venerdì 25 marzo 2011

iPad 2 e Nintendo 3Ds: è il gran giorno delle code

Se per caso non avete guardato bene il calendario, buttate un occhio sulla data di oggi. Visto niente? Sbagliato, perché oggi è una data importante. Oggi è il giorno delle code. Quelle in negozio, s'intende, perché oggi 25 marzo arrivano in Europa i nuovi divi delle generazione Duemila. Che non sono più - è questa è ormai la prassi - delle persone, ma degli oggetti. E che oggetti.

Insomma, una volta si impazziva per i Beatles, per Madonna o magari - in tempi più recenti - per George Clooney. Adesso le scene di isterismo vengono riservata all'iPad e alla Nintendo 3Ds, cioè i gadget che proprio oggi appunto invaderanno l'Europa, e quindi l'Italia, per conquistare il mercato. E questa mattina tutto era pronto: negozi di elettronica con la pila calda di confezioni fresche fresche, Apple Store e affini che apriranno le porte alle 5 del pomeriggio in vista della gara all'accaparramento. Che, ovviamente, vedrà come al solito il primo in classifica in copertina. Follia? Sì, certo: follia tecnologica.

Un primo assaggio di isterismo collettivo si è già avuto alla prima uscita dei due nuovi gioielli: nel Giappone non ancora sconvolto dal terremoto, la 3Ds è uscita il 26 febbraio scorso: 400mila pezzi disponibili finiti in un amen e consegnati soltanto a chi aveva effettuato un preordine. Da noi dovrebbe andare un po' meglio, anche perché nel frattempo la Nintendo ha preparato 4 milioni esemplari per l'avvio delle vendite e soprattutto, dislocando la produzione tra Giappone e Cina, ha resistito al devastante impatto del sisma e dello tsunami. Stesse scene anche per la seconda generazione dell'iPad, messo in vendita l'11 marzo in America: code anche lì, negozi presi d'assalto, flash e momento di notorietà ai vincitori della grande corsa.

E tutto questo per i due oggetti che segnano una nuova frontiera della tecnologia, ma soprattutto della nostra vita quotidiana. Dell'iPad2 ormai si sa tutto, l'abbiamo visto, toccato, provato al grande lancio fatto da Steve Jobs in persona (e di cui si parla anche nel numero di Style in uscita oggi con il Giornale) e l'abbiamo avuto in anteprima: di sicuro sarà un successo in un mercato dei tablet in grande fermento. Probabilmente sarà ancora la guida e per la cronaca i prezzi vanno da 479 a 799 euro secondo modello. Della 3Ds invece c'è ancora molto da scoprire (a parte il prezzo, 259 euro) e non perché la sua uscita non sia stata accompagnata da un conto alla rovescia ben studiato, ma perché l'effetto a tre dimensioni e senza occhialini è da vivere in prima persona. Avendola già provata, si può comunque già dire che anche questa volta diventerà un oggetto di culto perché comunque è coinvolgente, anche se la stessa casa nipponica ne sconsiglia l'uso ai minori di sei anni: «Ma non ci sono studi che provino che faccia male agli occhi, è solo una precauzione». E poi la nuova console - grazie a una serie di accordi commerciali in via di definizione - diventerà presto una piccola postazione multimediale capace di trasmettere in 3D contenuti offerti da canali tv e major, dai film alle partite di calcio. E il tutto tramite aggiornamenti automatici via hot-spot wi-fi(in tecnologia si parla così) convenzionati.

via ilgiornale.it

La Green Economy nell'Ora della Terra 2011




Il 26 marzo dalle 20.30 alle 21.30 si spegneranno i luoghi simbolo e gli edifici privati in più di 130 Paesi del mondo: è l'Ora della terra 2011. Anche molte aziende "ci saranno"


L'Ora della Terra è il grande evento globale WWF per la lotta al cambiamento climatico che sabato 26 marzo dalle 20.30 alle 21.30 spegnerà luoghi simbolo ed edifici privati in più di 130 Paesi del mondo. Comuni, Province, imprese o gruppi di cittadini, attraverso misure tecnologicamente avanzate o semplici accorgimenti per ottimizzare risorse ed energia, stanno riducendo notevolmente il proprio impatto sul pianeta e, se fossero "clonati" da tutti gli 8.000 Comuni, dalle 110 province, dalle migliaia di imprese e gruppi di cittadini presenti sul nostro territorio, potrebbero davvero trasformare l'Italia, facendo guadagnare l'intero Paese in equilibri ambientali, benessere economico e sociale, qualità della vita e sicurezza.

E le aziende?
Sono decine le grandi imprese, anche in Italia, che hanno visto nella green economy una strada vantaggiosa non solo sotto il profilo ambientale, ma anche economico, che hanno attivato concreti piani di riduzione delle proprie emissioni e del proprio impatto ambientale e che quest'anno aderiscono all'Ora della Terra: il gruppo Sofidel ha investito 16 milioni di euro per ridurre le emissioni di CO2 del 26% entro il 2020. UniCredit si è posta l'obiettivo di ridurre le proprie emissioni di CO2 del -30% entro il 2020. Electrolux ha ridotto i consumi di acqua del 30%, di energia del 25% e rifiuti del 45%. Epson con i 117 metri quadri di pannelli fotovoltaici sulla sede italiana ha ridotto il proprio impatto ambientale del 20%. Auchan ha evitato la diffusione di 210 milioni di shopper e sacchetti in polietilene, e ha ridotto del 5% i consumi energetici, dell'11% i consumi idrici e con il reparto "Self Discount" ha evitato 3.500.000 confezioni. Costa Crociere ha ridotto del 9% il consumo di carburante, del 24% la produzione di gas serra da refrigeranti e del 9% di gas lesivi della fascia di ozono. Birra Peroni ha avviato la strategia "Dieci priorità. Un futuro", volta al risparmio di energia, alla riduzione di acqua per litro di birra del 25% entro il 2015 , alla riduzione del 50% delle emissioni di CO2 entro il 2020 e più in generale al rispetto dell'ambiente e delle comunità in cui l'azienda opera. Sony Corporation ha ridotto le emissioni di CO2 del 93% rispetto al 2000 nelle sedi europee certificate GEMS, ha 34 sedi europee totalmente alimentate con energie rinnovabili e punta a raggiungere un impatto ambientale pari a zero entro il 2050. Berendshon Italiana Spa promuove una Linea Eco che utilizza materie prime rinnovabili e 100% riciclabili. Con nuovi macchinari ad alta efficienza Coca-Cola HBC Italia ha ridotto del 10% i consumi energetici per ogni litro di bevanda prodotta e del 19% per ogni litro di acqua minerale imbottigliata. Il Gruppo Tetra Pak ha ridotto le proprie emissioni di CO2 del 10% rispetto al 2005. Poste Italiane utilizza il 50% di energia proveniente da fonti rinnovabili certificate e ha ridotto di più del 30% le emissioni di CO2. IKEA Italia, infine, utilizza l'83% dell'energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, ha ridotto del 20% in 4 anni I consumi di energia per metro quadro, e sta investendo 20 milioni di euro nel corso dell'anno fiscale 2011 per installare circa 150.000 pannelli solari su tutti i negozi italiani. DHL Supply Chain Italy è passata ad energia rinnovabile con l'obiettivo di garantire un approvvigionamento energetico sicuro e di tutelare l'ambiente. Dal 1 gennaio 2011 la fornitura di energia elettrica green copre il 100 % dei consumi elettrici associati all'attività di uffici e magazzini e consentirà a DSC italy già quest'anno di abbattere le proprie emissioni di CO2 del 70%.


via www.imprese-economia.it

Energia: Vendola green economy come modello sviluppo alternativo

Bari, 25 mar. - (Adnkronos) - ''Noi abbiamo scelto la green economy come modello di sviluppo alternativo a quello distruttivo dei valori dell'ambiente. E in questo contesto, il rapporto tra energie rinnovabili e sviluppo rurale oggi è un argomento fondamentale da affrontare''. Lo ha detto il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a conclusione della tre giorni di studio che si è tenuta a Bari con la partecipazione di numerosi delegati dei vari Paesi coinvolti nel progetto proposto dall'Ocse 'La produzione di energia rinnovabile come politica di sviluppo regionale delle aree rurali'.

Grazie alla produzione di energia verde, le aree rurali hanno la possibilità di utilizzare il proprio patrimonio di fonti energetiche rinnovabili per creare posti di lavoro stabili e preziosi in settori emergenti, incoraggiare gli investimenti e migliorare il proprio capitale umano e sociale. ''Abbiamo la possibilità per esempio -ha detto Vendola- di ragionare su quei terreni inquinati da diossina o da arsenico che non possono essere più coltivati e produrre lavorazioni tradizionali. Occorre far respirare il terreno che è stato inquinato e abusato dalla chimica e occorre anche poter immaginare un reddito per i proprietari di quei terreni".

"Bisogna contestualmente però immaginare che le energie rinnovabili, nelle campagne come nelle città, non possano svilupparsi con le mega aziende o con i grandi impianti. Devono svilupparsi con le centrali di piccola taglia. Per l'agricoltura dunque occorrono piccole centrali - ha proseguito - per l'autoproduzione e l'autoconsumo. Questa è la via maestra. Così come nelle città - ha concluso - dobbiamo privilegiare il pannello fotovoltaico per famiglia. Con questi presupposti si può arrivare ad un risultato straordinario per i cittadini, per i lavoratori e per gli imprenditori, quello cioè dell'abbattimento della bolletta energetica e dell'abbattimento dell'inquinamento''.

Nel corso del 2010 la Regione Puglia ha aderito al progetto 'La produzione di energia rinnovabile come politica di sviluppo regionale delle aree rurali' proposto dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, finalizzato a conoscere e mettere a sistema le buone prassi internazionali sul tema energetico e la creazione di opportunità di crescita economica. Al progetto hanno aderito numerosi Paesi: il Canada (Quebec, e Prince Edward Island), l'Olanda (Province of Fryslan), l'Italia (Puglia e Abruzzo), la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, la Finlandia, il Regno Unito (Scozia), la Spagna (Extremadura) e gli Stati Uniti d'America.

Il progetto mette in rete esperienze regionali in diversi paesi dell'Ocse. Oltre alla Puglia, fanno parte di questo network internazionale: Abruzzo, Frysla'n (Olanda), Que'bec e Prince Edward Island (Canada), Extremadura (Spagna), Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Scozia (Regno Unito), e quattro regioni negli Stati Uniti D'America. Il progetto è articolato secondo un programma di lavoro che prevede un aggiornamento costante degli esperti coinvolti, anche attraverso il confronto diretto con i portatori di interesse di ogni singolo Paese, che si concluderà nel corso del 2012.

giovedì 24 marzo 2011

Libia ovvero il fallimento di Obama, dell’Onu e della nobiltà della politica

So che questo contributo susciterà diverse critiche o, comunque, alimenterà una discussione che mi auguro costruttiva, propositiva. Non avrei potuto, d’altronde, esimermi dall’esprimere la mia più netta e convinta contrarietà all’ennesimo ricorso alla scelta bellicista come modo risolutivo di controversie interne ed esterne agli stati.

E’ ora di dire basta e di riconoscere il fallimento dell’Onu, di questa Onu delle burocrazie e dei tornaconti economici, dimostratasi ancora una volta completamente inadeguata ad affrontare seriamente la gravità della situazione prodottasi, ma anche prevedibile, e nei fatti nuovamente aggirata e raggirata dagli Stati Uniti e dalla Nato.

Non sono mai stato e non sono antiamericano. Anzi, è proprio vero il contrario, dal momento che considero gli U.S.A. un sicuro punto di riferimento politico. Se fossi, però, componente della commissione che ha assegnato il Nobel per la pace a Barack Obama mi premurerei di revocargli immediatamente quel prestigioso riconoscimento. Se penso che Gandhi, il Mahatma Gandhi, l’assertore più tenace della nonviolenza nel secolo scorso, nonostante fosse stato candidato per ben cinque volte al Nobel tra il 1937 e il 1948, anno della sua uccisione, non lo ricevette mai mentre Barack Obama sì, non si sa per quali meriti, e sicuramente per il colore della sua pelle (quindi, diciamolo pure, per una forma di razzismo inverso), essendo il primo americano nero a raggiungere la Casa Bianca, sono assalito da indignazione.

