domenica 2 maggio 2010

[ZI100502] Il mondo visto da Roma

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 02 maggio 2010

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Il Papa: i cristiani devono essere strumento concreto dell'amore di Dio
L'incontro in piazza San Carlo a Torino

ROMA, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- I cristiani devono farsi interpreti della speranza del Risorto e strumento dell'amore di Dio. E' il forte appello lanciato questa domenica da Benedetto XVI parlando agli oltre 50 mila fedeli che lo hanno accolto in piazza San Carlo, a Torino, dove ha celebrato la Messa.

Giunto sull’altare, il Papa è stato salutato dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino, che dopo aver ricordato i numerosi santi sociali torinesi e piemontesi, ha sottolineato come la città “da sempre ha saputo e sa riconoscere il valore pubblico della religiosità, in un momento nel quale tutti, credenti e non, sono chiamati a riflettere sul senso profondo che l’immagine della Sindone rappresenta”.

E' poi toccato al Cardinale Severino Poletto, Arcivescovo di Torino, fare gli onori di casa sottolineando come le comunità e le chiese della sua arcidiocesi si siano preparate a questo “autentico evento di grazia” con una speciale Novena di preghiere.

“Torino – ha continuato – è una città stupenda e complessa, che ha saputo svolgere nella sua millenaria storia cristiana la missione di annunziare il Vangelo ed offrire a tutti il servizio della carità”.

“I nostri numerosi santi del passato e del presente – ha aggiunto – ci hanno aiutato ad essere anche oggi, e forse più che nel passato, capaci di farci carico di tutte le croci e sofferenze dei fratelli, così come ci richiama a fare l’Ostensione della santa Sindone”

La Sindone, ha infatti evidenziato, ci sollecita “a contemplare l’immensa sofferenza di Gesù affrontata nella sua passione, ma anche ad allargare il nostro sguardo sulle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro tempo, così da realizzare l’obiettivo indicato nel motto 'Passio Christi, Passio hominis', che è quello di trovare dalla passione di Gesù la forza necessaria per farci prossimo nei confronti di tutti i nostri fratelli e sorelle provati dall’esperienza quotidiana della croce”.

Successivamente nel corso dell'omelia il Papa ha riflettuto sul Vangelo di Giovanni, letto questa domenica, in cui Gesù fa dono agli apostoli di un "comandamento nuovo" esortandoli a “vivere il suo stesso amore”.

“Amare gli altri come Gesù ci ha amati – ha detto il Pontefice – è possibile solo con quella forza che ci viene comunicata nel rapporto con Lui, specialmente nell’Eucaristia, in cui si rende presente in modo reale il suo Sacrificio di amore che genera amore”.

Riflettendo sull'attualità il Santo Padre ha quindi parlato delle difficoltà che colpiscono anche la città di Torino: “penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale; penso alle famiglie, ai giovani, alle persone anziane che spesso vivono la solitudine, agli emarginati, agli immigrati”.

“Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica dei problemi quotidiani”, ha esclamato.

“E’ stato l’amore universale di Cristo risorto a spingere gli apostoli ad uscire da se stessi, a diffondere la parola di Dio, a spendersi senza riserve per gli altri, con coraggio, gioia e serenità”, ha continuato.

Questo perché, “il Risorto possiede una forza di amore che supera ogni limite, non si ferma davanti ad alcun ostacolo. E la Comunità cristiana, specialmente nelle realtà più impegnate pastoralmente, deve essere strumento concreto di questo amore di Dio”.

Il Papa ha quindi rivolto un incoraggiamento speciale ai sacerdoti: “sappiate attingere quotidianamente dal rapporto di amore con Dio nella preghiera la forza per portare l’annuncio profetico di salvezza; ri-centrate la vostra esistenza sull’essenziale del Vangelo; coltivate una reale dimensione di comunione e di fraternità all’interno del presbiterio, delle vostre comunità, nei rapporti con il Popolo di Dio; testimoniate nel ministero la potenza dell’amore che viene dall’Alto”.

Rivolgendosi poi alle famiglie le ha esortate “a vivere la dimensione cristiana dell’amore nelle semplici azioni quotidiane, nei rapporti familiari superando divisioni e incomprensioni, nel coltivare la fede che rende ancora più salda la comunione”.

Alle Università e al mondo della cultura ha rivolto l'invito a testimoniare l'amore “nella capacità dell’ascolto attento e del dialogo umile nella ricerca della Verità, certi che è la stessa Verità che ci viene incontro e ci afferra”.

“Desidero anche incoraggiare lo sforzo, spesso difficile, di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica: la collaborazione per perseguire il bene comune e rendere la Città sempre più umana e vivibile”, ha sottolineato.

Non poteva mancare poi un pensiero particolare ai giovani, che il Papa ha esortato a “non perdere mai la speranza, quella che viene dal Cristo Risorto, dalla vittoria di Dio sul peccato e sulla morte”.

Infine il Papa ha voluto incoraggiare tutti i fedeli della Chiesa di Torino “a restare saldi in quella fede che avete ricevuto e che dà senso alla vita; a non perdere mai la luce della speranza nel Cristo Risorto, che è capace di trasformare la realtà e rendere nuove tutte le cose; a vivere in città, nei quartieri, nelle comunità, nelle famiglie, in modo semplice e concreto l’amore di Dio: 'Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri'".

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Il Papa invita i giovani a "vivere e non vivacchiare"
Dà loro appuntamento per la GMG di Madrid che si terrà nell'agosto del 2011

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Nonostante la pioggia, Torino ha fatto questa domenica da sfondo per un incontro di festa e di fede di giovani provenienti da questa città e da altre diocesi del Piemonte con Benedetto XVI, che li ha incoraggiati a vivere con coraggio e fedeltà le scelte definitive.

“Siate testimoni di Cristo in questo nostro tempo!”, ha detto loro in una piazza San Carlo stracolma di ombrelli variopinti.

Per due ore, prima dell'incontro, la piazza è stata animata da musica ma anche da interventi di testimonianza. Presenti il grande coro “Hope” formato da 270 giovani, ma anche alcuni artisti internazionali provenienti dagli Stati Uniti, dalla Guadalupa e dalla Gran Bretagna.

“La sacra Sindone – ha detto il Papa riflettendo sul sacro Telo di cui è in corso in questi giorni a Torino l'ostensione – sia in modo del tutto particolare per voi un invito ad imprimere nel vostro spirito il volto dell’amore di Dio, per essere voi stessi, nei vostri ambienti, con i vostri coetanei, un’espressione credibile del volto di Cristo”.

Durante l'incontro i giovani hanno intonato l'inno “Santo Volto dei Volti” composto per questa occasione.

Benedetto XVI ha dato appuntamento ai giovani per la Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Madrid nell'agosto del 2011.

