martedì 23 marzo 2010

ZI100323

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 23 marzo 2010

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Santa Sede

Uomini e donne di fede

Anno Sacerdotale

Notizie dal mondo

Italia

Interviste


Santa Sede


Il Papa presiederà la Messa per Giovanni Paolo II il Lunedì Santo
"Ha servito la Chiesa fino al limite delle sue forze"
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il 29 marzo, alle 18.00, Benedetto XVI presiederà nella Basilica Vaticana la Santa Messa nel quinto anniversario della morte di Giovanni Paolo II, secondo quanto ha annunciato monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie.

In realtà Karol Wojtyła è morto il 2 aprile 2005, ma quest'anno la data cade il Venerdì Santo, motivo per il quale la Messa di suffragio del Sommo Pontefice è stata anticipata al Lunedì Santo.

Durante la preghiera dei fedeli di questa celebrazione eucaristica, è previsto che si elevi in polacco questa supplica: "Per il venerabile Papa Giovanni Paolo II, che ha servito la Chiesa fino al limite delle sue forze: perché dal cielo interceda per infondere la speranza che si realizza pienamente partecipando alla gloria della resurrezione".

Si pregherà anche in tedesco per Benedetto XVI, "perché continui, sulle orme di Pietro, a svolgere il suo ministero con perseverante docilità e fermezza per confermare i fratelli".

In spagnolo si pregherà poi per "noi qui riuniti per ricordare Papa Giovanni Paolo II: perché sappiamo amare e servire la Chiesa come Egli l'ha amata e l'ha servita, dando testimonianza della fede in Dio e offrendo il suo amore a tutti".

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La stampa e la lettera del Papa sugli abusi sessuali
"Senza precedenti", concordano quotidiani di varie tendenze
di Jesús Colina

CITTA' DEL VATICANO, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Favorevoli, contrari o internamente divisi, i mezzi di comunicazione di tutto il mondo hanno accolto la Lettera pastorale di Benedetto XVI ai cattolici d'Irlanda come un documento "senza precedenti", non solo perché è il primo dedicato da un Papa alla questione, ma anche per il dolore con cui è scritto.

L'interesse ha superato ampiamente le coste irlandesi, come ha dimostrato il fatto che pochi minuti dopo la pubblicazione in Vaticano, a mezzogiorno del 20 marzo, il testo si poteva già leggere sulle pagine web di quotidiani come Süddeutsche Zeitung, The New York Times, Le Monde, The Telegraph, El Mundo, Le Figaro, El Universal, Los Angeles Times, The Washington Post o El País.

I primi titoli si sono concentrati sulla richiesta di perdono che il Pontefice rivolge a nome della Chiesa alle vittime degli abusi commessi dai chierici: "Avete sofferto tremendamente e io ne sono veramente dispiaciuto. So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata".

Risposte delle vittime

Dopo la presentazione del documento, i primi commenti pubblicati dai media si sono concentrati sulle dichiarazioni delle associazioni delle vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, con divergenze d'opinione.

Tra le critiche, spiccano ad esempio il commento di Maeve Lewis, direttore esecutivo di One in Four, e il comunicato diffuso sabato stesso alle redazioni dalla Survivors Network of those Abused by Priests (SNAP).

In particolare, la nota critica duramente e con ironia il fatto che la lettera di Benedetto XVI non prenda misure concrete per affrontare gli scandali, principalmente il fatto che non si esiga la rinuncia di altre persone che hanno potuto in qualche modo essere coinvolte nei fatti. Critiche simili sono state esposte da altre associazioni di vittime, spesso con toni duri.

A questo aveva risposto padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, nella presentazione del documento ai giornalisti, spiegando che la lettera è un documento pastorale e quindi non affronta misure amministrative e giuridiche, come la possibile rinuncia di altri Vescovi irlandesi. Queste decisioni, ad ogni modo, spettano al Pontefice e agli interessati.

A volte queste stesse associazioni riconoscono di non comprendere la portata di uno degli annunci che il Papa fa nella lettera perché si toccano questioni tecniche di Diritto Canonico: la convocazione di una visita apostolica nelle Diocesi irlandesi, così come nei seminari e nelle Congregazioni religiose, con l'aiuto di esponenti della Curia Romana.

Lo stesso Papa comprende nel documento la difficoltà che rappresenta per le vittime di questi abusi accettare le sue parole: "È comprensibile che voi troviate difficile perdonare o essere riconciliati con la Chiesa. A suo nome esprimo apertamente la vergogna e il rimorso che tutti proviamo".

Dal canto suo, la Irish Survivors of Child Abuse Organisation (Irish-SOCA) ha considerato che la lettera contiene "un riconoscimento evidente del fatto che la Chiesa in Irlanda ha peccato nel modo più grave contro i giovani per molti decenni".

Il portavoce vaticano, nella sua presentazione ai giornalisti, ha risposto anche alla critica lanciata dai giornali tedeschi che si aspettavano allusioni da parte del Papa alla situazione del loro Paese. Ogni Stato, ha affermato padre Lombardi, ha i propri elementi specifici. Il Santo Padre deciderà quando e come intervenire nel caso della sua patria, ha aggiunto.

Colpevoli davanti a Dio e ai tribunali

L'altro passaggio molto citato dai quotidiani e dalle vittime, in particolare dall'Irish-SOCA, è quello rivolto "ai sacerdoti e ai religiosi che hanno abusato dei ragazzi": "Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti".

Sottolineando questi fatti, i media hanno insistito sul fatto che per la Chiesa non è mai possibile accettare l'insabbiamento. "La giustizia di Dio esige che rendiamo conto delle nostre azioni senza nascondere nulla - chiede il Papa ai chierici che si sono macchiati di questi crimini -. Riconoscete apertamente la vostra colpa, sottomettetevi alle esigenze della giustizia".

Per questa ragione, uno dei titoli più comuni per illustrare la lettera è stato "I sacerdoti pedofili devono rispondere davanti a Dio e ai tribunali".

Lettera senza precedenti

Ad ogni modo, c'è qualcosa in cui il Papa è riuscito a mettere d'accordo le associazioni delle vittime e la stampa in generale: le "scuse senza precedenti" che appaiono in una lettera dal tono sincero e umile.

"Non posso che condividere lo sgomento e il senso di tradimento che molti di voi hanno sperimentato al venire a conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati", riconosce Benedetto XVI nel messaggio.

"Il Papa prova 'vergogna' davanti ai casi di pederastia", è stato il titolo di alcuni quotidiani.

La penitenza, aspetto trascurato dai giornali

Curiosamente, molti media hanno messo da parte la prima misura adottata dal Papa, del tutto eccezionale per un documento con queste caratteristiche: la penitenza comunitaria che propone alla Chiesa in Irlanda.

Il Pontefice invita infatti i cattolici irlandesi a "dedicare le vostre penitenze del venerdì, per un intero anno, da ora fino alla Pasqua del 2011", "per ottenere la grazia della guarigione e del rinnovamento per la Chiesa in Irlanda".

Non hanno trovato molto spazio neanche il passaggio in cui il Vescovo di Roma esorta "a riscoprire il sacramento della Riconciliazione" e l'adorazione eucaristica o quello in cui convoca "una Missione a livello nazionale per tutti i Vescovi, i sacerdoti e i religiosi".

Il fatto di aver trascurato questi passaggi ha portato i media a tralasciare la frase centrale del messaggio di fronte al futuro: "Sono fiducioso che questo programma porterà ad una rinascita della Chiesa in Irlanda nella pienezza della verità stessa di Dio, poiché è la verità che ci rende liberi".

