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Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano - 27 marzo 2010
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Creati per amare: la verità e la bellezza dell'amore
ROMA, sabato, 27 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato il 24 marzo dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo metropolita di Bologna, intervenendo al X Forum internazionale dei giovani, promosso per iniziativa del Pontificio Consiglio dei laici e svoltosi a Rocca di Papa.
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Dividerò la mia riflessione in due parti. Nella prima, vorrei molto semplicemente presentare la visione cristiana dell’amore; nella seconda richiamare l’attenzione su ciò che oggi insidia questa visione nella cultura occidentale e nel cuore di un giovane.
1. La visione cristiana dell’amore
Inizio da un testo di K. Wojtyla desunto dalla sua opera drammatica La bottega dell’orefice: «Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore: ecco la fonte del dramma. Questo è uno dei grandi drammi dell’esistenza umana» [In Tutte le opere letterarie, Bompiani ed., Milano 2001, pag. 821].
Noi vogliamo questa mattina entrare in questo “grande dramma dell’esistenza umana”, per scoprire la via che conduce l’uomo fuori dalla “divergenza” e dalla dilacerazione fra “quello che si trova sulla superficie” e quello che è “il mistero dell’amore”. Vorrei percorrere con voi un vero e proprio itinerario della mente verso la verità e la bellezza dell’amore.
1,1. - Il punto di partenza è singolare ed in un certo senso sconvolgente. Quando la proposta cristiana parla di amore, non parla in primo luogo e principalmente dell’uomo, di un vissuto umano. Parla dello stesso mistero di Dio. Il soggetto del discorso cristiano circa la verità e la bellezza dell’amore non è l’uomo ma Dio stesso. Alla domanda “che cosa è l’amore”, la fede cristiana risponde: è la condotta di Dio verso l’uomo e la radice di questa condotta. La narrazione di questa condotta, e quindi la rivelazione della sua intima verità e bellezza, è la S. Scrittura; ed il vertice di questa rivelazione è Gesù Cristo.
C’è la possibilità per la persona umana di contemplare la bellezza di questo amore e di conoscerne la verità? In realtà, c’è una sola possibilità, una sola via che ci porta alla conoscenza della verità dell’amore: sperimentare l’amore.
L’esperienza dell’amore di Dio per l’uomo in Cristo è ciò che mi consente di conoscerlo. Questa esperienza ha come due aspetti. Dal punto di vista dell’oggetto, l’amore di Dio in Cristo deve mostrarsi indirizzato a me [«mi ha amato e ha dato se stesso per me»]. Dal punto di vista del soggetto deve esserci una attitudine di attesa, di domanda [la S. Scrittura, la narrazione obiettiva dell’amore di Dio, termina con un’invocazione: «vieni»]. «La risposta della ragione all’avvenimento appare ultimamente come una domanda, per l’indigenza essenziale che la caratterizza nella sua stessa vitalità: vieni!» [C. Di Martino, La conoscenza è sempre un avvenimento, Mondadori Università, Milano 2009, pag. 33].
Alla domanda pertanto se l’uomo possa conoscere la verità dell’amore potrei rispondere dicendo che l’unica possibilità è sentirsi amato. Teologicamente rispondo: l’unica possibilità è ricevere in sé lo Spirito Santo.
Esiste però un “luogo” in cui il mistero dell’amore di Dio in Cristo si dona all’uomo? Esiste, ed è la celebrazione dell’Eucarestia. Tommaso arriverà quindi a scrivere: «in questo sacramento è la sintesi di tutto il mistero della nostra salvezza» [3,83,4]. La conoscenza per esperienza [non è possibile un’altra] ha la sua sorgente nella partecipazione all’Eucarestia. È una conoscenza mediante l’Eucarestia.
L’amore che Dio in Cristo nutre per l’uomo per farsi capire ha bisogno di dirsi in un linguaggio umano. E così è accaduto. Dio ha detto all’uomo il suo amore servendosi del linguaggio dell’amore coniugale, dell’amore parentale [paterno e materno], dell’amore di amicizia.
