giovedì 21 gennaio 2010

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ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 21 gennaio 2010

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Il Papa conferma il Cardinal Bertone come Segretario di Stato
Esprime "viva riconoscenza" per la sua "preziosa collaborazione"
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha confermato il Cardinale Tarcisio Bertone come Segretario di Stato.

Lo si legge in una lettera riportata da "L'Osservatore Romano" in cui il Papa ripercorre il "lungo cammino" di collaborazione con il porporato, che in occasione del compimento dei 75 anni ha rimesso nelle mani del Pontefice il suo mandato seguendo le norme stabilite dal Diritto Canonico.

Nel testo, il Papa ricorda "con viva riconoscenza" il "lungo cammino" della collaborazione con il porporato, iniziata con il suo lavoro di Consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede.

A questo proposito, sottolinea in particolare il "delicato lavoro" svolto da Bertone "per costruire il dialogo con Monsignor Marcel Lefebvre".

Chiamato da Giovanni Paolo II a prestare servizio nella Curia Romana, il Cardinale "ha svolto con competenza e generosa dedizione l'ufficio di Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede" in "anni intensi ed impegnativi, durante i quali sono nati documenti di grande importanza dottrinale e disciplinare".

"Ho sempre ammirato il suo 'sensus fidei', la sua preparazione dottrinale e canonistica e la sua 'humanitas', che ci ha molto aiutato a vivere nella Congregazione per la Dottrina della Fede un clima di autentica familiarità, unita ad una decisa e determinata disciplina di lavoro", confessa il Vescovo di Roma.

"Tutte queste qualità sono state il motivo che mi ha portato alla decisione, nell'estate del 2006, di nominarLa mio Segretario di Stato e sono oggi la ragione per la quale, anche in futuro, non vorrei rinunciare a questa sua preziosa collaborazione", dichiara.

Il Cardinal Bertone, salesiano, è nato a Romano Canavese (Torino) il 2 dicembre 1934 ed è stato ordinato sacerdote il 1° luglio 1960.

Ha conseguito la Licenza in S. Teologia alla Facoltà Teologica Salesiana di Torino, continuando poi gli studi a Roma presso il Pontificio Ateneo Salesiano, dove ha ottenuto la Licenza e il Dottorato in Diritto Canonico.

Accanto a un'intensa attività di insegnamento, ha collaborato all'ultima fase della revisione del Codice di Diritto Canonico e ha diretto il gruppo di lavoro che ha tradotto il Codice in italiano.

Il 1° giugno 1989 è stato eletto Rettore Magnifico dell'Università Salesiana. Il 1° agosto 1991 Papa Giovanni Paolo II lo ha chiamato alla guida della più antica Diocesi del Piemonte, come Arcivescovo di Vercelli. Il 28 gennaio 1993 è stato nominato dalla CEI Presidente della Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace e il 13 giugno 1995 il Papa lo ha nominato Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Giovanni Paolo II lo ha nominato il 10 dicembre 2002 Arcivescovo di Genova. È stato creato Cardinale nel Concistoro del 21 ottobre 2003. E' membro delle Congregazioni per la Dottrina della Fede e per il Clero.

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L'ambasciatore israeliano agli ebrei: dialogate con la Chiesa senza paura
"I cattolici ci porgono la mano. Sarebbe insensato non afferrarla"

ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, ha pubblicato alcune dichiarazioni sui numeri di gennaio e febbraio della rivista mensile ebraica italiana “Pagine Ebraiche”, delle quali si è fatto eco “L'Osservatore Romano” e in cui chiede ai suoi connazionali una maggiore apertura al dialogo con la Chiesa cattolica.

In entrambi gli interventi, il diplomatico israeliano lamenta che “solo pochi rappresentanti dell'ebraismo sono realmente impegnati nell'attuale dialogo con i cattolici”, e riconosce che esiste un'“asimmetria” in questo colloquio.

Anche se il suo Governo è favorevole “al continuo dialogo ai massimi livelli ufficiali, tra il Rabbinato Centrale d'Israele e la Santa Sede, rimane scetticismo da parte della corrente principale degli ortodossi”, osserva.

Questa chiusura, ammette, è superiore dopo la Shoah, che ha visto l'ortodossia ebraica, prima plurale nella sua relazione con i cristiani, diventare a dir poco meno flessibile, soprattutto la corrente degli Haredim ultraortodossi, che proibisce anche l'incontro con i sacerdoti.

Attualmente, ha spiegato, l'ebraismo riformato e quello conservatore sono “più aperti al dialogo con i cristiani”. “Lo fanno dal punto di vista della loro esperienza americana, dove la convivenza tra gruppi etnici e religiosi è intrinseca alla società”.

Anche questo dialogo, guidato dal rabbino Soloweitchik, non voleva discutere i principi di fede, anche se almeno “non rifuggiva da un dialogo che si basasse su questioni che potessero migliorare il bene comune della convivenza sociale” in temi come la bioetica, l'ecologia, la violenza, ecc.

Questa difficoltà che sperimentano molti ebrei al momento di proporre un dialogo si spiega, secondo Lewy, con il fatto che la maggior parte degli ebrei “considera come autosufficienza nel definire la propria identità religiosa. Non abbiamo bisogno di nessun altro riferimento teologico, se non la Bibbia, per spiegare la nostra vicinanza a Dio come suoi figli prescelti”.

Ciò accade, spiega, per un meccanismo di autodifesa degli ebrei nel corso della loro storia, dovendo vivere in ambienti ostili, anche se la loro relazione con i cristiani non è sempre stata così.

“La maggior parte degli ebrei percepisce la loro storia durante la Diaspora come una battaglia traumatica per la sopravvivenza contro i costanti sforzi da parte dei cattolici di convertirli gentilmente, o, nella maggioranza dei casi, coercitivamente”.

Questa ferita “grave e dolorosa” è quelle che il diplomatico israeliano invita gli ebrei a superare, esortando anche a “conoscere meglio l'altro” per “comprenderlo meglio”.

“Potrebbe essere che molti di noi, ancora traumatizzati, desiderino evitare ogni situazione in cui si debba perdonare qualcuno, specialmente se viene identificato giustamente o erroneamente come rappresentante del carnefice”, ha aggiunto.

Accettare il dialogo

In questo senso, Mordechay Lewy, citando vari saggi ebrei di tutti i tempi, ricorda che l'ebraismo “si fonda sul riconoscimento dell'unità del genere umano, dell'aderenza ai principi morali e della verità, che regnano supreme sopra ogni uomo, a prescindere dalla razza o dalla religione”.

In questo senso, ricorda gli insegnamenti delle fonti rabbiniche medievali, soprattutto Maimonide, affermando che “mostrano rispetto verso le altre religioni”.

Il diplomatico insiste sulla necessità di accettare un dialogo con i cattolici, sulla linea dell'ortodossia moderna attuale, uno dei rappresentanti della quale è il rabbino statunitense David Rosen.

“Quaranta anni di dialogo ebraico-cattolico dopo la 'Nostra aetate' sono stati un periodo di prove ed errori reciproci in cui si è sviluppato un proprio dinamismo”, aggiunge.

“Dopo la Shoah la Chiesa cattolica ha avviato negli anni Sessanta un cambiamento radicale nei riguardi degli ebrei. La conversione è bandita a un orizzonte escatologico distante e sconosciuto”.

“La capacità di sopravvivenza dell'ebraismo è garantita dalla fondazione dello Stato Ebraico”, sottolinea Lewy, sostenendo la necessità di superare questo atteggiamento di autodifesa.

“I cattolici ci porgono la mano. Sarebbe insensato non afferrarla, a meno di non voler ipotecare il nostro futuro con una costante animosità con il mondo cattolico”.

Mordechay Lewy conclude poi rinnovando ai suoi connazionali l'invito al dialogo: “I primi duemila anni non legittimano una ripetizione. Entrambi meritiamo di meglio”.