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Uomini e donne di fede


Cesare Colombo, la rivoluzione dell'amore

di padre Piero Gheddo*

ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il 13 marzo scorso, nel Teatro della Società di Lecco, si è svolta un’assemblea cittadina organizzata dal Laboratorio missionario di Lecco, per commemorare il centenario della nascita di padre Cesare Colombo (1910-1980), missionario lecchese del Pime in Birmania, medico-chirurgo, fondatore e direttore del lebbrosario di Kengtung.

Vi hanno partecipato mons. Roberto Busti, vescovo di Mantova e parroco emerito di Lecco, mons. Franco Cecchin, attuale parroco, varie autorità civili e un 250-300 amici del Laboratorio missionario. Mons. Busti ha aperto l’assemblea ricordando i suoi molti incontri con padre Cesare; poi ho tenuto la commemorazione ufficiale del missionario e infine suor Maria Viganò, delle suore di Maria Bambina, ha dato una toccante testimonianza dell’influsso che padre Cesare ha avuto nella sua vita. Ecco in sintesi quanto ho detto più a lungo:   

Padre Cesare Colombo è andato in Birmania nel 1935, nella prefettura apostolica di Kengtung, ai confini con Thailandia, Laos e Cina. Si interessa subito dei lebbrosi, che allora erano tanti e abbandonati a se stessi, non curati in nessun modo, anzi scacciati dei villaggi, portati in foresta perché morissero. Il suo amore per il popolo birmano si esprimeva soprattutto verso i lebbrosi e tutti i poveri che battevano alla sua porta. Già nel 1936 aveva cominciato a raccogliere i lebbrosi, gli handicappati, quelli cacciati via dai villaggi. “Quando parlava dei lebbrosi piangeva”, ricordavano i confratelli. Nella casa di riposo del Pime a Lecco, una volta gli ho chiesto: “Perché si è messo ad assistere i lebbrosi?”. Mi ha risposto: “Perché erano i più abbandonati, quelli che nessuno voleva”. Nasce il lebbrosario di Kengtung con le suore di Maria Bambina come infermiere e mamme dei lebbrosi.

Durante la seconda guerra mondiale padre Cesare è mandato con altri missionari italiani e tedeschi in un campo di concentramento in India e quando ritorna a Kengtung nel 1945 riprende la guida del lebbrosario, che le suore avevano sempre mantenuto aperto. Nel 1953 viene in Italia per laurearsi in medicina e chirurgia a Padova e poi realizza a Kengtung alcune rivoluzioni nel trattamento e cura dei lebbrosi, che gli meritano diversi premi internazionali e il riconoscimento dell’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità), agenzia delle Nazioni Unite.   

Nel 1966 quella che lui definiva seriamente  “la mia prima morte”. I militari (che ancora governano la Birmania) espellono tutti i missionari più giovani, entrati nel paese dopo l’indipendenza del 1948. Padre Cesare, quando era rientrato in Italia per laurearsi, aveva poi richiesto il permesso di soggiorno e quindi risultava entrato in Birmania nel 1957. Il 1° gennaio 1967 giunge in Italia e per anni continua il calvario dei molti tentativi di poter ritornare nella sua missione e tra i suoi lebbrosi. Interessa anche l’ONU e l’Organizzazione mondiale della sanità, ma è costretto a rimanere in Italia, dove continua la sua opera a favore dei suoi lebbrosi.  

Ho visitato due volte quel villaggio di ammalati “che nessuno voleva” (con 1500 degenti). Era davvero diventato “la città della gioia”, come dice il titolo del documentario cinematografico del regista americano William Deneen realizzato alla fine degli anni Cinquanta. All’inizio degli anni Cinquanta padre Cesare inizia, con molto coraggio e contro il parere di diversi esperti, a rinnovare il sistema di vita nel lebbrosario. Partendo dalla convinzione che il lebbroso è un ammalato come gli altri e il terrore della lebbra in gran parte assurdo e superstizioso, realizza gradualmente queste innovazioni rivoluzionarie:

 1) Non più il lebbrosario chiuso con filo spinato, ma aperto con libertà per tutti di entrare ed uscire nel villaggio.

2) Non più i lebbrosi curati lontano dalle famiglie, ma tutta la famiglia del lebbroso ospitata nel lebbrosario, compresi i bambini che vanno a scuola; si forma così non un lazzaretto o un carcere, ma un normale villaggio.

3) Non più il ricovero di tutti i colpiti dalla lebbra, ma solo di quelli incurabili nei loro villaggi. Quando padre Colombo parte nel 1966 per l’Italia, ospitava nel lebbrosario circa 1.500 lebbrosi, ma ne curava, lui con le suore e i suoi aiutanti para-medici, altri 4-5.000 nei loro villaggi.

4) Non più il lebbroso passivo, in attesa solo di cibo e medicine, ma la cura attraverso il lavoro. Nel lebbrosario di Kengtung (dove sono andato due volte, 1983 e 2002) tutti lavorano nei campi, nell’artigianato e in altri mestieri utili al villaggio stesso; non solo, ma sono corresponsabili nella gestione del villaggio, con l’elezione del capo-villaggio e di altri membri del consiglio e dei vari servizi.

5) Infine, ultima rivoluzione, la più grande di tutte: non più il lebbroso costretto a lasciare la moglie (o il marito) o a non sposarsi, ma il matrimonio anche per loro, anche per le ragazze lebbrose, dato che i figli dei lebbrosi non nascono lebbrosi e non lo diventano se si prendono alcune precauzioni. Padre Colombo era severissimo sulle norme igieniche e ripeteva spesso che nel suo lebbrosario nessuno dei bambini figli di lebbrosi era diventato lebbroso!

Oggi queste norme sono adottate ufficialmente dall’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) dell’Onu, ma il padre Cesare Colombo è stato il primo a “inventarle” e applicarle a Kengtung, con risultati che lasciavano stupiti gli esperti in visita alla “città felice” sui monti birmani! Quando Cesare era ormai in Italia e senza più speranza di poter tornare in Birmania, oltre a impegnarsi al massimo per mandare aiuti ai suoi poveri, era a volte intervistato e invitato a parlare a congressi medici e di leprologia sulla sua “rivoluzione dell’amore” a Kengtung. La sua avventura di missionario meritava una biografia e infatti un’autrice americana la scrisse col bel titolo “The Touch of his Hand” (Il tocco della sua mano) ([1]); ma padre Cesare non volle fosse tradotta in italiano, “perché diceva, mi rende un eroe, mentre sono solo un missionario come gli altri”.

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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.


[1] Pitrone Jean Maddern, “The Touch of his Hand”, Alba House, Staten Island, 1970; Agostoni M., Il tocco della sua mano, EMI, 1985; Mondini L., La città felice, EMI 1989.

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Anno Sacerdotale


Quali sono le caratteristiche di un sacerdote buon pastore?
Catechesi del Cardinal Policarpo per la quinta domenica di Quaresima
LISBONA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Una delle sfide dell'Anno Sacerdotale è "far sì che i sacerdoti siano, in tutto e soprattutto, pastori del Popolo che è stato loro affidato".

E' l'indicazione che il Cardinal-Patriarca di Lisbona, monsignor José Policarpo, ha dato questa domenica nella Cattedrale della capitale portoghese pronunciando la sua catechesi sulla quinta domenica di Quaresima, nella quale ha discusso dell'atteggiamento sacerdotale di Gesù Cristo legato all'immagine del Buon Pastore.

"Sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento la designazione di Dio come Pastore del suo Popolo esprime, in un linguaggio toccante e significativo, l'intenso amore di Dio per il suo Popolo, definisce la salvezza e il sacrificio che ce l'ha donata come atto d'amore, di un amore intenso e portato all'estremo", spiega il Cardinale.

Cristo "è Sacerdote perché ci ha salvati, e ci ha salvati perché ci ha amati fino al limite, fino al dono della Sua stessa vita. Egli è il Sommo Sacerdote del nostro Popolo di Dio perché è il suo Buon Pastore".

Per monsignor Policarpo, legare il sacerdozio di Cristo al suo amore di Buon Pastore "aiuta a vivere ogni momento sacerdotale della Chiesa come espressione dell'intensità attuale dell'amore con cui Dio ci ama, in Gesù Cristo".

"Questa prospettiva del Pastore può ispirare tutto il rinnovamento pastorale nella forma di esercitare, attualmente, il ministero sacerdotale. Può trasformarsi nella grande domanda dell'Anno Sacerdotale: far sì che i sacerdoti siano, in tutto e soprattutto, pastori del Popolo che è stato loro affidato".

Il Patriarca di Lisbona ha quindi citato "gli atteggiamenti attuali di un sacerdote buon pastore, anche per trasformarli in supplica quando preghiamo per i nostri sacerdoti".

Un buon pastore "è qualcuno che guida, che ha il coraggio di indicare, alla luce della fede, il cammino da seguire. Sa dire la verità con amore. Un buon pastore è un amico della vita. Deve aprire agli altri le fonti della vita eterna".

"Un buon pastore è colui che non resta prigioniero di coloro che lo circondano sempre, ma va alla ricerca di quanti hanno deviato o non sono mai venuti; è colui che, senza disprezzare nessuno, dà un posto speciale nel suo cuore ai poveri, ai piccoli, ai più deboli".

"Un buon pastore è qualcuno che vigila, sta attento, avvisa dei pericoli; un buon pastore non pasce se stesso, non usa il suo ministero per il proprio profitto; un buon pastore conosce le sue pecore".

"E' soprattutto quando celebriamo l'Eucaristia e diamo attualità all'azione sacerdotale di Cristo che siamo i pastori che Egli desidera per il suo Popolo. Ciò richiede che, nella nostra vita, diventiamo 'modelli del gregge'", ha concluso monsignor Policarpo.

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Notizie dal mondo


Bangladesh: 500 estremisti islamici attaccano una chiesa cattolica
ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Più di 500 estremisti musulmani hanno attaccato la chiesa cattolica di Cristo Salvatore a Boldipukur, a poco più di 300 chilometri da Dacca, la capitale del Bangladesh.

L'assalto è avvenuto sabato 20 marzo e ha provocato vari feriti, cinque dei quali gravi. Sembra che la causa sia stata la disputa di un terreno appartenente alla parrocchia.

Padre Leo Desai, parroco della chiesa locale, ha spiegato ad AsiaNews che alcuni musulmani del luogo cercano da anni di impossessarsi del terreno. Di recente, però, "una sentenza del tribunale ha stabilito che esso è di proprietà dei cattolici".

Nel 1973, ha ricordato, la Chiesa locale ha concesso un "permesso orale" a due istituti scolastici per l'utilizzo della proprietà. La costruzione di un nuovo muro di cinta ha scatenato la violenza.

"Il 19 marzo una folla di musulmani si è riunita al termine della preghiera del venerdì e ha inscenato una manifestazione di protesta contro i cristiani. Il giorno seguente sono avvenute le violenze", ha spiegato padre Leo.

I cinque feriti gravi sono stati portati all'ospedale, ma poi si è preferito trasferirli in abitazioni private perché avessero più protezione.

Padre Leo ha denunciato "il silenzio" della polizia, che è rimasta a guardare gli assalitori "senza intervenire".

"Non si tratta di un conflitto fra cristiani e musulmani, ma di una disputa sui terreni", ha dichiarato, sottolineando che la questione confessionale "è solo il pretesto" per fomentare gli animi.

"Difenderemo i cristiani, se verranno attaccati di nuovo", ha affermato Mohammed Altaf Hossain, capo della polizia locale, che ha ricordato come si stia "facendo di tutto" per arrestare 17 musulmani al cui carico è stata aperta un'inchiesta e che sono fuggiti da Boldipukur.

La comunità locale ha circa 3.600 fedeli cattolici, per la maggior parte appartenenti a gruppi tribali.

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USA: il Cardinal Mahony a favore della riforma sull'immigrazione
Per l'Arcivescovo di Los Angeles è in gioco il futuro del Paese
WASHINGTON, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il clima politico a Washington è stato caratterizzato soprattutto dalla battaglia per la riforma sanitaria, ma hanno marciato sulla capitale statunitense anche migliaia di sostenitori di un'altra causa: quella che richiede una riforma dell'immigrazione.

Il Cardinale Roger Mahony, Arcivescovo di Los Angeles, ha osservato nell'edizione di venerdì del Washington Post che la riforma dell'immigrazione è "corretta e giusta".

"Questioni pubbliche su come gli immigrati interessano la nostra economia e la nostra cultura sono appropriate e dovrebbero essere prese in considerazione dai nostri funzionari eletti", ha scritto il porporato.

"Fino a questo momento, tali preoccupazioni hanno dominato il nostro dibattito nazionale sull'immigrazione, ma dovremmo già conoscere la risposta. La nostra storia ha mostrato che gli immigrati hanno aiutato a costruire questa Nazione e a farla diventare la maggiore democrazia e superpotenza del mondo".

"La questione determinante e definitiva per il nostro Paese, molto meno discussa, è se dovremmo accogliere o respingere l'eredità immigrata che ci ha fatto tanto bene".

Il Cardinale ha quindi suggerito che la tendenza dell'attuale sistema di immigrazione è "sgradevole", e ha segnalato che "solo le politiche repressive", applicate per due decenni, non hanno fermato gli ingressi illegali negli Stati Uniti.

Negli ultimi dieci anni, infatti, il Paese ha speso più di 100.000 milioni di dollari nella repressione e nello stesso periodo il numero di persone illegali negli USA è aumentato da 7 a 11 milioni.

Il sistema di immigrazione legale, ha aggiunto, è "antiquato e inadeguato per le nostre necessità di lavoro futuro, soprattutto quando ci sarà un recupero dell'economia".

"Il sistema di immigrazione basato sulla famiglia, che ha aiutato le famiglie immigrate a rimanere unite e forti per decenni, è impossibile e ora tiene le famiglie separate".

Proponendo il caso di due giovani colpiti dal sistema di immigrazione, il Cardinal Mahony ha affermato che "forse l'aspetto più preoccupante di tutto questo è come il sistema di immigrazione ci ha depresso come Nazione e ha appannato il nostro carattere nazionale".

La marcia a Washington, dichiara, "non cerca solo di cambiare le nostre leggi nazionali sull'immigrazione, ma tratta del futuro del nostro Paese. Non riguarda tanto gli immigrati quanto noi, la cittadinanza statunitense e il tipo di società che desideriamo che ereditino le generazioni future".

"Possiamo tornare alla nostra tradizione di Nazione di immigrati e accogliere e investire in loro, oppure possiamo continuare a ripiegarci a detrimento dei nostri interessi", ha concluso il porporato.