Questo triplice linguaggio è però come attraversato da un significato che lo trascende smisuratamente. Questo triplice linguaggio veicola un significato che lo rende indicativo di una realtà che non ha paragoni [«chi è pari al Signore nostro Dio?»]: la gratuità, la pura gratuità. È questa la cifra propria dell’amore di Dio. Tommaso dice profondamente che il primo dono che Dio ci ha fatto è di aver deciso di amarci; e tutti gli altri doni sono una conseguenza. E decidere di amarci significa decidere di comunicare Se stesso all’uomo, la sua Vita stessa.
Tuttavia “gratuità” non significa “indifferenza alla risposta” dell’uomo: un Dio che non mi desidera e veramente non si appassiona per la mia risposta, non mi amerebbe veramente. L’amore di Dio in Cristo è gratuità e desiderio.
1,2. - La Rivelazione cristiana quando parla dell’amore non parla però soltanto dell’amore di Dio. Come scrive Benedetto XVI, «la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» [Lett. Enc. Deus caritas est 8].
Questo testo è assai importante. Esso fa tre affermazioni fondamentali: l’amore è un fenomeno umano originario ; la rivelazione biblica ha una funzione purificatrice; la medesima ha una funzione elevante. Brevemente: la capacità di amore è costitutiva della persona umana, ma essa ha bisogno di essere sanata ed elevata.
Esiste un testo di S. Basilio che ci può aiutare ad una comprensione profonda di tutto questo. Esso dice: «abbiamo insita in noi, fin dal primo momento in cui siamo plasmati, la capacità di amare. E la prova di questo non viene dall’esterno, ciascuno può rendersene conto da sé e dentro di sé. Di ciò che è buono infatti proviamo naturalmente desiderio» [Le regole, Ed. Qiqaion, Bose 1993, pag. 79]. L’esperienza che ciascuno ha in sé dell’amore è di un desiderio, di un movimento [ad-petitus] verso ciò che è buono, verso ciò che è bello. Il tempo a disposizione non mi consente di approfondire questa definizione di amore – l’amore è il desiderio naturale del bene – come meriterebbe. Mi limito ad alcune osservazioni fondamentali.
Quando si dice “bene” [«di ciò che è buono … proviamo naturalmente desiderio»]si intende qualcosa/qualcuno che ha in sé una perfezione tale [morale, estetica, fisica …] da non lasciarci indifferenti, da attirare la nostra attenzione, da suscitare in noi e motivare una risposta [von Hildebrandt la chiama Beruehrens-beziehung]. Il nostro desiderio e sempre risposta a qualcosa/qualcuno che ha in sé ragione di essere desiderato.
Quando però parliamo di amore intendiamo la risposta [nel senso suddetto] di una persona ad una persona: è una relazione inter-personale. Ma nel senso forte: non solo a causa dei valori [morali, estetici, fisici…] posseduti dalla persona, ma è relazione alla persona stessa come tale. È una risposta spirituale, che implica cioè la conoscenza-valutazione [del valore] della persona: non del tipo stimolo-risposta, bisogno-soddisfazione. È una risposta del cuore, eminentemente affettiva: per dire con verità “amo” non basta dire “voglio amare”. È un coinvolgimento della persona trasportata verso l’altra.
E quindi è una risposta che implica il desiderio unitivo; che desidera la felicità della persona amata; ed anela ad essere corrisposto. Platone per primo ha visto profondamente che l’amore – lo possiamo ora definire: la risposta affettiva al valore [della], che è la persona dell’altro, fatta propria dalla libertà – ha in sé un enigmatico paradosso: è figlio di Póros, la ricchezza, e di Penía, la povertà. Il paradosso consiste nella tensione insita nell’amore al dono di sé, da una parte; e dall’altra, nella tensione che l’altro corrisponda, che l’altro accetti il dono, vi corrisponda donandosi. L’intenzione oblativa sembra contrariare l’intenzione possessiva.
Il S. Padre scrive, come abbiamo visto, che tutto l’uomo è accettato: dunque ambedue le intenzioni sono costitutive dell’amore umano. Nessuna delle due va negata. È questa dialettica fra oblazione e possesso che costituisce il punto di aggancio nell’uomo della rivelazione biblica dell’amore con l’amore in quanto originario fenomeno umano. Per comprendere ciò partiamo da un testo paolino che recita: «la speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato» [Rom 5,5].
