ZENIT
Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano - 17 gennaio 2010
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2009 Book of the Year!
"2009 BOOK OF THE YEAR...
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THE SECRETS, CHASTISEMENT, AND TRIUMPH OF THE TWO HEARTS OF JESUS & MARY
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Santa Sede
- Il Papa auspica una maggiore fraternità tra cristiani ed ebrei
- Benedetto XVI accolto tra gli applausi alla grande Sinagoga di Roma
- Il Papa: siano sanate le ferite causate dall'antisemitismo
- Il Pontefice invita i cristiani ad essere "veri fratelli"
- Il Papa: tutelare i bambini "contro ogni emarginazione e sfruttamento"
- Il Papa incoraggia le organizzazioni caritative a favore di Haiti
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Il Papa auspica una maggiore fraternità tra cristiani ed ebrei
Invita nella grande Sinagoga di Roma a testimoniare l'unico Dio
"Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa", ha auspicato.
Nell'intervento che ha pronunciato nella grande Sinagoga alla presenza di più di mille persone, il Pontefice ha ricordato come ebrei e cristiani siano illuminati dal Decalogo - "le 'Dieci Parole' o Dieci Comandamenti" -, che rappresenta "un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un 'grande codice' etico per tutta l'umanità".
In questa prospettiva "sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza" tra le due fedi, ha osservato, sottolineandone tre "particolarmente importanti per il nostro tempo".
Il Papa ha spiegato innanzitutto che "le 'Dieci Parole' chiedono di riconoscere l'unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli".
"Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l'uomo si inchina", ha riconosciuto.
"Risvegliare nella nostra società l'apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l'unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme".
In secondo luogo, il Decalogo chiede "il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio".
"Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell'essere umano!", ha esclamato.
In questo contesto, "testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace".
Le "Dieci Parole" chiedono poi "di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il 'sì' personale e reciproco, fedele e definitivo dell'uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l'autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita".
"Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano", ha constatato.
Approfondire la collaborazione
Tutti i comandamenti, ha sottolineato Benedetto XVI, "si riassumono nell'amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo", regola che impegna ebrei e cristiani "ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi".
In questa direzione, ha rilevato, si possono compiere notevoli "passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra".
Cristiani ed ebrei, ha riconosciuto, "hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l'uno all'altro".
"Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell'amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell'umanità in questo mondo creato da Dio, l'Onnipotente e il Misericordioso".
Ricordando che i fedeli delle due religioni convivono a Roma da circa duemila anni, ha auspicato che "questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare".
Allo stesso modo, ha chiesto a Dio "il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa".
"Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: 'manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione'", ha concluso citando la sua Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme del 12 maggio scorso.
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Benedetto XVI accolto tra gli applausi alla grande Sinagoga di Roma
In occasione della sua visita alla Comunità ebraica della capitale
ROMA, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La visita di Benedetto XVI alla Comunità ebraica di Roma, questa domenica pomeriggio, è stata un successo, testimoniato dagli applausi con cui il Pontefice è stato ricevuto fuori e dentro la grande Sinagoga.
Il Papa è giunto al Tempio maggiore verso le 16.25, venendo accolto, tra le altre personalità, dal presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, dal presidente delle Comunità ebraiche d'Italia, Renzo Gattegna, e dal Gran Rabbino, Riccardo Di Segni.
Prima del suo ingresso nella Sinagoga, il Pontefice ha deposto un omaggio floreale davanti alle lapidi che ricordano due dei momenti più bui della storia della Comunità ebraica romana: quella che commemora la retata di 1.022 ebrei compiuta il 16 ottobre 1943 e quella che ricorda l'attentato terroristico del 9 ottobre 1982 al Tempio, durante il quale morì un bambino di due anni, Stefano Taché, e oltre 40 fedeli rimasero feriti.
Benedetto XVI, secondo Papa a visitare la Sinagoga di Roma dopo Giovanni Paolo II nel 1986, è stato il primo Pontefice a sostare davanti alla lapide che ricorda la morte del piccolo, accanto alla quale ha deposto un mazzo di fiori bianchi. Ha anche salutato i parenti del bambino ucciso e i feriti sopravvissuti all'attentato, tra i quali Emanuele Pacifici, padre del presidente della Comunità ebraica romana.
Fiori rossi erano stati invece deposti pochi minuti prima davanti alla lapide che ricordava la deportazione durante la Seconda Guerra Mondiale.
L'arrivo del Vescovo di Roma è stato accolto da applausi calorosi e da grida "Viva il Papa". Appena prima di fare il suo ingresso nel Tempio, Benedetto XVI si è voltato per salutare ancora una volta i presenti, che continuavano a battere le mani. E' quindi entrato nella Sinagoga mentre il coro cantava sulle note di un organo, strumento caratteristico della Comunità ebraica romana e non utilizzato da altre comunità.
Dopo gli indirizzi di saluto di Pacifici, Gattegna e del Rabbino Di Segni, il Papa ha iniziato il suo discorso, interrotto sette volte dagli applausi dei presenti. La Sinagoga era gremita da più di mille persone, tra ebrei, cristiani e musulmani.
Nel suo intervento, ha ricordato l'orrore della Shoah e ha auspicato una maggiore collaborazione tra ebrei e cristiani, uniti dal Decalogo e impegnati a testimoniare l'unico Dio e a risvegliare nella società l'anelito alla trascendenza.
Tra i presenti nel Tempio maggiore c'erano anche i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, visibilmente commossi quando il Pontefice ha ripercorso una delle più grandi tragedie della storia dell'umanità.
Nel suo indirizzo di saluto al Papa, il presidente della Comunità ebraica romana Pacifici ha affermato che la sua visita "lascerà un segno profondo", non solo dal punto di vista religioso, "ma soprattutto per la ricaduta che speriamo possa avere sulla società civile".
Allo stesso modo, ha sottolineato il suo apprezzamento per la "posizione coraggiosa" del Pontefice sull'immigrazione e ha auspicato una laicità "mai in contrapposizione con il contributo che le religioni monoteistiche possono dare".
Ricordando che il proprio padre, Emanuele Pacifici, è scampato all'Olocausto perché nascosto nel convento delle Suore di Santa Marta a Firenze, il presidente della Comunità ebraica di Roma ha constatato che migliaia di cattolici aiutarono gli ebrei, sottolineando che lo fecero "senza chiedere nulla in cambio".
In questo contesto, ha definito il presunto silenzio di Papa Pio XII un "atto mancato" che avrebbe potuto dare coraggio e speranza a chi fuggiva dallo sterminio.
Pacifici ha quindi concluso il suo discorso sottolineando che il dialogo tra ebrei e cattolici "può e deve continuare", concetto ripreso dal presidente delle Comunità ebraiche d'Italia Renzo Gattegna, che ha auspicato che "le diversità non siano mai più causa di conflitti ideologici o religiosi, ma di reciproco arricchimento culturale e morale".
Il Rabbino Di Segni ha quindi rivolto a Benedetto XVI un "saluto grato" per la sua visita, ricordando la necessità di un dialogo che metta al primo posto gli obiettivi comuni tra le due fedi.
Il Papa ha donato a Riccardo Pacifici una veduta dell'Isola Tiberina opera di Giovanni Battista Piranesi, ricevendo dalla Comunità ebraica un'opera dell'artista veneziano Tobia Donà che rappresenta un bosco azzurro la cui immagine è stata realizzata con numeri, lettere e parole ebraiche.
In Italia ci sono circa 35.000 ebrei, organizzati soprattutto nelle due comunità maggiori di Roma e Milano. La Comunità ebraica romana conta circa 15.000 membri.
