terreno incolto, e che pertanto vada evitata ogni coltivazione della persona, è ignorare completamente i grandi dinamismi dello spirito.
4. Che cosa muove una persona ad interessarsi del bene di un’altra nel modo proprio dell’educazione? Nulla, se non volere il bene del persona bisognosa di educazione. Cioè: l’amore per essa. L’atto educativo è sempre frutto di amore: “un affare del cuore”, diceva S. Giovanni Bosco.
Esiste in natura una condivisione originaria del destino, del bene dell’altro: la relazione genitori-figlio. È questa la ragione profonda per cui educare la persona è il compito e la responsabilità dei genitori. Altri possono avere compiti e responsabilità educative, ma solamente su delega dei genitori. E pertanto sono da considerarsi non sostituti, ma cooperatori dei genitori medesimi.
Esiste anche una condivisione del destino della persona che è propria della Chiesa. Gesù dice, prima di lasciare visibilmente questo mondo: «Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» [Mt 28,19-20a]. È mediante la Chiesa che Cristo realizza la sua opera redentiva. In questa prospettiva anche la Chiesa ha un compito ed una responsabilità educativa propria ed originaria. Ma essa è di natura diversa di quella della famiglia.
Solo se il genitore intende educare nella fede cristiana il proprio figlio, deve chiedere alla Chiesa – non ad altri – di collaborare e di aiutarlo. La Chiesa, infatti, da quando esiste ha educato; ha pensato e vissuto la propria missione come missione educativa. Ed uno degli strumenti fondamentali di cui si è ben presto dotata, è stata la scuola. Impedire alla Chiesa di educare è impedire alla Chiesa di esistere.
Anche lo Stato ha una responsabilità. Ma è di natura completamente diversa. Esso non ha, non deve e non può avere un compito ed una responsabilità educativa: sarebbe la dittatura. È accaduto storicamente. Lo Stato ha solo un ruolo sussidiario: favorire l’esercizio della libertà educativa dei genitori, e la libera proposta educativa. Esso deve intervenire in “prima persona” solo quando e solo dove diventa necessario per tutelare il diritto delle giovani generazioni ad essere educate.
5. Da che cosa oggi l’opera educativa è insidiata, e quindi su che cosa chi ha responsabilità educativa deve vigilare?
In primo luogo deve vigilare che non entri nei luoghi dell’educazione la falsa visione della persona umana che confonde libertà e spontaneità: la spontaneità può essere solo regolamentata; la libertà può essere educata.
In secondo luogo deve vigilare che non sia distrutto il principio di autorità, senza del quale ogni opera educativa è destinata al fallimento. Il rapporto educativo non è fra uguali. L’educatore ha una sua propria autorità che consiste: a) nel fare una precisa proposta di vita; b) nel documentarne la verità e la bontà mediante la testimonianza della vita. Si potrebbe anche dire che l’autorità propria dell’educatore ha la caratteristica propria della testimonianza.
In terzo luogo deve vigilare sul non ridurre l’educazione alla formazione, al know-how come di dice oggi. È una modalità di vita che è trasmessa dall’educatore.
Termino con un riferimento a ciò che accadde nella Chiesa antica, ma che resta paradigmatico per noi anche oggi. Essa [soprattutto con Origene] ha avuto la grande intuizione che la proposta cristiana era l’adempimento e il grado più alto della “paideia” dell’uomo. «Riprendendo questa idea fondamentale e dandone una propria interpretazione, la religione cristiana si mostrò capace di offrire al mondo più di qualsiasi altra setta religiosa» [W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, La Nuova Italia ed., Firenze 1966, pag. 93]. L’annuncio del Vangelo aveva individuato la struttura umana in cui radicarsi: l’uomo è un essere che raggiunge la pienezza della sua umanità solo mediante l’educazione. Ed è nella luce di una tale verità antropologica che la Chiesa si prende cura dell’uomo.
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La Chiesa è il soggetto della fede
Seminario di ecclesiologia proposto dalla rivista "Communio" sul tema "Credo Ecclesiam"
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«Credo sanctam ecclesiam, sed non in illam credo, quia non Deus sed convocatio vel congregatio christianorum et domus Dei est»1. Con questa formulazione il vescovo medievale Bruno di Würzburg2 esprime, nell’orizzonte del Credo apostolico, in modo sintetico ed efficace la natura della Chiesa. Essa è il soggetto che consente al cristiano la confessione di fede. Professare nel simbolo la propria fede è possibile solo se si è parte del soggetto adeguato a confessare il Credo. Il singolo credente è tale solo se fa propria ogni volta la fede della Chiesa. Per questo la Chiesa viene proposta, in quanto con-vocatio vel con-gregatio christianorum e domus Dei, come l’organismo vitale che confessa la Trinità, Gesù Cristo, lo Spirito, la vita eterna.