“Auspico di cuore che tale straordinario evento, al quale spero possiate partecipare in tanti, contribuisca a far crescere in ciascuno l’entusiasmo e la fedeltà nel seguire Cristo e nell’accogliere con gioia il suo messaggio, fonte di vita nuova”, ha detto il Pontefice.

Come modello il Pontefice ha quindi indicato un giovane di questa città: Piergiorgio Frassati, membro dell’Azione Cattolica, figlio del fondatore e direttore del quotidiano “La Stampa”, e aderente all’Apostolato della Preghiera, della Congregazione Mariana e dell’Adorazione Notturna.

Per stare vicino ai minatori Piergiorgio Frassati decise di studiare Ingegneria Mineraria presso il Politecnico di Torino. Entrò poi nella Gioventù Cattolica (CGI) e nella Federazione Universitaria Cattolica (FUCI) e prese attivamente parte a congressi, riunioni e manifestazioni.

Appassionato di montagna, faceva delle sue escursioni un’opportunità di apostolato e di preghiera in comune. Poco prima di ottenere il titolo di Ingegnere Minerario, si ammalò di poliomielite. Morì, dopo una settimana di sofferenza, il 4 luglio 1925. Giovanni Paolo II lo ha beatificato il 20 maggio 1990.

“La sua esistenza fu avvolta interamente dalla grazia e dall’amore di Dio e fu consumata, con serenità e gioia, nel servizio appassionato a Cristo e ai fratelli”, ha ricordato il Pontefice.

“Giovane come voi – ha aggiunto – visse con grande impegno la sua formazione cristiana e diede la sua testimonianza di fede, semplice ed efficace. Un ragazzo affascinato dalla bellezza del Vangelo delle Beatitudini, che sperimentò tutta la gioia di essere amico di Cristo, di seguirlo, di sentirsi in modo vivo parte della Chiesa”.

Alla luce della sua testimonianza, il Papa ha incoraggiato i ragazzi e le ragazze ad avere “il coraggio di scegliere ciò che è essenziale nella vita”.

“Vivere e non vivacchiare” ripeteva il beato Piergiorgio Frassati.

“Come lui, scoprite che vale la pena di impegnarsi per Dio e con Dio, di rispondere alla sua chiamata nelle scelte fondamentali e in quelle quotidiane, anche quando costa!”, ha concluso il Santo Padre.

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Il messaggio della Sindone, secondo il Papa: "Icona scritta col sangue"
Venera nel Duomo di Torino il sudario che, secondo la tradizione, ha avvolto Gesù

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- La Sindone di Torino è “un’Icona scritta col sangue”, sangue che mostra l'amore di Dio per l'uomo. Lo ha detto questa domenica Benedetto XVI nel venerare il sudario che, secondo la tradizione, avvolse il corpo di Gesù crocifisso.

Nella tappa più importante della sua visita a Torino il Papa si è inginocchiato davanti alla Sindone, di cui è in corso l’ostensione fino al 23 maggio nel Duomo di Torino sul tema: “Passio Christi – Passio hominis”.

Nel suo discorso, subito dopo, il Pontefice ha fatto riferimento al valore storico e scientifico della Sindone, riflettendo sul silenzio del Santo Sepolcro nell'orizzonte di speranza della Resurrezione.

“Mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa”, ha constatato.

Secondo il Pontefice, “se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore”.

Questo è il potere della Sindone, ha affermato il Vescovo di Roma, “dal volto di questo 'Uomo dei dolori', che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - 'Passio Christi. Passio hominis' - promana una solenne maestà, una signoria paradossale”.

“Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio".

“Come parla la Sindone?”, ha chiesto il Papa.

“Parla con il sangue, e il sangue è la vita!”, ha quindi risposto. “La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita”.

“Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita – ha aggiunto –. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo”.

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La Piccola Casa della Divina Provvidenza
Parla don Carmine Arice, direttore dell'ufficio pastorale per le comunicazioni

di Chiara Santomiero

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Quando Benedetto XVI arriverà qui alla Piccola Casa, dopo aver venerato la Sindone nel duomo di Torino, passerà sotto un arco che reca la scritta “Divina Provvidenza” per ricordare anche nella pietra quella che fu sempre la fonte ispiratrice del santo Giuseppe Cottolengo, la cui statua è posta al di sotto dell’arco con il suo motto personale “Caritas Christi urget nos”.

“Il Papa – spiega don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni della Piccola Casa della Divina Provvidenza - entrerà nella chiesa dall’ingresso di via S. Pietro in vincoli e si fermerà a venerare le spoglie di S. Giuseppe Cottolengo. Quindi proseguirà lungo la navata centrale dove lo aspetteranno, a destra e a sinistra, i nostri ospiti e verrà nel presbiterio dove sarà accolto dai sacerdoti e dal Padre Aldo Sarotto, superiore generale dei cottolenghini. Qui rivolgerà il suo discorso alla Piccola Casa al termine del quale saluterà dieci ammalati in rappresentanza di tutti gli altri e poi uscirà, riattraversando la navata centrale”.

Intorno alla chiesa dedicata a s. Vincenzo de’ Paoli e s. Antonio abate si stendono i 112 mila metri quadrati della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Una vera e propria città che accoglie in modo stabile circa 2 mila persone - tra ospiti e personale religioso -, e che arriva a distribuire “circa 3 mila pranzi ogni giorno di cui 500 per gli assistiti, 208 per i ricoverati in ospedale, quasi 400 alla mensa degli senza fissa dimora, almeno 600 alle suore tra le quali quelle anziane o a riposo…”. Davanti alla grande cucina generale, sono pronti dei furgoncini ape che a mezzogiorno caricano e distribuiscono il cibo in tutti i padiglioni.

“Accogliere in maniera stabile – aggiunge Arice - circa cinquecento deboli mentali, anziani, malati di Alzhemeir, terminali, richiede una struttura notevole”. Attenzione però a non chiamare la Piccola Casa struttura sanitaria, di ricovero o Casa di riposo.

L’ha chiamata ‘Casa’”

“San Giuseppe Cottolengo – spiega Arice – non aveva in mente un istituto, un ricovero: l’ha chiamata Casa, per tutti quelli che erano rifiutati dagli altri ospedali o vivevano in stato di abbandono”.

“Il campo semantico usato – aggiunge - è sempre quello delle relazioni familiari: padre, madre, figlio, sorella dei poveri. Anche i reparti sono chiamati famiglie”.

La Piccola Casa si estende nel quartiere torinese di Valdocco che evidentemente attira santità e le grandi opere perché accanto c’è la Casa madre dei salesiani di don Bosco. “I due santi – afferma Arice – certamente si sono conosciuti perché don Bosco è diventato prete nel 1841 e Cottolengo è morto nel 1842”. Una leggenda racconta anche di un consiglio dato dal Cottolengo al giovane don Bosco: “questa talare è troppo sottile e vi si attaccheranno molti ragazzi: prendetene una più robusta”.