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Italia


Vescovi italiani con Bagnasco sulla priorità della dignità umana
Il resoconto del primo giorno di lavori del portavoce della CEI

ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- I Vescovi del Consiglio permanente hanno condiviso pienamente la lettura del momento sociale e culturale offerta dal Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), nella prolusione pronunciata lunedì.

In particolare, ha dichirato mons. Domenico Pompili, portavoce della CEI, i presuli “si sono ritrovati nei 'valori non negoziabili', che il magistero di Benedetto XVI ha chiaramente indicato nella sua recente Enciclica 'Caritas in veritate'” e che il Presidente della CEI ha puntualmente richiamato come linee guida alla base del discernimento politico per i cattolici in vista delle prossime elezioni regionali.

Nell'inaugurare i lavori del Consiglio episcopale permanente, il Cardinale Bagnasco ha parlato di quei valori che “emergono alla luce del Vangelo, ma anche per l’evidenza della ragione e del senso comune” e che “sono: la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”.

“E’ solo su questo fondamento – ha continuato il porporato – che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata”.

“Si tratta – ha aggiunto poi – di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società”.

Queste indicazioni, ha sottolineato mons. Pompili, coincidono con quanto affermato con chiarezza da Santo Padre nella Caritas in veritate: “Non può avere basi solide una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”.

“Ampio spazio – ha proseguito il portavoce della CEI – è stato poi dedicato alla Lettera ai cattolici d’Irlanda, condividendo la preoccupazione del Santo Padre e quella del Presidente della CEI secondo cui si tratta di 'un crimine odioso', ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia inscritto nel rapporto educativo”.

A questo proposito, ha precisato, “i Vescovi hanno riaffermato l’esigenza di compiere una selezione accurata dei candidati al sacerdozio, vagliando la loro maturità umana ed affettiva oltre che la loro maturità spirituale e pastorale”.

“Tutti hanno concordato sul fatto che il celibato non costituisce un impedimento o una menomazione della sessualità, ma una forma alternativa e umanamente arricchente di vivere la propria identità in una radicale donazione a Cristo e alla Chiesa”.

Inoltre, ha evidenziato mons. Pompili, “si sono confermate fiducia e gratitudine ai tantissimi sacerdoti che nel nascondimento e spesso con sovraccarico pastorale si dedicano all’annuncio del Vangelo”.

“I lavori – ha concluso – hanno poi preso in esame la bozza degli Orientamenti pastorali del prossimo decennio, che ravvisano proprio nell’educazione la grande sfida per la Chiesa in alleanza con le componenti più avvertite della società e della cultura odierne“.

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Vescovi della Liguria: i "valori non negoziabili" al centro delle Regionali
Rispetto della vita, tutela della famiglia, libertà di religione, cultura ed educazione

ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- “L’impegno programmatico, chiaramente assunto, di assicurare il pieno rispetto di quei valori che esprimono le esigenze fondamentali della persona umana e della sua dignità”: è questo il criterio guida suggerito dai Vescovi della Liguria all'elettorato cattolico in vista delle prossime elezioni regionali.

“Si tratta – spiegano i presuli in una nota diramata questo martedì – di valori chiaramente e ripetutamente ribaditi dal magistero conciliare, postconciliare e pontificio e che possono essere sinteticamente richiamati: fra tutti, il rispetto della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale; la tutela e il sostegno della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; il diritto di libertà religiosa, la libertà della cultura e dell’educazione”.

“E quindi – aggiungono – il diritto al lavoro e alla casa; l’accoglienza degli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; la promozione della giustizia e della pace; la salvaguardia del creato. Tali valori non possono essere selezionati secondo la sensibilità personale, ma vanno assunti nella loro integralità”.

Infatti, spiegano, “solo nel loro insieme esprimono una concezione dell’uomo, della comunità e del bene comune, che costituisce il centro della Dottrina Sociale della Chiesa, e rivelano quel collegamento tra etica della vita ed etica sociale che Papa Benedetto XVI ha più volte sottolineato: 'non può avere basi solide una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata'” (Caritas in Veritate, n.15).

“Confidiamo – concludono – poi che il tempo della Quaresima, così propizio per la conversione dei cuori, possa aiutare tutti a testimoniare la profonda ragionevolezza di questa concezione e a favorirne il riconoscimento condiviso a vantaggio del bene comune”.

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Cattedra UNESCO a Roma per un'etica globale
Riunirà esperti di bioetica di diverse tradizioni culturali e religiose

ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- E' stata presentata questo lunedì a Roma una Cattedra che prende ispirazione dalla Dichiarazione Universale dell'UNESCO sulla bioetica e i diritti del'uomo e che intende dare impulso allo studio approfondito e al confronto aperto sui dilemmi suscitati dal rapido processo di globalizzazione della scienza, delle biotecnologie, dell’informazione e della comunicazione.

Si tratta della Cattedra UNESCO di Bioetica e Diritti Umani stabilita grazie alla firma di un accordo tra l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura - UNESCO - con l'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” e l’Università Europea di Roma

La Cattedra mira a promuove un ampio interscambio di idee e la condivisione di esperienze diverse attraverso il dialogo tra le istituzioni di educazione superiore di diversi paesi, specialmente dei paesi in via di sviluppo.

Durante la presentazione avvenuta presso l'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”, il Rettore, padre Pedro Barrajón, L.C., ha richiamato quanto scritto da Benedetto XVI nella recente Enciclica Caritas in Veritate in cui invoca “una nuova sintesi umanistica” che promuova un “orientamento culturale personalista e comunitario aperto alla trascendenza” perché “la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell´illusione della propria onnipotenza”.

A questo proposito, ha spiegato il sacerdote, “la riflessione sui diritti dell'uomo alla luce dei valori universali e del diritto naturale e la conoscenza del perenne insegnamento della Chiesa al riguardo sarà senz'altro una fonte di arricchimento delle iniziative che promuoverà la Cattedra UNESCO di Bioetica e Diritti Umani”.

“Mettere al centro l'uomo è compito pure dell'Università che è universale come sono universali i diritti umani”, ha quindi concluso.

Nel suo intervento padre Paolo Scarafoni, L.C, Rettore dell’Università Europea di Roma, ha invece sottolineato che “nelle circostanze attuali di globalizzazione il problema dello sviluppo integrale di ogni uomo e dell’intera famiglia umana si presenta come un grande obiettivo ancora da raggiungere”.

“Tra i problemi più grandi abbiamo la necessità di ripensare i modelli economici che non sono accettati dalla maggioranza della popolazione mondiale; la relazione non chiarita e non risolta fra scienza-tecnologie e corpo umano-vita umana”, ha sottolineato.

Oggi, ha proseguito padre Scarafoni, “nel mondo della globalizzazione, si sono sviluppate condizioni economiche, sociali e politiche, e il dilagare della criminalità in forme nuove, che impediscono a molti popoli e a molte persone singole, di godere dei diritti umani a pieno titolo, condannandoli ad una vita di sottosviluppo”.

Per garantire i diritti umani fondamentali a tutti gli uomini, ha continuato, occorre “pensare anche ad un governo mondiale che abbracci veramente tutto il pianeta, e che allo stesso tempo applichi la sussidiarietà, specialmente nel modo di realizzare i programmi si solidarietà”.

