Alcuni anni fa, in occasione di un incontro che si svolgeva a Frascati, promosso dall’associazione “Nessun luogo è lontano” ho avuto la fortuna di incontrare e discorrere a lungo con il compianto professor Joseph Ki-Zerbo.
Ero reduce dalla presentazione del discusso documento NEPAD (Nuovo partenariato per l’Africa) presso il Ministero degli affari Esteri di Roma e chiesi a Ki-Zerbo cosa ne pensasse…
Il professore elogiò la buona intenzione dei redattori del documento ma secondo lui non era stata tenuta nel debito conto la vera essenza del continente africano. «Vede», disse Ki-Zerbo, «lo sviluppo economico e sociale è sempre legato ad una cultura. Ho l’impressione che il documento risponda ad un pensiero di progresso economico di tipo Occidentale… Non si possono sprecare così tante energie per proporre un modello tipo Nepad senza prendere in considerazione la struttura sociale di un popolo nel suo insieme».
Credo di aver compreso le perplessità di Joseph Ki-Zerbo nell’ottobre scorso, dopo aver seguito il convegno promosso dalla Pontificia Università Urbaniana e dall’Università “Roma Tre” intitolato La philosophie africane: l’antropologie. Un convegno peraltro ricco di spunti, idee e vivacità di pensiero, come spesso capita con gli intellettuali francofoni e lusofoni.
La filosofia non è il mio campo di specializzazione ma, occupandomi di studi e ricerche di antropologia culturale e di narrativa africana, mi sono sempre imbattuto in questioni legate alla cosmologia, alla mitologia, alla saggezza della vita o all’immortalità nelle religioni tradizionali africane; così, tornando a casa dopo il bel convegno dedicato alla filosofia africana non ho potuto fare a meno di porre a me stesso una serie di quesiti: esiste una filosofia africana? Il fatto che la tradizione orale abbia carattere testuale e storico è sufficiente perché si possa parlare di una filosofia? Qual è il ruolo del “pensiero universale” della tradizione africana? E lo sviluppo del pensiero filosofico africano oggi?
Ridefinire la storia del pensiero africano per reclamarne un riconoscimento
Una giornata di relazioni e di dibattiti per un argomento così vasto certamente non basta per giungere a delle conclusioni, ma il convegno ha comunque rivelato che siamo in una fase di confronto. Non è chiaro se vi è una specifica “filosofia africana” o se nella visione del mondo dell’uomo africano esistono principi costanti e ricorrenti, comuni ed irriducibili, che fanno sì che egli sia guidato nella sua soggettività. Insomma, possiamo parlare di un’alba della “filosofia africana”?
L’immagine “storta” dell’Africa e la sua marginalizzazione nella storia ha le sue radici nella concezione etnocentrica ed evoluzionistica europea; basti pensare alle testimonianze di Erodoto, Plinio il Vecchio, Diodoro Siculo, alla teoria del Buon Selvaggio di Jean Jacques Rousseau e alla concezione hegeliana della storia. Secondo tale concezione l’Africa era una terra abitata da popolazioni primitive, astoriche e prive di razionalità; un pregiudizio che ha fortemente viziato l’immagine del Continente fino ad “inventare” un’altra Africa, che doveva essere salvata dalla sua condizione di barbarie dal progetto coloniale.
Ecco perché, mentre la “castrazione coloniale” non è ancora finita, diversi pensatori africani vedono nella riflessione filosofica una via verso la rinascita africana e per ricrearne l’identità, liberandola il più possibile dagli orpelli di un pensiero altro, che l’ha violentata e resa schiava.
Inizialmente tale pensiero è nato come forma di reazione e resistenza rivolto nel contempo all’Africa e all’Occidente; un tentativo di proporre a sé e agli altri un’immagine positiva in cui potersi riconoscere ed essere riconosciuti. Oggi vuole impegnarsi anche in un confronto in campo internazionale per ridefinire la storia, la cultura, l’esistenza degli africani e reclamare il riconoscimento della propria umanità. Così è iniziata la riscoperta del pensiero filosofico nel Continente, a cominciare almeno dall’Egitto antico di cinquemila anni fa per poi arrivare, via via, fino allo sviluppo filosofico dell’Africa settentrionale con Sant’Agostino, e ai filosofi razionalisti etiopici del ‘500-600, come Weldehiwet e Zera-yaqob.
Su Zera-yaqob è necessario spendere qualche riga, in quanto i suoi scritti stanno suscitando un grande interesse a livello mondiale, ma soprattutto tra gli intellettuali africani. Tra il 1500 e il 1600 in Etiopia vi fu una grande fioritura di pensatori, ma anche incredibili persecuzioni con roghi di pergamene con i quali la Chiesa copta attuò una forte censura contro varie correnti di pensiero filosofico. Tutto ciò che non risultava essere coerente con la teologia e il mito della monarchia salomonide etiopica doveva essere eliminato, con un atteggiamento che oggi potremmo definire anticulturale. In questo contesto la figura di Zera-yaqob è emblematica, essendo uno dei grandi pensatori perseguitati, che viveva esiliato nelle caverne dell’Ambe nell’acrocoro abissino. Dopo 500 anni, finalmente, sono stati scoperti i suoi manoscritti; un tesoro di testi, soprattutto di filosofia, enorme, che richiederà parecchi anni per la sola traduzione, in quanto si tratta dei discorsi scritti in lingua ge’ez , spesso in forma di Qene, con doppiezze semantiche e metafore con cui opporsi ai Neghestat e ai teologi copti, i quali facevano ampio uso di parole e concetti “a doppio taglio”.