Il Cottolengo arriva qui il 27 aprile 1832. Il primo nucleo di accoglienza aperto nel centro della città (il Deposito della Porta rossa), è stato chiuso dalle autorità per timore del diffondersi di epidemie e lui si sposta in periferia, “portando – ricorda una targa – “su un somarello e un carrettino i primi due ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza”.

“Inizia un’opera – racconta Arice - che si allarga in cerchi concentrici; ogni volta che incontrava una domanda si provvedeva a una risposta: invalidi, deboli mentali, orfani, scuole, ospedali per acuti, ospedale per cronici”.

All’inizio c’erano dei laici di buona volontà ad aiutare il Cottolengo, poi “mano a mano che la realtà si è espansa, alcuni chiamati alla vita consacrata hanno dato più stabilità al servizio, dapprima suore, e fratelli e poi sacerdoti”.

Il Cottolengo “ha fondato sedici famiglie religiose, maschili e femminili, di cui sei di vita contemplativa e dieci di vita apostolica, ciascuna per la risposta a un diverso bisogno”.

Costringere la Provvidenza ad intervenire”

Tutto questo “nell’arco di dieci anni, dal 1832 al 1842; a 56 anni muore in un’epidemia di tifo petecchiale che si diffonde a Torino”. Questa grande attività viene realizzata, afferma Arice, seguendo “una sequenza interessante. Di solito, all’emergere di un bisogno si cercano delle risorse per farvi fronte e poi si risponde. Invece, nel caso del Cottolengo, la sequenza era: domanda-risposta-intervento della Provvidenza”. Il santo affermava, infatti, che bisognava “costringere in qualche modo la divina Provvidenza ad intervenire”.

La spiritualità della Piccola Casa è fondata su tre elementi: “la fede in Dio Padre provvidente; la carità di Cristo come motore dell’esperienza verso i poveri nei quali si riconosce il Suo volto e lo stile di comunione”. I religiosi, infatti “fanno famiglia con le persone accolte. Una parte della Casa dove ci sono gli ospiti è per la comunità religiosa; mangiamo sotto lo stesso tetto lo stesso pane e condividiamo la vita”.

I buoni figli

Tra gli ospiti preferiti del santo Cottolengo ci sono “i buoni figli, così lui chiamava i deboli mentali. Con questa definizione intendiamo una persona con un handicap mentale, un po’ come un invalido fisico a cui manca un braccio. Ai suoi tempi, i deboli mentali erano considerati persone ‘un po' meno persone’. Ma non sono malati e da noi compiono un percorso di normalizzazione e socializzazione. Vivono in Casa e ogni mattino hanno un’attività organizzata: piscina, terapia, catechesi, laboratorio”.

La grande intuizione del Cottolengo è stata “dare un lavoro a tutti gli ospiti così che ognuno collabora alle necessità della vita quotidiana. Lui diceva che ‘anche i piccoli hanno diritto alla loro piccola dignità’ e il lavoro dà dignità”. “Adesso non capita quasi più – racconta Arice -, ma qui vivono persone con alle spalle sessant’anni di Cottolengo, lasciate dietro la porta dai familiari oppure portate con l’inganno, la promessa di una gita a Torino e poi abbandonate”.

Il primo lavoro è la preghiera

Santi innocenti, S. Giovanni Battista, Angeli custodi, S. Elisabetta: ogni famiglia di ospiti o di religiosi cottolenghini abita in un padiglione che la tradizione della Piccola Casa affida esclusivamente alla protezione dei santi dichiarati tali ufficialmente. Con un’eccezione: “il padiglione Pier Giorgio Frassati – sorride Arice che è un ‘tifoso’ del giovane beato torinese -. Quando la sua famiglia, nel 1933, finanziò la costruzione di un padiglione in sua memoria, le perplessità dei responsabili del Cottolengo furono superate dal card. Gamba, allora arcivescovo di Torino, che affermò ‘se non è santo adesso, lo sarà’. Aveva guardato lontano”.

All’interno della “città” ci sono anche le scuole pubbliche elementari e medie per 210 allievi, un ospedale convenzionato con la Regione Piemonte, una farmacia, un corso di laurea in scienze infermieristiche, un corso di specializzazione in scienze infermieristiche e ginecologia, un master in coordinamento infermieristico, un seminario, case di formazione per i religiosi e le religiose, un dormitorio, una mensa e altri servizi per persone senza fissa dimora cui si collegano due comunità alloggio per minori e donne in difficoltà a Torino e tre comunità terapeutiche per tossicodipendenti nella provincia.

A questo si aggiungono le 80 succursali della Piccola Casa in Svizzera, Stati Uniti, Kenya, India, Ecuador e Tanzania. La famiglia del Cottolengo conta anche sei monasteri di clausura tra l’Italia e l’estero “perché, come ricordava il santo, il primo e fondamentale compito nella Piccola Casa è quello di pregare e di questo si è nutrita la sua fede nella Provvidenza”.

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Analisi


Tra giusto salario e stipendi da manager
Una guida morale in tempi di crisi


di padre John Flynn, L.C.


ROMA, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Mentre la discussione sulle responsabilità nella crisi finanziaria procede in modo relativamente fluido, il problema degli stipendi dei manager rimane una questione controversa.

Il Governo britannico ha annunciato una supertassa sui bonus dei dirigenti bancari, ma secondo un servizio del Financial Times dell’8 gennaio, gran parte dei banchieri di Londra subiranno un impatto scarso o nullo, poiché saranno le banche ad assorbire tutto o gran parte del peso fiscale aggiuntivo.

Il 20 marzo, il Financial Times ha riferito che secondo Richard Lambert, direttore generale della Confederazione dell’industria britannica, la più grande associazione imprenditoriale del Regno Unito, i top manager “rischiano di essere trattati come alieni” da parte dei politici e dell’opinione pubblica, a causa di stipendi così sproporzionati rispetto a quelli della gente comune.

Negli Stati Uniti il livello degli stipendi dirigenziali ha subito un lieve calo lo scorso anno, secondo dati contenuti in uno studio pubblicato il 31 marzo dal Wall Street Journal.

Il livello medio dei salari, bonus e altri incentivi per gli amministratori delegati delle maggiori 200 società statunitensi è calato dello 0,9%, attestandosi a 6,95 milioni di dollari (5,2 milioni di euro), secondo l’articolo. Nel 2008 il livello era diminuito del 3,4%.

Ciò nonostante, gli stipendi di molti operatori nel settore bancario e finanziario, quello che ha dato origine alla crisi, continuano ad essere molto elevati. Secondo un servizio di Reuters, del 23 febbraio, Wall Street ha speso 20,3 miliardi di dollari (15 miliardi di euro), nel 2009, in bonus, con un aumento del 17% rispetto al 2008.