L’amore di Dio non significa: l’amore con cui noi amiamo Dio; ma significa: con cui Dio ama noi. Si parla dunque dell’amore divino stesso. Di esso l’Apostolo dice che è stato «riversato nei nostri cuori». Dio fa “sentire” l’amore – la sua misura e la sua qualità – che nutre per noi: ce ne dona l’esperienza. Non solo nel senso che ce lo fa conoscere: il testo non dice lo “riversa nella mente”. Ma nel senso che lo fa sentire in quello che è l’organo proprio dell’amore, il cuore, che è la sintesi nell’io-persona di intelligenza, libertà, affettività. Il cuore dell’uomo diventa partecipe dell’amore con cui Dio ama.
Questa partecipazione è dovuta ad un fatto: il dono dello Spirito Santo che viene ad abitare nel cuore. È la divina persona dello Spirito la nostra partecipazione allo stesso amore con cui Dio ama. Nel senso che noi diventiamo partecipi dell’amore divino in quanto lo Spirito Santo diventa “possessore” del nostro cuore, della nostra capacità di amare. È questa “spiritualizzazione” che purifica il nostro amore e gli dischiude nuove dimensioni: tutto l’umano è salvato, custodito ed elevato. S. Ireneo scrive: «gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne» [adv Haereses V, 6; SCh 153, pag. 74].
Il desiderio di possedere la persona umana è integrato nel movimento di auto-donazione nella medesima. Non è negato, ma custodito nella sua verità più profonda. Concludo questo primo punto. Due sono le dimensioni essenziali dell’idea cristiana di amore. Essa esprime il volto del mistero di Dio: Dio nel suo mistero e nella rivelazione che fa di Se è amore. Essa esprime il mistero dell’uomo: la persona umana è resa capace di amare come Dio stesso ama, senza essere “privata della carne”.
2. L’amore insidiato
In questa seconda parte della mia riflessione vorrei riflettere, brevemente, su ciò che insidia oggi il cuore del giovane impedendogli, o comunque rendendo assai difficoltosa la comprensione della visione cristiana dell’amore. Perché l’annuncio cristiano dell’amore trovi il terreno in cui radicarsi, la persona che l’ascolta deve possedere una vera coscienza di se stessa e vivere una conseguente esperienza di libertà. Fra le due realtà – coscienza di sé e modo di essere liberi – c’è una connessione inscindibile e come una sorta di reciproca inabitazione.
Ora la coscienza di sé nel mondo occidentale è andata progressivamente oscurandosi, nel senso che il «sé» si è come nascosto agli occhi della coscienza in ciò che ha di più nobile e proprio. Che cosa è accaduto? Che «vittime dello scientismo, non crediamo più in noi stessi, chi e che cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine per la diffusione dei nostri geni, quando consideriamo la nostra ragione soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a che fare con la verità» [R. Spaemann]. La soggettività sostanziale della persona è andata progressivamente “rottamata”.
La prima conseguenza di questa “rottamazione del’io” è la deformazione della relazione con l’altro: una relazione ridotta a stimolo-risposta. L’io rottamato, direbbe Hume, è incapace di fare un passo oltre se stesso. Il segno più evidente di questa condizione è la riduzione della libertà a spontaneità.
Esiste una differenza sostanziale fra l’una e l’altra: la libertà non è una spontaneità … più spontanea! È un modo di agire essenzialmente diverso. Il tema esigerebbe una lunga riflessione. Mi limito a due riflessioni.
Ciò che distingue agire libero e agire spontaneo è che il primo rivela la trascendenza della persona sul suo agire e nel suo agire. È la persona che decide di agire, al di sopra ed anche contro ciò che accade nella sua psiche. La nostra lingua italiana ha due espressioni che ci aiutano a capire: «io voglio» ha un significato profondamente diverso da «mi viene voglia». Col primo denoto l’esperienza della persona che decide auto-determinandosi; nel secondo denoto piuttosto un essere-determinati ad agire da qualcosa d’altro.