Lo scrivo da obamiano convinto, da fervente sostenitore del presidente rimasto, devo dirlo con chiarezza, fortemente deluso dalla sua politica, soprattutto da come finora si è mosso, in maniera ondivaga e inconcludente, sulle vicende internazionali. Spero che si riscatti. Lo auguro a lui e a noi che in lui abbiamo riposto più di una speranza.

Qualcuno dovrà spiegarmi dove e come il democratico Barack Obama sia riuscito a differenziarsi radicalmente, in politica estera, dal suo predecessore, da quel George W. Bush cui va imputato, insieme al laburista inglese Tony Blair, il disastroso e nient’affatto risolutivo intervento in Iraq, così come d’altronde quello in Afghanistan.

No. Non ci sto. Non voglio starci. Sarà difficile che qualcuno riesca a convincermi che gli USA e la Nato siano stati animati, nel caso dell’intervento (“missione di pace” come oggi si chiamano le prove di forza armata e le devastazioni) in Libia, unicamente da motivazioni d’ordine “umanitario”, dal sostegno ai democratici giustamente insorti contro un criminale dittatore, un assassino patentato come Muammar Gheddafi, cui il nostro capo di governo, nella sua mediocrità e pusillanimità, ha addirittura baciato le mani, mani grondanti sangue, sottoponendosi a pubblica umiliazione nonché all’affronto di inchinarsi davanti a chi provocatoriamente gli ostentava le foto, incollate sulla giacca, di presunti martiri libici durante il breve periodo della colonizzazione italiana. E’ impossibile da parte mia accettare un distinguo.

Come mai si è tanto tempestivi nell’appoggiare con le armi e con le bombe i ribelli libici mentre non si è levato un dito, dico un dito, per il genocidio che non mi risulta si sia affatto estinto in Darfur? Nulla da dire su un altro genocidio, sempre in Africa, come quello in Uganda? Come mai non si è adoperato lo stesso metro di giudizio nei confronti dei tibetani, massacrati, ripeto massacrati, dalla furia omicida del governo di Pechino (a distanza di tre anni continuano ad essere comminate pene capitali per i fatti di Lhasa del 2008) con cui le amministrazioni di mezzo mondo continuano, anzi, a banchettare e stringere accordi economici (USA in testa)? E che dire della situazione, non certo rosea, idilliaca, nel Sudest asiatico, in quella parte del pianeta che non molto tempo fa si usava chiamare Indocina (Vietnam, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia) e che continua ad essere teatro di sopraffazioni, violenze, da parte di regimi dittatoriali e corrotti? E davanti alle provocazioni della Corea del Nord chiudiamo gli occhi e ci tappiamo le orecchie? Vogliamo passare in rassegna luoghi e tensioni? Quante e quali altre guerre, di questo passo, avremmo dovuto sostenere? Se in ogni circostanza fosse prevalsa la (il)logica, o, meglio, la follia, dell’intervento “a fin di bene”, del “bombardamento umanitario”, noi non ci saremmo da un pezzo, ridotti tutti a poltiglia e maceria. Ma, allora, su quali basi e pretesti (o pretestuose basi) si privilegia l’azione in un territorio anziché su un altro? E qual è la funzione dell’Onu se non meramente decorativa?

Se le cose stanno così non sarebbe più sensato chiudere del tutto l’Onu, per incapacità e indegnità, per sostituirla con un organismo più autorevole, magari da ipotizzare e realizzare? E, ancora, mi chiedo cosa abbiano prodotto di significativo e di tanto innovativo le guerre in Afghanistan e Iraq, al di là di morti, moncherini, zoppi, orfani, affamati, di ecosistema sconvolto, di altre specie animali (non se ne parla mai) distrutte? Ha forse risolto qualcosa la corda stretta al collo del feroce Saddam? Non mi pare che in quei luoghi non ci siano più attentati, che i fondamentalisti siano scomparsi, le donne siano rispettate e possano circolare senza burqa, la democrazia si sia pienamente affermata. No, la guerra non è la soluzione. Non può esserlo. L’averla scelta significa solo che Obama ha fallito, gravemente, drammaticamente fallito, così come, d’altronde, l’Onu e, più in generale, la politica nel senso più alto, nobile, del termine. E con loro abbiamo fallito tutti noi.

Di Francesco Pullia | Radicale

Libia/Guerra: Pensieri degli alleati sulla guerra… (importante)

zaratustra-23-segreti della guerra in libia

Libia/Guerra civile: Chi sono insorti contro Gheddafi? Per studioso è ancora un rebus

Chi sono davvero gli insorti contro Gheddafi? A distanza di oltre un mese dall'inizio della rivoluzione del 17 febbraio è ancora difficile dirlo, conferma l'accademico italo-libico Karim Mezran, direttore del Centro Studi Americani a Roma e docente alla Johns Hokpins University. "I nomi che si fanno sono sempre gli stessi - evidenzia Mezran, riferendosi ai rappresentanti più noti del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi - degli altri si dice che non li si vuole identificare per non metterli in pericolo, ma è dubbio che esistano effettivamente. Poi vi sono i transfughi e i disertori dal regime di Gheddafi, ma figure indipendenti non mi pare che siano emerse".

Non sono monarchici né fondamentalisti islamici - Mezran si dice scettico anche sull'effettiva esistenza di una componente monarchica fra gli oppositori del Raìs ("nessuno vuole la monarchia dopo 40 anni di repubblica"), mentre sulla presenza di quella islamica il quadro è più articolato. "In Cirenaica - osserva - è presente più che in Tripolitania, che pure ha avuto una re-islamizzazione negli ultimi 6-7 anni". Ma "altra cosa è parlare di radicalizzazione violenta del movimento", anche se vi sono ancora, precisa, alcune centinaia di elementi che erano vicini ad al Qaeda, che furono sconfitti e incarcerati da Gheddafi, e di recente rilasciati. In ogni caso non vi sarebbero rischi di radicalismo, secondo Mezran, se si organizzasse un movimento di Fratelli Musulmani e venissero democraticamente coinvolti in un governo di unità nazionale: "Ben venga la partecipazione - dice - tenerli fuori sarebbe una follia".

Rivolta pilotata da Francia e Regno Unito - Di certo di islamici non ce n'erano all'inizio delle rivolte, come non vi erano spinte alla divisione tra le componenti tribali. Prima cioè che "Francia e Gran Bretagna si inserissero per pilotare il movimento, che certo non potrebbe mai farcela da solo, per sfilar via la Libia all'Italia".

No alle divisione della Libia - Ma ora il rischio peggiore che si profila all'orizzonte, avverte, è quello di una divisione del Paese tra Tripolitania e Cirenaica: cosa che favorirebbe la nascita di due dittature - rileva ancora Mezran - ognuna delle quali sostenuta dalla paura del nemico interno e bloccata nello sviluppo a causa di una comune difficoltà di accesso e utilizzo delle risorse. Il migliore degli scenari possibili, conclude lo studioso, "è che la diplomazia internazionale convinca Gheddafi a lasciare e si crei un governo pluralista di unità nazionale: un governo che deve avere base a Tripoli, e che da lì sappia avviare un dialogo, su basi paritarie, con Bengasi".

Via | Tiscali

Sulla Libia non perdiamo la memoria

Per il premio Nobel per la pace Barack Hussein Obama quella di Libia è già la terza guerra. A parte i primati personali dell'attuale presidente Usa, il conflitto libico presenta certe analogie e altrettante diversità con la campagna dell'Africa Settentrionale durante la Seconda Guerra Mondiale. Anche allora le operazioni si svolsero prevalentemente lungo la fascia costiera. E anche allora ci furono offensive e controffensive. Gli Italo-tedeschi fecero tre offensive da occidente a oriente fra il settembre del 1940 e il giugno del 1942. I Britannici e le truppe del Commonwealth fecero altrettante controffensive da oriente a occidente fra il dicembre del 1940 e la fine del 1942. E vinsero loro.

Anche l'odierna guerra libica si svolge in modo analogo, ma con una sola offensiva governativa da Tripoli verso oriente seguita da una sola, presumibilmente decisiva controffensiva degli insorti da Tobruk verso occidente, con obiettivo Tripoli. Nel 1943 gli Americani arrivarono per ultimi a completare il successo dei Britannici, stavolta sono presenti fin dall'inizio. Allora tutto finì in Tunisia, con la sconfitta definitiva degli Italo-tedeschi, stavolta invece la Tunisia è il luogo dove tutte le rivoluzioni nordafricane e mediorientali sono iniziate, in quel giorno di dicembre del 2010 in cui il giovane Mohammed Bouazizi si suicidò col fuoco, infiammando non solo il suo corpo ma tutto il Mediterraneo. Anche le località sono le stesse, ben impresse nella memoria dei reduci che vissero quelle vicende belliche ma sempre più dimenticate dalla maggioranza degli Italiani.

Oggi tendiamo a scrivere Tobruk, Benghazi, Misratah, Ajdabiya perché così leggiamo sui giornali e perché abbiamo dimenticato Tobruch, dove il 28 giugno 1940 l'aereo del Governatore della Libia Italo Balbo fu abbattuto dal fuoco amico della contraerea dell'incrociatore «San Giorgio». E insieme a Tobruch ci stiamo dimenticando anche di Bengasi (oggi sede del Consiglio nazionale libico), di Misurata e di Agedabia che videro l'eroismo dei soldati italiani. Per non parlare di Leptis Magna dove nel 146 nacque l'imperatore Settimio Severo, di Sabratha col suo teatro romano e delle numerose ville romane ancora ricche di bei mosaici e di impianti termali, sparse sulla costa della Tripolitania.

E a proposito di memoria, cerchiamo di non dimenticare nemmeno i nostri ventimila connazionali che nel 1970 furono espulsi dalla Libia da quello stesso raiss che oggi vive assediato, nascosto in un bunker. Tornando al secondo conflitto mondiale, un manifesto propagandistico di allora raffigurava due soldati, un italiano e uno tedesco, che brutalizzavano un britannico catturato e sottomesso. La scritta è eloquente: «I saccheggiatori di Bengasi saranno messi in ginocchio!». Oggi è cambiato tutto: il britannico si è rialzato in piedi e bombarda la Libia, l'italiano gli fornisce le basi minacciando di toglierle e il tedesco sta a guardare.

(Tratto da Il Tempo)

di Giovanni Marizza

Marizza è Generale degli alpini, è stato vice comandante del corpo d’armata multinazionale in Iraq, capo del reparto politica militare dello stato maggiore della difesa, direttore dell’istituto alti studi della difesa e presidente di un gruppo di pianificazione della NATO. Fa parte del consiglio direttivo del comitato atlantico italiano ed è membro della società italiana di storia militare. Ha partecipato a missioni umanitarie in Africa, nei Balcani e in Medio Oriente ed è esperto in relazioni internazionali, gestione delle crisi e mantenimento della pace. Pittore, giornalista e scrittore, è autore di numerosi libri di carattere storico e sulle moderne operazioni di peacekeeping. Fra i vari riconoscimenti attribuitigli, spiccano la “Legion d’Onore” francese, la “Legione di Merito” degli Stati Uniti d’America e i premi internazionali "Bonifacio VIII" e "Giovanni

mercoledì 23 marzo 2011

Il web cambia la pubblicità e anche la tv diventa "smart"

Il Politecnico di Milano fa una fotografia dettagliata dei media italiani. Ecco come stanno cambiando tv, giornali e periodici al tempo di Facebook e dell'iPad. Il boom italiano dei "social media"

Il web cambia la pubblicità  e anche la tv diventa "smart"

C'È CHI ride e c'è chi piange. Ma soprattutto, c'è chi non sa se fare la prima o la seconda cosa. La fotografia scattata dal Politecnico di Milano ai media italiani è piena di promossi, bocciati e tanti rimandati che in futuro potrebbero però diventare la punta di diamante dell'intera classe. Rispetto all'anno precedente, periodo nero per i bilanci, nel 2010 torna il segno positivo e oltre allo strapotere della televisione in termini di introiti pubblicitari, anche il Web comincia a farsi sentire. Generando utili tali che, in prospettiva, potrebbero forse avere un ruolo non marginale. Infine i nuovi modelli di business tutti ancora da verificare, da Facebook alle "smart tv", al mondo delle applicazioni, che per ora valgono pochi spiccioli ma sui quali in tanti stanno scommettendo..   