Thomas DiNapoli, Comptroller dello Stato di New York, ha detto che mentre i bonus si attestano oggi ben al di sotto dei livelli del 2007 e sono maggiormente connessi con la performance della società, molti li ritengono ancora troppo elevati, considerata la perdurante situazione di crisi nell’economia.

Lo scorso anno è stato anche un anno buono per i manager dei fondi speculativi, secondo il New York Times del 31 marzo. I 25 manager maggiormente retribuiti di questi fondi hanno ottenuto nel 2009 complessivamente 25,3 miliardi di dollari (18 miliardi di euro).

Guida etica

Una riflessione teologica sull’argomento degli stipendi dirigenziali è stata recentemente pubblicata in Gran Bretagna. Il Church Investors Group ha commissionato uno studio, svolto da Richard Higginson e David Clough, intitolato: "The Ethics of Executive Remuneration: A Guide for Christian Investors" (Etica delle retribuzioni dirigenziali: una guida per gli investitori cristiani).

Secondo il loro sito Internet, il Church Investors Group ha iniziato l’attività nel 1973 come un forum ecumenico informale per chi ha la responsabilità degli investimenti delle Chiese.

Attualmente l’organizzazione conta con 37 membri, appartenenti a tutte le principali denominazioni presenti nel Regno Unito e in Irlanda, per un ammontare complessivo di 12,6 miliardi di sterline (13,9 miliardi di euro).

Il rapporto inizia paragonando gli stipendi dei manager ai salari degli impiegati normali, utilizzando i dati delle società che rientrano nel FTSE 100, l’indice azionario delle 100 società più capitalizzate quotate nella borsa di Londra. Risulta che, nel 2008, la differenza tra gli stipendi degli amministratori delegati e il salario medio degli impiegati era in un rapporto di 100 a 1, mentre nel 1970 questo rapporto era di 10 a 1,2.

Il valore medio nasconde alcune forti discrepanze tra le società, aggiunge il rapporto. Per esempio, per la catena di supermercati Tesco, lo stipendio complessivo assegnato all’amministratore delegato Sir Terry Leahy ammonta a 6,3 milioni di sterline (6,9 milioni di euro), mentre il salario medio dei dipendenti è pari a 11.918 sterline (12.730 euro), risultando in un rapporto di 526 a 1.

Nella WPP di Sir Martin Sorrell, il rapporto è di 550 a 1, ma il salario medio dei dipendenti supera le 42.000 sterline (44.860 euro). Per contro, l’amministratore delegato di British Airways, Willie Walsh, ha guadagnato 701.000 sterline (748.760 euro), in presenza di un salario medio di 47.984 (51.250 euro), con un differenziale molto più contenuto, pari al rapporto di 15 a 1.

Lo studio spiega che, mentre i salari nel Regno Unito sono ancora notevolmente inferiori rispetto a quelli degli Stati Uniti, i comportamenti degli americani hanno prodotto un impatto preponderante. Anche gli stipendi dirigenziali in Francia e in Germania sono aumentati bruscamente nell’ultimo decennio.

Preoccupazioni

Già da prima dello scoppio dell’attuale crisi economica erano state sollevate preoccupazioni per l’elevato livello di retribuzione dei manager, osserva il rapporto, sulla base di considerazioni generali di natura etica.

Sebbene si riconosca la legittimità di stipendi più elevati per gli alti dirigenti, l’enorme sperequazione retributiva viene vista come una ingiustizia e come una sopravvalutazione del contributo reso da questi manager in termini di produttività e di redditività.

La contro-obiezione che viene mossa a questa argomentazione è che deve essere il mercato a determinare l’ammontare da destinare agli amministratori delle società. Poiché è più difficile trovare bravi amministratori delegati, rispetto ai bravi impiegati, gli stipendi elevati si giustificano con la necessità di attirare i dirigenti più capaci. In questo senso, se una società non paga al prezzo di mercato, non riuscirà ad avere quei dirigenti di cui ha bisogno.

Gli autori del rapporto ammettono che c’è un certo grado di verità in questo ragionamento, ma precisano che il mercato degli amministratori è ben lungi dall’essere un modello di competitività.

I pacchetti stipendiali sono solitamente stabiliti dai consigli di amministrazione, composti di persone che normalmente fanno parte della stessa cerchia di dirigenti ad alta retribuzione. Questo solleva dubbi sull’imparzialità del loro giudizio, sostengono Higginson e Clough.

Gli autori sottolineano inoltre che i livelli stipendiali dei manager sono molto diversi da Paese a Paese. Sembra quindi che, piuttosto che essere determinati dall’interazione tra domanda e offerta, questi stipendi rispondono piuttosto ad elementi culturali dei luoghi in cui le società operano.

Fattore rischio

Dopo l’esplosione della crisi finanziaria sono aumentate le proteste contro i livelli considerati eccessivamente elevati dei compensi manageriali, soprattutto quelli relativi ai settori bancario e finanziario, considerati i maggiori responsabili del crollo.

Secondo il rapporto, gli studi sulla crisi hanno messo in evidenza un’incongruenza relativa all’assegnazione di bonus in contanti, che costituiscono la parte preponderante degli stipendi e rappresentano un forte incentivo all’assunzione di rischi imprenditoriali.

La controparte dell’incentivo al rischio dovrebbe essere che, qualora le decisioni prese dovessero rivelarsi errate, gli amministratori ne dovrebbero pagare le conseguenze. Tuttavia, secondo il rapporto, a parte alcuni casi singoli di riduzione o non erogazione di bonus, nell’insieme gli alti dirigenti non hanno subito grandi conseguenze per i loro errori.

Oltre all’analisi finanziaria, il rapporto si sofferma anche sul concetto biblico di giustizia, citando passaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento che possono essere applicati ad una valutazione del giusto salario.

Teologia

Il rapporto conclude con l’individuazione di quattro valori teologici, ritenuti utili nel dibattito sugli stipendi dei manager.

1. Attenzione ai poveri. Gli autori raccomandano che gli investitori si concentrino più ad aiutare i poveri, che a porre restrizioni sui ricchi; più ad assicurare livelli salariali decenti per quelli che stanno alla base della piramide.

Nessun principio teologico potrà dirci quale debba essere considerato il limite stipendiale massimo, afferma il rapporto. Ma ciò che possiamo fare è concentrarsi sul rapporto tra le retribuzioni massime e minime di una società.