La seconda riflessione per cogliere la diversità fra libertà e spontaneità è ancora più importante. L’atto del volere [«io voglio»] è sempre intenzionale: è cioè rivolto ad un oggetto [per es. “voglio studiare”]. La persona si determina ad agire poiché riconosce in ciò che vuole [“studiare piuttosto che divertirsi”] una bontà intrinseca all’oggetto voluto, un “valore” suo proprio [“è bene che io ora studi”]. L’autodeterminazione e la trascendenza della persona è fondata e condizionata dalla conoscenza, dalla relazione della persona con la verità sul bene. La radice di tutta la libertà, scrisse S. Tommaso, è il giudizio della ragione. L’affermazione teorica e pratica della libertà; la costituzione dell’io che agisce; la capacità dell’uomo di conoscere la verità circa il bene, stanno e cadono insieme.
Proviamo ora a riassumere quanto detto finora. Mi ero chiesto: che cosa insidia oggi la capacità di un giovane di ascoltare la proposta cristiana dell’amore? Ho risposto: la rottamazione cui è stato sottoposto il suo io. Una rottamazione che ha deformato la relazione dell’altro, riducendola ad una relazione spontanea e non libera: “mi viene voglia di relazionarmi a …”; e non “io voglio relazionarmi a …”. E l’amore può essere solo libero; solo la persona libera è capace di amare.
Non procedo oltre su questi temi, poiché altri li riprenderanno, e vengo alla conclusione.
Da ciò che ho detto si deve concludere che il destino della proposta cristiana è la totale estraneità dalla coscienza che di sé ha l’uomo in Occidente? Si e no.
L’apostolo Paolo e l’apostolo Giovanni insistono con grande forza sulla estraneità, anzi sul contrasto che vige fra il Vangelo e il mondo. Ma quando dicono questo, i due apostoli pensano che dentro alla creazione si è costituita un anti-creazione. E l’uomo nasce collocato nella seconda: nasce radicato nella solidarietà ingiusta con Adamo.
Ma è questo il vero uomo? o questi non è piuttosto l’uomo estraneo a se stesso? La proposta cristiana è rivolta all’uomo perché ritorni nella verità della sua prima origine. È dono di grazia che rigenera, poiché è l’uomo in Cristo che non “vive più per se stesso” [cfr. Rom 14,8], che diventa capace di amare. Alla fine: proporre l’amore è proporre di convertirsi a Cristo e di vivere in Lui. Solo così l’uomo ritrova se stesso, perché ritrova la capacità di amare. «Poiché solo nell’amore l’uomo si desta alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza» [D. von Hildebrandt, Man and Woman, Franciscan Herald Press, Chicago 1986, pag. 32].
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La dimensione psicologica nelle psicosette
ROMA, sabato, 27 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un estratto del volume "Le Sette Svelate" di Antonio Fasol, Presidente del Gruppo di Ricerca e Informazione Socioreligiosa (GRIS) di Verona.