Nel 2010 il mercato complessivo dei media, considerando sia la pubblicità sia i ricavi provenienti dai servizi a pagamento, cresce di circa tre punti percentuali (3,3%). Non è cosa da poco, se si tiene presente il crollo del 2009, pari a -10%. Stiamo parlando grosso modo di 17 miliardi di euro generati dalla tv (+5%), stampa (-4), radio (+12%), Internet (+13%), piattaforme mobili che includono ovviamente smartphone vari, iPad e concorrenti (+15%).  I pesi però, inutile dirlo, sono differenti. Il settore

televisivo vale da solo il il 55%, quello della carta stampata il 34, segue poi il Web con appena il 6,5%, le radio con il 3 e la telefonia mobile con il 1,5%. "A ben guardare il mondo dei media in Italia ha ancora oggi una struttura antica", sintetizza Andrea Rangone, che ha coordinato la ricerca del Politecnico. "E' uno dei pochi settori che negli ultimi 20 anni è cambiato pochissimo. Ora però all'orizzonte si stanno affacciando dei mutamenti profondi che riguardano tutti senza distinzioni".

La tv e le sue trasformazioni
Continua a dominare, anche se è in via di cambiamento. Il passaggio al digitale terrestre a fine anno ha riguardato il 64% della popolazione italiana. I soliti noti, Mediaset e Rai in primis, hanno occupato le frequenze digitali aumentando, o forse dovremmo dire duplicando, il numero di canali da 53 a 92. Cresce anche l'offerta di Sky sul satellitare che ha aggiunto 24 canali in più rispetto al 2009, siamo attualmente a 334, puntando sull'alta definizione. Ad oggi sono ben 36 canali in hd sul satellite contro i 7 che può vantare, per limiti di banda, il digitale terrestre. Buon per noi consumatori, che da questa competizione combattuta non solo sul fronte dell'offerta ma anche su quella dei prezzi degli abbonamenti e pay-per-view, abbiamo guadagnato. Tant'è che da una parte l'arricchimento dell'offerta contribuisce alla crescita della pubblicità sui canali digitali terresti e satellitari, siamo a un più più 26% (530 milioni di euro, pari al 14% della raccolta pubblicitaria), dall'altra la competizione sul prezzo tra Mediaset Premium e Sky genera una riduzione complessiva dei ricavi dei servizi a pagamento di quasi dieci punti percentuali.  

Anche il piccolo schermo diventa "smart"
Il Politecnico di Milano le chiama "connected tv", altri preferiscono il termine di "smart tv", preso in prestito da quello dei cellulari alla iPhone (smartphone), visto che son due tipologie di apparecchi che cominciano a condividere diversi aspetti. Si tratta di televisioni e decoder che, potendosi collegare al Web, consentono di fruire contenuti multimediali provenienti a quel mondo. E' un fenomeno nuovo, anzi forse il fenomeno tout court di questo 2011 per quel che riguarda il piccolo schermo. A fine 2010 erano circa 2.7 milioni le "connected tv" in Italia, ma solo una piccola parte, (meno del 10%) 180 mila, erano realmente collegate a Internet. Ora però si cominciano a vedere i primi modelli con wi-fi integrato e la nascita di negozi di applicazioni per televisori che dovrebbero rendere molto più immediata la fruizione via Rete dei tanti servizi che stanno nascendo. Non a caso sono fioriti anche i decoder esterni da collegare al televisore che fanno in pratica la stessa cosa. Da Apple Tv a TvBox di Tiscali, a Cubovision di Telecom Italia, a Hybrid BlobBox di Telesystem e in futuro a Google Tv. Secondo il Politecnico potrebbe diventare uno dei trend di maggiore interesse nei prossimi due o tre anni.

Il boom dei "social media" in Italia
"Sono quattro, a nostro avviso, i trend principali che hanno caratterizzato il mondo Internet nel 2010", racconta Andrea Rangone. "Due all'insegna dell'evoluzione rispetto al 2009 e due completamente nuovi. I due trend di natura evolutiva sono la diffusione dei social network e la proliferazione dei contenuti video sui siti di informazione. Quelli nuovi invece sono la trasversalità del modello di business delle applicazioni, passa dai cellulari alle tv fino ai pc, e l'imporsi di una nuova tipologia di dispositivi come i'iPad".

Partiamo dai social network o, come li chiama Rangone, dai "social media". Sono oltre 21 milioni gli utenti registrati ad almeno un social network, pari ad oltre l'80% di tutti gli utenti Internet attivi italiani. Il ruolo dominante è svolto da Facebook che, a fine 2010, ha sfiorato i 18 milioni di utenti arrivando a coprire oltre il 90% dei giovani italiani tra 0 e 24 anni ed il 63% di quelli tra i 25 ed i 30 anni. Il tempo speso sui social media mensilmente dalle persone è di circa 7 ore, solo gli australiani da questo punto di vista ci superano. Ed è un settore che si sta spostando su piattaforma mobile: oltre 4 milioni gli Italiani accedono ai social network tramite smartphone.

"Sono due, a nostro avviso, i punti interrogativi che riguardano i social network", puntualizza Andrea Rangone. "Il primo riguarda i ricavi, il secondo invece il ruolo svolto nei confronti degli altri media. Per quanto riguarda il primo punto, visto il modello essenzialmente basato sulla pubblicità, non si capisce bene la reale capacità di rendere interessante per gli investitori pubblicitari un ambiente dove i contenuti non sono controllabili (essendo user-generated).

Quell'universo parallelo chiamato Facebook
Un discorso a parte merita Facebook che va visto come un modo diverso di concepire Internet. Mondo complementare, se non alternativo, all'Internet marchiato Google. Il cuore è rappresentato infatti non più da un motore di ricerca, ma dalle relazioni sociali. "Proprio per questo Facebook sta diventando un ecosistema", continua Rangone. "Ecosistema in cui trovano una loro collocazione tutti i mercati sviluppati negli ultimi 18 anni nel mondo Internet tradizionale: quello della pubblicità, dei contenuti digitali, dei giochi, dell'e-commerce e via discorrendo". I ricavi quindi saranno diversificati e diversificabili, andando dagli introiti pubblicitari alla vendita di abbonamenti, di contenuti, di prodotti, servizi.  
    
I social network stanno però modificando anche la fruizione stessa del Web, che in Italia a volte diventa sinonimo di Facebook. Dall'altro le discussioni e i confronti fra gli utenti su queste piattaforme contribuiscono a creare interesse per i temi proposti da altri media, come i siti di informazione, incrementandone l'utilizzo. "Difficile capire quale sia l'effetto preponderante di Facebook sui media tradizionali", continua Rangone. "L'approccio di chi ha sviluppato progetti in questo ambito è stato al momento quello di "buttare il cuore al di là dell'ostacolo" credendo fortemente nel mezzo e nelle sue potenzialità, senza avere ancora la possibilità di misurare oggettivamente i risultati.

E Internet rischia di morire per mano degli app store
Il secondo fenomeno di natura evolutiva che ha caratterizzato il Web nel 2010 è la proliferazione dei Video che vengono utilizzati da qualsiasi editore presente online per arricchire la propria offerta. Gli utenti unici mensili che fruiscono in Italia di video online sono quasi 15 milioni, pari al 60% degli utenti Internet attivi. Nel 2010 si sono innescate anche due dinamiche completamente nuove: il lancio dell'iPad che "inventa" una nuova famiglia di terminali per l'accesso ai contenuti Internet, e la trasmigrazione dal mondo degli smartphone al mondo dei pc del concetto di Application Store. Questi due fenomeni, secondo il Politecnico di Milano, stanno portando ad un cambiamento del concetto stesso di Internet, che si allontana non poco da quello a cui siamo stati abituati fino ad oggi. Dando quindi ragione alle teorie di Chris Anderson, direttore di Wired, che quest'estate decreto la morte della Rete proprio per mano del crescente traffico legato ai negozi di applicazioni. Da noi gli editori hanno sviluppato 221 applicazioni diverse per smartphone e 126 per iPad legate a prodotti editoriali. Nel primo caso la parte del leone la fanno i periodici con il 44% delle applicazioni disponibili (ma sono solo il 4% dei periodici esistenti in edicola), seguiti dal 24% dei quotidiani (uno su due ha una sua applicazione), il 20% delle radio (presenti sugli app store nel 70% dei casi) e delle tv che sono ferme al 12% (8% delle emittenti italiane ha una sua app). A gennaio 2011, il 5% delle testate analizzate, quotidiani, periodici, canali tv e radio, ha un'applicazione appositamente dedicata su iPad. La maggior parte fa riferimento a testate cartacee visto che i tablet, stando al Politecnico, costituiscono una piattaforma particolarmente adatta all'esperienza di lettura di contenuti multimediali. In realtà nella maggior parte dei casi le applicazione prese in esame dalla ricerca si sono dimostrate una mera trasposizione su iPad della testata cartacea.

Il problema, sottolineano al Politecnico, è che i ricavi da questo mondo sono ancora ridicoli. "Bisogna però fare attenzione", spiegano. "La forza degli app store non sta tanto nei numeri attuali, ma nel cambiare paradigma. Si passa da un mondo dove tutto è gratuito come quello del Web, a un mondo dove le persone sono molto più disposte a pagare per i contenuti. E questa è davvero una mezza rivoluzione.

Il dramma dei periodici sul Web
L'Osservatorio ha svolto una specifica ricerca sull'editoria periodica. E a sorpresa vin fuori che solo il 52% delle testate periodiche ha una presenza sulla Rete con un sito proprio o condiviso con più testate. Di queste il 63% è percepito come di basso valore dall'utente e, spesso, senza alcun reale modello di business. Dato sorprendente visto il calo degli introiti pubblicitari sulla carta stampata che dovrebbe spingere gli editori ad essere più dinamici su Internet. "Anche perché", racconta Andrea Rangone, "attraverso la presenza online è possibile colmare il vuoto che intercorre fra l'uscita in edicola di un numero e la successiva, ed è possibile intercettare una nuova fascia di utenti differenziando i contenuti proposti rispetto all'edizione cartacea Infine, sul Web, è possibile gestire in modo più completo e strutturato il cliente che può essere conosciuto in modo molto più preciso". Occorre però inventare un prodotto differente, adatto alla Rete, che attragga e stimoli gli utenti. E a quanto pare è proprio qui che cominciano i problemi. E questo ci porta all'ultima parte della ricerca, una serie di consigli da seguire in questi tempi digitali tanto burrascosi per gli editori.

I ricavi della stampa online
I ricavi generati dal mondo Internet pesano sul mercato media complessivo solo il 22%. Troppo poco per compensare la riduzione dei mezzi più tradizionali (stampa in particolare) e per consentire di ripagare adeguatamente gli investimenti di coloro che operano online (fatta eccezione per Google "piglia tutto").  La soluzione? Secondo il Politecnico bisogna puntare sia su un incremento dei ricavi da pubblicità, sia sulla generazione di nuovi ricavi da servizi/contenuti pay.

Nel primo caso sfruttando i nuovi device come smartphone, tablet e mondo delle applicazioni, e lavorando contemporaneamente sulla creazione di un ecosistema che non sia vittima degli attuali metodi di calcolo della pubblicità sull'online. Si tratta in pratica di far comprendere il reale valore di questi nuovi canali di comunicazione agli investitori guardando oltre gli strumenti di misurazione oggi adottati. E questo significa passare attraverso lo sviluppo di competenze specifiche all'interno degli attori storici del mercato della pubblicità che oggi esistono in maniera marginale.

Le cinque regole per non annegare nella Grande Rete di domani
La ricerca del Politecnico di Milano sui media in Italia si chiude con cinque regole per riuscire a ritagliarsi uno spazio nel mercato di domani. Eccole di seguito.