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Il Papa: siano sanate le ferite causate dall'antisemitismo
Ricorda l'Olocausto e i cristiani che salvarono gli ebrei
ROMA, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha chiesto questa domenica durante la sua visita alla grande Sinagoga di Roma che siano "sanate per sempre" le ferite provocate da "tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo".
In particolare, si è riferito alla dichiarazione sulla Shoah del 16 marzo 1998 e alla preghiera di Giovanni Paolo II davanti al Muro del Pianto nella sua visita a Gerusalemme nel marzo 2000, esprimendo il proprio dolore per "il comportamento di quanti, nel corso della storia", hanno fatto soffrire il popolo ebraico.
Durante il suo discorso nel Tempio maggiore, il Papa è tornato a riflettere sulla tragedia dell'Olocausto, richiamando concretamente la deportazione degli ebrei di Roma.
"Come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini?", si è chiesto.
Anche se "molti rimasero indifferenti", molti altri, "anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall'insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne".
"Anche la Sede Apostolica svolse un'azione di soccorso, spesso nascosta e discreta", ha aggiunto.
Benedetto XVI ha esortato a far sì che la memoria dell'Olocausto, lungi dal dividere ebrei e cristiani, li spinga a "rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l'accoglienza".
In questo senso, ha voluto ricordare che l'Olocausto rappresenta "il vertice di un cammino di odio che nasce quando l'uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell'universo".
"I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità e, in fondo, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno", ha aggiunto ricordando il suo discorso ad Auschwitz del 28 maggio 2006.
Il XX secolo, ha rilevato, è stata "un'epoca davvero tragica per l'umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l'idolatria dell'uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello".
Futuro di dialogo
La visita di questa domenica, la seconda di un Papa in quasi 24 anni, deve essere intesa per Benedetto XVI come una conferma del cammino intrapreso con la Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II e i passi del suo predecessore, Giovanni Paolo II.
La visita di Papa Wojtyła nel 1986 "intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo".
A tale proposito, ha affermato che il Concilio Vaticano II "ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell'atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa".
Ciò, ha aggiunto, "ha dato un decisivo impulso all'impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia".
"Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell'Alleanza", ha confermato ricordando i suoi incontri, negli ultimi anni, con i rappresentanti ebraici, in Vaticano e durante i suoi viaggi.
Per questo, ha auspicato che questa visita serva a "rendere più saldi i legami che ci uniscono" e a "continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità".
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Il Pontefice invita i cristiani ad essere "veri fratelli"
Alla vigilia della Settimana di preghiera per l'unità dei Cristiani
Lo ha fatto questa domenica durante il suo intervento per la recita della preghiera mariana dell'Angelus, ricordando che la Settimana rappresenta "un tempo propizio per ravvivare lo spirito ecumenico, per incontrarsi, conoscersi, pregare e riflettere insieme".
Il tema biblico di quest'anno, tratto dal Vangelo di Luca, richiama le parole di Gesù risorto agli Apostoli: "Voi sarete testimoni di tutto ciò" (Lc 24,48).
"Il nostro annuncio del Vangelo di Cristo sarà tanto più credibile ed efficace quanto più saremo uniti nel suo amore, come veri fratelli", ha spiegato il Papa.
Per questo motivo, ha invitato "le parrocchie, le comunità religiose, le associazioni e i movimenti ecclesiali a pregare incessantemente, in modo particolare durante le celebrazioni eucaristiche, per la piena unità dei cristiani".
Le origini della Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani risalgono alla metà del XIX secolo. e derivano dalle iniziative di alcuni movimenti e circoli ecclesiali in ambito anglicano e protestante.
Padre Paul Wattson, un sacerdote anglicano co-fondatore della Society of Atonement, introdusse poi un Ottavario per l'unità dei cristiani che venne celebrato per la prima volta dal 18 al 25 gennaio del 1908.
Per lui, l'unità significava un "ritorno" alla Chiesa cattolica romana. Per questo scelse le date simboliche del 18 gennaio, giorno in cui si celebrava allora la festa della Cattedra di Pietro, e del 25 gennaio, festa della Conversione di Paolo.
Papa Pio X approvò l'Ottavario nel 1909 e incoraggiò l'idea di pregare affinché tutti i cristiani si riunissero con la Chiesa cattolica, secondo il disegno di Dio.
Nel 1936 un pioniere dell'ecumenismo, l'Abbé Paul Couturier di Lione (Francia), sottolineò come l'idea del "ritorno" costituisse per molti gruppi una difficoltà dal punto di vista teologico. Per questo diede inizio alla "Settimana di Preghiera Universale per l'Unità dei Cristiani", mantenendo le stesse date del 18 e del 25 gennaio ma esortando a pregare per l'unità della Chiesa "secondo la volontà di Cristo".
Da allora questa iniziativa si celebra a gennaio nei Paesi dell'emisfero nord, mentre in quelli dell'emisfero sud, in cui questo mese è periodo di vacanza, le Chiese celebrano la Settimana di preghiera in altre date, ad esempio tra l'Ascensione e la Pentecoste.
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Il Papa: tutelare i bambini "contro ogni emarginazione e sfruttamento"
Angelus nella Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato
E' l'appello lanciato da Benedetto XVI questa domenica, Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, recitando la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano.
Il Papa ha ricordato il suo Messaggio per la Giornata, sul tema "I migranti e i rifugiati minorenni", sottolineando che "Gesù Cristo, che da neonato visse la drammatica esperienza del rifugiato a causa delle minacce di Erode, ai suoi discepoli insegna ad accogliere i bambini con grande rispetto e amore".
"Anche il bambino, infatti, qualunque sia la nazionalità e il colore della pelle, è da considerare prima di tutto e sempre come persona, immagine di Dio, da promuovere e tutelare contro ogni emarginazione e sfruttamento".
In particolare, ha dichiarato il Pontefice, "occorre porre ogni cura perché i minori che si trovano a vivere in un Paese straniero siano garantiti sul piano legislativo e soprattutto accompagnati negli innumerevoli problemi che devono affrontare".
In questo contesto, ha incoraggiato "vivamente le comunità cristiane e gli organismi che si impegnano a servizio dei minori migranti e rifugiati", esortando tutti "a tenere viva la sensibilità educativa e culturale nei loro confronti, secondo l'autentico spirito evangelico".
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Il Papa incoraggia le organizzazioni caritative a favore di Haiti
Come aveva fatto questo mercoledì nel suo intervento in occasione dell'Udienza generale, il Pontefice ha ricordato ai pellegrini e a fedeli che lo ascoltavano in Piazza San Pietro in Vaticano che in questi giorni "il nostro pensiero è rivolto alle care popolazioni di Haiti, e si fa accorata preghiera".
"Il Nunzio Apostolico, che grazie a Dio sta bene, mi tiene costantemente informato, e così ho appreso la dolorosa scomparsa dell'Arcivescovo, come pure di tanti sacerdoti, religiosi e seminaristi", ha affermato il Papa.
Il cadavere dell'Arcivescovo di Haiti, monsignor Joseph Serge-Miot, di 63 anni, è stato rinvenuto tra le macerie dell'Arcivescovado (cfr. ZENIT,13 gennaio 2010).
"Seguo e incoraggio lo sforzo delle numerose organizzazioni caritative, che si stanno facendo carico delle immense necessità del Paese", ha sottolineato Benedetto XVI.
"Prego per i feriti, per i senza tetto, e per quanti tragicamente hanno perso la vita", ha aggiunto.
Il numero delle vittime del terribile sisma non è ancora certo. Si parla di 50.000, ma la cifra è purtroppo destinata a salire, anche se alcune persone continuano ad essere estratte vive dalle macerie.
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Notizie dal mondo
Tra 10 anni, 24 milioni di maschi cinesi non troveranno una partner
Per l'alto indice di aborti selettivi di bambine nel Paese
Lo conferma un rapporto elaborato dall'Accademia Cinese di Scienze Sociali dal titolo "Struttura sociale della Cina contemporanea", pubblicato lunedì scorso dal quotidiano The Global Times.