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Se nella originaria visione psicoanalitica freudiana classica ogni conflitto morale risulta, in ultima analisi, di origine nevrotica, ed ogni credenza religiosa di tipo metafisico tout court illusoria se non delirante, tutta la critica successiva, a partire da Jung [3] ne ha evidenziato l'eccessivo riduzionismo semplificatorio, mettendo in luce il possibile connubio tra sviluppo di una struttura psichica matura e adesione religiosa, fino a chi è arrivato ad individuare, al contrario, il comportamento ateistico stesso come frutto di processi nevrotici [4]
Per quanto riguarda, in particolare, il punto di vista della psicologia della religione, va specificato che essa studia, nello specifico, il corrispettivo psichico individuale dell'esperienza religiosa, a prescindere dalle caratteristiche della religione di appartenenza, nel rispetto di una sorta di "distanza critica" e di agnosticismo metodologico [5]. Evitando i due estremi costituiti sia dalla tentazione riduzionistica, che riduce cioè la religione a mera costruzione psichica, sulla scia peraltro del filone filosofico costituito dai cosiddetti "maestri del sospetto", sia da quella apologetica, che vorrebbe ricercare conferme bio-psicologiche alla necessità e validità universale della religione e del cosiddetto "bisogno religioso" in senso stretto. A. Vergote, in particolare, nel tentativo di superare la diatriba sulla valutazione dell'essenza della religione [6] limita il campo della psicologia della religione all'identificazione dei processi psichici che consentono al singolo individuo di aderire al sistema simbolico proprio della religione incontrata nel suo ambiente culturale. Ciò non gli impedisce, comunque, di operare una distinzione, basata esclusivamente su tali presupposti metodologici, tra religioni autentiche e pseudo-religioni. [7]
Va inoltre tenuto conto che l'ambito della religiosità, in particolare quella intrinseca, distinta da quella estrinseca, (funzionale, cioè a bisogni esterni, quali sicurezza, difesa, ecc,) che comporta accettazione di sé e motivazione disinteressata, non è paragonabile ad un fattore secondario e contingente, (quale può essere la professione o un hobby), ma rappresenta una dimensione unificante della vita e totalizzante della personalità, una sorta di spinta motivante e significante ogni azione vitale [8]. Continuando lungo la scia logica di tale interpretazione (che, ribadiamo, concerne esclusivamente la cornice psichica del fenomeno), e trasferendola all'ambito più specifico di nostro interesse dei movimenti religiosi alternativi, si potrebbe affermare che l'adesione ad essi, specialmente quando si verifica nel corso della vita come conversione da una concezione precedente, sarebbe la conseguenza, in ultima analisi, di una mancata corrispondenza di quest'ultima con il proprio sistema simbolico e psichico, che verrebbe invece a coincidere meglio con l'offerta spirituale proposta dai movimenti stessi.
Inoltre, specialmente nel caso di adesione a movimenti sincretistici e del vasto milieu new age, si assisterebbe ad una sorta di capovolgimento di tale meccanismo, fatta salva la natura prettamente psicologica della teoria: in molti gruppi di questo tipo si assiste, infatti, ad una sorta di assemblaggio fai-da-te di elementi spiritualisti e religiosi, non in funzione della loro organicità e coerenza intrinseca, ma della loro soddisfazione e conformazione ai propri bisogni e desideri (meccanismi psichici).
Questo spiegherebbe, tra l'altro, la grande eterogeneità degli elementi scelti, la loro diversa provenienza storico-culturale nonché la loro frequente apparente incompatibilità ed incoerenza, secondo gli schemi della teologia e delle religioni tradizionali. Essi, infatti, in tale quadro ermeneutico, non sarebbero che il frutto di altrettante risposte di adattamento funzionali ai propri svariati ed incontrollabili bisogni e sistemi psichici [9]. Sarebbe un po' come, per usare un paragone banale ma efficace, voler andare a sagomare i bordi della cornice di un puzzle modellandoli in funzione della forma dei pezzi a nostra disposizione e non, come si fa normalmente, cercare di farli combaciare secondo le curvature e le convessità preesistenti.
In ogni caso, gli aspetti "patologici" individuali legati al vissuto religioso o comunque spirituale, prescindono dalla identità del movimento di appartenenza, in quanto nessuno ne può essere immune a priori, anche se è evidente che i gruppi settari e distruttivi in particolare, come ampiamente descritto nei capitoli precedenti, tenderanno più facilmente ad accentuare aspetti di fragilità psicologica latenti. Ciò esattamente al contrario di un vissuto religioso autentico in una personalità matura, che, anche solo dal punto di vista intrapsichico, ed a prescindere da qualsiasi considerazione valoriale, di norma dovrebbe agire in modo completativo ed integrativo, seguendo di pari passo le dinamiche evolutive della personalità, e non puramente compensativo di disagi o sofferenze psicologiche, come ampiamente dimostrato da numerosi studi [10].