È la prospettiva che mi permetto di suggerire in apertura dei lavori di questo Seminario organizzato in occasione dell’incontro delle redazioni della Rivista Internazionale Communio che verte quest’anno sull’ecclesiologia. Nell’ottica del Credo Ecclesiam si comprende bene la presentazione di questo Seminario. A quasi cinquant’anni dall’apertura dell’ultimo Concilio Ecumenico, si riconosce esplicitamente che «l’ecclesiologia del Vaticano II nasce dalla precedente tradizione della Chiesa, certo rinnovata e ringiovanita per opera dello Spirito, ma in ogni caso in continuità con la precedente vita della Chiesa».
L’affermazione si rifà all’ormai celebre discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana, in occasione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005. Da allora si sono moltiplicati gli interventi e le pubblicazioni intorno a quello che in modo generico è stato identificato con il binomio rottura/continuità. Certamente il discorso del Papa non è stato il solo fattore che ha favorito una rinnovata riflessione sulla ricezione del Vaticano II. Basti pensare, ad esempio, alla conclusione della pubblicazione della Storia del Concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo e all’ampio dibattito che essa ha suscitato3. Ma insieme a quest’opera potremmo citarne altre non meno decisive: l’enciclopedico commento a tutti i testi conciliari diretto da Peter Hünerman e da Hilberath, nonché i contributi di autori come Routhier, Theobald, O’Malley e altri ancora.
Vorrei fare cenno al tema della Chiesa come soggetto della fede ed ambito della confessione del credente partendo proprio da una citazione puntuale di quel discorso di Benedetto XVI. Le sue parole, se lette con la dovuta attenzione, superano il binomio continuità-rottura introducendo la categoria più appropriata di ermeneutica della riforma. Benedetto XVI mostra l’insostenibilità della tesi della rottura ma, nello stesso tempo, è ben lontano dal proporre una scontata “continuità” che, tutto sommato, non resisterebbe agli appunti mossi da una critica equilibrata.
«Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».
Come dicevo qui il Papa identifica nell’ermeneutica la questione-chiave della riflessione circa la ricezione del Vaticano II. E lo fa contrapponendo due ermeneutiche contrarie.
Tuttavia il primo dato molto significativo è che per citare tali ermeneutiche contrapposte non fa ricorso ad una terminologia che oppone simmetricamente “discontinuità-continuità”, “rottura-continuità”, ma parla di: “ermeneutica della discontinuità e della rottura” da una parte e di “ermeneutica della riforma” dall’altra. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una prima indicazione che impedisce di identificare la proposta del Papa con le “ermeneutiche della continuità” di stampo più o meno marcatamente tradizionalista. La proposta del Papa aiuta a comprendere che “continuità” non può significare che il Concilio Vaticano II debba essere letto e assunto semplicemente ricorrendo al magistero precedente come chiave ermeneutica compiuta.
Ma più interessante ancora è la definizione che Benedetto XVI dà dell’ermeneutica della riforma. Egli la descrive come «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».
Questa definizione mi sembra contenere tre nuclei decisivi di pensiero.
Anzitutto dice di chi si deve affermare la continuità: dell’unico soggetto-Chiesa;
con la proposizione relativa «che il Signore ci ha donato» il Papa identifica l’origine di tale soggetto e, pertanto, la ragion d’essere della sua permanenza come soggetto dalla chiara identità nel tempo;
infine specifica il chi è questo soggetto: il Popolo di Dio in cammino.
Continuità e rinnovamento non sono in alternativa proprio perché stiamo parlando della Chiesa, Popolo di Dio, soggetto la cui origine è nel disegno salvifico della Comunione Trinitaria ma che è ancora in cammino verso la patria definitiva.
Mi sembra che queste indicazioni aprano prospettive feconde per il lavoro teologico nei prossimi anni. Ne cito tre:
a. L’elaborazione di una ecclesiologia del soggetto Chiesa, riprendendo l’indicazione balthasariana sul Chi è la Chiesa? Personalmente sono convinto che questo esiga una doppia concentrazione dell’ecclesiologia in chiave antropologica e sacramentale4.
b. La peregrinatio, e quindi tutta la dimensione storica ed escatologica, come forma della vita della Chiesa, con le relative, talora scottanti implicazioni.
c. La centralità della fede: la Chiesa è il soggetto della fede. Da qui la necessaria attenzione al legame esistente tra Dei Verbum e Lumen gentium, per un’adeguata ermeneutica del corpus dottrinale del Vaticano II.
Sono semplici suggerimenti per il lavoro comune.
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