Inoltre, ha affermato il sacerdote, “c’è bisogno di approfondire i fondamenti dei diritti umani sul diritto naturale e sulla natura umana, quella grammatica ideata direttamente da Dio e riconoscibile da parte di tutti gli uomini; c’è anche bisogno di considerare l’apporto delle religioni ai diritti umani, senza le quali sarà impossibile impiantarli; e specialmente del cristianesimo, che si distingue da ogni altra religione per la dimensione universale contenuta nell’annuncio evangelico di Dio che si impegna in prima persona per un pieno sviluppo di ogni uomo e di tutto l’uomo.

Ma soprattutto, ha tenuto a sottolineare, “c’è bisogno di formare le coscienze delle nuove generazioni, specialmente di coloro che sono chiamati a dirigere la società civile nel campo politico, economico, culturale, educativo” e la Cattedra UNESCO è da questo punto di vista “uno strumento molto importante”.

Nel prendere la parola, successivamente, il prof. Alberto García, Direttore della Cattedra UNESCO di Bioetica e Diritti Umani, ha spiegato che ci si occuperà per esempio di “'Bioetica, multiculturalismo e religione' creando una comunità universitaria all'interno della quale esperti di bioetica provenienti delle diverse tradizioni culturali e religiose si incontrano per studiare e dialogare sulle questioni di bioetica alla luce dei diritti umani e dei correlativi doveri”.

“Nello spirito del progetto – ha detto – sta il rispetto della diversità che comunque si rende conto delle enormi convergenze che esistono tra le diverse tradizioni culturali e cerca più quello che abbiamo in comune di quello che ci separa”.

“Nell'ambito della 'Neurobioetica' – ha poi continuato – cerchiamo di approfondire le implicazioni delle neuroscience e le applicazioni tecnologiche che comportano interventi sul cervello umano. Ci occupiamo di tematiche come la coscienza e la dignità umana, l'approccio personalista al rapporto corpo e mente, le questioni che riguardano il comportamento umano e la responsabilità e finalmente l’etica delle neuroscienze sperimentali”.

Questo perché, ha concluso, “la protezione della vita, dell’identità, dell'integrità psichica, della libertà delle persone, in quanto diritti fondamentali, devono essere alla base delle decisioni che si prendono sia nella fase di ricerca scientifica sia in quella dell'applicazione clinica”.

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Interviste


Presidente maltese: il Papa porterà un "rinnovamento spirituale"
Intervista a George Abela in vista del prossimo viaggio apostolico

di Silvia Gattas

ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- La visita del Papa che porterà “un rinnovamento spirituale tra i fedeli”; le speranze e le attese del viaggio che Benedetto XVI compirà nell’Isola il 17 e 18 aprile, in occasione del 1950° anniversario del naufragio di San Paolo.

Le radici cristiane di Malta e il suo ruolo all’interno dell’Unione europea. Ma anche il fenomeno, delicato e problematico allo stesso tempo, dell’immigrazione, e la politica dell’Isola. E un commento sulla decisione della Corte europea di vietare i crocifissi nelle aule scolastiche.

Il presidente della Repubblica di Malta, George Abela, parla a ZENIT in questa intervista a tutto campo, alla vigilia della tanto attesa visita del Santo Padre.

Papa Benedetto XVI visiterà Malta per la prima volta. Con quali sentimenti di speranza e di attesa il suo Paese accoglierà il Pontefice?

George Abela: La maggior parte dei maltesi si considera cattolica e molti sono ancora praticanti, come si evince dalle statistiche sulla partecipazione alle messe. Papa Benedetto XVI, quindi, in quanto capo della Chiesa cattolica e Vicario di Cristo, è considerato il nostro pastore spirituale. La visita del Papa dovrebbe contribuire a un rinnovamento spirituale tra i fedeli e dare l’opportunità ai giovani maltesi di poterlo incontrare di persona e conoscerlo meglio. Speriamo che gli insegnamenti del Pontefice, come quelli contenuti nelle tre encicliche, vengano diffusi maggiormente tra la popolazione; consideriamo tali insegnamenti importanti non solo per i cattolici, dato che i valori rappresentati dal Papa trascendono spazio e tempo.

Cosa pensa delle radici cristiane di Malta? Ritiene che possano essere risvegliate dalla visita del Pontefice, nell’anniversario dello sbarco di San Paolo?

George Abela: Malta è stata cristiana e la sua cultura europea lo è da secoli: la nostra fede, le nostre tradizioni e i nostri costumi sono stati forgiati dai valori cristiani. In passato la vita quotidiana – nascite, matrimoni, anche i riti associati alla fine della vita – era incentrata sulla Chiesa e la fede religiosa. Sebbene oggi ciò avvenga in misura minore, le vestigia del passato permeano ancora la nostra vita moderna; anche se l’albero ha cambiato le sue foglie, le radici restano immutate. Anche se lo Stato maltese è laico, molte delle nostre leggi riflettono ancora i valori cristiani: la laicità di uno Stato non implica che non vi possa essere cooperazione con la Chiesa quando si tratti del bene comune, come per esempio la cooperazione nell’espansione delle scuole religiose. Abbiamo fiducia nel fatto che la visita del Papa possa contribuire a far capire che la fede che San Paolo portò nelle nostre isole è ancora importante oggi non solo per la vita dello spirito, ma anche per quei valori fondamentali e senza tempo che possono rendere migliore la nostra vita terrena.

Quale è il ruolo di Malta, oggi, nell’Unione europea?

George Abela: Malta è parte dell’Europa non solo geograficamente, ma anche culturalmente: oggi esiste un ampio consenso sul fatto che il posto di Malta sia nell’Unione Europea, e il suo ruolo è quello di qualsiasi altro Paese membro; tuttavia, pensiamo di poter avere qualche compito speciale, come quello di fare del nostro meglio per promuovere la pace e il dialogo tra i Paesi e le culture della regione mediterranea e di lavorare per migliorare in tutti i settori le buone relazioni dell’Ue con il mondo arabo. Le nostre politiche nazionali riflettono tale ruolo, pensiamo che la nostra posizione geo-strategica al centro di questo storico mare così come i nostri contatti con gli Stati e le culture del litorale meridionale ci forniscano delle conoscenze che ci rendono adatti a tale compito. Se poi Malta potesse essere di aiuto nel generare un approccio più positivo a determinati valori fondamentali come la dignità della persona umana e la sacralità della vita umana, saremmo lieti di assumerci anche questo compito.

Il fenomeno dell’immigrazione e gli sbarchi di clandestini è un tema di vivace discussione per molti Paesi. Qual è la sua opinione in merito? Pensa che il Papa possa dare un contributo alla soluzione del problema?

George Abela: L’immigrazione ha raggiunto proporzioni impreviste e che nella situazione attuale sono insostenibili. Occorre che si trasformi in un fenomeno pianificato e strutturato, se l’Europa crede che le sue future necessità economiche implichino degli arrivi da altri Paesi. L’immigrazione senza regole è talvolta sfociata in condizioni di vita insoddisfacenti per gli stessi immigrati e alla delusione riguardo a che cosa questa “terra promessa” avrebbe dovuto loro offrire. E’ necessario che i Paesi di origine dei migranti cooperino con l’Europa per garantire che l’immigrazione abbia luogo in modo pianificato, tale da assicurare non solo che i Paesi europei siano preparati a riceverli secondo i bisogni economici e sociali, ma anche che la dignità di questi migranti sia pienamente rispettata. Nella situazione attuale la maggior parte dei migranti è vittima di organizzazioni criminali senza scrupoli il cui scopo non è il benessere degli immigrati ma il loro sfruttamento.