Gli aborti selettivi e gli infanticidi subiti da milioni di bambine nel ventre materno e anche appena nate hanno portato come conseguenza un indice di nascite di maschi squilibrato rispetto a quello delle femmine.
Dalla fine degli anni Settanta, esiste in Cina una politica che limita le nascite a un figlio per famiglia, malgrado la misura presenti un gran numero di eccezioni tra contadini e minoranze etniche.
In Cina l'aborto selettivo è iniziato negli anni Ottanta, quando attraverso le ecografie le coppie potevano conoscere il sesso del proprio figlio. Nel 1982 è iniziato quindi lo squilibrio, con 108 maschi per ogni 100 femmine.
Dieci anni dopo la sproporzione è arrivata a 111 maschi per ogni 100 femmine, nel 2000 ha raggiunto il rapporto 116/100 e nel 2005 quello di 119/100.
Il rapporto indica che i motivi per i quali si presenta lo squilibrio sono complessi e variano in base alle zone del Paese. Il documento afferma che l'aborto selettivo per le femmine si realizza soprattutto nelle zone rurali, dove le coppie preferiscono avere un figlio maschio per la mancanza di un sistema di sicurezza sociale, il che fa sì che gli agricoltori dipendano dalla propria discendenza.
Secondo alcune dichiarazioni del ricercatore Wang Yuesheng dell'Accademia Cinese di Scienze Sociali, questo fatto potrà "provocare una rottura nella genealogia".
"L'opportunità di contrarre matrimonio sarà complicata per gli uomini con più di 40 anni. Aumenterà la loro dipendenza dalla sicurezza sociale man mano che invecchieranno e avranno meno risorse a cui attingere", ha aggiunto.
Questo squilibrio porterà anche conseguenze negative per le donne, visto che potrebbe aumentare la differenza di età tra i due partner.
In alcune regioni, la difficoltà di trovare una moglie provoca già alcuni fenomeni contrari alla dignità delle donne, come sequestri in Paesi limitrofi, matrimoni forzati e traffico illegale di donne costrette a prostituirsi.
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Analisi
Le famiglie e la crisi economica
Un rapporto rivela lo stato del matrimonio in America
ROMA, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'attuale crisi economica potrebbe avere effetti positivi sul matrimonio. Negli Stati Uniti i divorzi sono diminuiti del 4% nel 2008, attestandosi a 16,9 per 1.000 donne sposate, dopo essere saliti dai 16,4 del 2005 ai 17,5 del 2007.
È una delle affermazioni contenute nel rapporto annuale sullo stato del matrimonio, pubblicato a dicembre dal National Marriage Project presso la University of Virginia, insieme al Center for Marriage and Families dell'Institute for American Values.
Il rapporto, dal titolo "The State of Our Unions, Marriage in America 2009: Money & Marriage", ha anche confermato che gli americani stanno continuando a rimandare il matrimonio o a non sposarsi affatto.
Una parte del declino deriva dalla tendenza a rimandare il primo matrimonio: l'età media, nel 1960, si aggirava sui 20 anni per le donne e sui 23 per gli uomini, mentre nel 2007 è aumentata rispettivamente a 26 e 28. Un altro fattore importante è l'aumento delle convivenze.
Oltre ai dati sul matrimonio e il divorzio, il rapporto contiene una serie di saggi che analizzano le implicazioni concernenti le ultime statistiche.
Guardando all'impatto economico della recessione sul matrimonio, W. Bradford Wilcox, professore di sociologia e direttore del National Marriage Project, osserva che non è la prima volta che si rileva una correlazione tra la la crisi economica e il calo nei divorzi.
Lo stesso era successo durante la grande Depressione del 1930. Il calo dei divorzi è in parte dovuto ai fattori economici che portano semplicemente le coppie a rimandare il divorzio. Esiste, tuttavia, un'altra e più duratura dinamica, secondo Wilcox. Negli ultimi decenni, gli americani hanno considerato il matrimonio sempre più come una relazione con l'anima gemella. In questo senso, l'intimità affettiva, la soddisfazione sessuale e la felicità individuale sono diventate le principali aspettative nel legame matrimoniale.
"La recessione ci ricorda che il matrimonio è più di un rapporto affettivo; il matrimonio è anche una partnership economica e un paracadute sociale", osserva Wilcox. Per questo, perdere il lavoro, vedere diminuire i propri fondi pensione o riconoscere la necessità di un doppio reddito incoraggia molte coppie a restare insieme.
Effetti negativi
Le difficoltà economiche hanno tuttavia anche un risvolto negativo, ammette Wilcox. Le ristrettezze finanziarie possono portare a le persone all'abuso di alcol, alla depressione e a maggiori tensioni tra i coniugi, tanto da arrivare anche al divorzio. Nell'insieme, ad ogni modo, la maggior parte delle coppie sposate non ha risposto alla crisi economica ricorrendo al divorzio.
Wilcox avverte però che l'impatto della crisi economica potrebbe ripercuotersi più pesantemente sulle persone meno istruite. La disoccupazione ha infatti colpito di più gli uomini senza titoli universitari, tanto che il 75% dei posti di lavoro persi si è concentrato in questa categoria.
Dai dati risalenti al settembre 2009, resi noti dal Bureau of Labor Statistics, emerge che il 4,9% delle donne laureate e il 5% dei laureati risultava disoccupato. Per contro, tra i diplomati era disoccupato l'8,6% delle donne e l'11,1% degli uomini.
Wilcox prosegue citando le proprie ricerche da cui emerge che i mariti sono significativamente meno felici nel matrimonio e più propensi a contemplare il divorzio quando vedono il proprio reddito superato da quello delle mogli.
E' già in atto, sottolinea, una spaccatura tra le coppie sposate e con un'istruzione universitaria e le coppie meno istruite; un gap in cui i più istruiti presentano tassi notevolmente più elevati di divorzio. A deteriorare ulteriormente lo stato del matrimonio in questa categoria socio-economica potrebbe contribuire l'aumento dei tassi di disoccupazione tra i lavoratori.
Le appendici statistiche allegate al rapporto forniscono un ulteriore approfondimento su questa preoccupante tendenza. Le donne di istruzione universitaria si sposano ora ad un tasso più elevato rispetto ai loro colleghi maschi. Non solo, il tasso di divorzio tra le donne è relativamente più basso ed è in calo.
"In effetti, le donne con istruzione universitaria, che un tempo capeggiavano la rivoluzione del divorzio, adesso presentano una visione più restrittiva del divorzio stesso rispetto alle donne meno istruite", aggiunge il rapporto.
Tra le donne che rimandano il matrimonio a dopo i 30 anni, inoltre, quelle con un'istruzione universitaria sono le uniche che stanno mostrando maggiore propensione a fare figli dopo il matrimonio.
Questa tendenza positiva è tuttavia controbilanciata dal fatto che le famiglie stabili, negli Stati Uniti, non stanno procreando abbastanza da raggiungere il tasso di sostituzione. Nel 2004, il 24% delle donne tra i 40 e i 44 anni diplomate era senza figli, rispetto a solo il 15% delle coetanee senza diploma.
Ridurre il debito
Nel sottolineare gli aspetti positivi, Jeffrey Dew, professore associato della Utah State University, ricorda che con la recessione gli americani hanno iniziato a non fare più un uso indiscriminato della propria carta di credito.
Nel dicembre 2008 i consumatori americani avevano accumulato uno strabiliante debito al consumo di 988 miliardi di dollari (750 miliardi di euro), che nel 2009 è stato ridotto di circa 90 miliardi di dollari (60 miliardi di euro).