2. Giusto salario. Il rapporto afferma inoltre che rivendicare politiche salariali prive di restrizioni è contrario al principio della giustizia distributiva. Ancora una volta, quindi, gli autori del rapporto raccomandano che gli investitori prendano in esame il rapporto tra gli stipendi degli amministratori delegati e la media dei salari corrisposti al 10% degli impiegati meno retribuiti. Secondo gli autori, è difficile giustificare un rapporto superiore al 75 per 1. Inoltre, il rapporto auspica che i pacchetti stipendiali siano resi più semplici e trasparenti.

3. Rischi per la salute. Usare gli alti stipendi per attrarre i dirigenti può indurre gli stessi a essere troppo propensi a mettere i propri interessi economici davanti a quelli della società e dei suoi azionisti.

4. Buona amministrazione. I livelli retributivi dovrebbero essere basati su valutazioni delle performance di lungo periodo e delle scelte di rischio effettuate.

Affrontare la questione degli stipendi dei manager in un giusto equilibrio tra la funzione di incentivo economico e le considerazione di correttezza etica non è un compito facile. Questo rapporto fortunatamente propone delle riflessioni utili su un tema ancora scottante.


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Interviste


Cottolengo, un santo alla ricerca della volontà di Dio
Intervista a padre Aldo Sarotto, superiore generale dei Cottolenghini

di Chiara Santomiero

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Questa domenica Benedetto XVI venererà le spoglie di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore nel 1832 dell'opera da lui stesso denominata "Piccola Casa della Divina Provvidenza".

Sebbene considerato soprattutto un santo sociale, spiega in questa intervista a ZENIT padre Aldo Sarotto, superiore generale dei Cottolenghini, tuttavia l'aspetto dominante in Giuseppe Benedetto Cottolengo era il suo interrogare e mettersi in ascolto della volontà di Dio.

Qual è il significato di un'opera come il Cottolengo?

Padre Sarotto: Il Cottolengo è sempre stato un punto di riferimento per la città di Torino e per la Chiesa. E' significativo come questo santo che ha fatto di tutto per nascondersi agli occhi degli uomini sia riuscito a colpire tante persone che sono venute qui, dall'Italia e dall'estero, per cogliere quella spinta iniziale che ha dato vita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza così che sono nate molte altre istituzioni religiose, di varia natura, soprattutto in America latina.

Va sottolineato, però, che l'aspetto più importante di quest'opera non è la risposta alla povertà o all'esclusione sociale. Ciò che bisogna rimarcare in san Giuseppe Cottolengo è la sua determinazione nel ricercare ciò che voleva Dio da lui; senza accontentarsi semplicemente di essere un bravo e stimato sacerdote. E' l'evento di fede che colpisce nella sua vita, perché la povertà c'era ieri, c'è oggi e ci sarà domani, ma il suo ricercare la volontà di Dio gli ha fatto scoprire un modo nuovo di mettere al centro la persona, qualsiasi essa sia. Ciò che ha fatto al suoi tempi per diverse categorie di malati, infatti, è stato mettere al centro persone che non erano considerate tali.

Molte volte si coglie il Cottolengo come un grande santo sociale che ha dato origine a benemerite opere di carità: in lui c'è senz'altro la carità, ma è quella di Cristo che lo provoca ad agire. I due momenti non vanno confusi. Dopo aver focalizzato meglio la volontà di Dio, in lui non ci sono stati confini: tutte le sfaccettature della povertà sono state prese in considerazione, con l'attenzione a dare alle persone una casa, un futuro, una realizzazione propria.

Cosa significa il rispetto per i poveri?

Padre Sarotto: Il rispetto è mettere il povero al centro, far sentire la sua dignità di persona. Non solo fare, ma fare con intelligenza e sapienza, rendendo il povero protagonista. Le tentazioni sono sempre molto sottili anche nell'oggi: facciamo "qualcosa". Il Cottolengo ha creato un'istituzione con un concetto chiaro di famiglia, con figure femminili e maschili. Alcune persone, all'epoca, non avevano il diritto nemmeno di vivere nella propria famiglia perché considerati una vergogna. Lui ha ridato loro dignità e rispetto di sé.

Come si vive oggi l'equilibrio tra l'agire in prima persona e l'abbandono alla Divina Provvidenza?

Padre Sarotto: L'abbandono del Cottolengo alla Divina Provvidenza è straordinario, tanto che non c'è mai il minimo accenno a "io ho fatto questo o quello" . Non si trattava solo di un modo di dire o di schernirsi - sotto questo aspetto riesce a confondere anche noi che siamo i suoi figli -; la sua era una sapienza interiore molto profonda. Lui era solito dire che se Dio dà tanto a chi confida ordinariamente in lui, a chi straordinariamente confida provvederà in maniera straordinaria. L'equilibrio del suo agire lo trovava in Dio; per noi è più difficile, ma seguiamo questa indicazione. Si tratta di un equilibrio dinamico, da ricercare volta per volta.

C'è stato un cambiamento dei bisogni che interrogano il Cottolengo?

Padre Sarotto: Le realtà mutano con il trascorrere degli anni e cambiano i bisogni. Al termine della guerra il Cottolengo ha aperto le porte a persone colpite fisicamente, e non solo, dal conflitto. La famiglia degli invalidi era grande e l'attenzione era soprattutto per i giovani, per trovare il modo di farli crescere e dare loro un futuro. Per questo sono stati impiantati laboratori di sartoria e radiotecnica e molti sono usciti di qui con un mestiere e hanno dato vita a una famiglia. Durante la contestazione ciò ha provocato forti polemiche perché si vedeva il Cottolengo come un'istituzione chiusa. Adesso questa fase è terminata ed anche l'accoglienza dei disabili mentali ci viene chiesta sempre meno.

L'emergenza è costituita, invece, dagli anziani, compresi i disabili. Se si è innalzata l'età media, spesso l'invecchiamento è segnato da cattiva salute, incapacità di autogestione, malattie geriatriche. In famiglie sempre più spesso costituite da genitori con figli unici o da single, gli anziani diventano un problema. Quello che sempre di più ci viene chiesto è un'accoglienza capace di dare una risposta globale alla persona la quale chiede di essere inserita in una relazione e non soltanto di ricevere assistenza medica. Al Cottolengo è una casa che li accoglie, sono le relazioni che diventano "sananti", pure per un malato terminale.

Riceviamo lettere di persone che chiedono di poter venire a morire qui "degnamente, cristianamente" e anche richieste da parte dei familiari in questo senso. E' una comunità sanante che si fa carico della persona, pur con tutti i limiti che ci possono essere. Un'altra categoria di persone che chiede accoglienza e assistenza è quella di chi diventa gravemente disabile a causa dei sempre più numerosi incidenti stradali che coinvolgono soprattutto i giovani. Anche in questo seguiamo la strada tracciata dal santo Cottolengo: non cercare risposte da dare, ma accogliere la domanda.

Cosa rappresenta la visita del Papa?