La filosofia del riscatto
L’ambito in cui la filosofia africana ha tentato - e tenta - di svilupparsi come scienza moderna è quella incerta zona di confine che separa e congiunge spazi socioculturali, politici, mentali, disciplinari come il dominio coloniale e lotte di liberazione, diaspora, saperi locali e linguaggi disciplinari occidentali. Si tratta di uno spazio ambiguo, lacerato e mal definito che ha reso urgente la domanda sulla identità, personale e collettiva, e che appunto cerca nella filosofia una possibile chiave di risposta, oscillando tra la rivendicazione di una propria irriducibile diversità e l’affermazione della rilevanza universale del proprio pensiero e della propria cultura.
La filosofia africana in senso stretto, intesa cioè come produzione di testi filosofici che si inserisce in un ambito disciplinare istituzionalmente definito, nasce come risposta ai discorsi discriminatori che l’Occidente ha sviluppato sull’Africa, negando agli africani una pari dignità culturale e capacità di pensiero razionale. A partire dagli anni ’20 del XX secolo gli intellettuali africani, spinti da un forte desiderio di libertà, hanno dato nuovi impulsi a dibattiti politici, culturali, sociali e filosofici riguardanti la loro situazione storica, sviluppando in seno alla “filosofia africana”, diverse correnti di pensiero: il Panafricanismo (W. E. B. Dubois), il Conscientismo (Kwame Nkrumah), la Corrente Nazional-Ideologica in cui troviamo la Negritude (Sedar Senghor, Aimè Cesaire); il Socialismo africano (Jomo Kenyatta, Julius Nyerere); la Sage Philosophy, secondo la quale la filosofia in Africa è molto antica e nasce dagli insegnamenti dei saggi, degli anziani; la Filosofia Professionale, che spinge il dibattito in campo internazionale presso alcune università occidentali dove lavorano molti filosofi del Continente nero, detti per questo intellettuali della diaspora; la Corrente Etnofilosofica; la Corrente Critica che nasce in opposizione a quella Etnofilosofica e che attribuisce alla filosofia un ruolo di primo piano nella ricerca dell’identità africana; e infine, la Corrente Ermeneutica. L’approccio di quest’ultima, nel tentativo di oltrepassarne la contrapposizione, tra i due estremi dell’atavismo essenzialista - la etnofilosofia e la critica - e dell’universalismo occidentalizzante, tenta di rielaborare l’esperienza africana alla luce del passato, del presente e del futuro.
Il futuro della filosofia in Africa
Ora le tante considerazioni errate sul “pensiero filosofico africano” sono in via di smascheramento costringendo, soprattutto il mondo occidentale, a rivedere i suoi giudizi e pregiudizi. Molti intellettuali africani, senza fermarsi a banali battibecchi, continuano a percorrere strade nuove per ritrovare la loro identità sostenendo l’idea che la filosofia è un processo essenzialmente aperto, una ricerca inquieta e incompiuta. In questo processo di mutazione decisivo del pensiero filosofico africano c’è un grosso dilemma da superare: la coesistenza tra le norme che regolano il pensiero accademico e il dialogo pacifico del modo tipicamente africano di pensare. Anche perché, parafrasando il pensiero del professor Ki-Zerbo riguardo il documento Nepad, anche una filosofia è sempre legata ad una determinata cultura e si è sviluppata seguendo la cultura che l’ha generata nella sua evoluzione. Dobbiamo inoltre ricordare che «l'Africa di ieri è ancora un dato contemporaneo!».
Mi rendo conto che, in un mondo globalizzato, esprimere l’ “Africa di ieri” come potenza visionaria su se stessa e sul proprio destino è alquanto difficile. Eppure, non solo nel campo del pensiero ma anche all'interno di un linguaggio, la tradizione orale africana conserva tuttora un'importanza sacrale. Ancora sopravvivono le corti dei capi africani tradizionali, dove si ripetono gli stessi riti di cento o di cinquecento anni or sono; la tradizione, la mitologia, le cosmologie vengono ancora assunte come filosofie comunitarie, indipendenti, complementari o alternative rispetto alla filosofia occidentale. La sapienza accumulata nella tradizione orale costituita da miti, proverbi e racconti, riti, nomi, proibizioni e da tutte le manifestazioni della parola e del pensiero sono ciò che si può chiamare pensiero filosofico della tradizione orale africana. Il termine “filosofia” diventa dunque un sinonimo di concezione collettiva del mondo e della vita, una sorta di antropologia spontanea sedimentata nelle categorie della lingua, nelle rappresentazioni sociali e nei costumi. Qui non emerge il nome di qualche particolare personalità, ma il soggetto è la tradizione, la comunità, il popolo.
Tale “spirito” o “stile”, per convenzione tale “filosofia”, mentre in Occidente avrebbe il proprio carattere distintivo in un atteggiamento analitico che conduce alla dominazione della natura e all’atomismo sociale, in Africa troverebbe la propria peculiarità in una visione sintetica del mondo e del sapere che favorirebbe la coesistenza con la natura e la convivenza comunitaria fra gli uomini.
E' giunto il momento di elaborare, comunque, un pensiero africano, teorizzando i valori e la saggezza in esso presenti, dando così un contributo efficace per diffondere nel mondo la ricchezza della spiritualità africana. Si tratta di un richiamo, di una sollecitudine provenienti da ogni angolo della terra dove l’africano è presente che intende indurre gli intellettuali africani a riflettere sulla propria identità, sul proprio passato e sul presente, a porre le basi per una salda conoscenza della propria cultura e questo può rivelarsi molto fruttuoso anche nelle scuole africane di filosofia.
Roma, novembre 2006
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