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Presentati al Papa i due agnelli la cui lana servirà per i Pallii
Come ogni anno in occasione della Solennità di Sant'Agnese
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- In occasione della memoria liturgica di Sant’Agnese, sono stati presentati al Papa due agnelli benedetti questo giovedì mattina nella Basilica di Sant'Agnese sulla via Nomentana, la cui lana sarà utilizzata per confezionare i Pallii dei nuovi Arcivescovi metropoliti.

Il Pallio, insegna liturgica d’onore e di giurisdizione indossata dal Papa e dagli Arcivescovi metropoliti nelle loro chiese e in quelle delle loro province, vuole simboleggiare la pecorella smarrita e ritrovata, portata sulle spalle dal Buon Pastore, e l’Agnello crocifisso per la salvezza dell’umanità.

Inizialmente attributo esclusivo del Sommo Pontefice, venne poi accordato dal Santo Padre anche ai Vescovi che avessero ricevuto dalla Sede Apostolica una speciale giurisdizione: nel 513, infatti, Papa Simmaco lo concesse a Cesario, Vescovo di Arles.

Come segno di speciale vicinanza alla Sede Apostolica, è collocato dai Vescovi intorno alle spalle, proprio a simboleggiare un agnello.

Il Pallio è costituito da una fascia di lana bianca su cui spiccano sei croci di seta nera.

Il Pontefice benedice i nuovi Pallii il 29 giugno, in occasione della Solennità dei Santi Pietro e Paolo. Essi vengono quindi riposti in un’urna di bronzo donata da Benedetto XIV e conservata nella cosiddetta “nicchia dei pallii” presso la Confessione di San Pietro.

I due agnelli, in genere dono dei religiosi dell’Ordine dei Canonici Regolari Lateranensi, che servono la Basilica di Sant’Agnese fuori le Mura, sono allevati dalle religiose del convento romano di san Lorenzo in Panisperna.

Dopo la tosatura, saranno le suore del Monastero benedettino di Santa Cecilia in Trastevere a provvedere alla confezione dei Pallii, in sottili bende.

La benedizione degli agnelli ha luogo nel giorno in cui si commemora Sant’Agnese, per ricordarne la morte cruenta, avvenuta nel Circus Agonalis (attuale Piazza Navona), luogo dove sorge oggi la cripta a lei dedicata, e dove venne esposta e poi trafitta con un colpo di spada alla gola, nel modo in cui si uccidevano gli agnelli.

Nata nel III secolo da nobile famiglia, a dodici anni Agnese consacrò la propria vita a Dio facendo voto di verginità.

Dopo lo scoppio di una terribile persecuzione contro i Cristiani, venne denunciata in quanto tale dal figlio del Prefetto di Roma, che la ragazza aveva respinto per tener fede alla promessa fatta al Signore.

Per questo motivo, e anche per un gioco di parole latine che lega il nome di Agnese all'agnus, l’iconografia raffigura spesso la Santa con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio.

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Una laica nuovo Sottosegretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace
Confermata la grande fiducia nelle donne da parte della Chiesa e del Papa

ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Papa ha nominato Sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace la dott.ssa Flaminia Giovanelli, finora aiutante di Studio nel dicastero, che succede nell’incarico a mons. Frank J. Dewane, nominato nel 2006 Vescovo di Venice, in Florida (Stati Uniti d’America).

La dott.ssa Giovanelli – si legge in un comunicato del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace – è nata a Roma il 24 maggio 1948.

Ha conseguito la maturità scientifica presso l’Ecole Européenne de Bruxelles e si è laureata in Scienze Politiche, presso l’Università degli Studi di Roma. Ha conseguito il Diploma in Biblioteconomia presso la Scuola di Biblioteconomia della Biblioteca Apostolica Vaticana e quello in Scienze Religiose presso la Pontificia Università Gregoriana.

Conosce e parla correttamente francese, spagnolo e inglese.

Dal 1974 ha lavorato presso la allora Pontificia Commissione Iustitia et Pax, prima in qualità di officiale e, dal 1993, come aiutante di studio. Nel Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace era responsabile per i temi dello sviluppo, della povertà e del lavoro nel quadro della dottrina sociale della Chiesa.

Esperta sulle politiche di sviluppo e del lavoro dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro, del Consiglio d’Europa, dell’Unione Europea dell’ECOSOC e dell’Economic Commission for Europe delle Nazioni Unite.

Punto di contatto del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace con le Conferenze Episcopali europee, le Commissioni Episcopali sociali, le Commissioni nazionali “Giustizia e Pace” d’Europa e la COMECE (Commissioni degli Episcopati della Comunità Europea).

Dal 2006 è membro del Joint Working Group tra Chiesa cattolica e il Consiglio Ecumenico delle Chiese.

La dott.ssa Giovanelli è la prima donna a ricoprire l’ufficio di Sottosegretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.

Prima di lei la laica australiana Rosemary Goldie aveva ricoperto, dal 1966 al 1976, lo stesso incarico nel Pontificio Consiglio per i Laici.

Una religiosa, suor Rosanna Enrica, f.m.a., è invece l’attuale Sottosegretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.

“La nomina della dottoressa Giovanelli – si legge nel comunicato – conferma la grande fiducia riposta dalla Chiesa e dal Santo Padre Benedetto XVI nella donna. Già il venerabile Papa Giovanni Paolo II aveva sottolineato la necessità di una 'partecipazione più ampia e significativa delle donne nella vita della Chiesa e nello sviluppo della società' (Esortazione apostolica Christifideles laici, 2)”.

“La presenza di una donna laica – continua ancora la nota – nella Presidenza del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace mostra la sollecitudine della Chiesa per la promozione della dignità e dei diritti della donna nel mondo, questioni di cui si occupa il Dicastero”.

“Ciò si inserisce nel solco dell’impegno profuso dalla Santa Sede sul piano diplomatico – conclude poi –. Già nella 4° Conferenza mondiale sulle donne promossa dalle Nazioni Unite a Beijing nel 1995 la Santa Sede fu rappresentata da una donna”.

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Uomini e donne di fede


Josep Samsó, parroco, catechista e martire, sarà beatificato
La cerimonia si svolgerà questo sabato nella Basilica di Santa María di Mataró

di Carmen Elena Villa

BARCELLONA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il martirio di padre Josep Samsó i Elias ha molte similitudini con la passione e morte di Gesù Cristo: uno dei suoi amici ha partecipato alla sua fucilazione, è stato arrestato e ha salito con serenità anche se con dolore le scale del cimitero in cui è stato assassinato, durante la Guerra Civile Spagnola.

Noto anche come José Samsó o il Dottor Samsó (1887 – 1936), questo catechista che ha seguito gli insegnamenti di Gesù al punto da donare la vita sarà beatificato sabato nella Basilica di Santa María di Mataró, presso Barcellona, dov'è stato parroco per 17 anni, fino al momento della sua morte.

La cerimonia sarà presieduta dall'Arcivescovo di Barcellona, il Cardinale Lluís Martínez Sistach, e la formula di beatificazione verrà proclamata da monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in rappresentanza di Papa Benedetto XVI.

Al servizio della catechesi

José Samsó nacque a Castelvisval Cataluña, nei pressi di Barcellona. Alla morte di suo padre, nel 1894, si trasferì a Rubí, dove iniziò a studiare nel collegio dei Fratelli Maristi.

Come chierichetto scoprì la sua vocazione al sacerdozio. Studiò nel seminario di Barcellona e poi il Vescovo lo inviò nella Pontificia Università di Tarragona per laurearsi in Teologia. Per questo è noto come il Dottor Samsó. “E' lì che iniziò a eccellere in un compito che sarebbe stato fondamentale nella sua vita: la catechesi”, ha detto a ZENIT il postulatore della sua causa di beatificazione, padre Ramón Julià.