Nella misura in cui, infatti, una conversione a qualsivoglia organizzazione religiosa, sia appartenente alle religioni tradizionali che ai cosiddetti movimenti religiosi alternativi, rappresenti un tentativo meramente funzionale di risposta a bisogni non strettamente religiosi [11] ma altri (psicologici, patologici in genere, sociali, di convenienza, economici, affettivi, ecc.), non si può parlare di autentica conversione religiosa; si tratterà, piuttosto, di risposte "mascherate" di religiosità ma, in ultima analisi, funzionali a bisogni diversi; dei quali spesso, peraltro, la religione rischia di diventare una sorta di paravento legittimante; peraltro estremamente fragile e in balìa di ogni evento o condizionamento esterno.
Varie sono peraltro le interpretazioni della conversione religiosa in genere, secondo le categorie psicodinamiche: dai meccanismi di compensazione o di rappresentazione simbolica dei vissuti intrapsichici individuali, alla "sostituzione di complessi" (S. De Sanctis) infantili, o ancora , alla loro sublimazione. [12] Merita menzione, infine, la recente teoria dell'attaccamento 13 recentemente emersa nell'ambito della psicologia della religione, in quanto, pur trattandosi di una teoria ancora in fase di iniziale ricerca e riferita universalmente alle religioni in generale, trova nei gruppi settari più ideologizzati l'esempio emblematico per una analisi del vissuto da attaccamento " patologico". In essi, infatti, l'individuo mostra una accentuata dipendenza regressiva nei confronti del leader-guru, interpretabile psicologicamente come il retaggio del mancato superamento del legame simbiotico con la madre (Abgrall).
Nel corso degli anni '80 si è registrato un acceso dibattito, in ambito nordamericano, con relative prese di posizione giudiziarie, tra associazioni, sociologi e accademici critici e favorevoli nei confronti delle sette, o meglio sulla correttezza e validità scientifica dell'uso di tecniche di condizionamento ed ingannevoli da parte di alcune di queste. A seguito di alterne vicende e svariate ricerche, l'Associazione Psicologica Americana (APA), pur in presenza di un controverso rapporto fortemente critico 14, giunge sostanzialmente ad una conclusione di non pronunciamento per mancanza di informazioni complete e documentate, ma comunque non di rifiuto esplicito, come talora impropriamente riportato15. Per restare nell'ambito della realizzazione sociale di teorie psicologiche alternative, va ricordato anche lo sviluppo di certe scuole di pensiero, a partire dagli anni '60 e '70, legate per esempio alla cosiddetta terapia provocativa, oltre alla successiva variegata diffusione delle offerte di teorie e prassi applicative sulla formazione e il cosiddetto "sviluppo personale" che si rifanno (fedelmente o liberamente) alle teorie della Programmazione Neurolinguistica (PNL) [16].
Fondamentale è operare un non sempre agevole discernimento, in merito, tra quanto avviene nelle numerose associazioni psico spiritualiste di formazione e sviluppo personale della cosiddetta religione dei seminari, suscettibile di comportamenti settari, e le scuole di pensiero accreditate scientificamente, opportunamente trattate anche in corsi universitari (Psicologia del Benessere), che rispettano le linee guida accreditate in ambito deontologico professionale, astenendosi rigorosamente sia da ogni giudizio critico sulle persone sia da qualsiasi forma di contatto fisico o, peggio, di violenza fisica, agita o comunque tollerata [17]. Per non parlare di altri aspetti fortemente critici riscontrabili in gruppi controversi quali l'uso di pseudo tecniche mono-proposta (panacea di ogni problema personale) da parte di personale non sempre accreditato, la creazione di un clima di segretezza ed intimorimento al punto da creare forme di dipendenza (anche economica per i costi spesso elevati dei corsi), fino all'uso di tecniche di controllo mentale con conseguente tendenza alla sopravalutazione personale (ipertrofia dell'io) e all'inaridimento affettivo e familiare.
Per quanto riguarda, infine, lo studio della psicologia dei gruppi, merita menzione la cosiddetta sindrome gruppale, [18] sviluppatasi nell'ambito della psicologia sociale, anche per la significativa coincidenza con le caratteristiche idealtipiche individuate in questa sede per i gruppi settari: essa infatti è caratterizzata da tendenza all'uniformizzazione forzata attraverso l'autocensura e la soppressione del dissenso; sopravalutazione perfezionista; chiusura cognitiva con rimozione o demonizzazione stereotipata degli avversari.