Al momento, Malta si sta facendo carico di un peso totalmente sproporzionato rispetto alle sue risorse materiali: crediamo che, come soluzione temporanea, il nostro fardello debba essere condiviso con i nostri partner europei, dato che si tratta di un problema che non riguarda solo Malta, ma l’Europa. Una soluzione più stabile consisterebbe nell’aiutare i Paesi di origine dei migranti a raggiungere uno sviluppo economico maggiore e una soluzione ai loro conflitti interni che renderebbero minore la necessità di emigrare.

Credo che il problema dell’immigrazione, in quanto dramma politico così come sociale e umano, interessi il Papa: il suo ruolo tuttavia è quello di insegnare i valori della persona umana e che tutti dovrebbero essere trattati con la dignità che merita ogni essere umano. La Chiesa dà un importante contributo in molti Paesi da cui provengono i migranti gestendo scuole ed ospedali che contribuiscono al benessere delle popolazioni e ne favoriscono lo sviluppo.

Cosa pensa della decisione europea di rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche? Ritiene che la Corte possa legiferare su queste materie che riguardano i diritti umani, come la libertà religiosa?

George Abela: La sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani in base alla quale la presenza dei crocifissi nelle scuole viola i diritti umani è a parer mio poco felice. Un tribunale non esiste nel vuoto: se la Corte di Strasburgo si considera competente per decidere su questa materia – che a mio avviso non lo è – allora doveva considerare tutti gli aspetti della questione, fra cui il principale è la sensibilità religiosa europea, la storia, la cultura e la stessa identità del nostro continente. Gran parte della popolazione europea si considera ancora cristiana anche se non tutti sono praticanti; a parte il significato religioso fondamentale del crocifisso, la storia e la cultura europee sono inestricabilmente legate alla storia del cristianesimo, di cui il crocifisso è il simbolo più sublime. La cultura europea ha le sue radici nel cristianesimo, alcune delle più grandi opere dell’arte e della letteratura sono stati ispirati dalla fede e dai valori cristiani.

Il crocifisso non rappresenta solo il simbolo fondamentale dell’importanza dei valori religiosi nella storia e nella cultura europee, ma è anche un simbolo di unità e solidarietà con tutta l’umanità, un simbolo di tolleranza e non di esclusione, o di negazione dei diritti dei non cristiani o degli atei. La figura del Cristo crocifisso racchiude la compassione per tutti gli esseri umani e ispira preoccupazione disinteressata per tutti coloro che soffrono. La dignità e l’inviolabilità della persona umana, dal momento del concepimento fino alla fine naturale della vita e il concetto del valore inestimabile della vita umana sono tutti simboleggiati dal crocifisso, segno inequivocabile della cristianità.

Come tutto ciò possa essere considerato offensivo o in violazione dei diritti umani va al di là della mia comprensione: il governo di Malta, che riflette il sentimento della maggior parte del nostro popolo, è in radicale disaccordo con questa decisione ed ha chiesto alla Corte Europea dei Diritti Umani di prendere nota del suo sostegno all’appello presentato dall’Italia.

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Magda Olivero: un secolo da leggenda
Una delle più grandi cantanti liriche ringrazia Dio per il dono meraviglioso della voce
di Renzo Allegri

ROMA, martedì, 23 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il 25 marzo, Magda Olivero, una delle più celebri cantanti liriche di tutti i tempi, compirà cent'anni. La incontro nella sua casa milanese, sorridente, serena e felice. Mi dice: "Ringrazio Dio del tempo che mi ha dato e soprattutto della qualità del tempo che mi ha dato. Cento anni! Per la verità non me li sento. Certo, arrivare a questa età e poter avere una memoria perfetta, nessun problema inerente all'età che mi dia fastidio, è un grande dono di Dio. Il mio cervello funziona magnificamente, posso ricordare quando avevo tre anni e tutto il resto della mia vita. Dentro di me non sono cambiata. Il mio spirito è quello di quando avevo vent'anni".

Eccezionale artista, straordinaria donna, persona di grande fede e molto devota della Madonna. Per 42 anni, il 15 di agosto, festa dell'Assunta, cantava nel corso della Messa nella chiesa parrocchiale di Solda, in Val Venosta in Alto Adige. "Era il mio modo per pregare e rendere omaggio alla Madre di Dio". dice.

Come artista, Magda Olivero è stata un vero fenomeno. Oltre a una voce stupenda, a una tecnica assoluta, a una musicalità raffinata, possedeva un'arte interpretativa somma. Varie volte, nel corso della sua carriera, le furono assegnati premi che in genere erano riservati ai grandi interpreti del teatro di prosa e del cinema. E' certamente la cantante che ha avuto la carriera più lunga. Iniziò nel 1932, quindici anni prima della Callas e della Tebaldi, e quando queste due fa­mose cantanti si sono ritirate, lei ha continuato a pieno ritmo, nei più importanti teatri del mondo. Si ritirò nel 1981, quando morì suo marito. Ma solo per gli impegni di intere opere. Ha continuato invece a tenere concerti. L'ultimo due anni fa, a 98 anni.

"Sono fortunata", dice lei sorridendo. "Non avrei mai immaginato di poter fare una carriera così lunga e così intensa".

Siamo nel suo bell'appartamento milanese. Il salotto è zeppo di ricordi della vita privata e della carriera. Foto sul pianoforte, sullo scrittoio, sugli scafali. La signora ce le illustra con voce soave e chiarissima. Si muove sicura, sorride felice... Una bellissima signora che non dimostra più di 70 anni portati benissimo.

La signora Olivero ha sempre tenuto la massima riservatezza sulla propria vita privata. Non ha mai frequentato feste, ricevimenti, non ha mai voluto avere un press-agent o un manager. Quando non era impegnata in teatro se ne stava a casa, con il marito, dottor Aldo Busch, un industriale. "Sembra strano", dice "ma in casa non sono mai venuti colleghi o direttori d'orchestra. Quando uscivo dal teatro, diventavo una persona qualunque che non aveva più alcun legame con lo spettacolo. E questo modo di vivere mi ha permesso di coltivare la mia famiglia, che è stato il bene massimo che ho avuto".

Come è nata la sua passione per la musica lirica?

Magda Olivero: Credo mi sia stata infusa da mio padre. Era un magistrato, ma aveva anche una grande passione per il melodramma e da giovane era stato un tenore dilettante.

Sono nata a Saluzzo, a una cinquantina di chilometri da Torino, dove appunto mio padre faceva il magistrato. Ma la famiglia è torinese e io stessa sono cresciuta a Torino.

Quando cominciò a studiare musica?

Magda Olivero: Da bambina. La musica doveva far parte della mia educazione ma solo come elemento culturale. Tutte le giovinette di buona famiglia allora studiavano musica. A sei anni cominciai lo studio del pianoforte, con il maestro Giorgio Federico Ghedini, il quale poi mi diede lezioni anche di armonia e di contrappunto. Era mia intenzione frequentare il Conservatorio e diplomarmi in pianoforte. Ma avevo una voce potente e una grande facilità a imparare romanze e canzoni. Spesso mi nascondevo dietro un paravento e cantavo. Chi non mi conosceva, pensava che quella voce appartenesse a una signorina di almeno 18 anni ed io invece ne avevo cinque o sei. Tutti gli amici di mio padre dicevano: "Sarebbe un peccato non farle studiare canto". E così all'età di tredici anni, cominciai al Conservatorio lo studio regolare del canto.

Con successi immediati, immagino.