Il 12 marzo 1910 venne ordinato sacerdote. Nello stesso anno fu nominato vicario della parrocchia di San Julián de Argentona, a 4 chilometri dalla località di Mataró, dove rimase per sette anni.

L'attività personale che svolse fu grande. Lavorò con gruppi di maestri, genitori, giovani e bambini, ponendo grande enfasi sulla direzione spirituale. Vari giovani scoprirono la propria vocazione alla vita consacrata grazie ai consigli di padre Samsó. Consigliava anche le giovani coppie che volevano contrarre matrimonio.

“Come sacerdote si distinse lavorando per formare catechisti, insegnando che la dottrina e la pedagogia nei confronti dei bambini devono rappresentare lo stesso amore che i genitori hanno per i propri figli. Diceva che il catechista che non sapeva amare in questo modo doveva ritirarsi”, testimonia il suo postulatore.

“La sua catechesi era simile a quella presentata dal Concilio Vaticano II, essendo basata sull'insegnamento biblico, liturgico e popolare. Preparò un libro, 'Guida per catechisti e direttori di catechesi', che venne pubblicato solo nel 1940, dopo la sua morte”, ha raccontato padre Julià.

Due anni prima di essere ucciso, avvenne un episodio nel quale si intravide il suo futuro martirio: il 6 ottobre 1934 un gruppo di persone armate entrò nella parrocchia di Mataró e minacciò lui e gli altri presenti. Li costrinsero a impilare delle sedie per dar fuoco al tempio. “Rifiutò di farlo”, ha segnalato il postulatore. “Da quel momento accettò il martirio come una delle possibilità che Dio aveva posto sul suo cammino”.

Nel luglio 1936, sua sorella gli consigliò di abbandonare la parrocchia. Il sacerdote si rifugiò in casa di alcuni conoscenti e prima di andarsene compì un atto eucaristico per salvare il Santissimo. Dalla casa di queste persone poté così continuare la vita parrocchiale.

Decise poi di trasferirsi a Barcellona per non mettere più in pericolo la famiglia che lo ospitava. Il 30 luglio dello stesso anno, mentre aspettava il treno, una donna lo denunciò. Alcuni miliziani gli si avvicinarono ed egli rispose: “Sono io quello che cercate”. Venne portato in carcere, dove rimase per un mese.

Verso il martirio

“Lì visse serenamente, confessando gli altri reclusi, esortandoli, pregando anche con loro, organzzando gruppi per recitare il rosario”: Fu così fino al 1° settembre, quando lo chiamarono senza che fosse stato sottoposto ad alcun processo.

“Si congedò dalle persone, le benedisse, si confessò e si poté comunicare perché gli amici avevano posto l'Eucaristia tra i vestiti. Diede anche la Comunione a chi era lì quella mattina”.

Venne condotto al cimitero. Uno dei testimoni del suo omicidio fu Josep María Tarragó, che allora aveva 17 anni e le cui dichiarazioni sono state fondamentali per la beatificazione di Samsó.

“Uno dei miliziani che lo uccise disse che il dottor Samsó aveva salito quei gradini – quelli del cimitero in cui è stato assassinato – con una grande serenità ed era a loro che tremavano le gambe”, ha testimoniato Josep María in un video sui martiri religiosi della Guerra Civile Spagnola.

“Una volta arrivato in cima voleva abbracciare i miliziani, ma non si lasciarono abbracciare. Disse allora che voleva dare un ultimo sguardo alla sua amata parrocchia e a Mataró. Questo gli venne concesso”, raccontava il testimone, morto di recente.

Prima di morire, padre Samsó disse ai miliziani: “Uccidendomi commettete un crimine, ma mi fate un favore molto grande, perché mi aiutate a conquistarmi il cielo. Io sarò con Dio oggi stesso. Vi prometto che quando giungerò alla sua presenza la mia prima preghiera sarà per voi”.

Tra coloro che lo dovevano uccidere, c'era un amico della parrocchia che andava sempre a chiedere del cibo. Quando gli stavano per chiudere gli occhi, padre Samsó gli disse: “Anche tu?”

“Uno degli assassini disse: 'Uccidiamolo subito perché vi convertirà tutti!”, ha testimoniato padre Julià.

Quando i fedeli seppero della sua morte, andarono al cimitero per prendere il suo corpo e seppellirlo. Nel 1944 venne trasferito nella Basilica nella quale sarà beatificato. A poco a poco la sua fama di santità crebbe, fino a quando Papa Giovanni Paolo II autorizzò a riprendere lo studio della sua causa di canonizzazione.

Parlando a ZENIT, il postulatore ha commentato che i suoi stessi genitori conoscevano personalmente padre Samsó. “Era innamorato di Cristo e doveva comunicarlo. Il modo migliore era la catechesi dei bambini la domenica pomeriggio. Preparava le lezioni e i cartelloni. I bambini si entusiasmavano. Dava loro una specie di punti e alla fine dell'anno offriva dei premi a chi aveva più punti”.

La testimonianza di padre Samsó è così un faro che illumina l'Anno Sacerdotale: “A immagine del Curato d'Ars, abbiamo un parroco che viene beatificato quest'anno. Sono due grandi annunciatori di questa buona notizia, uomini di grande carità”, ha concluso.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Notizie dal mondo


Il Parlamento europeo condanna le recenti violenze contro i cristiani
Chiede alle autorità egiziane e malesi di garantire la sicurezza delle minoranze religiose
ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Parlamento europeo ha espresso un dura condanna contro "tutte le forme di violenza, discriminazione e intolleranza, basate sulla religione e sul credo, contro le persone religiose, gli apostati e i non credenti". 

E' quanto si legge in un comunicato diffuso dal Parlamento europeo, nel quale si afferma ancora che in relazione ai recenti attacchi, quest'organo dell'Unione europea ha chiesto "alle autorità egiziane e malesi di garantire la sicurezza dei cristiani e delle altre minoranze religiose presenti sul loro territorio, nonché di adottare le misure necessarie per proteggere le chiese e i luoghi di culto".

A questo proposito il Parlamento ha adottato una risoluzione - che porta la firma di Mario Mauro e di Fiorello Provera - sostenuta da tutti i gruppi politici, che sottolinea innanzitutto come il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione sia "un diritto umano fondamentale garantito dagli strumenti giuridici internazionali".

Osservando che anche l'Europa "non è esente" da casi di violazione di questa libertà e conosce crimini individuali di questa natura, il Parlamento ha chiesto al Consiglio, alla Commissione e all'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza di prestare particolare attenzione alla situazione delle minoranze religiose, comprese le comunità cristiane nel quadro delle relazioni e della cooperazione dell'UE con i paesi interessati.

Ha appoggiato poi tutte le iniziative volte a promuovere il dialogo e il rispetto reciproco tra comunità, invitando tutte le autorità religiose "a promuovere la tolleranza e ad adottare iniziative contro l'odio e contro la radicalizzazione violenta ed estremista".

Situazione in Egitto

Nel prendere la parola in Aula i due autori della risoluzione hanno osservato che, negli ultimi anni, in Egitto "hanno avuto luogo atti ricorrenti di violenza contro cristiani copti", ed hanno chiesto al governo egiziano "di garantire la sicurezza personale e l'integrità fisica dei cristiani copti e dei membri di altre minoranze religiose del paese".

In occasione della vigilia del Natale ortodosso (che secondo il calendario della Chiesa ortodossa copta si celebra la notte del 6 gennaio) nella città di Nagaa Hamadi, nella provincia di Quena, a circa 65 chilometri dalle rovine di Luxor, un attentato contro i fedeli che uscivano dalla chiesa della Vergine Maria ha causato la morte di sette persone, tra cui un agente di sicurezza musulmano, e il ferimento di altre tre.

Il Parlamento ha espresso apprezzamento per gli sforzi delle autorità egiziane nell'individuare gli autori e gli esecutori dell'attacco del 6 gennaio e ha chiesto al governo egiziano di tradurre in giustizia e processare "tutte le persone responsabili di tale attacco, come pure di altri atti di violenza contro cristiani copti o altre minoranze".