Padre Sarotto: C'è una sensibilità particolare di Benedetto XVI verso il Cottolengo che ha nominato già nella sua prima enciclica, sebbene non sia mai venuto prima a visitare la Piccola casa. E' venuto, prima di lui, Giovanni Paolo II e ci ha rivolto un discorso che rimane un punto di riferimento per noi e anche per altri.

La visita al Cottolengo mi sembra renda evidente la volontà del Papa di incontrare il volto di Cristo insieme al volto dell'uomo.

Se il tema dell'Ostensione è Passio Christi, Passio hominis, così come la Sindone consente di venerare il volto di Cristo sofferente, allo stesso modo la Piccola casa è il luogo dove venerare oggi il volto della sofferenza umana, della passione dell'uomo.

Cosa significherà questa visita per gli ospiti e quanti vivono e collaborano con il Cottolengo?

Padre Sarotto: E' molto importante per tutti perché la visita del Papa è sempre una grande gioia e le sue parole significative per il nostro cammino. Soprattutto sarà importante per i laici che affiancano i religiosi cottolenghini perché stiamo affrontando la sfida del futuro immettendo sempre più laici e investendo sulla loro formazione: la visita del Papa è un'opportunità per mettere meglio a fuoco il carisma del Cottolengo e il modo con il quale si deve portarlo avanti. Benedetto XVI ci aiuterà a non perdere di vista il filo conduttore del nostro agire.

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I Mercedari contro tutte le schiavitù
Intervista a padre Damase Masabo, Consigliere generale dell'Ordine dei Padri Mercenari

di Maurizio Tripi

ROMA, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- L’Ordine dei Padri Mercedari ha origini antiche risalenti al 10 agosto 1218. S’incammina, quindi, verso il giubileo per gli ottocento anni di servizio alla Chiesa e all’umanità.

Il loro fondatore, san Pietro Nolasco, diede vita all’Ordine della Beata Vergine Maria della Mercede per la redenzione degli schiavi.

Il 1 maggio quaranta Capitolari Mercedari provenienti da Africa, America, Asia ed Europa si sono riuniti a Roma (presso l’Istituto Maria Bambina) per l’apertura del loro Capitolo generale, in un'atmosfera di fede e di preghiera, per un aggiornamento del carisma dell’Ordine. Il Capitolo generale si  chiuderà il 22 maggio dopo avere eletto un nuovo Governo generale.

Alla cerimonia di apertura era presente il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, mentre quella di chiusura vedrà la presenza del Cardinale Franc Rodé, Prefetto per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica (CIVCSVA).

Inoltre mercoledì 5 maggio, insieme con i laici che condividono la loro spiritualità parteciperanno all’Udienza generale con Benedetto XVI.

Il giorno 6 maggio, Festa di san Pietro Nolasco, la mattina si terrà una tavola rotonda su aspetti storici, mariologici, missionari ed attuali dell’Ordine. Alle ore 17, si celebrerà una Messa di ringraziamento nella Basilica San Pietro, presieduta dal Cardinale Angelo Comastri. Canterà la Corale  del Santuario della Madonna di Bonaria (Cagliari-Sardegna).

In occasione del Capitolo generale ZENIT ha intervistato padre Damase Masabo, Consigliere generale dell’Ordine dei Padri Mercenari.

Quali sono le iniziative e le aspettative per questo nuovo Capitolo generale ?

Masabo: Anzitutto, devo dire che le nostre Costituzioni, definiscono il Capitolo generale dell’Ordine come “una riunione rappresentativa di tutta la fraternità mercedaria, per prendere coscienza  di sé stesso e trattare questioni riguardanti il bene comune.  Scrutando i segni dei tempi, rinnova la fedeltà al suo spirito e alla sua missione, organizza la partecipazione dei suoi membri e aggiorna le sue leggi e la sua amministrazione in sintonia col pensiero della Chiesa”.

Seguendo quindi questa norma costituzionale, i capitolari si raduneranno nello spirito di preghiera e nell’ascolto dello Spirito per aggiornare le stesse Costituzioni, affinché possano mantenere viva la fiamma della fiaccola della redenzione seguendo le orme del nostro fondatore San Pietro Nolasco, nel mondo di oggi. I capitolari stabiliranno il piano di azione per i prossimi sei anni, preparando il grande giubileo di 800 anni (1218-2018) al servizio della Chiesa e dell’umanità. Eleggeranno anche un nuovo Governo generale.

A quasi ottocento anni di vita qual è il carisma e l’attualità dell’Ordine?

Masabo: Si potrebbero dire tante cose, perché otto secoli di vita dell’Ordine costituiscono già una storia lunga. Diciamo che il carisma è quello della redenzione  delle persone oppresse, perseguitate in pericolo di perdere la loro fede.

Allora questo carisma si va contestualizzando. Nell’attualità, i mercedari cercano di essere con le persone oppresse,  delle quali vengono rinnegate la libertà e la dignità della persona umana. Perciò, senza elencare tutte le attività carismatiche, alcune provincie si dedicano alla pastorale penitenziaria, altre lavorano nel campo della pastorale delle migrazioni (la problematica dei profughi e i rifugiati, altre con i bambini della strada, i bambini ex-soldati ecc.). Tutta la pastorale mercedaria è sempre marcata da questa spiritualità della redenzione; questo carisma orienta le nostre parrocchie, i nostri collegi ecc.

Riguardo all’attualità dell’Ordine, siamo  circa 800 religiosi. L’Ordine è costituito da 9 province, siamo in Africa, America, Asia ed Europa. Nell’insieme abbiamo abbastanza vocazione; un po’ meno in Europa pero andiamo avanti.

Come sono strutturate oggi le Missioni?

Masabo: Dal XV secolo l’Ordine  partecipa alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Dalle nove Province dell’Ordine, sei sono latino-americane: Perù, Cile, Argentina, Quito-Ecuador, Messico e Brazile. Le altre tre sono europee, due spagnole e un’altra italiana.

Per la maggioranza, quando si parla delle Missioni, ci si riferisce alle Vicarie e alle Delegazioni che dipendono ancora delle province. In questo senso, Venezuela, Centro America costituiscono due Vicarie che dipendono dalla Provincia di Aragona (Spagna) insieme con la Delegazione di Mozambico. Le Vicarie del Caribe (Puerto Rico, Santo Domingo)  e la Delegazione centrafricana (Camerun) dipendono dalla Provincia di Castiglia (Spagna). La Vicaria degli Stati Uniti e la Delegazione dell’India dipendono dalla Provincia romana (Italia). La Delegazione di Angola dipende dalla Provincia di Cile.