Magda Olivero: Al contrario. Gli inizi furono disastrosi. Continuavo a cambiare insegnante. In pochi mesi ne cambiai tre, ma i risultati erano sempre gli stessi: avevo una voce potentissima, selvaggia e nessuno riusciva a insegnarmi a dominarla, ad usarla.

Una delle insegnanti mi disse che non sarei mai potuta diventare cantante perché avevo dei difetti fisici, una malformazione che mi impediva le lunghe emissioni di voce. Soffrivo nel sentirmi dire queste cose. Non pensavo alla carriera. Ma ormai volevo studiare canto per ripicca, per far vedere che non avevo alcun difetto, che ero capace di usare la voce che Dio mi aveva dato.

Anche mio padre soffriva nel vedermi demoralizzata e preoccupata. Un giorno un amico di mio padre gli disse: "Se Magda vuol proprio cantare perché non le procuri un'audizione alla radio? Io ho dei cari amici che la possono presentare". Mio padre accettò. Quella audizione doveva essere la prova definitiva: se avessero espresso un giudizio negativo, avrei smesso di studiare canto.

Le raccomandazioni allora erano rare ma valevano molto. L'amico di mio padre, una persona importantissima scrisse un biglietto col quale andai all'audizione. La commissione esaminatrice era composta dai maestri Ugo Tansini, Attilio Parelli e altri due di cui ora non ricordo i nomi. Cantai la romanza della Bohème di Puccini "Mi chiamano Mimi" Al termine il maestro Tansini disse: "Non c'è voce, non c'è musicalità, non c'è personalità, non c'è niente: le consiglio di cambiare mestiere". Restai allibita. Uno degli esaminatori, che teneva in mano il biglietto di presentazione e continuava a leggerlo, lo fece vedere al maestro Tansíni dicendo: "La signorina è molto giovane. Non ha mai cantato in pubblico. Forse è stata tradita dall'emozione. Io proporrei una seconda audizione, tra qualche giorno". Tansini leggendo quel biglietto di raccomandazione e vedendo da chi era firmato, capì e mi concesse una prova d'appello.

Tornai dopo una settimana. La commissione era sempre la stessa, ma questa volta c'era anche il maestro Luigi Gerussi. Ripetei la stessa romanza ma il giudizio di Tansini fu di nuovo negativo. "Zero". disse: "per me non c'è niente da fare". "Io non condivido il tuo pensiero", intervenne il maestro Gerussi. "Questa ragazza ha un'ottima voce, ma nessuno le ha insegnato ad adoperarla, a respirare, a sostenere i polmoni usando i muscoli dell'addome. Può diventare molto brava". "Senti, Luigino", rispose Tansini "se tu hai tempo da perdere, insegnale qualche cosa; io non ci voglio mettere le mani".

Terminò così la mia audizione radiofonica. Ero stata bocciata, ma avevo trovato un maestro eccezionale. Cominciai subito la scuola con Gerussi. E' stata la più grande tragedia della mia vita. Le precedenti insegnanti mi avevano quasi rovinata. Gerussi è stato feroce con me. Di una durezza inaudita. Un giorno, disperata, mentre facevo un vocalizzo e non riuscivo come voleva lui, ho detto: "Maestro, non ce la faccio". E lui mi ha guardato torvo ed ha detto: "Ricordati, anche se dopo tu muori lì, a me non importa niente, ma prima di morire tu devi fare quello che ti dico io".

Tornavo a casa come se fossi stata bastonata. Mi facevano male i muscoli della schiena, del torace, dello stomaco, perfino le mani mi facevano male. Ma piano, piano cominciai a capire, ed ho cominciato a sentire la mia voce, ho imparato che cosa significasse cantare. In un anno, il maestro Gerussi mi trasformò. Debuttai a Tonino nel 1932 con grande successo. L'anno successivo ero già alla Scala di Milano. Iniziai una carriera strepitosa, che mi diede grandissime soddisfazioni.

Lei, signora Olivero, diventò famosa in poco tempo. Era applaudita ovunque ed era considerata la più bella primadonna della lirica italiana. Come si trovò in quel ruolo?

Magda Olivero: Non sono mai stata una diva se è questo che vuol sapere. Anzi, ho sempre disprezzato il divismo. La musica è una cosa seria. Un artista è come un buon soldato: deve essere sempre pronto a sacrificarsi per servire l'arte e il teatro.

Più che la mia carriera e il mio succes­so personale, io ho amato la musica, le opere e gli autori. Quan­do mi applaudivano, pensavo sempre all'autore dell'opera e dentro di me dicevo: "Questi applausi sono per te, Verdi, per te, Bellini, per te, Cilea, per te, Mascagni, per te, Puccini". In quei momenti sentivo vicino a me lo spirito del maestro e provavo una grande fe­licità. Credo che questo stato d'animo di serena e devota dedi­zione all'arte, sia stato il segreto della mia lunga carriera.

Dopo appena nove anni di successi strepitosi, lei, improvvisamente, scomparve. Che cosa era accaduto?

Magda Olivero: Fu nel 1941. Ero innamorata e mi sposai. Fin dall'inizio della carriera avevo detto a me stessa che se un giorno mi fossi sposata avrei abbandonato il canto. La professione di moglie, e soprattutto di madre, è così importante che non credo si possa dividerla con altre attività. Inoltre c'era la guerra e non volevo restare lontana da mio marito. Con le nozze, perciò, diedi un taglio netto alla vita passata e mi misi a fare la casalinga, come se non avessi mai messo piede su un palcoscenico.

Era mia intenzione non tornare più a cantare. Per nove anni rimasi ferma in questo proposito, sebbene fossi continuamente tormentata da direttori d'orchestra e sovrintendenti di teatri che mi scongiuravano di riprendere l'attività.

E perchè poi è ritornata?

Magda Olivero: Lo feci per il maestro Francesco Cilea. Durante gli anni di attività, prima del matrimonio, avevo interpretato parecchie volte una sua opera Adriana Lecouvreur. Il maestro mi aveva detto che ero riuscita a entrare nello spirito della sua Adriana come nessun'altra interprete, che ero andata oltre le note che lui aveva scritto. Quando mi ritirai, Cilea ne fu molto amareggiato e continuò a scrivermi, inutilmente, perchè tornassi a interpretare la sua Adriana.

Poi, nel maggio del 1950 venne a trovarmi il maestro Serafin con il barone Mazzoni e il commendator Ostali. Mi dissero che Cilea era molto ammalato e che ripeteva: "Prima di morire vorrei riascoltare la mia Adriana interpretata dalla Olivero". Il maestro Serafin aggiunse: "Non puoi lasciar morire quel povero vecchio negandogli questa soddisfazione". Rimasi molto colpita e risposi che ci avrei pensato. Riflettei a lungo, da maggio ad ottobre. Erano nove anni che ero sposata e non avevo avuto figli. Ormai sapevo con certezza che non sarei mai diventata mamma. La ragione principale per cui avevo abbandonata la carriera artistica, veniva perciò a mancare. Decisi di ritornare.

Il 19 ottobre 1950 firmai il contratto per interpretare Adriana Lecouvreur. Il maestro Cilea ne fu informato telegraficamente, e in dicembre dovevo andare a trovarlo insieme con il commendator Ostali. La data della visita fu spostata per impegni del commendatore, e il 22 dicembre Cilea morì.

Interpretò poi l'opera di Cilea?

Magda Olivero: Certamente. Adriana Lecouvreur fu l'opera che segnò il mio ritorno e insieme fu la commemorazione ufficiale per la scomparsa del grande maestro. Da allora continuai a interpretarla in tutto il mondo. Non so quante recite ho fatto di quest'opera, ma credo siano centinaia. La mia vita artistica è legata a quest'opera, e anche certe date della mia vita privata coincidono con le recite di Adriana Lecouvreur.