Ha sollecita inoltre il governo egiziano a garantire che i cristiani copti e i membri di altre comunità religiose e minoranze, "godano di tutti i diritti umani e libertà fondamentali - compreso il diritto di scegliere liberamente la propria religione e di cambiarla - e di evitare qualsiasi discriminazione contro gli stessi".

I cristiani d'Egitto, in maggioranza copti, rappresentano circa il 10% della popolazione del Paese. Su più di 83 milioni di abitanti, infatti, il 90% è rappresentato da musulmani.

Situazione in Malaysia

Il Parlamento europeo ha espresso poi preoccupazione per i recenti attacchi contro chiese e luoghi di culto in Malaysia ed ha manifestato la propria solidarietà alle vittime.

La Chiesa cattolica malese ha citato in giudizio il governo malese nel 2007 dopo che quest'ultimo aveva minacciato di proibire la pubblicazione del giornale "The Herald" per motivi di sicurezza nazionale qualora non avesse cessato di utilizzare la parola "Allah" che la comunità di lingua Bahasa-Malaysia, di fede cristiana, utilizza abitualmente come traduzione di "Dio".

Nel dicembre 2009, l'Alta Corte di giustizia malese ha dichiarato che i cristiani in Malaysia hanno il diritto costituzionale di utilizzare la parola "Allah" per riferirsi a Dio e che la parola "Allah" non è esclusiva dell'Islam.

A seguito della sentenza si è assistito ad almeno nove attacchi contro chiese cristiane in Malaysia. Il governo ha inoltre confiscato più di 15.000 copie della Bibbia in lingua malaya in cui si utilizzava la parola "Allah" per riferirsi a Dio.

A questo proposito il Parlamento europeo ha chiesto alle autorità malesi "di garantire la sicurezza personale e l'integrità fisica delle persone che praticano la propria religione e di adottare le misure necessarie per proteggere le chiese ed altri luoghi di culto".

I deputati Mario Mauro e Fiorello Provera hanno affermato che la condotta del Ministro dell'Interno costituisce "una violazione della libertà di religione" e si sono detti particolarmente preoccupati "per il fatto che il governo malese abbia agito in modo illecito e che con la sua ingerenza abbia contribuito all'acuirsi delle tensioni tra i gruppi religiosi nel paese".

Infine ha esortato le autorità malesi a rispettare la sentenza dell'Alta Corte della Malaysia sul diritto dei cristiani di utilizzare la parola Allah per riferirsi a Dio ed hanno chiesto al governo malese "di astenersi dall'intraprendere nuove azioni che potrebbero turbare la coesistenza pacifica tra la religione dominante e quelle minoritarie".

Crocifissi nelle aule scolastiche

Durante i lavori in Aula sono stati, inoltre, respinti due emendamenti del gruppo Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), riguardo alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo "che vieta l'uso dei crocefissi nelle aule scolastiche italiane", giudicata un esempio di come "anche in Europa si possono riscontrare atti d'intolleranza nei confronti dei cristiani".

Uno di questi emendamenti rammentava alla Corte "il ruolo fondamentale svolto dal cristianesimo nella formazione dell'identità storica e culturale europea".

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Rinvenuta la salma del vicario di Port-au-Prince con in mano un reliquiario
La Caritas in prima linea nel fornire aiuti alle vittime

PORT-AU-PRINCE (Haiti), giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Nella notte tra martedì e mercoledì, alcuni soccorritori messicani hanno rinvenuto il cadavere di monsignor Benoît Charles, vicario generale dell'Arcidiocesi di Port-au-Prince.

Secondo quanto ha reso noto dalla capitale haitiana padre Antonio Sandoval, coordinatore regionale della Caritas Latinoamericana e del Caribe, “al momento del suo ritrovamento il monsignore aveva in mano un reliquiario che conteneva un'ostia. In ogni momento il Signore lo ha accompagnato in questo cammino verso di Lui”.

Nel terremoto ha perso la vita anche monsignor Joseph Serge-Miot, Arcivescovo di Port-au-Prince, scaraventato dalla forza del sisma dal balcone della sua residenza.

Nelle operazioni di soccorso è stato possibile salvare una donna di 60 anni a quasi sei giorni dal terremoto.

Questo mercoledì, ha spiegato padre Sandoval, “continuavano la ricerca di sopravvissuti e l'assistenza a un piccolo ospedale vicino alla Cattedrale, dove i medici messicani della missione Caritas hanno curato insieme a medici cubani i più poveri tra i poveri”.

“Le persone arrivano con ferite gravi con necrosi. Sono state necessarie decine di amputazioni per salvare loro la vita”, ha aggiunto il sacerdote.

“La dedizione dei medici, delle squadre di soccorso sudafricane e messicane e delle religiose che accompagnano questa missione della Caritas merita un riconoscimento per la generosità e il coraggio”.

“I gesti di generosità continuano, e ci dimostrano che la vita è più forte della morte”, ha commentato.

Questo martedì, la Caritas ha distribuito aiuti su vasta scala in un quartiere di Port-au-Prince in cui si sono dislocati alcuni membri della 82ª Divisione Aerea degli Stati Uniti, il che ha permesso di garantire alle vittime minime condizioni di sicurezza.

La Caritas ha potuto portare sul punto di distribuzione sette camion con aiuti umanitari, costituiti da 1.000 lotti familiari di sussistenza per due giorni, oltre a bottiglie d'acqua, tappetini di plastica e prodotti non deperibili. Tutti questi aiuti sono stati consegnati solo alle donne da un gruppo di volontari di Caritas Haiti.

Una delle beneficiarie degli aiuti, Rose St-Preux, di 32 anni, stava lavorando in un'agenzia di viaggi quando si è verificato il terremoto. Si è salvata perché l'edificio, pur essendo rimasto gravemente danneggiato, non è crollato. E' corsa subito a casa, ma l'ha trovata completamente distrutta.

Ora vive con la madre, la sorella e i tre fratelli, che si sono miracolosamente salvati, e sono accampati con altre 60 persone.

“E' molto difficile – ha confessato Rose –, non abbiamo nulla e questi aiuti della Caritas sono i primi che riceviamo”.

[Per vedere il video: http://www.h2onews.org]

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Pakistan: un giovane cristiano condannato all'ergastolo per blasfemia
Accusato di aver bruciato delle pagine del Corano

ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il tribunale di Faisalabad (Pakistan) ha condannato all'ergastolo Imran Masih, un giovane cristiano di 26 anni accusato di aver distrutto alcune pagine del Corano (cfr. ZENIT, 9 luglio 2009).

La sentenza, ricorda AsiaNews, è stata emessa in base all’articolo 295-B del Codice Penale pakistano – noto come “legge sulla blasfemia” – perché il giovane avrebbe bruciato “di proposito” versetti del Corano e un libro in arabo per “fomentare l’odio interreligioso e offendere i sentimenti dei musulmani”.

Il 1° luglio scorso, Masih, commerciante, è stato arrestato dalla polizia con l'accusa di aver bruciato delle pagine del Corano. In precedenza era stato brutalmente torturato da un gruppo di musulmani. Oltre all'ergastolo, è stato condannato a una pena aggiuntiva a 10 anni di carcere duro e al pagamento di 100.000 rupie (poco più di 800 euro).

Peter Jacob, segretario esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace (Ncjp) della Chiesa cattolica, ha promesso battaglia, definendo la sentenza “non buona” e sottolineando la “mancanza di libertà” del sistema giudiziario.

“Faremo del nostro meglio per salvargli la vita”, ha dichiarato, spiegando che tutti i casi di blasfemia “sono montati ad arte”.

La Commissione cattolica ha chiesto anche “serie riforme Costituzionali e legali” per sradicare l’estremismo e l’abuso della religione nella vita politica del Pakistan.