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Bioetica


E' sufficiente il desiderio per ottenere un diritto?
Fecondazione artificiale e bioetica

di Renzo Puccetti*

ROMA, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- La lettura dell’ultimo libro di Gnocchi e Palmaro, in particolare il capitolo in cui i due autori riflettono sul diverso approccio alla ricerca della verità seguito da Tommaso d’Aquino e da Georg Wilhelm Friedrich Hegel,[1] offre lo spunto per ragionare attorno ai tranelli dei mezzi di comunicazione. La presentazione della dialettica hegeliana, dove dalla contrapposizione tra tesi ed antitesi scaturisce la sintesi, elemento che a sua volta diventa la nuova tesi da dibattere, mi ha fatto ripensare ad una recente puntata di “Report”, la trasmissione condotta dalla giornalista Milena Gabbanelli, dedicata alla riproduzione artificiale. Si tratta di un buon esempio da cui può imparare chi desidera mantenersi ad una distanza minima di sicurezza rispetto agli strumenti della formazione occulta delle opinioni, magari realizzata attraverso micro-dosi di messaggi apparentemente equilibrati.[2]

La trasmissione era così congeniata: veniva intervistato il sottosegretario al welfare Eugenia Roccella che difendeva la legge 40, cioè la legge che nel nostro paese consente la fecondazione artificiale, regolamentandola. Come contro-altare venivano fatti parlare una serie di medici che praticano la fecondazione artificiale: uno si lamentava del divieto di congelare gli embrioni, un consulente di un centro svizzero diceva che il flusso di utenti dall’Italia è cresciuto a dismisura dopo il varo della legge, un altro che illustrava la possibilità nello stesso centro di ricorrere alla donazione di sperma e di ovociti, poi ancora il medico contrariato dal non poter effettuare la diagnosi pre-impianto. Venivano inoltre presentate una serie di coppie che si lamentavano del divieto alla fecondazione eterologa e alla diagnosi genetica pre-impianto prevista da una legge che, a loro detta, le “costringeva” a scegliere se recarsi all’estero, o fare ricorso alla magistratura, abortire il figlio portatore di una patologia, o tenere il bambino malato.

L’impostazione del programma era però viziata dalla eliminazione della tesi. C’è infatti una posizione completamente ignorata dagli autori; quella che rinviene nella riproduzione artificiale (ART, Artificial Reproductive Technology) una condotta lesiva della dignità umana.[3] La posizione espressa nel programma dal sottosegretario al welfare a difesa della legislazione italiana (la legge 40 ammette la fecondazione artificiale, purché attuata nel rispetto di una serie di limiti), non può infatti essere identificata con la tesi suddetta, ma costituisce piuttosto una evidente posizione di mediazione (sintesi) tra la tesi precedente, che implicherebbe il divieto della fecondazione artificiale in toto, e l’antitesi che invece, sulla base di un espanso concetto di diritto all’auto-determinazione, vorrebbe eliminare ogni vincolo.

Eliminata dal dibattito ogni voce contraria alla fecondazione artificiale in sé, la posizione espressa dalla legge 40 cessa di essere la sintesi e viene trasformata nella tesi di partenza. La mediazione che scaturirà dal confronto con l’antitesi è logico che si situerà in un ambito ancora più lontano da quello della vera tesi, cioè andrà nella direzione dell’antitesi. Perché la richiesta di diagnosi pre-impianto e di abolizione del divieto di congelamento degli embrioni possa apparire come una mediazione fra istanze estreme, è allora necessario individuare una posizione che sia percepita come un fondamentalismo libertario ancora più spinto.

Ecco che così viene mostrato un servizio che documenta la “lotteria degli ovuli” a Londra, il catalogo delle donatrici di gameti dove la coppia gay può approvvigionarsi con la più ampia scelta, c’è l’utero in affitto che in America costa troppo (140.000 dollari) ed allora si emigra in India dove, nello Stato del Gujarat, una dottoressa a prezzi più contenuti ha “una serie di donne molto religiose e disciplinate che lavorano con lei” come giumente da riproduzione. Sapete, un po’ come nella reclame del rasoio elettrico di una volta “se tu dai una cosa a me io poi do una cosa a te”, così lì le donne danno i loro ovuli, il loro utero, il loro figlio e l’occidentale dà in cambio i soldi per la casa. Basta? No, c’è di più. C’è anche la donna di 57 anni divorziata che telefona dicendo: “voglio un bambino”. E allora il mediatore si dà da fare: ci vuole la donatrice di ovuli perché la donna è in menopausa, poi ci vuole il donatore di sperma perché attualmente non ha un compagno e poi serve l’utero in affitto. Problemi con l’età? Tranquilli, la donna dice di avere un aspetto giovanile, ma soprattutto è molto benestante.

Il verbo è categorico: I want! Voglio un figlio. Nella modernità ogni desiderio è un diritto, ogni limite, un ostacolo da abbattere. Così si producono tanti embrioni per avere più probabilità di riuscita certo, questo crea però il problema che una donna sola non basta per accoglierne così tanti, ma a tutto c’è il rimedio, così si pianifica di trasferire gli embrioni in due donne, tanto se arrivano due gemelli i clienti sono contenti lo stesso. Ma se una o entrambe le donne che affittano l’utero hanno uno o due gemelli? Quattro figli? No, quattro sarebbero troppi; allora si decide che se vengono più di due bambini si fa l’aborto selettivo. “Okay?”, dice l’intermediario, “Assolutamente sì”, risponde la persona all’altro capo del telefono.

Ecco, questo servizio rappresenta l’antitesi perfetta; rispetto alla barbarie descritta in questo reportage congelare gli embrioni come i pisellini primavera e buttarli via se sono malati può essere presentata come una perfetta sintesi, una posizione mediana, ragionevole, di compromesso; lo spettatore medio difficilmente si accorgerà che congelare e diagnosticare per poi buttare via gli embrioni malati si situa sulla stessa linea del desiderio über alles. Ed infatti, come da copione, ecumenica la Gabbanelli in chiusura del suo intervento con queste parole presenta il servizio che vi ho descritto: “Questioni etiche. Ma come la sposti la barra dell’etica? A seconda di come la vedi, e di solito sempre troppo da una parte, come nel nostro caso, dall’altra come vedremo”.