Ha trovato difficoltà a riprendere la carriera dopo nove anni di inattività?

Magda Olivero: La voce era quella di sempre, l'entusiasmo anche. Il pubblico non mi aveva dimenticata. Anzi, il lungo silenzio, il mistero che si era creato intorno alla mia scomparsa avevano contribuito a mantenere vivo l'interesse sul mio nome e sulla mia persona.

Qual è stata la caratteristica specifica delle sue interpretazioni?

Magda Olivero: Sono sempre stata definita cantante e attrice. Credo che la mia caratteristica sia stata quella di unire a una buona preparazione musicale e vocale una buona recitazione e un buon comportamento scenico. Sono andata a scuola di imitazione dalla professoressa Dora Setti, all'Accademia d'arte drammatica di Milano, che mi ha sempre considerata (scusi l'immodestia) una delle sue allieve migliori. Recitare è sempre stata la mia passione segreta. Se avessi potuto pensarci prima, avrei fatto l'attrice. Ho sempre frequentato il mondo della prosa ed ho avuto più amici tra gli attori che non tra i cantanti.

Quante opere aveva in repertorio?

Magda Olivero: 82, e tutte portate sul palcoscenico. Preferivo le opere moderne, dove occorre anche saper recitare. Nel mio curriculum artistico ci sono nomi di autori che pochi conoscono e dei quali io, spesso, sono stata l'unica interprete della loro opere. Posso fare dei nomi: Armando La Rosa Parodi, di cui ho interpretato "Il mercante e l'avvocato" alla Rai di Torino ancora all'inizio di carriera, nel 1934. Felice Lattuada, di cui ho portato sulle scene, a Genova, La sua "Caverna di Salamanca". Sandro Fuga: sono stata Maria, nella sua "Confessione" al Teatro Nuovo di Torino.

Un autore che mi piaceva era Gerardo Rusconi, il fratello del celebre Editore Edilio Rusconi. Nel 1972 ho interpretato la sua "Lode alla Trinità", prima alla Rai di Torino, con la direzione di Piero Bellugi e poi all'Accademia di Santa Cecilia, diretta da Alberto Biondi. Nell'opera di Rusconi c'era da cantare, ma c'era anche da recitare, seguendo i testi originali di Santa Caterina, scritti in quel bell'italiano del Trecento. Si passava dal canto alla recitazione, improvvisamente e io trovavo quell'opera affascinante, anche se difficile. All'inizio mi ero spaventata, ma poi fui conquistata dalla musica e mi buttai con entusiasmo nel lavoro. In seguito ho riascoltato diverse volte la registrazione e devo dire che è stata una delle più belle recite della mia vita.

L'ultima opera moderna la interpretai nel 1977 al San Carlo di Napoli. Era "La visita della vecchia signora" di Gottfried von Einem. Di quel compositore si diceva scherzando: "Ha scritto la musica perchè i cantanti non riescano a impararla". E per la verità fu una fatica improba. Ma alla fine ho fatto tutto bene, cantando tutte le note che lui aveva scritto. Di fronte a certe difficoltà, il maestro Gracis diceva: "Tagliamo questo pezzo, non è umano". "No, l'ho studiato e lo voglio cantare", rispondevo. Fu la mia ultima grande fatica.

Quali sono i ricordi più belli della sua carriera?

Magda Olivero: Non si possono mai dimenticare certi applausi interminabili alla fine di una recita, ma le cose più belle che la musica mi ha dato sono gli incontri con gli ammalati. Ho sempre ricevuto molte lettere di ammalati che mi hanno conosciuta ascoltandomi alla radio. Mi dicevano che nella mia voce sentivano una grande sensibilità, qualche cosa che li attirava verso di me, convinti che li avrei capiti. Mi confidavano le loro sofferenze. Erano soprattutto ammalati cronici, quelli che non possono guardare con speranza all'avvenire. Ho sempre risposto a tutti. Con alcuni ho tenuto corrispondenza per anni. Gli ammalati mi hanno dato molto, mi hanno fatto veramente capire molte cose della vita.

Ricordo un ragazzo di Firenze. Aveva due occhi stupendi, un volto meraviglioso. Per 14 anni restò inchiodato in un busto di ferro, con il corpo deformato. Camminava a stento, soffriva terribilmente nel fisico ma soprattutto nell'animo. Quando lo conobbi era disperato, ma la mia musica gli era di conforto. Gli scrivevo spesso, gli mandavo dischi, libri. Lui mi chiamava "sorellina azzurra". Quando andavo a trovarlo e vedevo quanta sofferenza e quanta tristezza c'erano in quegli occhi stupendi, mi vergognavo di star bene, di avere un fisico normale. Se cantavo a Firenze, lui veniva ad ascoltarmi. Prendeva posto in un palco. Sapevo che gli piaceva moltissimo un'aria dell'Adriana, e prima di iniziare quella romanza guardavo verso di lui, facevo un gesto che lui conosceva: significava che gli dedicavo quella romanza. So che lui piangeva ascoltandomi, e piangevo anch'io cantando. La musica mi ha permesso di far del bene a tante persone sofferenti, e questi sono e saranno i ricordi più belli della mia carriera.

Per 42 anni, lei ha festeggiato la Festa dell'Assunzione di Maria al cielo, il 15 agosto, cantando alla Messa in una chiesa in montagna. Perché?

Magda Olivero: Sono sempre stata molto devota della Madonna. Cominciai a cantare nella mia parrocchia a Torino, la chiesa di Santa Barbara quando ero una bambina. Il parroco mi riservava la parti da solista. E anche in piena carriera ho sempre accettato di cantare in Chiesa. Soprattutto a favore degli ammalati. Sono stata anche diverse volte a Lourdes con i pellegrinaggi degli ammalati. Erano i miei figli. Il Signore non mi ha dato la gioia di avere un figlio, ma mi ha fatto mamma di tanti ammalati ed io h voluto bene loro come fossero stati dei figli.

Un giorno dell'agosto 1966 mi trovavo al Grand Hotel di Solda, un centro sciistico a quasi duemila metri, in Val Venosta, in Alto Adige. Un paese da sogno. Sentii alcune persone che parlavano animatamente. Alcune le conoscevo. Erano preoccupate perché dovevano raccogliere del soldi per alcune necessità della chiesa e non sapevano come fare. Mi avvicinai e dissi: "Se posso esservi utile, lo farei molto volentieri". Mi conoscevo. "Se volete", dissi "posso cantare durante la Messa e poi andare a chiedere l'elemosina" "Lei farebbe questo?" "Per la Madonna, questo ed altro", dissi.

Organizzammo. Durante la Messa del 15 agosto, cantai varie arie religiose e, al termine, andai sulla porta della chiesa con un cestino in mano. La gente era entusiasta e commossa e fu generosissima. Per la maggior parte erano turisti. Non ricordo quanti soldi furono raccolti, ma si trattò di una somma incredibile. Da allora, ogni anno sono andata a cantare in quella chiesa. Era un modo per rendere omaggio alla Madonna. Un modo di pregare usando quella voce che Dio mi aveva dato. C'erano miei ammiratori che venivano anche dall'estero ad ascoltare quella Messa.

Quando ha cantato per la Madonna l'ultima volta?

Magda Olivero: Il 15 agosto 2008. Avevo 98 anni.

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