“La religione – scrive in un documento – è il maggior pretesto nelle mani dei partiti politico-religiosi, che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nel trascinare la nazione sull’orlo del baratro”.

Jacob e monsignor Lawrence Saldanha, Arcivescovo di Lahore, sottolineano che il Pakistan “dovrebbe prendere esempio dal vicino Bangladesh”, dove i giudici hanno messo al bando i partiti che si rifanno alla religione.

“Gli affari di Stato e la politica vanno trattati in modo indipendente, non coperti dal manto della religione”, affermano.

La legge sulla blasfemia è stata introdotta nel 1986 dal dittatore pakistano Zia-ul-Haq ed è diventata uno strumento di discriminazioni e violenze. La norma punisce con l’ergastolo chi offende il Corano e con la condanna a morte chi insulta il profeta Maometto.

Secondo dati della Ncjp, le persone incriminate sono quasi 1000. La norma rappresenta anche un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali: 33 in tutto, compiuti da singoli o folle esaltate.

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Liturgia, azione sociale, vocazioni: priorità del nuovo primate del Belgio
Prima conferenza stampa di monsignor André "Joseph" Léonard

di Jesús Colina

BRUXELLES, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Una liturgia profonda, un'autentica preoccupazione sociale e la promozione delle vocazioni sono tre delle priorità annunciate dal nuovo Arcivescovo di Malines-Bruxelles, monsignor André "Joseph" Léonard.

Il giorno in cui è stata resa nota la sua nomina, il 17 gennaio, il primate del Belgio - accompagnato dal suo predecessore, il Cardinale Godfried Danneels - ha concesso una conferenza stampa nella quale ha ricordato che presto compirà 70 anni.

“Ciò significa che, se conserverò la buona salute che ho oggi, non avrò che cinque anni per servire questa diocesi di Malines-Bruxelles”, ha affermato nel suo incontro con la stampa questo filosofo e teologo, che è stato Vescovo di Namur per quasi 20 anni.

“Potrete quindi capire che devo stabilire delle priorità per utilizzare nel modo più efficace possibile gli anni che in teoria ho davanti a me”, ha aggiunto il presule, che in virtù del suo nuovo incarico, secondo un costume proprio del Belgio, diventa anche presidente della Conferenza Episcopale e Vescovo della Diocesi delle Forze Armate.

L'Arcivescovo ha annunciato, innanzitutto, che in questi anni desidera compiere una visita sistematica alla diocesi per conoscere la realtà sul campo.

Tre priorità

Parlando delle basi del suo futuro ministero arcivescovile, il primate ha affermato di voler promuovere una delle idee centrali proposte dal Cardinale Danneels nelle sue omelie delle ultime settimane: “l'importanza di una liturgia accurata, fedele alla grande tradizione della Chiesa, degna di Dio e degna degli uomini e delle donne che vi partecipano”.

Nel suo congedo, ha ricordato l'Arcivescovo Léonard, il suo predecessore ha auspicato “che la nostra Chiesa sia sempre più una Chiesa 'orante' e 'adorante', invitando anche in modo esplicito a sviluppare la pratica dell'adorazione eucaristica”.

“Vorrei impegnarmi con decisione in questa direzione”, ha aggiunto.

L'altra priorità pastorale che monsignor Léonard promuoverà, seguendo la via tracciata dal Cardinal Danneels, che lo ha consacrato Vescovo nel 1991, è la “preoccupazione sociale, soprattutto in materia di alloggi. Vorrei, nel modo migliore possibile, seguire i suoi passi, in questo campo come in molti altri”.

Monsignor Leónard ha poi indicato come priorità “la preoccupazione per le vocazioni, per tutte le vocazioni”.

“L'impegno di tanti cristiani – ha sottolineato l'Arcivescovo, che parla sette lingue –, uomini e donne, nella società e nelle nostre parrocchie e movimenti, è una benedizione”.

“Ad ogni modo, abbiamo anche bisogno di uomini e donne consacrati, così come di sacerdoti e diaconi”, ha affermato monsignor Léonard, che come Vescovo di Namur è noto per la crescita del suo seminario (nel quale studiano 35 dei 71 seminaristi del Belgio).

“Chiaramente non ho ricette per suscitare o attirare vocazioni alla vita consacrata o al sacerdozio, ma so che il Signore vuole donarcele e prometto di fare tutto ciò che è nelle mie possibilità per rispondere alla sua volontà”.

L'Arcivescovo ha annunciato sulla sua pagina web che, in occasione della sua nomina, ha modificato il suo secondo nome, Mutien (che aveva adottato quando era stato nominato Vescovo di Namur), in Joseph, santo patrono del Belgio. Monsignor André Mutien Léonard si chiamerà ora André Joseph Léonard. Prenderà possesso della sua sede il 28 febbraio.

[Con informazioni di Anita S. Bourdin]

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I seminaristi di Haiti abbandonati alla propria sorte
Alcuni sono rimasti feriti, tutti hanno perso ogni cosa
di Jesús Colina

ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- I seminaristi di Haiti sono rimasti abbandonati alla propria sorte dopo che il terremoto ha distrutto il loro seminario e nel panico hanno dovuto trovare un rifugio.

Nel seminario nazionale di Port-au-Prince, prima del sisma, c'erano poco più di 250 studenti. L'associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), preoccupata per la loro sorte, informa che nel Paese sono morti almeno 30 seminaristi, non solo diocesani, ma anche religiosi.

Il 17 gennaio il Vescovo di Fort-Liberté, monsignor Chibly Langlois, ha rivelato in un messaggio indirizzato all'associazione pontificia ciò che hanno visto le persone che ha mandato a riprendere 16 seminaristi della capitale.

"Uno dei seminaristi aveva passato due giorni e mezzo sotto le macerie. Un altro era ferito. Altri tre erano sotto shock ed avevano bisogno di cure particolari. Ho mandato due seminaristi nella Repubblica Dominicana per visite accurate altrimenti impossibili a Fort-Liberté", ha detto il presule.

"Inoltre i seminaristi non hanno potuto recuperare nulla di quanto possedevano. Ciò significa che da parte nostra è necessario fornire non solo assistenza medica, ma anche aiuto finanziario in modo che possano procurarsi indumenti di ricambio ed altri generi di prima necessità", ha aggiunto.

Di fronte a questa situazione, ha reso noto a ZENIT Xavier Legorreta, responsabile degli aiuti per l'America Latina di ACS, una delle necessità più impellenti è offrire i mezzi necessari per ricostituire la comunità dei seminaristi.

In questa occasione, l'associazione ha inviato 100.000 dollari (70.000 euro) che serviranno per accogliere la comunità di seminaristi e rispondere alle sue necessità. ACS ha anche annunciato che presto invierà altri aiuti.

Aiuto alla Chiesa che Soffre risponde in questo modo al disperato appello lanciato dall'Arcivescovo di Cap Haitien, monsignor Louis Kébreau, presidente della Conferenza Episcopale di Haiti.

L'istituzione coordina la sua opera assistenziale con il Nunzio Apostolico ad Haiti, l'Arcivescovo Bernardito Auza, che sta facendo giungere aiuti da Santo Domingo, capitale della vicina Repubblica Dominicana.

Monsignor Auza ha inviato ad ACS una lista delle perdite più gravi che ha subito la Chiesa nel Paese.

In pratica, le 80 parrocchie dell'Arcidiocesi di Port-au-Prince e le sue cappelle (circa quattro per parrocchia) sono state distrutte. "Stiamo parlando di circa 320 cappelle!", ha spiegato Legorreta dando un'idea dell'enorme compito che ha ora davanti la Chiesa locale, che ha perso l'Arcivescovo di Port-au-Prince e il suo vicario generale.

Di fronte alle necessità, il Nunzio confessa: "Non riesco a moltiplicare il mio sacco di riso".

