A Tawargha, in Libia, teatro della vendetta dei ribelli sui «mercenari»
TAWARGHA - Le palazzine bruciano piano. Un lavoro metodico, svolto senza fretta. Quelle che non si incendiano subito restano dimenticate per qualche giorno: porte e finestre sfondate, tracce di fumo sui muri, stracci di vestiti e schegge di mobili sparsi attorno. Poi gli attivisti della rivoluzione tornano ad appiccare il fuoco aiutandosi con la benzina ed il risultato è assicurato. Nei viottoli sporchi sono abbandonati alla loro sorte cani, galline, conigli, muli, pecore, mucche. Ogni tanto giunge una vettura dalla carrozzeria dipinta con i simboli del fronte anti-Gheddafi e si porta via gli animali. Gli orti sono secchi, è dai primi di agosto che nessuno si occupa di irrigarli. A parte il crepitare sommesso degli incendi, il silenzio regna sovrano. Una calma immobile, minacciosa, inquietante, spaventosa. Un benzinaio sulla provinciale poco lontano ci ha detto che non sarebbe difficile trovare la terra smossa delle fosse comuni. Ma è pericoloso, le pattuglie della guerriglia non amano curiosi da queste parti.
Sono le immagini della pulizia etnica di Tawargha, piccola cittadina una trentina di chilometri a sud-est di Misurata. Ricordano i villaggi vuoti della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. L'episodio che con maggior forza due giorni fa ci ha trasmesso la gravità immanente dei crimini consumati in questa zona è stato l'incontro con quattro ragazzi della «Qatiba Namr», una delle brigate di Misurata nota per le doti di coraggio e resistenza dimostrati al tempo dell'assedio delle milizie scelte di Gheddafi contro la «città martire della rivoluzione» in primavera. «Qui vivevano solo neri. Negri stranieri. Nemici dalla pelle scura che stavano con Gheddafi. Ucciderli è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso sud, in Africa. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire», affermano sprezzanti. Viaggiano su di una Toyota dalla carrozzeria coperta di fango. Sono tutti armati di Kalashnikov. Portano scarpe da tennis, magliette scure e blu jeans. Dicono di avere diciannove anni, ma potrebbero essere anche più giovani. Brufoli e sguardo di sfida, con il dito sul grilletto si sentono padroni del mondo. «Siamo venuti ad assicurarci che nessun cane nero cerchi di tornare. Devono sapere che non hanno futuro in Libia», sbotta quello che sta al volante. Sostiene di chiamarsi Mustafa Akil, però non vuole essere fotografato, così neppure gli altri.
A Tawargha ci siamo arrivati quasi per caso. Tornando da Sirte verso Tripoli, giunti poco prima delle periferie orientali di Misurata, è stato impossibile non vedere le colonne di fumo degli incendi. Sono almeno una ventina. Si nota in particolare una palazzina a cinque piani divorata dalle fiamme rosse che si allungano dai balconi. Nel parcheggio sottostante sono fermi almeno cinque pick up delle forze della rivoluzione. Ci avviciniamo. Ma i miliziani ordinano di restare lontani. «C'erano circa 40.000 negri. Sono partiti tutti. Tawargha non esiste più. Ora c'è solo Misurata», si limita a ripetere uno di loro, barba fluente e occhiali neri. Sui cartelli stradali il nome della città è stato cancellato con vernice bianca, al suo posto è scritto quello di «Nuova Tommina», un villaggio delle vicinanze che era stato attaccato dai lealisti in aprile.
La storia non è nuova. Le cronache della resa delle truppe fedeli al Colonnello a Tawargha contro le colonne dei ribelli di Misurata sostenuti dai bombardamenti Nato era arrivata il 13 agosto. E quasi subito Amnesty International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani avevano denunciato massacri, abusi di ogni tipo e soprattutto deportazioni di massa. Unica scusa addotta dai ribelli era stata che proprio gli abitanti di Tawargha erano stati tra i più crudeli «mercenari africani» nelle file nemiche. Ma poi le cronache della caduta di Tripoli e gli sviluppi seguenti avevano preso il sopravvento. Il 18 settembre un inviato del Wall Street Journal citava il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil, che dava il suo placet alla totale distruzione della cittadina. «Il fato di Tawargha è nelle mani della gente di Misurata», sosteneva Jalil, giustificando così appieno i crimini di guerra.
La novità verificata sul campo è però che la pulizia etnica continua. Nonostante le rassicurazioni contro ogni politica razzista e in difesa delle minoranze nere in Libia fornite a più riprese alla comunità internazionale dai dirigenti della rivoluzione, a Tawargha si sta portando a termine del tutto indisturbati ciò che era iniziato ad agosto. I muri delle case devastate sono imbrattati di slogan freschi contro i «murtazaka», come qui chiamano i «mercenari» pagati dalla dittatura di Gheddafi. Sono firmati in certi casi dalle «brigate per la punizione degli schiavi neri» e trasudano il razzismo più virulento. In verità, molti degli abitanti nella regione di Tawargha sono discendenti delle vittime delle razzie a caccia di schiavi organizzate in larga scala dai mercanti arabi della costa per secoli sino alla metà dell'Ottocento nel cuore dell'Africa sub-sahariana. Libici a tutti gli effetti, figli di libici, sono ora tra le vittime più deboli del caos e delle incertezze in cui è scivolato il Paese. Nessuno conosce ancora le cifre dei loro morti e feriti. Le nuove autorità di Tripoli non rendono noti i numeri dei prigionieri.
E quando la fanno sono spesso contradditori e impossibili da verificare. Di tanto in tanto si viene a conoscenza di ex abitanti di Tawargha arrestati nei campi profughi e nei quartieri poveri attorno a Tripoli. Le voci di violenze carnali contro le donne sono ricorrenti. Molti giovani sarebbero ora tra i combattenti irriducibili negli assedi di Sirte e a Bani Walid. Altri sarebbero riusciti ad unirsi ai Tuareg nel deserto verso Sabha. Sono motivati dalla consapevolezza che la «caccia al negro» non si ferma. Due giorni fa, durante gli scontri a Tripoli tra milizie della rivoluzione e sostenitori di Gheddafi, i primi ad essere arrestati erano i passanti di pelle nera.
Lorenzo Cremonesi | Corriere della Sera
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