Rifuggire dalla "one best way" e dall'effetto moda. Non esistono strade uguali per tutti e, soprattutto, non esistono strade più o meno di moda. Oggi basta sentire parlare qualunque analista, "esperto" o provider, e sembra che la soluzione a qualsiasi problema in ambito digitale sia rappresentata dall'iPad e dalle Applicazioni. Una strategia orientata solo a cavalcare questi nuovi paradigmi  -  per quanto rivoluzionari e rilevanti  -  non basta certo a creare le basi per un successo duraturo e rilevante nei mercati digitali.

Cercare la propria identità digitale dentro sé stessi. Ogni organizzazione deve guardarsi all'interno, comprendere il proprio dna in termini di risorse e competenze (testate, posizionamento, capacità di produzione di contenuti, base utenti e via discorrendo.) e, coerentemente, inventare una propria strategia digitale, senza seguire necessariamente la strada percorsa da altri. Il mondo digitale mette in crisi l'identità "tradizionale" degli editori, che non possono più fare riferimento ai modelli di business del passato, ma non l'insieme di risorse e competenze chiave sviluppate.

Fonti di ricavi nascoste. Sui mercati digitali non esistono esclusivamente i clienti/utenti del mondo analogico tradizionale, le "solite" value proposition, le "solite" fonti di ricavo (pubblicità o vendita di contenuti premium). Nel mondo digitale i mercati possono essere riconfigurati, i confini delle aree di business cambiati, le filiere ridefinite, le strategie reinventate. Esistono casi estremamente interessanti di aziende che sono riuscite ad inventarsi nuove forme di ricavo legata all'offerta di servizi innovativi, prima, neppure lontanamente immaginabili nel mondo analogico.

Puntare su una strategia multicanale. È sempre più evidente che il mondo digitale si sta articolando su una molteplicità di differenti piattaforme, in parte correlate, ma con una forte identità specifica: smartphone, tablet, pc, tv, applicazioni, web, carta. Occorre puntare su una strategia che sappia abbracciarle tutte, con elementi trasversali, ma anche peculiarità verticali. Ma multicanalità significa anche sapere sfruttare i canali digitali per portare valore al canale offline tradizionale. Non sono pochi gli esempi di imprese che sono riuscite a incrementare le copie vendute in edicola con una oculata strategia digitale.

Costruire un'organizzazione flessibile e fondata sulla sperimentazione. In un contesto completamente nuovo come quello digitale, essendo impossibile prevedere le evoluzioni e le azioni migliori, occorre puntare su un'organizzazione capace di sperimentare velocemente, di apprendere dalle esperienze  -  e anche dai fallimenti  -  per mettere a punto in modo tempestivo e flessibile nuove strategie e azioni.

"In sintesi", conclude Rangone, "possiamo riassumere tutti i punti sopra riportati in un'unica espressione: occorre un passaggio culturale da media company a "media entrepreneur". Passaggio che presuppone un cambiamento culturale non da poco in organizzazioni spesso grandi e complesse non molto abili nel sapersi adattare".



con repubblica.it

Milleproroghe/ Ok Cdm a dl su incroci stampa-tv, Fus e polizia Nel testo anche norma su tv locali e moratoria su nucleare

Roma, 23 mar. (TMNews) - Via libera del Consiglio dei ministri al
decreto correttivo del milleproroghe che contiene l'allungamento
della proroga di fine marzo del divieto di incroci proprietari
tra televisioni e quotidiani. Lo riferiscono fonti di governo.
Nel testo anche il ripristino dei fondi del Fus per la cultura,
le risorse per le forze dell'ordine e una norma sulle tv locali
con l'obiettivo di facilitare la liberazione delle frequenze in
vista della gara sulla banda larga mobile tra gli operatori
telefonici.

Anche la norma con la moratoria di un anno sul nucleare è stata
inserita in questo provvedimento.

MODA: BOOM VENDITE PER ZARA, UTILE INDITEX +32% A 1,73 MLD

(AGI/EFE) - Madrid, 23 mar. - Non si arresta l'ascesa della
multinazionale spagnola Inditex, la piu' grande del mondo,
proprietaria di marchi di abbigliamento molto famosi come Zara,
Massimo Dutti, Stradivarius, Oysho e Berscha: nel 2010 ha
conseguito un utile netto di 1.732 milioni di euro, in crescita
del 32% rispetto al 2009. In aumento anche le vendite del 13%,
con un fatturato di 12.527 milioni di euro, e una crescita
dell'Ebitda del 25% (a 2.966 milioni di euro). Nel 2010, sono
stati inaugurati anche 437 negozi, con un totale di oltre 5.000
in 77 paesi del mondo. Il fatturato piu' importante e' stato
conseguito da Zara, essendo stato pari a 8 miliardi (+14%). Nel
2010, hanno spiegato, i risultati positivi sono stati
conseguiti grazie alla forte espansione in mercati come quello
della Cina. (AGI)

martedì 22 marzo 2011

Giappone/Post-Sisma: L’incubo nucleare senza fine; Radiazioni in mare

A 11 giorni dal sisma/tsunami che ha devastato il Giappone del nordest, prosegue la lotta per la messa in sicurezza dei 6 reattori della centrale di Fukushima 1, collegati oggi tutti all'alimentazione esterna, mentre due scosse di magnitudo 6.3 e 6.2, registrate nel pomeriggio, hanno interessato sempre le stesse aree.

Vapore radioattivo (non è chiaro in che misura) è fuoriuscito dai reattori 2 e 3, ma il portavoce del governo Yukio Edano ha detto che, malgrado l'allarme cibo di ieri, non sarà estesa la ''zona di esclusione'' intorno all'impianto centrale. I livelli di allerta sono notevolmente aumentati visto che ''materiale radioattivo'' è stato rilevato nell'acqua di mare della zona. Le concentrazioni di iodio 131 e di cesio 134 viste nell'acqua marina presso l'impianto, erano ieri sera 126,7 volte e 24,8 volte, rispettivamente, più elevate dei livelli massimi di legge.

Tracce di cobalto 58 sono state rilevate anche in un campione prelevato nei pressi dell'impianto. Il ministero della Scienza e Tecnologia ha precisato che provvederà a esaminare l'acqua nel raggio di 10 e 30 km dalla centrale, ma è verosimile che a breve siano emesse limitazioni alla pesca. La Tepco, che gestisce la struttura e che oggi si è fatta carico ancora una volta di ogni responsabilità, ha parlato di ''progressi nelle operazioni'' nel giorno in cui è in arrivo dalla Cina un'autopompa con braccio articolato alto 62 metri.

Il ministro dell'Industria, Banri Kaieda, ha parlato oggi di una situazione ancora 'difficile', scusandosi dopo essere stato accusato dalla stampa di aver minacciato punizioni contro i pompieri che esitavano a intervenire a Fukushima, dove i livelli di radioattivi sono pericolosamente alti. ''Se le mie parole hanno offeso i pompieri, allora mi voglio scusare'', ha detto Kaieda che si è rifiutato di confermare di aver profferito le minacce attribuitegli dalla stampa. Il numero ufficiale dei morti sono 9.079, mentre i dispersi sono poco più di 12.645.

Con | Agenzie

Libia/Guerra: Magistrato Nicola Magrone, partecipazione Italia viola Costituzione

Campobasso, 22 MAR - Nella partecipazione italiana ''alla guerra in Libia vi sono gravi segnali di violazione dell'art.11 della Costituzione''. Lo ha detto il magistrato Nicola Magrone, presidente della fondazione onlus 'Popoli e Costituzioni'. ''Di fatto - ha detto - l'Italia e' in guerra ma non risulta alcuna 'deliberazione delle Camere' ne' la dichiarazione dello 'stato di guerra' da parte del presidente della Repubblica, come impone la Costituzione. Ormai ci si e' abituati; nemmeno ci si accorge dello svuotamento della Carta pur in un mare di retorica difesa dei suoi principi''.

Via | Ansa

MERIDIANA: AL VIA DA OGGI PROMOZIONE 'ESTATE IN SARDEGNA'

Roma, 22 mar. - (Adnkronos) - Al via la promozione "Estate in
Sardegna" di Meridiana Fly. La compagnia offre tariffe in promozione
sui collegamenti avviati dallo scorso dicembre. Fino al 30 aprile,
infatti, Meridiana fly offre 33.000 posti a partire da 33 euro per chi
vuole prenotare la propria "Estate in Sardegna" sui voli da Firenze,
Napoli, Torino a Olbia e fra Venezia e Olbia o Cagliari. I biglietti,
acquistabili da oggi, potranno essere prenotati sui voli operativi dal
1°giugno al 30 settembre 2011.

      In occasione delle prossime festivita' pasquali e week-end di
maggio, nonche' coerentemente alle analisi previsionali sui flussi
turistici verso la Sardegna, Meridiana fly ha incrementato l'offerta
di voli da Milano, Roma, Bologna e Verona.

      Meridiana fly collega la Sardegna con oltre 180 voli settimanali
in partenza da tutti i principali aeroporti nazionali: Bologna,
Firenze, Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia e Verona. Voli e viaggi
sono in offerta sul sito www.meridiana.com, contattando il Call center
al numero 892. 928 o rivolgendosi alla propria agenzia di fiducia
collegata la sistema WTS.

Libia/Guerra: Il trucco libico; Per capire la guerra francese in Libia

la guerra di Obama e sarkozy - il petrolio nelle venne

Se ho capito bene, le cose stanno così.

In Libia, c’è un governo.

A me, questo governo non ha mai fatto particolare simpatia, perché conosco storie non belle di migranti che sono passati per quel paese, e perché comunque un governo dopo quarant’anni al potere inizia sempre ad andare a male. Inoltre, da traduttore, ho spesso a che fare con chi lavora in Libia, e ho raccolto molte lamentele sulla natura piuttosto capricciosa e imprevedibile dell’amministrazione.

Ma queste mie considerazioni emotive non c’entrano con quelle del diritto. Il governo della Libia èindubbiamente legittimo nel senso più freddo, cioè può emettere passaporti riconosciuti in altri paesi, e l’uomo più in vista del paese – che curiosamente non riveste alcun incarico governativo – viene ricevuto con sorrisi e strette di mano da altri capi di stato. Tra cui non solo Silvio Berlusconi, ma anche Obama e Sarkozy.

In particolare, il nostro paese è vincolato al governo della Libia da un “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista” firmato “dall’onorevole Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi e dal leader della Rivoluzione, Muammar El Gheddafi”.

Tale trattato garantisce

“il rispetto dell’uguaglianza sovrana degli Stati; l’impegno a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica della controparte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite; l’impegno alla non ingerenza negli affari interni e, nel rispetto dei princìpi della legalità internazionale, a non usare né concedere l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile nei confronti della controparte; l’impegno alla soluzione pacifica delle controversie.”

Un trattato che nel giro di qualche ora, ha fatto la stessa fine che fece nel 1915 il trattato che vincolava l’Italia a non pugnalare alla spalle l’Austria. Per motivi espressi con disarmante sinceritàda Italo Bocchino.

Il legittimo governo libico è stato oggetto di una vasta ribellione armata. Su questa ribellione, si è detto di tutto – “è al-Qaida”, “no, sono i giovani cinguettatori di Twitter”, “no, sono i fedeli della vecchia monarchia”.

Non solo io ignoro chi siano i ribelli; lo ignorano anche tutti gli editorialisti che pure li esaltano. Due ipotesi sembrano comunque abbastanza ragionevoli. Ciò che i ribelli appartengano  ad alcuni clan tradizionali esclusi dalle rendite petrolifere; e che esprimano il fortissimo risentimento di gran parte della popolazione contro l’immigrazione dall’Africa Nera, tanto che la rivolta è stata accompagnata da alcuni sanguinosi massacri di migranti.

La ribellione ha però incontrato, a quanto pare, l’ostilità della maggioranza del paese e certamente delle sue forze armate, e nel giro di alcuni giorni ha subito alcune decisive sconfitte.

Tutto questo è avvenuto in concomitanza con due sommosse nel mondo arabo – quella delloYemen e quella del Bahrein.