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Note
3. Per il quale la rigida separazione tra male e bene, propria delle concezioni religiose tradizionali e occidentali in particolare, impedirebbe di sperimentare l'inesplorata zona grigia (d'ombra), dove gli opposti si fondono in una rappresentazione meno nevrotica della realtà.
4. E' il caso di L. Ancona, citato in Mario Aletti, Psicologia, psicoanalisi e religione, studi e ricerche, EDB, Bologna 1992, p. 14.
5. Cf. . Mario Aletti, Psicologia, op. cit., pp. 47-52. Per un superamento, poi, della presunta neutralità ideale dello psicologo, cf. Paolo Ciotti - Massimo Diana, Psicologia e religione-Modelli problemi prospettive, EDB, 2005, pp.187-194. ; Antoine Vergote parla di "neutralità benevola" in Antoine Vergote, Psicologia religiosa, op. cit., p. 20 e ss.
6. Cf. lo storico dibattito tra una definizione sostantiva ed una funzionale di religione, dove la prima (A.Vergote) tendeva a sottolineare il fondamento e la priorità della categoria religiosa (ed in particolare quella cristiana rivelata) rispetto all'interpretazione psicologica, mentre la seconda (V.Der Lans) tendeva a sottolinearne l'origine speculativa propria della mente umana. Jacob A. Belzen contribuirà pure a trovare una sintesi tra le due posizioni, sottolineando il concetto più universale di "spiritualità" e la funzione morfopoietica dell'ambiente culturale e ambientale; cf. Paolo Ciotti - Massimo Diana, op.cit. pp. 87 e ss.; in senso più ampio, si veda anche la funzione condizionante del "mondo vitale"(Lebenwelt) ampiamente elaborato da Jurgen Habermas.
7 Cf. Antoine Vergote, op.cit., p.25.
8. Vd. Allport, L'individuo e la sua religione, pp. 274-276 o Psicologia della personalità, p 256 e ss.
9. Secondo il paradigma rappresentato dal passaggio dalla religione "trovata" alla religione "creata" (Vergote)
10. Per una descrizione articolata della religiosità come fattore integrante e promovente la personalità, vd. G. Sovernigo, Religione e persona: Psicologia dell'esperienza religiosa, EDB, Bologna, 1993; per una analisi critica del presunto rapporto biunivoco tra salute mentale, maturità umana e salute mentale, cf. Mario Aletti, op. cit., pp. 45-47; vd. anche Allport.
11. Secondo alcuni autori, più che di "bisogni religiosi" sarebbe più corretto parlare di "disponibilità religiosa", cioè la capacità di dare connotazione religiosa a vicende riguardanti la maturazione della personalità umana, senza svilirne lo sviluppo naturale (cf. G. Sovernigo, op. cit. p. 66 )
12. Cf. Antoine Vergote, op. cit, pp. 228 e ss.
13. A partire dagli studi di Lee Kirkpatrick e Pehr Granqvist
14. Si tratta del rapporto denominato DIMPAC
15. Per un'ampia e documentata trattazione della controversia interpretativa, risalente alla fine degli anni '80, ed un tentativo di ricomposizione, tra allora esponenti del GRIS e CESNUR, cf. Massimo Introvigne, Il lavaggio del cervello, op. cit. pp. 92-101
16. Particolare sistema di sviluppo personale attraverso il "modellamento" del comportamento, ideata da Richard Bandler e John Grinder, che integra in un sistema singolare psicologia, linguistica e cibernetica
17. Per una trattazione critica e documentata sui danni provocati di quelle che vengono emblematicamente definite "Psicoterapie folli" cf. Margareth Singer, J.Lalich, "Psicoterapie Folli", Ed. Erickson, 2000 comprese le fondamentali regole deontologiche contenute nella presentazione all'edizione italiana curata dal Dott. Paolo Michielin, nonché le linee-guida europee in tema di deontologia psicoterapeutica elaborate dall'Efpa e dall' Eap.
18. Vd I.L. Janis, citato in M.L. Miniscalco, op. cit. p. 118
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