Dew cita alcuni studi da cui risulta che il debito al consumo rappresenta un elemento determinante nel deterioramento della qualità della vita matrimoniale. Gli studi indicano che le coppie sposate da poco, che si sobbarcano pesanti debiti al consumo, nel corso del tempo si rivelano meno felici, mentre le coppie neosposate, che hanno saldato i propri debiti al consumo contratti all'inizio del matrimonio, presentano nel tempo riduzioni meno marcate della qualità del loro matrimonio.
Da uno studio risulta un aumento del 45%, sia per gli uomini che le donne, della probabilità di divorzio qualora un coniuge ritenga che l'altro stia spendendo in modo frivolo. Solo il tradimento coniugale e l'abuso di alcol o di droghe sono risultati fattori più indicativi della probabilità di giungere al divorzio.
La ricerca di Dew sottolinea anche un altro argomento interessante relativo alla vita matrimoniale: che i problemi coniugali dipendono anche dal grado di cultura materialistica dei coniugi stessi. Queste coppie, infatti, basano molto del loro senso di felicità e di autostima sul proprio avere materiale. Pertanto, quando sopraggiungono difficoltà economiche la situazione matrimoniale diventa più conflittuale.
Pace economica
Alex Roberts, ricercatore dell'Institute for American Values, cita dati del Dipartimento della salute e dei servizi umani per dimostrare che l'attuale crisi rivela ancora una volta che i benefici economici del matrimonio vengono persi quando la coppia divorzia.
Roberts osserva che una famiglia di tre unità - due genitori e un figlio - ha bisogno di un reddito di 18.311 dollari (circa 13.000 euro) per rimanere al di sopra della linea della povertà. Se i genitori, invece, vivono in case separate, il reddito necessario per mantenere tutti e tre fuori dalla povertà sale a 25.401 dollari (circa 17.500 euro).
Quindi, se i genitori si separano, dovranno guadagnare 7.090 dollari (quasi 5000 euro) in più - pari a quasi il 39% - per evitare la povertà. "Il matrimonio, a quanto pare, continua ancora a generare notevoli economie di scala, soprattutto per le coppie a basso reddito", osserva Roberts.
Il matrimonio produce effetti positivi anche relativamente all'accumulo della ricchezza. Roberts riporta gli studi degli economisti Joseph Lupton e James P. Smith sui redditi e il patrimonio di 7.608 capofamiglia tra il 1984 e il 1989. Da questi studi risulta che le persone sposate hanno visto il proprio reddito aumentare tra il 50% e il 100%, con un aumento netto del patrimonio tra il 400% e il 600%.
Le famiglie con un matrimonio stabile hanno fatto rilevare in media un reddito che è circa il doppio di quello dei divorziati o mai sposati, e un patrimonio che è quattro volte tanto.
Quali sono i motivi di questi vantaggi del matrimonio? Secondo Roberts si potrebbero spiegare in parte dalla alta propensione al guadagno e al risparmio di chi si sposa. È stato anche dimostrato che gli uomini che si sposano lavorano di più e guadagnano di più di quelli non sposati.
I ricercatori - osserva Roberts - hanno concluso che nel matrimonio vigono standard e aspettative di affidabilità e di responsabilità economica che incoraggiano un uso oculato delle risorse.
Lo stesso non avviene nelle coppie conviventi, che sono meno propense a recuperare risorse e meno motivate a spendere in modo saggio e a risparmiare.
Certamente non si può ridurre il matrimonio ai solo benefici economici, ammette Roberts, ma sicuramente la società trarrebbe vantaggio da una maggiore consapevolezza dei benefici economici del matrimonio. Una riflessione che le istituzioni e i politici farebbero bene a tenere presente.
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Italia
"Il Sabato, tempo di riposo divino e di distensione"
XXI Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo fra cattolici ed ebrei
L’iniziativa di una Giornata dedicata in modo speciale alla preghiera per il popolo ebraico e al dialogo con i figli d’Israele è maturata nella Chiesa alla fine degli anni Ottanta sulla scia del documento conciliare Nostra aetate, promulgato nel 1965 da Papa Paolo VI.
E' però nel 1990 che la Conferenza episcopale italiana (Cei) decide di dar vita a questa iniziativa coordinata con autorità ed esponenti del mondo ebraico, ed estesa anche in Europa dopo l'incontro ecumenico di Graz (Austria) nel 1998, che fa da preludio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio).
In questo modo la Chiesa cattolica intende rispondere ad un'esigenza di maggiore comprensione di sé attraverso la conoscenza delle sue origini ed esprimere un gesto di dialogo e di fraternità verso il popolo ebraico.
Oltre a questo, da alcuni anni si è aggiunta, in ambito civile, la celebrazione della “Giornata della memoria” della Shoà, egualmente fissata alla fine di gennaio, il che ha prodotto un ulteriore arricchimento nelle tematiche e negli incontri, a reciproco vantaggio di entrambe le Giornate, anche se hanno connotazioni ben distinte.
Dal 2005, quale tema generale della Giornata, si è iniziato un programma di riflessione decennale che medita sulle “Dieci Parole” o Decalogo, rivelate a Mosè sul monte Sinai, e donate all’uomo per la sua santificazione e nel contesto dell’Alleanza di salvezza.
In questo modo si è voluto accogliere e sviluppare l’invito lanciato da Papa Benedetto XVI, durante la sua visita nella Sinagoga di Colonia del 19 agosto del 2005.
Lo scorso anno l'Assemblea rabbinica italiana aveva deciso di sospendere la celebrazione di questa Giornata.
La causa satenante era stata la modifica da parte di Benedetto XVI della Preghiera per gli ebrei (“Oremus et pro Iudaeis”) che si recitava nella liturgia del Venerdì Santo prima del Concilio Vaticano II e che verrà utilizzata solo dalle comunità cattoliche che celebrano secondo questa forma del rito latino. Nella nuova formulazione si invoca Dio perché “illumini” il cuore degli ebrei, “perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini”.
Per accompagnare la ricorrenza, è stato approntato un Sussidio a firma di mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni-Narni-Amelia e Presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei, e del Rabbino Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale Rabbinico di Milano e del Nord Italia.
“Il Sabato – si afferma nel Sussidio –, tempo di riposo divino e di distensione, diviene così occasione eccellente per la socialità in senso più ampio, perché permette di tendere l'orecchio e aprire il cuore a quelle voci di solidarietà verso il prossimo, che a volte il frastuono e la fatica della settimana non consentono di percepire”.
“Il Sabato – si legge poi – significa la presenza di Dio, la Sua relazione con l’uomo, amorevole e misericordiosa, è quindi un tempo pregnante di santità, nel quale si ripropone l’Alleanza (Esodo 31, 16) e il ricordo della redenzione pasquale (Deauteronomio 5, 15)”.
“Perciò questo giorno - afferma ancora il documento - si colma anche di attesa messianica e di speranza di una pienezza futura, rappresentate dall’immagine del Sabato come regina e come sposa”.
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Interviste
Gli occhi della Chiesa sono puntati su Haiti
Intervista al Cardinale Cordes, presidente di "Cor Unum"
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Mentre il disastro invade Haiti, gli occhi del mondo sono concentrati sul Paese più povero del mondo occidentale, la cui annosa sofferenza è stata a lungo dimenticata, denuncia il Cardinale Josef Cordes.
Il Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum" ha parlato con ZENIT delle conseguenze del sisma di magnitudo 7.0 che ha devastato il Paese martedì semidistruggendo la capitale Port-au-Prince.
In questa intervista, il Cardinale parla dei danni riportati da Haiti e di quali saranno le necessità dei giorni, mesi e anni a venire.
Cosa sa dei danni provocati dal terremoto?