In un giorno, i cecchini dell’esercito yemenita hanno ucciso 72 manifestanti (non sappiamo quanto rappresentativi della società yemenita nel suo complesso), mentre nel Bahrein è intervenuto direttamente l’esercito saudita per sopprimere una rivolta promossa dalla schiacciante maggioranza della popolazione. Anche gli Emirati Arabi, che partecipano alla coalizione anti-Gheddafi, hanno contribuito alla repressione della rivolta in Bahrein con “ almeno 500 poliziotti“.

Mentre cadevano le ultime fortezze dei ribelli libici, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1973, che  esige dalla Libia il cessate il fuoco e la fine di “attacchi contro i civili”.

E qui, se ho capito, sta tutto il trucco.

In Libia, lo scontro non è infatti – come invece in Tunisia, Yemen, Bahrein o Egitto – tra le forze armate da una parte, e masse di manifestanti pacifici dall’altra. In Libia, i ribelli hanno armi, carri armati e persino un caccia (che hanno esibito tra l’altro subito dopo l’imposizione della No Fly Zone).

Ma non appartenendo a un esercito regolare, potrebbero essere definiti in effetti dei “civili”. Anche quando vengono addestrati da truppe straniere. Nei lanci di agenzia ripresi daRepubblica, ad esempio, leggiamo stamattina:

“11:49
Stampa Gb: Forze speciali inglesi a fianco dei ribelli da settimane

Centinaia di soldati delle forze speciali britanniche Sas sarebbero in azione da almeno tre settimane in Libia al fianco dei gruppi ribelli, afferma oggi il quotidiano Sunday Mirror. Due unità di forze speciali soprannominate “Smash” per la loro capacità distruttiva, avrebbero dato la caccia ai sistemi di lancio di missili terra aria di Muammar Gheddafi (i Sam 5 di fabbricazione russa) in grado di colpire bersagli attraverso il Mediterraneo con una gittata di quasi 400 chilometri. Affiancate da personale sanitario, ingegneri e segnalatori, le Sas hanno creato posizioni sul terreno in modo da venire in aiuto in caso in cui jet della coalizione fossero stati abbattuti durante i raid.”

La risoluzione dell’ONU evita di citare o definire l’avversario armato dell’esercito libico, e non dice nulla su come l’esercito libico debba comportarsi nei riguardi di combattenti nemici.

L’omissione è talmente evidente, che possiamo immaginare che i suoi autori abbiano voluto unafatale ambiguità.

Se “civile” vuol dire chi non porta armi, allora si potrebbe chiedere all’esercito – e anche alla parte avversa – di lasciare in pace i civili.

Ma se “civile” vuol dire combattente, nemico dell’esercito governativo…

se l’esercito libico cessa di combattere con le armi questo particolare tipo di “civili”, sarà costretto a subirne passivamente gli attacchi armati; cioè è destinato alla sconfitta militare.

Cosa che nessun esercito potrebbe accettare.

Ma se l’esercito continua a combattere, verrà accusato di violazione della risoluzione. E quindi verrà annientato ugualmente, ma dall’estero.

Non c’è via di uscita.

E così leggiamo tra i lanci di agenzia di Repubblica di stamattina qualcosa che non appare affatto nel testo della risoluzione, ma che sospettiamo fosse nella mente dei suoi autori:

09:03
Il generale Clark: “Tutto lecito per difendere i civili”

“La risoluzione dell’Onu è nettissima riguardo all‘obiettivo finale: sbarazzare la Libia del dittatore Muhammar Gheddafi. Per questo il Consiglio di sicurezza ha autorizzato il ricorso a ogni mezzo, salvo l’occupazione militare del Paese. In breve tutto è lecito, o quasi”.

Lo dice a Repubblica il generale Wesley Clark, ex comandante supremo delle forze Nato durante la guerra del Kosovo.”

Comunque, la risoluzione semplicemente impone il divieto di voli sul territorio libico, impone un embargo sulle armi e congela i beni di alcuni esponenti del governo libico.

Il governo libico dichiara subito di accettare in pieno la risoluzione e chiede l’invio di osservatori, e infatti non ci risultano voli libici, militari o non, dopo la sua approvazione.

Alcune ore dopo l’approvazione, Sarkozy convoca a Parigi un vertice cui partecipa anche Silvio Berlusconi. Il quale, prima di partire, ha promesso a quanto pare al proprio consiglio dei ministri dinon lanciare l’Italia in avventure pericolose, tali da attirare su questo paese centinaia di migliaia di profughi o qualche missile.

Parola d’imprenditore…

Il vertice finisce verso le 15. A questo punto, uno si immagina una delegazione che vada in Libia, spieghi in modo chiaro le richieste, risolva in maniera diplomatica i conflitti, apra le vie agli aiuti umanitari. Dando ovviamente qualche giorno di tempo per permettere a un esercito non certamente prussiano di coordinarsi e di capire cosa deve fare.

No.

Due ore dopo la fine del vertice e poche ore dopo l’approvazione della risoluzione 1973, gli attaccanti dichiarano che la Libia “non ha rispettato” le loro istruzioni: in cosa consista tale violazione, non ci è dato sapere; comunque a partire dalle 17.40, scaricano sulla Libia un intero arsenale.

Tra cui anche 110 missili Tomahawk, prodotti dalla Raytheon Company: ricordiamo che Obama ha nominato ben tre dirigenti della Raytheon a funzioni chiavi dell’amministrazione degli Stati Uniti, tra cui il signor William Lynn, che passa direttamente dallla gestione della lobby ufficiale a Washington della Raytheon, al posto di vicesegretario alla Difesa con il potere di decidere le spese che farà il Pentagono.

Un solo missile Tomahawk costa 1,5 milioni di dollari, comprensive di ammortamento delle spese di ricerca.

Moltipicato per 110 farebbe 116 milioni di Euro. All’incirca quello che costano allo Stato italiano15.000 alunni del sistema scolastico pubblico per un anno (dati Ocse 2008, citati in Mila Spicola, La scuola s’è rotta. Lettere di una professoressa, Einaudi, p. 172).

Io non so per quale motivo Francia, Inghilterra e Stati Uniti (l’Italia non conta) abbiano deciso di attaccare la Libia. Non so per quale motivo, fino a  qualche mese fa accoglievano Gheddafi con tutto il suo pittoresco seguito e oggi lo vogliono morto.

Il petrolio ovviamente c’entra; ma era necessaria proprio una guerra? Si sarebbe speso infinitamente di meno per corrompere quattro politici, o per pagare il medico di Gheddafi a mettergli il veleno in una bevanda.

Le continue guerre americane, quasi sempre contro nazioni indifese, vengono in genere spiegate con considerazioni geopolitiche: vogliono, ad esempio, il petrolio iracheno o quello libico, prima che cada in mano ai cinesi.

Credo che l’ipotesi sia perfettamente ragionevole, ma non escluda un’altra – cioè che il sistema socio-economico statunitense abbia bisogno delle guerre in sé, perché finanziano il sistema militare-industriale, perché danno un senso alla vita di milioni di persone, dal clandestino messicano che vende panini ai muratori della base militare nel deserto dello Utah, all’insegnante di arabo sovvenzionato dal Pentagono per formare persone che si occupino della “sicurezza nazionale”.

Può darsi che gli Stati Uniti riusciranno a scippare il petrolio libico ai concorrenti; ma sappiamo con certezza che la Raytheon è riuscita a guadagnare 116 milioni di Euro in un pomeriggio con questa storia.

Miguel Martinez
Fonte: http://kelebeklerblog.com
Link: http://kelebeklerblog.com/2011/03/20/il-trucco-libico/

Libreria/Mary Pace: Libro rivela che Gheddafi è figlio di un ufficiale italiano

mary_pace - il segreto di gheddafi figlio di ufficiale italiano Roma - Muhammar El Gheddafi sarebbe il figlio naturale di un ufficiale italiano che combatteva  in Libia, nella Sirte. Il piccolo venne con il padre in Italia, a Venezia, quando aveva pochi mesi, e sarebbe stato battezzato. A rivelarlo, in un libro in uscita lunedì, è la giornalista e scrittrice Mary Pace che ebbe le informazioni sulle origini italiane di Gheddafi da tre fonti diverse, che si incrociano perfettamente negli elementi centrali.

L'ufficiale italiano di stanza in Libia mise incinta la ragazza, la madre di Gheddafi. Il bambino, quando aveva 8-9 mesi venne portato in aereo dal padre a Venezia e battezzato da un sacerdote che non ha mai né smentito, né confermato il fatto.

Mary Pace, scrittrice investigativa tesse la rete di questerivelazioni in un libro intitolato ''Il segreto di Gheddafi'' edito da BookSprint edizioni. Da tutte e tre le fonti Mary Pace ha avuto conferme dirette. “Gheddafi è cattolico e di padre italiano - scrive la Pace - Questa è la frustrazione di Gheddafi, non aver avuto il padre accanto a se”. “Ora si spiegano anche le protezioni che ha avuto dai servizi italiani''.

Via | ANSA

Libia/Guerra: Così la comunità internazionale crea Stati figli e figliastri (Da leggere Asslt)

L’Onu ha autorizzato i raid aerei sulla Libia. Francia e Gran Bretagna sono già pronte a far intervenire i loro caccia perché abbattano quelli di Gheddafi che bombardano i rivoltosi libici, e non è escluso che l'Italia metta a disposizione della Nato le sue basi aeree. Non è una dichiarazione di guerra alla Libia, non sia mai, oggi ci si vergogna di fare la guerra e si preferisce chiamarla "operazione di peace keeping" a difesa dei "diritti umani".

Salta definitivamente il principio internazionale di "non ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano" insieme al diritto di Autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti i Paesi del mondo, compresi quelli che stanno per intervenire in Libia. Qui siamo in una situazione diversa dagli interventi in Iraq nel 1990 e nel 2003 e in Afghanistan nel 2001. Nel primo conflitto del Golfo, l'Iraq aveva aggredito il Kuwait, uno Stato sovrano, sia pur fasullo creato nel 1960, esclusivamente per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. L'intervento quindi era legittimo, anche se il modo con cui fu condotta quella guerra fu bestiale perché gli americani, pur di non affrontare fin da subito, sul terreno, l'imbelle esercito iracheno (che era stato battuto perfino dai curdi, in quel caso Saddam fu salvato dalla Turchia il grande alleato Usa nella regione) e correre il rischio di perdere qualche soldato, bombardarono per tre mesi le principali città irachene facendo 160mila morti civili, fra cui 32.195 bambini (dati del Pentagono).

Nel 2003 c'era il pretesto delle "armi di distruzione di massa". Si scoprì poi che queste armi, che Stati Uniti, Urss e Francia gli avevano fornito, Saddam non le aveva più, ma intanto gli americani hanno ridotto l'Iraq a un loro protettorato dove è in corso una feroce guerra civile fra sciiti e sunniti che provoca decine e a volte centinaia di morti quasi ogni giorno tanto che in Occidente non se ne dà più notizia. In Afghanistan si voleva prendere Bin Laden, ma dopo dieci anni la Nato è ancora lì e occupa quel Paese, avendo provocato, direttamente o indirettamente, 60mila morti civili (e nessun Consiglio di sicurezza si è mai sognato di imporre una "no fly zone" ai caccia americani che, per battere gli insorti, bombardano a tappeto cittadine e villaggi facendo ogni volta decine di vittime civili, come sta facendo Gheddafi in Libia).

La situazione è invece identica all'intervento Nato in Serbia dove, all'interno di uno Stato sovrano, c'era un conflitto fra Belgrado e gli indipendentisti albanesi, foraggiati dagli americani, del Kosovo che della Serbia faceva parte. Noi, che non abbiamo baciato la mano a Gheddafi, che non abbiamo permesso ai suoi cavalli berberi di esibirsi alla caserma Salvo d'Acquisto e al dittatore di volteggiare liberamente per Roma avendo al seguito 500 troie, e che parteggiamo per i rivolto-si di Bengasi, siamo assolutamente contrari a qualsiasi intervento armato in Libia. Per ragioni di principio e perché questi interventi internazionali sono del tutto arbitrari. Dividono gli Stati in figli e figliastri.