Legorreta sta preparando una missione di Aiuto alla Chiesa che Soffre per le prossime settimane ad Haiti per analizzare come sia possibile rispondere alla situazione dei seminaristi e ad altre necessità urgenti della Chiesa nel Paese.

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Incontro del presidente dei Focolari con 3.000 buddisti in Giappone
Membri dell'associazione Rissho Kosei-kai
ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'incontro del presidente dei Focolari con 3.000 buddisti è diventato una delle tappe principali del viaggio che compie nel continente asiatico.

"E' grande la mia commozione nel trovarmi qui, in questa aula sacra, in cui già Chiara Lubich ha parlato nel 1981, facendo dono della sua testimonianza di fede", ha esordito Maria Voce, parlando venerdì 15 gennaio in un tempio buddista a Tokyo.

I partecipanti sono membri dell'associazione Rissho Kosei-kai, sorta nel 1938 ad opera di due laici, Nikkyo Niwano e Myoko Naganuma, per promuovere la pace e il dialogo.

Il Giappone, dopo la Corea, ha costituito la seconda tappa del viaggio che il presidente Maria Voce, assieme al co-presidente, Giancarlo Faletti, sta compiendo in Asia in visita alle comunità del movimento e ad altre realtà a esso vicine.

Il legame tra i buddisti della Rissho Kosei-kai e i Focolari è forte. Oggi l'associazione giapponese conta oltre sei milioni di aderenti in varie Nazioni: Taiwan, Corea, Singapore, Thailandia, Bangladesh, Sri Lanka, India, Nepal, Cina, Mongolia, Stati Uniti, Brasile, Svizzera, Russia.

Il fondatore Nikkyo Niwano incontrò per la prima volta Chiara Lubich nel 1979 a Roma e successivamente, nel 1981, la invitò a parlare a Tokyo in occasione di una cerimonia presso la sede dell'associazione.

"Pur nella grande diversità, molti sono i punti in comune tra i due movimenti", che, proprio per questo, ha sottolineato il presidente, possono diventare "ponti dal mondo buddista a quello cristiano e viceversa".

Il presidente dei Focolari ha quindi indicato come impegno quello "di lavorare insieme per rendere la famiglia umana più unita con l'amore e la compassione".

Christina Lee, co-responsabile del Centro del dialogo interreligioso dei Focolari, appena rientrata da Tokyo ha spiegato: "Si sente che in questi 30 anni è cresciuto fra noi un rapporto di grande fiducia, direi, di grande amore".

"Hanno detto che quello che stiamo vivendo non è tanto un dialogo, ma una comunione profonda come in una famiglia. E' un camminare insieme accompagnando gli uni gli altri verso l'Amore, verso la meta che Dio ha stabilito".

"Vogliamo si allarghi sempre più questa 'famiglia', per portare questo modello al mondo così segnato da conflitti spesso provocati dalle differenze di cultura e religione", ha concluso Christina Lee.

Frutti di questo dialogo, fra l'altro, sono i simposi buddisti-cristiani, promossi fin dal 2002 per sviluppare la conoscenza reciproca, anche da un punto di vista culturale. Il prossimo simposio si svolgerà in Thailandia dal 1° al 5 febbraio.

Dopo aver fatto tappa in Giappone, i due dirigenti dei Focolari si trovano attualmente nelle Filippine.

Il 24 gennaio, fra gli altri, è previsto un incontro con le comunità dei focolari di Manila, Tagaytay e Hong Kong.

Il 28 gennaio, il presidente Maria Voce interverrà al secondo congresso nazionale del clero, organizzato dalla Conferenza Episcopale delle Filippine.

Dopo le Filippine, i due dirigenti si recheranno in Thailandia.

Il viaggio era iniziato il 6 gennaio in Corea. Per l'occasione, i rappresentanti dei Focolari si erano intrattenuti a colloquio, tra gli altri, con il presidente della Conferenza Episcopale di Corea, il Vescovo di Cheju, Peter Kang U-il.

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Dottrina Sociale e Bene Comune


Il "Cortile dei Gentili" e la Dottrina sociale della Chiesa

di mons. Giampaolo Crepaldi*

ROMA giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ci ha ormai abituato ad aspettarci delle riflessioni molto rilevanti dai suoi Discorsi annuali alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi. Anche quest’anno il papa non ha deluso le attese e prendendo spunto dai suoi tre viaggi in Africa, in Terra Santa e nella Repubblica Céca, ha parlato del “Cortile dei gentili”.

Cos’era questo “Cortile”? Secondo il profeta Isaia, il tempio doveva essere un luogo di preghiera per tutti i popoli (“Il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”). Isaia annuncia il Dio vero ed unico (“Io sono il primo e io l’ultimo, fuori di me non vi sono altri dei”) non idoli fabbricati dagli uomini creati apposta per rassicurare dalle paure (“Chi fabbrica un Dio o fonde un idolo senza cercarne vantaggi?”).

Il Cortile dei Gentili era lo spazio del tempio ove avevano accesso tutti i popoli, e non solo gli Israeliti, per pregare il Dio a loro ancora sconosciuto anche se non potevano accedere  all’interno del tempio e celebrare quindi pienamente il mistero. Gesù aveva cacciato di là i cambiavalute e i venditori di colombe, rovesciandone i tavoli come racconta il Vangelo.

Qual è lo status religioso di questi “Gentili”? Sono coloro, dice il papa, che sono scontenti dei loro déi, riti e miti perché si rendono conto che da essi non può derivare nessuna vera salvezza in quanto produzione di mani d’uomo. Anche se essi non lo conoscono, sono in attesa del Dio unico, vero e grande, il Dio che è verità e amore e desiderano pregarlo. Sono tutte quelle persone che sentono come l’irreligiosità del loro tempo non li ha liberati ma ha condotto a nuovi miti in apparenza liberatori ma non veramente liberanti.  Essi  non conoscono il vero Dio, però se trovassero un aggancio vi si appiglierebbero. Oggi i Gentili sono coloro per i quali “la religione è una cosa estranea” eppure non vogliono rimanere semplicemente senza Dio, mentre sono stanchi e forse nauseati dagli dèi che l’irreligiosità ha posto (o imposto) loro davanti.

A quei tempi i Gentili erano i ”popoli” diversi da Israele, in seguito divennero i popoli che non avevano ancora conosciuto il cristianesimo, e oggi? Sono coloro, dice il papa, che sono scontenti dei loro déi, riti e miti perché si rendono conto che da essi non può derivare nessuna vera salvezza in quanto produzione di mani d’uomo. Anche se essi non lo conoscono, sono in attesa del Dio unico, vero e grande, il Dio che è verità e amore e desiderano pregarlo. Sono tutte quelle persone che sentono come l’irreligiosità del nostro tempo ha condotto a nuovi miti in apparenza liberatori ma non veramente liberanti. Essi non conoscono il vero Dio, però se trovassero un aggancio vi si appiglierebbero. Oggi i Gentili sono coloro per i quali “la religione è una cosa estranea” eppure non vogliono rimanere semplicemente senza Dio, mentre sono stanchi e forse nauseati dagli dèi che l’irreligiosità ha posto (o imposto) loro davanti.

Il papa chiede che anche oggi si creino dei “Cortili dei Gentili” per permettere a costoro di avvicinare Dio “almeno come Sconosciuto”. La proposta è indubbiamente nuova e delinea orizzonti molto vasti di azione e dialogo con i non credenti. Per meglio comprendere le indicazioni del papa mi permetto di fare tre osservazioni. Prima di tutto la constatazione che nell’irreligiosità moderna l’uomo è di nuovo consegnato – come i Gentili ai tempi di Israele – ai miti e agli idoli; nuovi miti e nuovi idoli, molto secolarizzati ma ugualmente irrazionali e consistenti in assicurazioni contro le nostre paure. C’è qui un giudizio molto pesante sulla irreligiosità odierna, quasi la decretazione di un suo fallimento: nata per  liberare l’uomo dal mito religioso è ricaduta in versioni più scialbe ma non meno potenti di mito. Tutta la dignità della irreligiosità odierna sembra essere vista nella tensione carsica verso il Dio Sconosciuto. Ripercorrendo i discorsi di Ratzinger è facile elencare questi nuovi miti: l’ecologismo, il vitalismo, lo scientismo, il materialismo, lo psicologismo, lo sviluppismo, il terzomondismo, il pauperismo, l’ideologia del gender, l’ideologia della diversità, l’economicismo,  l’inclusivismo, il narcisismo e tutte le forme di riduzionismo.