Cardinale Cordes: Le comunicazioni iniziali sono state difficili, ma stiamo iniziando a ricevere rapporti da agenzie cattoliche che lavorano direttamente in loco, come il Catholic Relief Services (l'agenzia di assistenza e sviluppo dei Vescovi statunitensi), i rappresentanti nazionali Caritas inviati ad Haiti dai loro Vescovi, la Croce Rossa Internazionale, la Confederazione di San Vincenzo de' Paoli.
Alcuni fatti sono noti attraverso i media (vittime, distruzione di abitazioni...). Per quanto ci riguarda, è stato il Nunzio Apostolico a Santo Domingo ad avere i primi contatti via e-mail con l'Arcivescovo Bernardito Auza, Nunzio Apostolico ad Haiti. L'Arcivescovo Auza ci informa delle perdite della Chiesa, in termini sia di vite che di danni materiali. L'Arcivescovo di Port-au-Prince, Joseph Serge-Miot, che egli ha descritto come "buono" e "sempre sorridente", è morto venendo scaraventato dal balcone della sua abitazione dalla forza del terremoto. Altri sacerdoti, religiosi e almeno nove seminaristi sono rimasti sepolti sotto le macerie. La Cattedrale e tutte le parrocchie sono state distrutte. L'Arcivescovo Auza sta visitando le strutture cattoliche e di altro tipo, molte delle quali danneggiati, per esprimere la vicinanza della Chiesa e del Santo Padre.
Quali sono le necessità immediate?
Cardinale Cordes: Ogni catastrofe naturale è unica, ma la nostra lunga esperienza di disastri precedenti (ad esempio lo tsunami, l'uragano Katrina) mostra due fasi distinte:
-- a breve termine: servono persone per salvare vite, assicurare le necessità di base (acqua, cibo, alloggi, prevenzione delle malattie), restaurare l'ordine;
-- a lungo termine: ricostruzione, offerta di aiuto spirituale e psicologico, soprattutto quando l'attenzione dei media svanisce.
Benedetto XVI ha esortato tutte le persone di buona volontà ad essere generose e concrete nella loro risposta per far fronte ai bisogni immediati dei nostri fratelli e delle nostre sorelle sofferenti ad Haiti (Udienza generale del 13 gennaio 2010). E' importante dare un aiuto tangibile attraverso le agenzie caritative della Chiesa cattolica. In tutto il mondo si stanno organizzando e incoraggiando molte iniziative a questo proposito.
Ad esempio, la Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito il 24 gennaio come Giornata di preghiera e carità per il popolo di Haiti. Le ambasciate nazionali presso la Santa Sede stanno organizzando l'offerta della Santa Messa per i nostri fratelli e le nostre sorelle sofferenti. Dobbiamo ricordare di intercedere attraverso la preghiera e non solo con il denaro per i sofferenti di Haiti.
Cosa stanno facendo concretamente la Santa Sede e il Pontificio Consiglio "Cor Unum"?
Cardinale Cordes: Nel suo appello all'assistenza, Benedetto XVI ha chiesto specificamente che la Chiesa cattolica si mobiliti immediatamente attraverso le sue istituzioni caritative. Molte organizzazioni cattoliche hanno già iniziato a lavorare, offrendo in particolare personale esperto a questo livello (ad esempio le Caritas nazionali di Germania, Irlanda, Svizzera, Francia, Austria, l'Ordine di Malta). La Croce Rossa Internazionale è al lavoro attraverso il suo ufficio a Port-au-Prince. Stiamo ricevendo da loro aggiornamenti quotidiani.
Ogni volta che si verifica una situazione di questo tipo, è abitudine che un'agenzia coordini gli sforzi di sostegno. A questo scopo, nelle ore successive al sisma, il nostro Pontificio Consiglio è stato in diretto contatto con il Catholic Relief Services. Abbiamo chiesto che coordini la risposta a questo livello considerando i 300 membri che ha ad Haiti, la sua lunga storia di oltre 50 anni nel Paese, la sua esperienza nel far fronte a disastri simili in tutto il mondo e le sue risorse. Il presidente del CRS ci ha assicurato: "Siamo impegnati e pronti a informare e coordinare la risposta della Chiesa in ogni modo possibile, così che tale risposta possa essere un segno efficace dell'amore di Dio".
Sappiamo dal Nunzio Apostolico ad Haiti che si stanno svolgendo degli incontri con il CRS e Caritas Haiti nella Nunziatura di Port-au-Prince per affrontare le urgenti necessità locali. E' essenziale che la Chiesa locale venga ascoltata. A questo scopo, siamo lieti che i Vescovi haitiani che hanno avuto la possibilità di viaggiare siano stati presenti a questi incontri.
Quanto aiuta la fede in una catastrofe come questa?
Cardinale Cordes: La fede di quanti hanno sofferto in questo disastro giocherà un ruolo fondamentale non solo nel portare sollievo alle loro ferite fisiche e alle loro perdite, ma anche nell'affrontare la dimensione spirituale e il significato da trovare in questa catastrofe. Visitando le zone devastate e parlando con i sopravvissuti, molti esprimono la propria gratitudine a Dio per aver risparmiato la loro vita e per la generosa assistenza da parte di famiglia, amici, vicini e Chiese di tutto il mondo. Vista l'ampia percentuale di popolazione cattolica (l'80% degli haitiani è cattolico), la fede e la concreta presenza/testimonianza della Chiesa avranno un ruolo molto importante nella tragedia attuale.
Il nostro Pontificio Consiglio "Cor Unum" ha già stabilito che il prossimo incontro della Fondazione Populorum Progressio avrà luogo a Santo Domingo nel luglio prossimo. La Fondazione, istituita da Papa Giovanni Paolo II, ha il compito di aiutare le popolazioni indigene dei Paesi dell'America Latina e dei Caraibi. In passato, abbiamo aiutato molto Haiti e continueremo a farlo. Ovviamente, la nostra vicinanza spirituale è di primaria importanza. In quell'occasione celebreremo la Santa Eucaristia con Vescovi provenienti da vari Paesi dell'America Latina e dei Caraibi.
Senza fede, questa tragedia diventerebbe un completo disastro. E' per questo che per i nostri fratelli e le nostre sorelle sarà essenziale pregare insieme; sperimentare che i cristiani di tutto il mondo condividono il loro fardello come membri della famiglia divina; conoscere la compassione del nostro Santo Padre. Tutte queste diventano fonti di speranza e di energia. Nella sua prima Enciclica, la Deus caritas est, Papa Benedetto ci invita a ricordare che "è Sant'Agostino che dà a questa nostra sofferenza la risposta della fede: 'Si comprehendis, non est Deus'" (se lo comprendi, non è Dio). Il Santo Padre aggiunge che i cristiani "continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella 'bontà di Dio' e nel 'suo amore per gli uomini' (Tt 3, 4)" (n. 38).
Da questa tragedia potrà derivare qualche elemento positivo?
Cardinale Cordes: E' un disastro che ha provocato moltissime vittime e immensa sofferenza. Serviranno molti anni perché la Nazione possa essere ricostruita a livello fisico e la popolazione si riprenda. Per questa ragione, la Chiesa deve restare presente anche se altri se ne vanno.
Già ora vediamo il bene sorgere dalle rovine. Gli occhi del mondo vengono aperti ai Paesi più poveri dell'emisfero occidentale, la cui lunga sofferenza era stata dimenticata. Questa tragedia mostra che dipendiamo gli uni dagli altri e dobbiamo prenderci cura dei nostri fratelli sofferenti, come abbiamo fatto in occasione dello tsunami e dell'uragano Katrina. Dobbiamo quindi assicurare che la necessaria assistenza che viene mostrata ora ad Haiti continui nel lungo termine, ad esempio promuovendo migliori strutture della Caritas e rafforzando i legami con i Ministri per lo Sviluppo dei Governi dei Paesi più ricchi e con le agenzie di aiuto.