Nessuno ha mai proposto una "no fly zone" in Cecenia dove le armate russe di Eltsin e dell' "amico Putin" hanno consumato il più grande genocidio dell'era moderna: 250 mila morti su una popolazione di un milione. Nessuno si sogna di intervenire in Tibet (chi si metterebbe mai, oggi, contro la succulenta Cina?) o in Birmania a favore dei Karen. E così via. In ogni caso bisogna essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni. Se l'Italia presterà le proprie basi per l'intervento militare in Libia non potrà poi mettersi a "chiagne" se Gheddafi dovesse bombardare Brindisi, Bari, Sigonella, Aviano o una qualsiasi delle nostre città. Gli abbiamo, di fatto, dichiarato guerra, è legittimato a renderci la pariglia.

Via | Micromega | di Massimo Fini

Mozione sulla Libia & Dieci tesi contro l’intervento militare

Condivido molte delle argomentazioni di Paolo Flores D’Arcais sulla vicenda libica, ma non credo proprio – e per la verità il direttore di Micromega non pone la questione – che riuscirò votare una qualsiasi mozione insieme con chi ha prima baciato l’anello di Gheddafi e ora ha indossato la  tuta mimetica accodandosi goffamente e tardivamente  alle motivazioni dei francesi e degli inglesi, per non parlare dei dubbi che stanno attraversando la Casa Bianca, la cancelleria tedesca, i governi indiano, cinese, russo.
Certo, si tratta di motivazioni assai diverse tra loro, ma messe insieme ci danno il quadro del caos, dell’assenza di coordinamento, del deficit strategico e delle possibili conseguenze. Non si tratta neppure di ridurre una grande questione internazionale alle dimensioni della bottega italica: proprio per questo non si può condividere una mozione frutto dell’opportunismo, dell’improvvisazione, delle divisioni interne a una maggioranza che, dopo aver steso tappeti rossi davanti al dittatore, assume ora la maschera di capitan Fracassa ed elenca nomi e numeri dei Tornado in partenza. Non mi meraviglierei neppure che, alla fine, la Lega accettasse di votare a favore in cambio di un altro volantino sul federalismo e di qualche norma capestro contro gli immigrati, e magari anche contro i libici che chiederanno asilo politico. Ormai ne abbiamo viste davvero di tutti i colori! Altro che gli improvvisati comizi sui diritti umani e civili…
Ho una grande invidia per chi non ha mai dubbi, per chi saluta con gioia ed entusiasmo gli interventi militari e per chi, al contrario, ritiene che esista sempre un’altra possibilità, ma nel frattempo gli insorti continuano a morire come mosche e non possono aspettare certo i nostri tempi che, per altro non hanno mai coinciso con i loro, neanche quando chiedevano aiuto. Eppure, nonostante queste considerazioni, non voterò le loro risoluzioni, neppure se saranno condivise da una parte o da quasi tutte le opposizioni parlamentari. Non le voterò perché, sin dall’inizio, si è scartata la strada del sostegno pieno alle opposizioni, non si è neppure tentata una azione coordinata e combinata di boicottaggio, si è sbandierata l’unità d’azione sotto le bandiere dell’Onu, ma, dopo pochi istanti, questa unità era già andata in frantumi, non si è neppure fatto finta di dare un sostegno a chi si oppone ai dittatori e ai fondamentalisti in altre aree, non si sono mai applicate le risoluzioni sulla questione palestinese.
Tra chi sostiene l’intervento, così come si è configurato in queste ore, e chi ritiene sempre e comunque sbagliato ogni intervento, ci potrà essere spazio anche per chi nutre dei dubbi sulle modalità di una simile missione?
Per queste ragioni, se  e quando il governo chiederà una ratifica della missione già in atto, non la voterò e ispirerò il mio atteggiamento a questo  breve decalogo che Flavio Lotti ha preparato per la Tavola della Pace e che mi permetto di riportare come un utile contributo alla discussione in corso:

Dieci tesi sull’intervento militare
1.    Una cosa è la Risoluzione dell’Onu, un’altra è la sua applicazione. Una cosa è difendere i diritti umani. Un’altra è scatenare una guerra.
2.    La Carta dell’Onu autorizza missioni militari (art. 42), non qualsiasi missione militare.
3.    L’iniziativa militare contro Gheddafi è stata assunta in fretta da un gruppo di paesi che hanno fatto addirittura a gara per stabilire chi bombardava per primo, che non ha nemmeno una strategia comune, che non ha un chiaro comando unificato ma solo una forma di coordinamento, con una coalizione internazionale che si incrina ai primi colpi e che deve già rispondere alla pesante accusa di essere andata oltre il mandato ricevuto. Si poteva iniziare in modo peggiore?
4.    Da tempo si doveva intervenire in difesa dei diritti umani. Lo abbiamo chiesto ripetutamente mentre l’atteggiamento del governo italiano e della comunità internazionale e, diciamolo, di tanta parte dei responsabili della politica oscillava tra l’inerzia e le complicità con Gheddafi. Se fossimo intervenuti prima, non saremmo giunti a questo punto.
5.    E ancora oggi, mentre si interviene in Libia non si dice e non si fa nulla per fermare la sanguinosa repressione delle manifestazioni in Baharein, nello Yemen e negli altri paesi del Golfo. L’Italia e l’Europa, prima di ogni altro paese e istituzione, devono mobilitare ogni risorsa disponibile a sostegno di chi si batte per la libertà e la democrazia.
6.    Ricordiamo che la risoluzione dell’Onu 1973 indica due obiettivi principali: l’immediato cessate il fuoco e la fine delle violenze contro i civili. Qualunque iniziativa intrapresa in attuazione di questa risoluzione deve essere coerente con questi obiettivi. Ovvero deve spegnere l’incendio e non alimentarlo ulteriormente, deve proteggere i civili e non esporli a una nuova spirale della violenza. Gli stati che si sono assunti la responsabilità di intervenire militarmente non possono permettersi di perseguire obiettivi diversi e devono agire con mezzi e azioni coerenti sotto il “coordinamento politico” dell’Onu previsto dalla Risoluzione 1973.
7.    Ad attuare quelle decisioni ci doveva essere un dispositivo politico, diplomatico, civile e militare sotto il completo controllo dell’Onu. Quel dispositivo non esiste perché le grandi potenze hanno sempre impedito all’Onu di attuare quanto previsto dall’art. 43 della sua Carta e di adempiere al suo mandato. La costruzione di un vero e proprio sistema di sicurezza comune globale non è più rinviabile.
8.    Non è questione di pacifismo. La storia e il realismo politico ci insegnano che la guerra non è mai stata una soluzione. La guerra non è uno strumento utilizzabile per difendere i diritti umani. La guerra non è in grado di risolvere i problemi ma finisce per moltiplicarli e aggravarli.
9.    L’Italia ha un solo grande interesse e una sola grande missione da compiere:fermare l’escalation della violenza, togliere rapidamente la parola alle armi e ridare la parola alla politica, promuovere il negoziato politico a tutti i livelli per trovare una soluzione pacifica e sostenibile. L’Italia deve diventare il crocevia dell’impegno europeo e internazionale per la pace e la sicurezza umana nel Mediterraneo. Per questo l’Italia non doveva e non deve bombardare. Per questo deve cambiare strada. Subito.
10. Ricordiamo nuovamente quello che sta scritto nella Costituzione italiana.  Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”

Vorremmo solo ricordare che la Tavola della Pace ha fatto sentire la sua voce contro i dittatori corrotti e contro ogni forma di terrorismo, quando altri, troppo, fingevano di non vedere per non compromettere le opportunità finanziarie e commerciali e i conseguenti opportunismi politici e diplomatici. Non vorremmo che, anche in Libia, dopo l’Afghanistan e l’Iraq, una missione di pace si trasformasse, nel silenzio e senza ratifica di alcun tipo, in una e vera e propria missione di guerra.
In questi giorni siamo scesi in piazza  per difendere  i valori essenziali che ispirano la nostra carta costituzionale, non vi è dubbio che l’articolo 11 rappresenti uno dei pilasti sui quali si regge l’edificio. Comunque la si pensi, sarà il caso di ricordarlo e di farlo anche dentro le aule del Parlamento.

Via| Micromega | Giuseppe Giulietti

Libia/Guerra: L'Italia tradisce sempre - Marco Travaglio

Per capire la “No Fly Zone”

"No Fly Zone" in italiano vuol dire una zona in cui non si può volare. Larisoluzione 1973 dell'ONU si riferisce a questo. La sua applicazione in Libia è per lo meno estesa, presa un po' alla larga. Il primo intervento francese infatti ha colpito dei carri armati volanti vicino a Bengasi. Il carro armato volante è un'invenzione libica, la solita arma segreta dei dittatori, come la V2 di Hitler, il primo missile a distanza.

Sarkozy non si è fatto sorprendere. Gli americani e gli inglesi hanno poi bombardato raso terra Tripoli e Sirte, in particolare si sono concentrati sul bunker volante di Gheddafi. Un'applicazione rigorosa della "No Fly Zone".

Khamis, un figlio di Gheddafi, sarebbe stato ucciso a Tripoli. Testimoni oculari lo hanno visto mentre volava come Icaro nei cieli della Tripolitania a dispetto delle indicazioni delle Nazioni Unite. Se un ospedale si alzerà in volo, un missile tomahawk colpirà implacabile.

Via | Beppegrillo.it

HAARP uma arma che provoca terremoti: fantasia o realtà?

La tecnologia è come un paio di scarpe magiche ai piedi di una bambola meccanica dell’umanità. Dopo che la molla è stata caricata dagli interessi commerciali, la gente può solamente danzare, volteggiando vorticosamente al ritmo che le scarpe stesse hanno stabilito». Queste efficaci parole sono tratte dal libro: «Guerra senza limiti», scritto da due colonnelli dell’aeronautica Cinese, Qiao Liang e Wang Xiansui.
Nel testo i due militari cinesi esaminano l’impatto delle nuove tecnologie sul pensiero strategico, sul terrorismo e su tutto ciò che concerne la guerra in questo XXI secolo.

Essi accennano due volte alla possibilità che un Paese possa scatenare artificialmente le forze della Natura, usandole come «armi non tradizionali» per mettere in ginocchio il nemico. Per esempio sconvolgendo il clima e il regime delle piogge. Tutto ciò sembra fantascienza, ma Qiao e Wang hanno forse ragione nell’includere la «guerra ecologica» tra le 24 forme di conflitto da essi elencate.

Ebbene il 15 gennaio 2003, il sito della «Prava» ha ospitato un inquietante articolo, scritto dal deputato ucraino Yuri Solomatin, in cui si esprime preoccupazione per gli esperimenti condotti dagli americani in Alaska, dove dal 1994 si sta portando avanti il programma HAARP, High Frequency Active Auroral Research Program, cioè «programma di ricerca attiva aurorale con alta frequenza». In pratica, una selva di enormi antenne eretta nel bel mezzo della foresta boreale nordamericana. Solomatin ha voluto richiamare l’attenzione dell’Ucraina su un problema già sollevato dai Russi.

Quelle antenne sono forse il prototipo di un’arma «geofisica» americana, capace di condizionare il clima di continenti alterando con microonde la temperatura o l’umidità? Il deputato ucraino dà credito al sospetto che i disastri naturali intensificatisi ultimamente siano da imputare ai sempre più assidui test del sistema HAARP.
Anche in Germania, le inondazioni dello scorso anno sono sembrate a qualcuno troppo disastrose. Così due giornalisti tedeschi, Grazyna Fosar e Franz Bludorf, hanno vagheggiato in un loro articolo, pubblicato sul numero 120 del bimestrale «Raum und Zeif», che i cicloni e gli allagamenti che hanno piegato l’Europa Centrale possano essere legati all’HAARP.

La Russia aveva dato l’allarme come riporta l’agenzia Interfax dell’8 agosto 2002, ben 90 parlamentari della Duma di Mosca avevano firmato un appello indirizzato all’ONU in cui si chiedeva la messa al bando di questi esperimenti elettromagnetici. Un mese più tardi erano saliti a 220 i deputati russi a favore dell’appello. D’altronde vi era stato un rapporto della Duma che accusava esplicitamente l’America. Parole schiette e scomode: «Sotto il programma HAARP, gli USA stanno creando nuove armi geofisiche integrali, che possono influenzare gli elementi naturali con onde radio ad alta frequenza. Il significato di questo salto qualitativo è comparabile al passaggio dall’arma bianca alle armi da fuoco, o dalle armi convenzionali a quelle nucleari».