In secondo luogo c’è l’invito a dialogare non in un ambito neutro o imparziale rispetto alla proposta del Dio cristiano. Il Cortile dei Gentili, infatti, non era fuori del tempio, ma dentro. Non era un luogo profano ma già sacro. E’ un luogo non ancora confessionale, non ancora liturgico, non ancora ecclesiastico, ma è un luogo religioso. Ratzinger non propone discussioni con i non credenti di tipo solo filosofico, accademico, tavole rotonde in cattedrale e così via; dice che i nuovi Gentili vorrebbero pregarlo ed adorarlo anche come “Sconosciuto”. Chiede quindi una proposta di fede e di religione.

Da ultimo, nella proposta del Cortile dei Gentili si vede l’idea ratzingeriana che il Dio di Gesù Cristo sia risposta alle profonde attese umane e come tale, secondo lui, dovrebbe essere proposto. La proposta di fede e di religione è perciò anche una proposta di ragione. Il percorso però non è mai dalla ragione alla fede, ma dalla fede alla ragione. Questa la principale novità della proposta del “Cortile dei Gentili”. 

Credo che in questo grande disegno un ruolo molto importante possa essere giocato dalla Dottrina sociale della Chiesa, la quale si colloca nel punto di incontro tra la ragione e la fede, vale a dire nel punto in cui il Cortile dei Gentili lambisce l’interno del tempio. La Dottrina sociale della Chiesa è essa stessa una specie di “Cortile dei Gentili” in quanto parla a tutti gli uomini, anche a coloro cui  Dio è sconosciuto. Essa parla di Dio parlando dell’uomo e della comunità degli uomini.

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*Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla dottrina sociale della Chiesa

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Italia


Card. Bagnasco: tra il Papa e l'Italia, un affetto padre-figlio
In occasione della presentazione a Roma de "I viaggi di Benedetto XVI in Italia"

ROMA, giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Quello tra Benedetto XVI e l'Italia è un legame di affetto reciproco, molto simile quello tra un padre e un figlio. Lo ha detto questo giovedì il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) intervenendo a Roma, nella sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alla presentazione dell’opera “I viaggi di Benedetto XVI in Italia”.

Il volume documentario, edito dalla Libreria Editrice Vaticana in collaborazione con l’Ambasciata stessa e a cura del prof. Pierluca Azzaro, ripercorre i viaggi compiuti dal Pontefice in Italia fino al settembre dello scorso anno.

Nel suo intervento il Cardinale Bagnasco ha sottolineato la “particolare vicinanza e l’affetto del Vicario di Cristo per la nostra Nazione e per la Chiesa che vive in Italia”.

“I viaggi in Italia di Papa Benedetto XVI – ha detto il Presidente della CEI – vanno, dunque, inquadrati nel più ampio contesto delle molteplici attenzioni che egli ha per quella che è diventata da quasi trent’anni, e ancor più dalla sua elezione al Supremo Pontificato, la sua terra d’adozione”.

“Egli l’ama con affetto di Padre e l’Italia lo ricambia con affetto filiale”.

“Esprimendo la sollecitudine di Cristo – ha aggiunto –, si fa pellegrino e raggiunge le situazioni più diverse, ne prende conoscenza attraverso i Pastori e le Istituzioni civili, le tocca personalmente nella inevitabile brevità dei tempi, ma nella lungimiranza della fede e nell’intensità del cuore”.

Il porporato ha quindi evidenziato la “nota dominante” che lega i suoi pellegrinaggi pastorali, quel “'cantus firmus' che costituisce il cuore della sua altissima missione di Successore di Pietro. Egli conferma la fede: 'io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli' (Lc 22.32)”.

“Ogni incontro con il Papa non suscita forse questa profonda percezione? Di essere confermati nella fede in Cristo, di essere più convinti e più forti, di assaporarne maggiormente la bellezza e la gioia?”, si è chiesto.

Quello petrino, ha spiegato poi, è un carisma “che ha la virtù di sciogliere possibili barriere e diffidenze; capace di creare ponti perché disarmato e disarmante: è un carisma, infatti, che viene dall’Alto, dal Dio della pace e dell’amore”.

Un carisma, ha poseguito, che non suscita “una festosità passeggera e di folklore” ma che “sprigiona sentimenti ed energie che a volte – nel panorama generale – sembrano spenti e che commuovono lo spettatore curioso”, e che “riaccende la speranza nel vedere un uomo mite che invita a guardare lontano per poter vedere vicino”.

Una speranza, ha detto ancora, “che ci parla di Dio e del suo Figlio Gesù Cristo; che ricorda l’esigenze alte e affascinanti della vita cristiana; che manifesta la bellezza della Chiesa e indica al mondo la via del Cielo”.

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Interviste


Incontrare Dio nei migranti e negli stranieri
Intervista a suor Marilyn Lacey

di Genevieve Pollock

SANTA CLARA (California), giovedì, 21 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La paura degli immigrati è comprensibile, ma per i cristiani è fondamentale superarla per incontrare Dio negli stranieri, afferma suor Marilyn Lacey, che ha alle spalle trent'anni di esperienza nel servizio agli stranieri.

Marilyn Lacey fa parte della congregazione delle Sorelle della misericordia ed è direttrice dell'organizzazione “Mercy Beyond Borders”, che collabora con donne e giovani profughi del sud del Sudan, per alleviare le loro condizioni di estrema povertà.

Nel suo libro "This Flowing Toward Me: A Story of God Arriving in Strangers" (Ave Maria Press), pubblicato la scorsa primavera, scrive del suo lavoro con i rifugiati negli Stati Uniti, in Africa e Asia.

Suor Lacey ha condiviso con ZENIT la sua esperienza tra migranti e rifugiati, in occasione della celebrazione, negli Stati Uniti, della Settimana nazionale delle migrazioni, tenutasi dal 3 al 9 gennaio.

Spesso l'immigrazione viene descritta attraverso i numeri, ma considerando il profilo della persona migrante, quali sono le speranze, i timori, le difficoltà e le necessità?

Suor Lacey: È del tutto naturale pensare agli immigrati come “altri”, come qualcuno molto diverso da noi.

Nella normativa sull'immigrazione il termine tecnico utilizzato per indicarli è “alien”, che letteralmente significa “altro”.

Questo rafforza la nostra tendenza a temere gli immigrati, dato che generalmente ci risulta difficile fidarci di persone che sono percepite come diverse da noi.

In realtà, i migranti sono esseri umani, con famiglie da sostenere, figli da proteggere, sogni da realizzare. Le loro necessità più fondamentali sono di essere accolti, di trovare rifugio, di lavorare e di fare amicizie. Come Chiesa abbiamo un obbligo importante – che è al contempo un meraviglioso invito – ad essere quel luogo di accoglienza.

Qualche anno fa, un rifugiato cattolico, un giovane dell'Eritrea da poco stabilitosi in California, mi ha manifestato la sua grande confusione dicendo: “Sorella, qui negli Stati Uniti le chiese sono chiuse di notte!”. E io ammisi che era così.

La sua risposta immediata fu: “Ma se le chiese sono chiuse dove dormono i viaggiatori?”. La sua domanda dovrebbe indurci ad un esame di coscienza.

Quanto siamo accoglienti (come persone e come Chiesa) con gli stranieri che sono in mezzo a noi?