Testimoniamo e abbiamo notizia di molti atti eroici e disinteressati compiuti per salvare la vita di chi era in pericolo. Ci sono ancora migliaia di persone che, provenienti da tutto il mondo e senza alcun elogio, si stanno dedicando ad assistere chiunque ne abbia bisogno. La gente viene spinta a donarsi a livello spirituale e materiale per aiutare i poveri e i sofferenti. Nei giorni e nelle settimane a venire, sono convinto che in questa catastrofe troveremo molti esempi di bontà.
E' con fiduciosa speranza nel Signore Gesù Crocifisso e Risorto che i cristiani affrontano il presente. Nella sua Enciclica Spe salvi, Papa Benedetto parla delle sofferenze di questo momento da sopportare con la speranza nel futuro. Non è che i cristiani sappiano ciò che li aspetta, ma sanno in termini generali che la loro vita non finirà nel vuoto: "Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente" (Spe salvi, n. 2).
[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]
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Bioetica
Il relativismo colpisce ancora
ROMA, domenica, 17 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La cronaca di questo inizio 2010 offre abbondante materiale per una riflessione bioetica sul senso e la percezione della dignità umana. L'11 gennaio veniva comunicata la decisione del giudice per le indagini preliminari di archiviare il procedimento di accusa per omicidio volontario rivolto al medico che ha diretto l'intervento di disidratazione di Eluana Englaro; insieme al medico erano prosciolti dall'accusa di concorso in omicidio l'intera équipe che aveva partecipato all'esecuzione del protocollo. Secondo il giudice, «La prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell'incapace».
Il 12 gennaio i media riportavano la denuncia del padre di una bambina affetta da sindrome di Down recapitata al quotidiano locale di Treviso. Un avventore, disturbato dal gioco della bambina, avrebbe detto a voce alta: "Quando si hanno dei figli mongoli è meglio restarsene a casa".
Il 14 gennaio dai giornali si apprendeva che un magistrato in servizio a Salerno aveva autorizzato una coppia fertile e portatrice di una grave patologia degenerativa muscolare a ricorrere alla fecondazione artificiale e alla selezione dei figli allo stato embrionale mediante la tecnica della diagnosi pre-impianto. Secondo il giudice autore del provvedimento, «Il diritto a procreare verrebbe leso da un'interpretazione delle norme che impedissero il ricorso alle tecniche di procreazione assistita da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili. Solo la PMA attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l'impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura 'costituzionalmente' orientata dell'artico 13 della legge citata, consentono di scongiurare tale simile rischio».
Si tratta di tre episodi che, seppure connotati da differenze e specificità evidenti, presentano un sottile filo che li unisce: la negazione della dignità dell'essere umano debole e debolissimo. Vediamo di chiarire il concetto.
Il caso di Eluana Englaro è ben noto. L'ultimo capitolo della saga giunge dal versante della giustizia penale ed afferma che la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale era illegittima. Non si vuole qui considerare la perplessità che sorge dalla percezione di subalternità del giudizio penale nei confronti del precedente giudizio civile, né dalla preoccupazione che, sulla base del decreto del GIP, si potrebbe paradossalmente immaginare una condotta "illegittima" di quei medici che per lunghi anni (ed anche dopo il decreto della corte di appello civile di Milano) hanno operato somministrando i trattamenti di sostegno vitale alla paziente. No, qui quello che interessa è considerare come alla base dell'azione di colui che ha promosso l'iter procedurale che si è concluso con la morte della ragazza vi fosse, oltre alla rivendicazione di un diritto all'auto-determinazione delegata, l'attribuzione di mancanza di dignità nella condizione di vita di Eluana Englaro e nel modo stesso di assisterla.[1] La stessa Corte di Cassazione nel dispositivo sul caso Englaro ha citato la parola "dignità" per undici volte, affermando sì la piena dignità della persona in stato vegetativo, ma al contempo sancendo il principio che la sottrazione della vita con attributi soggettivi di indegnità è un diritto esigibile. Il riferirsi in tali casi al diritto alla libertà di cura rivela la propria natura di mero espediente. Molti commentatori internazionali infatti, peraltro non riconducibili alla morale cattolica, sostengono che l'interruzione dell'idratazione e nutrizione assistita nei pazienti in stato vegetativo può essere esclusa dagli atti eutanasici solo ricorrendo a sofismi, [2];[3];[4] dal momento che l'unico fine che si intende raggiungere con una tale condotta è la morte della persona assistita.
Nel caso della bambina affetta da sindrome di Down, è successo che un signore si è sentito disturbato da quella bambina ammalata nel suo diritto a condurre in condizioni di benessere la sua giornata. Il concetto di salute accreditato presso le istituzioni sanitarie mondiali sin dal 1948 (è stato ricordato altre volte in questa rubrica) secondo cui la salute non è la semplice assenza di malattia, ma uno "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale", col suo grado di espansione indefinita, consente di identificare come una minaccia alla salute qualsiasi turbativa anche solo potenziale. La quasi totalità degli aborti nelle Nazioni occidentali viene autorizzata legalmente sulla base di un diritto alla tutela della salute da parte della donna. Quasi sempre si tratta di una minaccia alla salute psichica della madre, già di per sé più difficilmente obiettivabile, ma i cui contorni sono divenuti del tutto indefiniti quando si è proceduto a recepire in modo automatico, formale e passivo quanto attestato dalla donna stessa a cui in fin dei conti è stato demandata ogni decisione attraverso una sorta di autocertificazione. Qualche numero può aiutare a comprendere le dimensioni del fenomeno. In Inghilterra e Galles, nel periodo 2007-8 dei 1843 casi di sindrome di Down ne sono stati diagnosticati prima della nascita 1112. Di questi solo il 4,8% è stato fatto nascere, perché 92,8% è stato abortito in modo volontario.[5] In Italia dati qualitativamente equivalenti si possono ricavare dalla Toscana, una regione dove la diagnostica prenatale è molto diffusa. Nel 2007 sono nati 15 bambini affetti da sindrome di Down, mentre 26 (pari al 66%) sono stati abortiti. Il numero non è riportato, ma è verosimile che, come in Inghilterra, i bambini che sono nati siano in gran parte sfuggiti alla diagnosi prenatale. Queste procedure non solo vengono tollerate, ma, in nome del diritto alla salute, sono finanziate direttamente dallo stato e promosse sui media e nei consessi sovranazionali quali fondamentale diritto umano, il cui accesso deve essere garantito a tutti. Essendo persona semplice, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché la madre può sopprimere il figlio per tutelare il proprio "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale", mentre l'avventore del locale, che non ha certamente maggiori obblighi, non potrebbe fare le proprie rimostranze se percepisce la propria "salute", così intesa, deteriorata. Si tratta di un discorso evidentemente e volutamente paradossale; ogni lettore avrà ben capito che chi scrive è completamente dalla parte della bambina e dei suoi genitori, ma l'esserlo presuppone il riconoscimento previo della dignità inalienabile ed incondizionata di quella bambina proprio in quanto essere umano, il riconoscimento della dignità e con esso al diritto alla vita di ogni essere umano, a prescindere da qualsiasi attributo. Come osserva il prof. Pessina, l'umanità è la comune stoffa di cui tutti siamo fatti. La condanna morale del comportamento del greve avventore del locale, l'indignazione per quella frase riprovevole reclamano quale pre-condizione il riconoscimento di un'oggettività morale negata dal relativismo etico. Come scrive il senatore Pera, a causa della sospensione del giudizio, se vuole essere coerente "il relativista o diventa muto o alza le mani".[6]
Si giunge così al caso della coppia portatrice di una forma molto grave di distrofia muscolare (con sopravvivenza nei casi di malattia non superiore ad un anno di vita), che si legge, dopo avere avuto un figlio concepito naturalmente, nato sano ed attualmente in perfetta salute e tre figli diagnosticati prima della nascita essere affetti dalla malattia e quindi abortiti, si è rivolta al giudice per essere autorizzata a sottoporsi ad una procedura di fecondazione artificiale prevedendo la selezione degli embrioni sani (ed ovviamente la eliminazione di quelli malati). Di nuovo non interessa qui esprimere lo sdegno per comportamenti che rendono manifesta la massima hobbesiana "non veritas, sed auctoritas facit legem", non si vuole sottolineare la gravità di decisioni assunte da chi, pur chiamato a rispettare e servire la legge, nel silenzio di tanti prezzolati difensori delle istituzioni e della legalità, interpreta la legge in senso contrario allo spirito ed alla lettera della legge senza neppure sentire il dovere di rimettere la questione agli organi competenti. No, di nuovo queste considerazioni su fatti pur gravissimi non è quanto voglio evidenziare in questo intervento. Piuttosto mi preme sottolineare come la cultura che discrimina il malato, in collaborazione con le possibilità offerte dalla tecnica, stia marciando trionfalmente verso l'eliminazione dell'indesiderato inerme. Pur nella umana solidarietà per la sofferenza indubbia dei genitori, si è in dovere di affermare la verità, affrancandola dalla cortina dell'intenzione, liberandola dal giogo delle circostanze (chi non desidererebbe per tutti i genitori figli in perfetta salute?) mostrando l'oggetto morale dell'azione, andando al cuore della questione rispondendo alla domanda: "Che cosa fai?". La risposta è in re ipsa, la selezione di esseri umani viventi sulla base della loro salute fisica e la loro eliminazione in caso di inadeguatezza ad uno standard fissato. Questa deriva ius-positivista è quanto il relativismo etico sta mettendo nel piatto dell'uomo del terzo millennio. Se "questo è vero e questo è falso, questo è bene e questo è male" sono cose che non si possono più dire, allora la violazione della massima aurea (non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te) e dell'imperativo morale kantiano (agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo) non sosterranno più la civiltà occidentale, non potranno essere più invocati dal debole; che il lupo abbia il ventre sazio sarà allora la sua unica speranza.