Il sito ufficiale http://www.haarp.alaska.edu/ ci presenta un’innocente stazione scientifica dove gli scienziati sondano via radio quelle regioni dell’alta atmosfera preannuncianti lo spazio esterno, cioè la ionosfera e la magnetosfera. I titoli dei paragrafi esplicativi del sito sono peraltro scritti a mo’ di domande («Cos’è HAARP?», «Perché è coinvolto il Dipartimento della Difesa?», ecc.) Nel paragrafo titolato «HAARP è unico?», ci si affretta a precisare che anche altre nazioni studiano la ionosfera, come la stessa Russia o i Paesi europei (più il Giappone) del consorzio EISCAT, anche se le loro apparecchiature, site a Tromsoe in Norvegia, sono dei radar «incoerenti».

Ma veniamo ai dettagli. Presso Gakona, circa 200 km a Nord-Est del Golfo del Principe Guglielmo, un terreno di proprietà del Dipartimento della Difesa USA fu scelto il 18 ottobre 1993 da funzionari dell’Air Force e a partire dall’anno seguente venne disseminato di piloni d’alluminio alti 22 metri, il cui numero è cresciuto di anno in anno fino ad arrivare a 180. Ognuno di questi piloni porta doppie antenne a dipoli incrociati, una coppia per la «banda bassa» da 2.8 a 7 MegaHerz e l’altra per la «banda alta» da 7 fino 10 MegaHerz.

Tali antenne sono capaci di trasmettere onde ad alta frequenza fino a quote di 350Km, grazie alla loro grande potenza. A pieno regime, l’impianto richiede 3.6 MegaWatt (la potenza di 100 automobili), assicurati da 6 generatori azionati da altrettanti motori diesel da 3600 cavalli l’uno. Scopo ufficiale di queste installazioni è studiare la ionosfera per migliorare le telecomunicazioni. Come si sa, questo strato è composto da materia rarefatta allo stato di plasma, cioè di particelle cariche (ioni), e ha la proprietà di riflettere verso terra le onde hertziane, in particolare nelle ore notturne. E’ per questo, ad esempio, che di notte ci è possibile ascoltare alla radio le stazioni AM di molti Paesi stranieri, dato che la riflessione ionosferica permette ai segnali di scavalcare la curvatura terrestre.

Guerre di radioonde

Secondo lo stesso principio è plausibile che le irradiazioni delle antenne HAARP possano rimbalzare fino a colpire gli strati bassi dell’atmosfera sopra un Paese distante migliaia di chilometri. Ed interferire quindi con i fenomeni meteorologici. Certamente si tratta di mere ipotesi. Comunque, un uso militare dell’HAARP è ammesso dalla Federazione Scienziati Americani. Un uso, tuttavia, non distruttivo, ma solo di ricognizione. Modulando i segnali in frequenze bassissime, cioè onde ELF o VLF, si potrebbe «vedere ciò che succede nel sottosuolo, individuando bunker, silos di missili, e altre installazioni sotterranee di Stati avversi. Al di là di ciò, la «guerra ecologica» appare terribilmente possibile da oltre vent’anni.

Già nel 1976 l’Enciclopedia Militare Sovietica ventilava il rischio che gli Stati Uniti, per via elettromagnetica o per via astronautica, potessero modificare il clima dell’Eurasia lacerando lo strato di ozono sopra l’URSS. L’Unione Sovietica si accordò così con gli USA perché fosse proibito l’uso dei cambiamenti climatici ambientali. A livello ONU, ciò fu ribadito con la convenzione ENMOD (Environmental Modifications), entrata in vigore il 5 ottobre 1978. Ma pochi anni dopo, negli Stati Uniti, lo scienziato considerato il padre dell’HAARP ideava un sistema volto apertamente a controllare i fenomeni meteo. L’11 agosto 1897 il dott. Bernard Eastlund brevettava con numero di «patente» 4,686,605 il suo «Metodo e apparato per l’alterazione di una regione dell’atmosfera, della ionosfera o della magnetosfera».

Si dice che Eastlund, fisico del MIT si sia ispirato ai lavori del grande genio Nikola Tesla (1856-1943), lo scienziato jugoslavo emigrato in America nel 1884. A Tesla dobbiamo molti ritrovati che resero possibile la diffusione dell’elettricità, soprattutto la corrente alternata trifase (mentre Edison era rimasto arroccato sulla corrente continua). Inoltre aveva tentato di sviluppare un sistema di trasmissione dell’energia via etere, il che avrebbe reso inutili i cavi, nonché un apparecchio per ottenere elettricità gratuita per tutti ricavandola dalle oscillazioni naturali del campo elettrico terrestre. Quando Tesla morì, l’8 gennaio 1943, gli agenti dell’FBI diedero la caccia a tutti i suoi progetti, su cui si favoleggiò a lungo. D’altra parte lo stesso Tesla aveva parlato persino di raggi della morte, efficaci fino a 320 km di distanza.

Non sappiamo esattamente quanto vi sia di Tesla nei progetti del dott. Eastlund e nell’HAARP. Fatto sta che negli anni Novanta Eastlund fondò una sua compagnia, la Eastlund Scientific Enterprise, che fra le attività menzionate sul suo sito web comprende tanto la partecipazione al programma HAARP, quanto l’esplicita ricerca nel campo delle modificazioni meteorologiche. Che dire? Ritornando al libro di Qiao Liang e Wang Xiansui, c’è da rabbrividire alle loro frasi: «Utilizzando metodi che provocano terremoti e modificando le precipitazioni piovose, la temperatura e la composizione atmosferica, il livello del mare e le caratteristiche della luce solare, si danneggia l’ambiente fisico della terra o si crea un’ecologia locale alternativa. Forse, presto, un effetto El Nino creato dall’uomo diverrà una superarma nelle mani di alcune nazioni e/o organizzazioni non-statali».

Via | Mondotech

Gino Strada/Libia: L’intervento militare “è frutto di cervelli malati”

gino-strada - la guerra è frutto di cervelli malati - libia invasione Roma – L’intervento militare in Libia “è frutto di cervelli malati”. Lo ha sostenuto il fondatore di Emergency, Gino Strada, dal palco del teatro Ambra Jovinelli a Roma commentando quanto sta accadendo al di là del Mediterraneo. Strada, che lunedì sera ha presentato il nuovo mensile di Emergency ‘E’, non ha voluto entrare nella polemica politica ma ha sottolineato che i cervelli dei politici e dei militari sono “tra i più sottosviluppati del pianeta”.

La guerra, ha aggiunto, ci viene presentata “come umanitaria, necessaria, indispensabile, ma che la guerra sia umanitaria è la più grande bestemmia mai sentita”. L’ intento del fondatore di Emergency è di ”riuscire a costringere la maggior parte delle persone ad assorbire ”pensieri alti” e non le ”cretinate del presidente del consiglio”.

Per il fondatore di Emergency “l’abolizione della guerra si ha con il disarmo nucleare, ma la battaglia deve attraversare le coscienze dei cittadini, non sarà certo un regalo della classe politica” Alla serata ha partecipato anche il presidente di ‘Libera’, don Luigi Ciotti, che ha confessato di aver provato ”tanta rabbia in questi giorni: è una sofferenza, una ferita profonda. In 40 giorni si è passati da chi non voleva ‘disturbare Gheddafi’ all’intervento di questa notte”.

Per garantire i diritti si è  “perso tempo, si doveva intervenire prima e senza armi”. Sul palco anche Fiorella Mannoia che ha sottolineato come “con i dittatori non si dovrebbe scendere a patti”. Da parte sua, lo scrittore Erri De Luca ha raccontato alcuni suoi desideri: “Vorrei che l’Italia fosse rappresentata dagli sforzi di accoglienza e non da respingimenti, dalla buona volontà dei suoi volontari di pace e non da piste da cui decollano bombardieri”.

lunedì 21 marzo 2011

LIBIA/GUERRA: LA VERGOGNA SENZA FINE DI NOI OCCIDENTE IN GUERRA

Con un tempismo che non lascia àdito a dubbi, ecco in cosa si è tradotto lo “scatto d’orgoglio” che, secondo il nostro Presidente della Cosiddetta Repubblica, avrebbe manifestato l’Italia, nella giornata di marketing per i 150 anni dall’erezione di questo Stato Pietoso: si è tradotto nella cifra genica di questo stesso Paese, cioè la crudeltà, il trasformismo, la furbizia idiota e malvagia, l’entusiastica salita sul carro dei vincitori delle prossime ore. E’ come fosse “firmato Diaz” e invece è “firmato Giorgio Napolitano” questo intervento che lascia attoniti, a poche ore dalla rilettura del celebre quanto inutilissimo articolo costituzionale n°11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Noi, gli assassini che hanno massacrato libici decenni prima di baciare loro anelli e osculi anali, agiamo da Iago perché siamo consapevoli che è il petrolio che conta, e che si prepara il nuovo ordine del Mediterraneo. A cui la Penisola, che ne sarebbe una portaerei in mezzo al, fa proprio questo: porta gli aerei.

Con inusitata fantasia, tutta di marca Ansa, i maggiori quotidiani italiani on line hanno titolato che è “Pioggia di bombe sulla Libia”. Speravo di non leggere mai più, dopo i timori e tremori della mia pubertà condizionata dalla incertezza militare e geopolitica, il nome Cruise, se non negli annali di Scientology. Eppure eccoli di nuovo qui,i missili statunitensi, un centinaio, sempre di marca nordamericana, sempre la stessa solfa paratexana dell’esportazione della democrazia, quando l’evidenza denuncia la consistenza morale degli attori in gioco.

Anzitutto il Premio Nobel Per La Pace Barack Obama, questo eletto dagli svedesi, questa versione angosciante del Sir Bis di Mowgli, questo assassino che avrebbe pure origini africane, questo paladino della speranza che fa un discorso da illuminato al Cairo davanti a Mubarak pochi mesi prima di scaricarlo in quella che solamente gli ingenui entusiasti potevano salutare come “primavera”. Telecomandati da americani e francesi, i vertici militari di Egitto e Tunisi si sono mossi secondo direttiva. E lo spontaneismo, al solito, è stato virato contro la sincera volontà di masse enormi di popolo. Era stato predetto, qui, su Carmilla, grazie all’occhio di lince del compianto Sbancor, che entro la decade si sarebbe passati a una risistemazione geopolitica del Nord Africa e del medio Oriente. Dai sultanati più a est, dove si stanno muovendo rivolte ambiguissime, potrebbe nascere lo Stato-AlQaeda, come annunciava esuberante di colori la cartina Usa citata dallo stesso Sbancor. Mai però si sarebbe immaginato che, ad avallare una simile perversione politica, sarebbe stato questo Presidente che in due anni e mezzo ha già pareggiato il conto con Bush in fatto di sceriffato internazionale. La Cina dovrà andarsi a cercare il petrolio altrove, per il momento: era ora di agire e l’Occidente morente l’ha fatto. E lo ha fatto con una miopia inverosimile, oltre che vergognosa per il sangue che sta spargendo in questi drammatici minuti. E’ miope inseguire il petrolio nel momento in cui si sta per lanciare, come sostituto dello Shuttle, una nuova navetta che va a idrogeno.

La Francia è il secondo attore di questo affaire lurido e stagnante come i depositi di oro nero e cariato che stanno sotto le distese di sabbia libiche. E’ incredibile che, anche grazie all’intervento del filosofo del nulla Bernard-Henri Lévy, si dia appoggio a una unica fazione di una guerra civile di un Paese straniero, lanciando i valori e i missili della Marsigliese. La verità vera e ovvissima è che la Francia, così come la Gran Bretagna e la Germania, ha semplicemente interrato la presenza in quelle che non sono affatto le sue ex colonie africane: sono ancora propriamente le sue colonie. E che bella occasione sfruttare gli Stati Uniti per ampliare l’estensione del proprio dominio! Andare a prendere la Libia, considerata, non si sa perché, “territorio di conquista italiano”, quando da lustri è il contrario di ciò che accadde sotto Mussolini. Quanto contano le quote libiche in Fiat? E in Unicredit? E nella campagna elettorale dell’Ulteriore Nano a capo di una nazione europea? Questa “vittoria diplomatica” è, a nostro modesto parere, una delle macchie più ingiustificabili dai tempi dell’Algeria, per l’Eliseo.