La Settimana nazionale della migrazione di quest'anno si è incentrata sui bambini. Ci potrebbe descrivere la vita del tipico bambino migrante?

Suor Lacey: La maggior parte del mio ministero si è svolto con i rifugiati. I bambini di famiglie rifugiate non conducono ciò che lei ed io consideriamo una vita normale.

Hanno lasciato le loro cose, hanno sperimentato viaggi lunghi e difficili. Molti hanno perso le proprie famiglie che magari sono state uccise.

Molti hanno testimoniato direttamente le atrocità, alcuni sono stati bambini soldato, costretti ad essere violenti. Hanno passato anni in un'esistenza artificiale nei campi profughi, dove la loro scolarizzazione si è svolta in modo irregolare (nella migliore delle ipotesi) e la loro alimentazione era scarsa.

La loro percezione del mondo è che si tratti di un luogo pericoloso. E senza dubbio sono meravigliosamente resistenti.

Se a loro si concede un luogo sicuro e la presenza di adulti affettuosi che li appoggino, allora possono prosperare.

Gli immigrati non tolgono qualcosa ai cittadini del Paese ospitante? Soprattutto in questo periodo di recessione economica, quando molti cittadini si ritrovano disoccupati, non è naturale che la gente cerchi di tutelare le proprie risorse? Esiste un modo per cambiare questo atteggiamento difensivo?

Suor Lacey: Difendere la propria famiglia e il Paese contro le minacce è comprensibile e persino meritevole.

Purtroppo, gli esseri umani tendono a non vedere chiaramente quali siano le vere minacce. La mia opinione – che spero sia fondata su una chiara lettura del Vangelo – è che la minaccia reale alla vita e alla vera felicità non sono gli immigrati ma la nostra avarizia, il nostro egoismo e desiderio di accaparramento.

I Paesi sviluppati sembrano voler accumulare sempre di più le ricchezze del mondo e allo stesso tempo emanano leggi sull'immigrazione che mantengono gli altri lontani da qualunque partecipazione a questi beni.

Il Vangelo ci propone le Beatitudini: essere poveri, condividere ciò che si ha, accettare la sofferenza, lavorare per la giustizia, sopportare la persecuzione.

Ci chiama persino ad amare i nostri nemici che cercano di farci del male. Mentre il mondo si sforza di convincerci che la sicurezza sta nell'uccidere i nostri nemici, o almeno nel tenersi lontani da noi, il Vangelo ci insegna che dobbiamo crescere nel perdono, nell'inclusione e in uno stile di vita tale da invitare tutti alla nostra mensa.

Si dice: il cielo è aperto a tutti coloro che vogliono sedersi a mensa con l'altro!

Personalmente credo che “il problema dell'immigrazione” non possa essere risolto solo con un dibattito razionale.

Dobbiamo includere la dimensione della fede che ci porta a comprendere che la nostra sicurrezza, il nostro benessere e la nostra felicità autentica risiedono nella nostra apertura agli stranieri, a persone diverse da noi.

Persino se l'inclusione degli immigrati nella nostra società dovesse comportare un abbassamento del nostro standard di vita (che, in realtà, non si verifica normalmente, perché la loro presenza stimola le economie), il dovere dei cristiani sarebbe quello di accoglierli.

Dio viene a noi con le sembianze dello straniero. Questo tema ricorre in tutte le Scritture: da Genesi 18 (Abramo è benedetto per tre stranieri che invita nella sua tenda) ad Apocalisse 3,20 (Dio rimane alla nostra porta chiamandoci con pazienza). Per me, questa è più che teoria: è la mia esperienza di trent'anni passati a lavorare con i rifugiati e i migranti in tutto il mondo.

Cosa può dire degli immigrati che entrano nel Paese illegalmente? Presumendo che vi siano buone ragioni per giustificare le attuali leggi sull'immigrazione, non è giusto condannare questo fenomeno illegale?

Suor Lacey: Alcuni mi domandano: “Perché queste persone non entrano legalmente? Stanno violando le nostre leggi!”.

È una questione seria, che fa appello al nostro senso di obbedienza alle leggi e che è nel DNA degli anglosassoni. La gente che pone questa domanda si sorpende nel vedere che in realtà non vi è modo perché queste persone possano entrare legalmente, perché le leggi sull'immigrazione non gli offrono alcuna via per farlo.

Solo alcune categorie di “altri” possono entrare legalmente e molti di questi, solo per limitati periodi di tempo.

Circa la metà di tutti i clandestini negli Stati Uniti, per esempio, sono persone entrate legalmente nel Paese e i visti sono scaduti per cui si trovano in situazione irregolare. Gli altri sono quelli che hanno attraversato il confine eludendo i controlli; solitamente sono persone che vengono in cerca di lavoro per inviare soldi a sostegno delle proprie famiglie.

L'attuale legge sull'immigrazione, per esempio, prevede che l'immigrato possa mantenere i membri della propria famiglia, costringendoli anche ad aspettare 18 anni prima di poter immigrare legalmente. Come si coniuga questo aspetto con la convinzione cristiana della sacralità della famiglia e l'importanza del ricongiungimento familiare?

Prima di giudicare chi viola la legge, la questione chiave per me è domandarci se le leggi vigenti sono eticamente giuste.

È giusto che in un'economia globale, dove i beni, le informazioni e il denaro superano tutte le frontiere, impedire che anche i lavoratori possano attraversare le frontiere?

È giusto, in un mondo in cui alcune persone sono nate in luoghi dove è quasi impossibile alimentare la propria famiglia, evitare che questi emigrino in luoghi dove possano provvedere alle necessità dei propri figli?

È giusto, in un mondo sempre più piccolo, che coloro che hanno estromettano coloro che non hanno?

È giusto erigere muri (come quello che gli Stati Uniti hanno fatto lungo la propria frontiera meridionale) o vivere in comunità chiuse che lascino fuori gli altri, e allo stesso tempo andare in chiesa e ascoltare le storie di Lazzaro e del ricco Epulone (Luca 16)?

Molti sentono compassione per gli immigrati ma dicono che non hanno nulla in più da dargli. Cosa può dare il cittadino medio all'immigrato?

Suor Lacey: Non costa nulla (salvo un po' di coraggio) essere calorosi e accoglienti con gli immigrati.

Non costa nulla ammettere che vi è sempre un posto a tavola da poter aggiungere.

Mentre può essere rischioso, individualmente, aprire la porta a un'estraneo, lo sforzo di un gruppo lo rende più facile. Le comunità possono essere importanti punti di accoglienza per gli stranieri.

Anche se non si ha nulla da parte, sono completamente sicura che tutti noi abbiamo molto da poter condividere e questa gioia vera ci sfuggirà finché non inizieremo a farlo.

Come diceva uno degli antichi santi: il paio di scarpe extra nell'armadio appartiene ai poveri. Quando viviamo con questo tipo di apertura e di condivisione, la benedizione abbonda!

Secondo lei quindi sottolineare la tolleranza verso chi è culturalmente diverso consente di fare in modo che gli immigrati si sentano più accolti, oppure vi è qualcos'altro che a suo avviso possa aiutare ad aprire i cuori verso le persone di etnie diverse?

Suor Lacey: La tolleranza verso la diversità è sicuramente un primo passo, ma l'auspicio è che si possa progredire oltre la mera tolleranza delle nostre diversità per constatare come ciò arricchisca tutti.

Ho lavorato con rifugiati e migranti di più di cinquanta Paesi e mi considero una delle persone più felici del pianeta, per aver potuto condividere tanti diversi punti di vista, tante diverse prospettive su Dio, tanti modi di superare le avversità e di vivere la vita in modo tenace.

Prego perché ciascuno possa prendere il rischio di accogliere uno straniero e di scoprire, con sua grande sorpresa, che Dio aspetta al suo posto per essere Egli stesso accolto!

Per maggiori informazioni: www.mercybeyondborders.org

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