Ci si attende da quanti percepiscono il baratro sempre più prossimo e sopportano il pesante onere della responsabilità qualcosa di più che non qualche accorata dichiarazione di denuncia.
[1] Cfr. Istanza del tutore, Tribunale di Lecco, 18.1.1999
[2] McLean SAM. Legal and ethical aspects of the vegetative state. J Cin Pathol 1999; 52: 490-3.
[3] Paul J. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415.
[4] Cameron-Perry JE. Withholding food and fluids is justifiable only for terminally ill. BMJ 1999;318:1415. http://www.bmj.com/cgi/eletters/318/7195/1415#3253
[5] Morris JK, Alberman E. Trends in Down's syndrome live births and antenatal diagnoses in England and Wales from 1989 to 2008: analysis of data from the National Down Syndrome Cytogenetic Register. BMJ. 2009; 339: b3794.
[6] M. Pera. Perché dobbiamo dirci cristiani. Ed. Mondatori, Milano, 2008. p. 114.
* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
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Angelus
Benedetto XVI: anche Gesù è stato un bambino rifugiato
Intervento in occasione della recita dell'Angelus
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Nell'odierna domenica si celebra la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. La presenza della Chiesa a fianco di queste persone è stata costante nel tempo, raggiungendo traguardi singolari agli inizi del secolo scorso: basti pensare alle figure del beato vescovo Giovanni Battista Scalabrini e di santa Francesca Cabrini. Nel Messaggio inviato per l'occasione ho richiamato l'attenzione sui migranti e i rifugiati minorenni. Gesù Cristo, che da neonato visse la drammatica esperienza del rifugiato a causa delle minacce di Erode, ai suoi discepoli insegna ad accogliere i bambini con grande rispetto e amore. Anche il bambino, infatti, qualunque sia la nazionalità e il colore della pelle, è da considerare prima di tutto e sempre come persona, immagine di Dio, da promuovere e tutelare contro ogni emarginazione e sfruttamento. In particolare, occorre porre ogni cura perché i minori che si trovano a vivere in un Paese straniero siano garantiti sul piano legislativo e soprattutto accompagnati negli innumerevoli problemi che devono affrontare. Mentre incoraggio vivamente le comunità cristiane e gli organismi che si impegnano a servizio dei minori migranti e rifugiati, esorto tutti a tenere viva la sensibilità educativa e culturale nei loro confronti, secondo l'autentico spirito evangelico.
Oggi pomeriggio, a quasi 24 anni dalla storica Visita del Venerabile Giovanni Paolo II, mi recherò alla grande Sinagoga di Roma, detta Tempio Maggiore, per incontrare la Comunità ebraica della Città e porre un'ulteriore tappa nel cammino di concordia e di amicizia tra Cattolici e Ebrei. Infatti, malgrado i problemi e le difficoltà, tra i credenti delle due Religioni si respira un clima di grande rispetto e di dialogo, a testimonianza di quanto i rapporti siano maturati e dell'impegno comune di valorizzare ciò che ci unisce: la fede nell'unico Dio, prima di tutto, ma anche la tutela della vita e della famiglia, l'aspirazione alla giustizia sociale ed alla pace.
Ricordo, infine, che domani si aprirà la tradizionale Settimana di preghiera per l'unità dei Cristiani. Ogni anno, essa costituisce, per quanti credono in Cristo, un tempo propizio per ravvivare lo spirito ecumenico, per incontrarsi, conoscersi, pregare e riflettere insieme. Il tema biblico, tratto dal Vangelo di san Luca, riecheggia le parole di Gesù risorto agli Apostoli: "Voi sarete testimoni di tutto ciò" (Lc 24,48). Il nostro annuncio del Vangelo di Cristo sarà tanto più credibile ed efficace quanto più saremo uniti nel suo amore, come veri fratelli. Invito pertanto le parrocchie, le comunità religiose, le associazioni e i movimenti ecclesiali a pregare incessantemente, in modo particolare durante le celebrazioni eucaristiche, per la piena unità dei cristiani.
Affidiamo queste tre intenzioni - i nostri fratelli Migranti e Rifugiati, il dialogo religioso con gli Ebrei e l'unità dei Cristiani - alla materna intercessione di Maria Santissima, Madre di Cristo e Madre della Chiesa.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Il nostro pensiero, in questi giorni, è rivolto alle care popolazioni di Haiti, e si fa accorata preghiera. Il Nunzio Apostolico, che grazie a Dio sta bene, mi tiene costantemente informato, e così ho appreso la dolorosa scomparsa dell'Arcivescovo, come pure di tanti sacerdoti, religiosi e seminaristi. Seguo e incoraggio lo sforzo delle numerose organizzazioni caritative, che si stanno facendo carico delle immense necessità del Paese. Prego per i feriti, per i senza tetto, e per quanti tragicamente hanno perso la vita.
In questa Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, sono lieto di salutare le rappresentanze di diverse comunità etniche qui convenute. Auguro a tutti di partecipare pienamente alla vita sociale ed ecclesiale, custodendo i valori delle proprie culture di origine. Saluto anche i brasiliani discendenti di emigrati del Trentino. Grazie di essere venuti!
Rivolgo infine uno speciale saluto ai partecipanti alla seconda edizione del Festival Internazionale degli Itinerari dello Spirito, collegati con noi dalla Nuova Fiera di Roma, dove è stata appena celebrata la Santa Messa dal Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.
Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i numerosi soci dell'Associazione Italiana Allevatori, venuti in occasione della memoria liturgica del loro Patrono, sant'Antonio Abate. Cari amici, esprimo apprezzamento per il vostro impegno in favore di uno sviluppo giusto, solidale e rispettoso dell'ambiente, ed auspico ogni bene per la vostra attività.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
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Documenti
Discorso di Benedetto XVI alla grande Sinagoga di Roma
* * *
"Il Signore ha fatto grandi cose per loro"
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia" (Sal 126)
"Ecco, com'è bello e com'è dolce
che i fratelli vivano insieme!" (Sal 133)
Signor Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma,
Signor Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
Signor Presidente della Comunità Ebraica di Roma
Signori Rabbini,
Distinte Autorità,
Cari amici e fratelli,
1. All'inizio dell'incontro nel Tempio Maggiore degli Ebrei di Roma, i Salmi che abbiamo ascoltato ci suggeriscono l'atteggiamento spirituale più autentico per vivere questo particolare e lieto momento di grazia: la lode al Signore, che ha fatto grandi cose per noi, ci ha qui raccolti con il suo Hèsed, l'amore misericordioso, e il ringraziamento per averci fatto il dono di ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità. Desidero esprimere innanzitutto viva gratitudine a Lei, Rabbino Capo, Dottor Riccardo Di Segni, per l'invito rivoltomi e per le significative parole che mi ha indirizzato. Ringrazio poi i Presidenti dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Avvocato Renzo Gattegna, e della Comunità Ebraica di Roma, Signor Riccardo Pacifici, per le espressioni cortesi che hanno voluto rivolgermi. Il mio pensiero va alle Autorità e a tutti i presenti e si estende, in modo particolare, alla Comunità ebraica romana e a quanti hanno collaborato per rendere possibile il momento di incontro e di amicizia, che stiamo vivendo.
Venendo tra voi per la prima volta da cristiano e da Papa, il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, quasi ventiquattro anni fa, intese offrire un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre comunità, per superare ogni incomprensione e pregiudizio. Questa mia visita si inserisce nel cammino tracciato, per confermarlo e rafforzarlo. Con sentimenti di viva cordialità mi trovo in mezzo a voi per manifestarvi la stima e l'affetto che il Vescovo e la Chiesa di Roma, come pure l'intera Chiesa Cattolica, nutrono verso questa Comunità e le Comunità ebraiche sparse nel mondo.
2. La dottrina del Concilio Vaticano II ha rappresentato per i Cattolici un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell'atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa. L'evento conciliare ha dato un decisivo impulso all'impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant'anni con passi e gesti importanti e significativi, tra i quali desidero menzionare nuovamente la storica visita in questo luogo del mio Venerabile Predecessore, il 13 aprile 1986, i numerosi incontri che egli ha avuto con Esponenti ebrei, anche durante i Viaggi Apostolici internazionali, il pellegrinaggio giubilare in Terra Santa nell'anno 2000, i documenti della Santa Sede che, dopo la Dichiarazione Nostra Aetate, hanno offerto preziosi orientamenti per un positivo sviluppo nei rapporti tra Cattolici ed Ebrei. Anche io, in questi anni di Pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell'Alleanza. Conservo ben vivo nel mio cuore tutti i momenti del pellegrinaggio che ho avuto la gioia di realizzare in Terra Santa, nel maggio dello scorso anno, come pure i tanti incontri con Comunità e Organizzazioni ebraiche, in particolare quelli nelle Sinagoghe a Colonia e a New York.
Inoltre, la Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo (cfr Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l'accorata preghiera al Muro del Tempio in Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore. Ha detto: "Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell'Alleanza".
3. Il passare del tempo ci permette di riconoscere nel ventesimo secolo un'epoca davvero tragica per l'umanità: guerre sanguinose che hanno seminato distruzione, morte e dolore come mai era avvenuto prima; ideologie terribili che hanno avuto alla loro radice l'idolatria dell'uomo, della razza, dello stato e che hanno portato ancora una volta il fratello ad uccidere il fratello. Il dramma singolare e sconvolgente della Shoah rappresenta, in qualche modo, il vertice di un cammino di odio che nasce quando l'uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell'universo. Come dissi nella visita del 28 maggio 2006 al campo di concentramento di Auschwitz, ancora profondamente impressa nella mia memoria, "i potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità" e, in fondo, "con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno" (Discorso al campo di Auschwitz-Birkenau: Insegnamenti di Benedetto XVI, II, 1[2006], p. 727).
In questo luogo, come non ricordare gli Ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell'Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell'Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i Cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall'insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un'azione di soccorso, spesso nascosta e discreta.
La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l'accoglienza.
4. La nostra vicinanza e fraternità spirituali trovano nella Sacra Bibbia - in ebraico Sifre Qodesh o "Libri di Santità" - il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. E' scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 839). "A differenza delle altre religioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nella Antica Alleanza. E' al popolo ebraico che appartengono ‘l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne' (Rm 9,4-5) perché ‘i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!' (Rm 11,29)" (Ibid.).
5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico "a livello della loro stessa identità" spirituale e che offre ai Cristiani l'opportunità di promuovere "un rinnovato rispetto per l'interpretazione ebraica dell'Antico Testamento" (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l'intera umanità; l'impegno per preparare o realizzare il Regno dell'Altissimo nella "cura del creato" affidato da Dio all'uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).
6. In particolare il Decalogo - le "Dieci Parole" o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21) - che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell'etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un "grande codice" etico per tutta l'umanità. Le "Dieci Parole" gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l'ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti" (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.
Le "Dieci Parole" chiedono di riconoscere l'unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d'oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l'uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l'apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l'unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme.
Le "Dieci Parole" chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell'essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo "shalom" auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.
Le "Dieci Parole" chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il "sì" personale e reciproco, fedele e definitivo dell'uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l'autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.
7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) - e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell'amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c'è un mirabile detto dei Padri d'Israele: "Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia" (Aboth 1,2). Con l'esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell'Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.
8. In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant'anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d'Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero. Proprio domani la Commissione Mista terrà qui a Roma il suo IX incontro su "L'insegnamento cattolico ed ebraico sul creato e l'ambiente"; auguriamo loro un proficuo dialogo su un tema tanto importante e attuale.
9. Cristiani ed Ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune, pregano lo stesso Signore, hanno le stesse radici, ma rimangono spesso sconosciuti l'uno all'altro. Spetta a noi, in risposta alla chiamata di Dio, lavorare affinché rimanga sempre aperto lo spazio del dialogo, del reciproco rispetto, della crescita nell'amicizia, della comune testimonianza di fronte alle sfide del nostro tempo, che ci invitano a collaborare per il bene dell'umanità in questo mondo creato da Dio, l'Onnipotente e il Misericordioso.
10. Infine un pensiero particolare per questa nostra Città di Roma, dove, da circa due millenni, convivono, come disse il Papa Giovanni Paolo II, la Comunità cattolica con il suo Vescovo e la Comunità ebraica con il suo Rabbino Capo; questo vivere assieme possa essere animato da un crescente amore fraterno, che si esprima anche in una cooperazione sempre più stretta per offrire un valido contributo nella soluzione dei problemi e delle difficoltà da affrontare.
Invoco dal Signore il dono prezioso della pace in tutto il mondo, soprattutto in Terra Santa. Nel mio pellegrinaggio del maggio scorso, a Gerusalemme, presso il Muro del Tempio, ho chiesto a Colui che può tutto: "manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione" (Preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, 12 maggio 2009).
Nuovamente elevo a Lui il ringraziamento e la lode per questo nostro incontro, chiedendo che Egli rafforzi la nostra fraternità e renda più salda la nostra intesa.
["Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti, cantate la sua lode,
perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura per sempre".
Alleluia" (Sal 117)]
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
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