Il terzo attore che brilla per indecenza, come già accennato, siamo noi: gli italiani, questa specie all’avanguardia di Fine Impero, gli spaghettari che condiscono col plasma altrui la loro pasta e le loro pastette. Non vorrei altro scrivere, poiché dispongo di un formidabile dialogo a distanza tra i paladini di quello che, nel 1994, fu battezzato come “il nuovo”, grazie a Tangentopoli, cioè la finta rivoluzione con cui l’Italia iniziò a praticare il piano di rinascita di Gelli: e cioè Bossi e Di Pietro. Saranno sufficienti le dichiarazioni di questi due emeriti paladini della sincerità a risultare più efficaci di qualunque commento:

Ha dichiarato Umerto Bossi:

«Il mondo è pieno di famosi democratici, che sono abilissimi a fare i loro interessi, mentre noi siamo abilissimi a prenderla in quel posto: il maggior coraggio a volte è la cautela. Io penso che ci porteranno via il petrolio e il gas e con i bombardamenti che stanno facendo verranno qua milioni di immigrati, scappano tutti e vengono qua. La sinistra sará contenta di quel che succede in Nordafrica perchè per loro conta solo portar qui un sacco di immigrati e dargli il voto. È questo l’unico modo che hanno per vincere le elezioni».

Ha dichiarato Antonio Di Pietro:

«Bossi non ha fatto una dichiarazione ipocrita (“se bombardiamo la Libia ci porteranno via petrolio e gas e arriveranno immigrati a milioni”), ma nel merito fa un errore. Sul piano economico l’errore che fa Bossi è pensare che stando con Gheddafi un domani ci saranno ancora petrolio e gas. Ormai è partita la coalizione, bisogna giá pensare al dopo Gheddafi. Il “domani” e l’approvvigionamento delle materie prime dalla Libia sarà a disposizione di coloro che hanno aiutato la transizione, non di coloro che si sono messi contro. Fare parte della coalizione non crea problemi, semmai il contrario. Ma non deve essere questa – conclude – la ragione per la quale non andiamo in Libia, sarebbe ragione volgare».

Non si tratta qui assolutamente di difendere un furbone vestito come se stesse recitando ilNabucco al teatro di Forlimpopoli. Che Gheddafi sia un criminale è patente dallo scorso secolo. Craxi e Andreotti gli salvarono la vita telefonandogli nel deserto un quarto d’ora prima che gli aerei di Reagan bombardassero la sua tenda da harem. Ciò fu interpretato patriottisticamente, quando era una servile delazione di un atto di killeraggio spietato.
Tuttavia è incredibile che si adducano le ragioni che si sono addotte all’ONU per intervenire in Libia, con la risoluzione-lampo. L’impegno umanitario per garantire la salvezza dei civili andrebbe speso anzitutto in Darfur, e non con le armi.
La risoluzione dell’ONU è per ragione filologica ciò che attende questo vergognoso Occidente che muove guerra costantemente: il ri-scioglimento è la fine delle esistenze comode, dello stile di vita garantitoci a spese della vita altrui. La fine del crimine made in Usa & allies. Non ci si illuda che il crimine sia emendato dalla storia umana. Soltanto, non avrà più questo retrogusto da Stranamore.

Osserviamo con denunciante avvilimento uno dei penultimi sussulti di una civiltà al tramonto, che si crede Sansone e però prima fa morire tutti i filistei e poi continua a non crepare.
Ormai siamo tuttavie alle ultime. Che sia la rivoluzione dell’idrogeno, l’avvento di India e Brasile sul piano militare globale o una catastrofe ambientale poco importa. Ciò che accadrà farà sì che una situazione tragica qual è quella libica oggi si ripeta con altre modalità e altri attori.

Giuseppe Genna
Fonte: www.carmillaonline.com
Link: http://www.carmillaonline.com/archives/2011/03/003839.html

Libia, colpito bunker di Gheddafi. Frattini: non ci faremo intimidire

Trapani, 21 mar. (Adnkronos/Ign) - Un missile ha colpito e completamente distrutto un edificio ''di comando e di controllo'' di Muammar Gheddafi nel complesso di Bab el Aziziya a Tripoli. Lo riferisce un funzionario della coalizione a 'SkyNews', precisando che l'edificio si trova a circa 50 metri dalla tenda dove il Colonnello è solito incontrare i suoi ospiti a Tripoli. Fumo è stato visto innalzarsi dall'edificio che, oltre a essere la residenza militare di Gheddafi, era anche una caserma militare. I funzionari libici hanno portato questa mattina i giornalisti nell'area per vedere i danni provocati dai missili.

 

Circolano inoltre in queste ore voci circa la morte di Khamis Gheddafi, figlio del colonnello, il quale sarebbe deceduto ieri a Tripoli. Secondo quanto ha annunciato il sito dell'opposikzione libica 'al-Manara', Khamis sarebbe morto per le ferite riportate nei giorni scorsi quando un pilota dell'aviazione libica passato con l'opposizione avrebbe aperto il fuoco contro di lui nei pressi della caserma di Bab al-Aziziya, nel centro di Tripoli. La notizia non è stata confermata ma sta già facendo il giro dei media arabi.

 

 

A capo di una delle brigate del regime impegnate a combattere contro gli insorti, capitano dell'esercito e responsabile del reclutamento e dell'addestramento dei soldati mercenari africani, Khamis Gheddafi è il sesto dei figli del colonnello.

 

 

Intanto, di ritorno dal raid nel cielo di Bengasi nella tarda serata di ieri, rischierati sulla pista della base militare di Trapani Birgi, i Tornado Ecr sono di nuovo pronti per altre operazioni militari, come ha ribadito anche il Comandante del 37esimo Stormo dell'Aeronautica militare, il colonnello Mauro Gabetta. "Noi siamo pronti a intervenire in qualsiasi momento - ha detto incontrando i giornalisti - la missione non finisce qui e noi siamo pronti a rispondere a tutte le chiamate". L'aeroporto militare è al lavoro dall'alba di oggi con i top gun che si preparano ad eventuali partenze immediate.

 

 

''La missione è stata raggiunta positivamente e gli obiettivi sono stati raggiunti". E' quasi mezzanotte quando il Colonnello Gabetta incontra i giornalisti per fare un resoconto dell'operazione militare. Dei sei tornado, due 'tanker', che appartengono al 6/o Stormo di Ghedi (Brescia), sono stati i primi a rientrare alla base dopo aver effettuato il rifornimento aereo degli altri velivoli, Tornado Ecr, che provengono dal 50/o Stormo di Piacenza, e che sono atterrati poco prima delle 23 di ieri.

 

 

E da questa mattina alle 8:30 chiude l'aeroporto civile 'Vincenzo Florio' di Trapani. La decisione è stata presta ieri pomeriggio dopo un incontro avvenuto presso la base militare del 37° stormo di Trapani Birgi tra i vertici dell'Aeronautica e quelli dello scalo civile. Prima prima della chiusura sono decollati i quattro voli previsti per Roma Ciampino, Bergamo, Londra e Baden Baden-Karlsruhe, in Germania. I voli rimanenti e previsti per oggi verranno quindi trasferiti, sia i decolli che le partenze, all'aeroporto palermitano 'Falcone e Borsellino'.

domenica 20 marzo 2011

Greg Pace, l’uomo che controlla il cibo del pianeta

Ha 59 anni e non concede mai interviste. Sicuramente il suo nome e quello della sua impresa non vi dicono niente. Eppure nelle sue mani passano la gran parte degli alimenti che riuscite a immaginare. Cargill è una delle quattro compagnie che controllano il 70% del commercio mondiale del cibo. Mentre il mondo affronta la più grande crisi alimentaria da decenni, loro fanno cassa "leggendo i mercati"..... Funziona così.

Voi non lo sapete, ma il pane della vostra colazione è una merce con più valore del petrolio. La farina con cui è fatto si chiama Cargill. Vi dice qualcosa? E si chiama Cargill anche il grasso del burro che spalmate sul pane e il glucosio della marmellata.

Cargill è il mangime che ha ingrassato la vacca da latte e la gallina che ha fatto le uova che friggiamo in padella. Cargill è il chicco di caffè e il seme di cacao; la fibra dei biscotti e l'olio di soia. Il dolcificante delle bibite, la carne dell'hamburger, la farina della pasta? Cargil. E il mais dei nachos, il girasole dell'olio, il fosfato dei fertilizzanti...? E l'amido che le industrie del petrolio raffinano per convertirlo in etanolo e mescolarlo alla benzina? Indovinate.

Non cercate marche o etichette; non le troverete. Cargill ha attraversato la storia in punta di piedi. Com'è possibile che un'impresa fondata nel 1865, con 131.000 impiegati divisi in 67 paesi, con un fatturato annuo di 120.000 milioni di dollari, quattro volte quello di Coca-Cola e cinque quello di McDonald sia così sconosciuta? Come si spiega che una compagnia così gigantesca, con conti che superano l'economia del Kuwait, del Perù e di altri 80 paesi, sia passata inosservata? In parte perché è un'impresa familiare. Sì, i numeri stupiscono, ma Cargill non è quotata in borsa e non deve dar conto a nessuno. I soci sono uno sciame di discendenti dei fondatori, i fratelli William e Samuel Cargill, contadini dello Iowa che crearono un impero nel XIX secolo grazie a un silos di cereali collegato alla via ferroviaria in un paesino della prateria che non esisteva sulla cartina. Più tardi, un cognato – John MacMillan – prese le redini e per decenni, i Cargill e i MacMillan aggiunsero silos di grano, mulini, mine di sale, macelli e una flotta di navi mercantili. Oggi, circa 80 discendenti si suddividono i ricavati e giocano a golf. Di loro si sa poco, salvo che nelle feste gli uomini portano gonne scozzesi per onorare gli antenati. E che sette siedono nel consiglio d'amministrazione e sono nella lista Forbes dei più ricchi del pianeta, con fortune che si aggirano attorno ai 7000 milioni ciascuno. Il presidente della compagnia è Greg Page, un tipo flemmatico a cui piace dire, con lentezza, che Cargill si dedica "alla commercializzazione della fotosintesi".

In realtà c'è poco da scherzare. Quest'anno i prezzi degli alimenti di base sono aumentati in modo vertiginoso: il grano l'80%, il mais 63, e il riso, quasi il 10; i tre cereali che danno d mangiare all'umanità. Sono massimi storici, avverte la FAO, maggiori dei prezzi che nel 2008 causarono rivolte in 40 paesi e condannarono alla fame 130 milioni di persone. E i prezzi continueranno ad aumentare, pronostica il Financial Times. "Il prezzo dei cereali è critico per la sicurezza alimentare perché è l'elemento di base dei paesi poveri. Se i prezzi continuano a crescere ci saranno altre rivolte".

Le cause sono molteplici. Un insieme di siccità, cattivi raccolti e speculazioni. A guadagnarci sono in pochi. E tra loro ci sono le mastodontiche imprese che controllano il commercio mondiale dei cereali. Cargill ha triplicato i benefici nell'ultimo semestre e i suoi guadagni superano i 4000 milioni di dollari, record raggiunto nel 2008 nel pieno della crisi alimentare. La compagnia aveva scommesso che la siccità in Russia, uno dei grandi produttori mondiali, avrebbe obbligato Vladimir Putin a proibire le esportazioni per assicurare il consumo interno. E indovinò. "Abbiamo fatto un buon lavoro leggendo i mercati e abbiamo reagito rapidamente", spiegò un portavoce di Cargill. In cosa consiste la reazione? Si tratta, essenzialmente, di giocare al Monopoli, comprando i raccolti nel mercato del futuro, cioè prima che sia piantato un solo seme, e di venderli poi in un posto o l'altro del pianeta, là dove risulti più proficuo..
Fonte

Related Posts with Thumbnails