Per comprendere come si sarebbe potuto presentare la questione della fecondazione artificiale in un altro modo, per fare comparire sulla scena la vera tesi, ci si può avvalere di una innocente finzione; immaginiamo che nella puntata di Report in questione fosse stata intervistata anche una persona che ha qualche conoscenza di bioetica personalista; costui, chiamiamolo convenzionalmente professor Ghost, che cosa avrebbe potuto dire? Alla coppia che nella trasmissione ha dichiarato di ricorrere alla diagnosi pre-impianto non per selezionare i figli, ma per “essere aiutati dalla medicina a non trasmettere una malattia mortale”, volendo solo “correre tutti i rischi che corre una coppia normale quando si mettono a fare un bambino”, il professor Ghost avrebbe potuto dire qualcosa di questo genere: «La diagnosi pre-impianto, di per sé pone problemi etici in ragione del danno potenziale che induce e del margine di errore sotteso alla tecnica. Quello che la coppia desidera, “non trasmettere una malattia mortale”, non è possibile mediante la diagnosi pre-impianto, ma solo ricorrendo a tecniche che esplorano i geni prima del concepimento. L’embrione non è un grumo di cellule, è già il figlio di quella coppia, se la diagnosi pre-impianto rivela la presenza di una malattia, gettare via l’embrione significa gettare via quel figlio; non si previene la trasmissione della malattia, ma la nascita di quel bambino malato, attraverso la sua soppressione quando egli è un embrione. Sarebbe bene rammentare il pensiero di Leon Kass, quando nota che un bambino non si fa, altrimenti, riducendolo ad un manufatto, togliamo all’uomo la propria dignità».[4]

Alla Gabbanelli che, col dizionario Devoto Oli alla mano, nega che la diagnosi pre-impianto costituisca una pratica eugenetica, il professor Ghost avrebbe forse risposto: «Non la diagnosi pre-impianto di per sé, ma il diritto ad eliminare l’imperfetto basandosi sul risultato di quella diagnosi costituisce una condotta eugenetica. La eliminazione dell’embrione portatore di mutazioni genetiche non è moralmente differente dalla sua eliminazione al quinto mese del suo sviluppo. Persino un convinto sostenitore di tutte le forme di diritto riproduttivo come l’australiano Julian Savulesco riconosce che la eliminazione dei concepiti in ragione dei loro difetti determina un effetto eugenetico, conosciuto come eugenetica “passiva”».[5]

Si potrebbe obiettare che se è legale l’aborto oltre i primi 90 giorni in caso di malformazione fetale, perché non dovrebbe essere consentita la eliminazione dell’embrione diagnosticato come malato. Immaginiamo che il prof. Ghost risponderebbe che in termini generali un arbitrio non ne giustifica due; anche la legge 194 è infatti una legge che consente pratiche eugenetiche. Quasi certamente il prof. Ghost non mancherebbe di accennare al fatto che al pari della diagnosi pre-natale, la diagnosi pre-impianto si distingue da tutte le attività diagnostiche perché ha come fine non più quello di consentire la cura, ma quello di identificare per eliminare.

Al medico che si lamentava che dopo la legge 40 il tasso di trigemellarità sfiora il 3% il prof. Ghost consiglierebbe di andarsi a rileggere i dati sulla gemellearità in Italia nel 2003, cioè prima della legge 40, in modo da accorgersi che essi erano il 3,1%.[6] E a quello che si lamentava per i troppi embrioni trasferiti ricorderebbe che sempre nel 2003 nel 44% dei cicli si trasferivano 3 embrioni e nell’8,4% addirittura il numero saliva a 4 (complessivamente nel 52,4% delle procedure si trasferivano almeno 3 embrioni).

Il prof. Ghost sarebbe inquieto se infine tacesse ciò che la sua coscienza gli impone di dire e cioè che, dati alla mano del registro nazionale per la PMA, pur con tutte le attenzioni imposte dalla normativa, attraverso la fecondazione artificiale sono stati trasferiti in un anno 70.394 embrioni negli uteri delle donne, ma solo 5.162 sono nati (tasso di abortività intrinseca della fecondazione artificiale pari al 92,7%, un terzo maggiore delle stime più alte del tasso di abortività naturale). Purtroppo Gabbanelli & Co. non hanno ritenuto opportuno invitare in trasmissione il prof. Ghost.

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* Il dottor Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.




1) Alessandro Gnocchi, Mario Palmaro. Cronache da Babele. Viaggio nella crisi della modernità. Fede & Cutura Ed., Verona, 2010.

2) La puntata ha suscitato la reazione anche dell’Associazione Scienza & Vita che l’ha apertamente criticata. Vd. Comunicato del 29 Marzo 2010. http://www.scienzaevita.org/comunicato.php

3) Dignitas Personae, n. 12.

4) Cfr. Kass, Leon R. “The Wisdom of Repugnance.” New Republic Vol. 216 Issue 22 (June 2, 1997).

5) Savulesco J. Is current practice around late termination of pregnancy eugenic and discriminatory? Maternal interests and abortion. Journal of Medical Ethics 2001;27:165–171.

6) Andersen AN, et al. Assisted reproductive technology in Europe, 2003. Results generated from European registers by ESHRE. Human Reproduction 2007 22(6):1513-1525.

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Forum


L'etica dell'ironia contro la religione della perfezione

di Carlo Bellieni*

ROMA, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Clonazione, etica dell’incesto o cannibalismo, aborto rapido, divorzio rapidissimo: e noi a rispondere con tanti discorsi come se si trattasse di cose degnissime, e così gli diamo dignità e scordiamo il punto centrale (di chi è la vita?) accapigliandoci sui dettagli (è meno peggio l’aborto con la RU o col bisturi?). Accettiamo di discutere su temi quali: “fare figli è razionale?” oppure “il neonato è una persona?” non capendo che la loquela è robusta, ma l’impostazione è a trabocchetto. Basta. Riprendiamoci l’ironia e soprattutto il riso come strumento dialettico. Perché il riso è un giudizio etico.

Ridere è un nostro processo vitale, né più né meno che respirare o digerire un panino, è un’arma fortissima e spontanea che ci difende dall’automaticità della vita: scatta quando vediamo una scimmia che sembra un uomo o un uomo che si comporta da scimmia, quando vediamo un tale che cade e rimbalza come una palla da tennis o altrettanto impietosamente se vediamo un comico che si finge zoppicante o balbuziente o un attore che fa il malato e che inizia a ballare sul letto. Insomma: ogni risata è un’autodifesa dalla cosa più innaturale per l’uomo: sentirsi diventare una macchina.

E’ impietoso il riso, e lo frena solo la ragione se facciamo un respiro e riflettiamo che la il tipo che cade o il malato che ride non sono un film finto e plastificato ma gente in carne e ossa e acciacchi. Ma il riso pur impietoso è una difesa sociale: ci salva dalla ripetitività e dagli stereotipi: quando li vediamo gli facciamo uno scoppio di risa in faccia, senza volerlo, quando non ci blocca il pudore, e il riso prende per noi la voce e dice “non è così! Un uomo non è una macchina, non si muove come un robot, non parla dicendo le parole al rovescio, non cammina con i piedi per aria!”.

Quest’impietosa difesa sociale ci salva dalla religione della perfezione: se il nostro intimo si ribella alla meccanicità, ci obbliga a riflettere su tutto il carico di meccanicità che introduciamo nella vita e nel profondo della vita con clonazioni, manipolazioni, accanite selezioni prenatali con tanto di “cerca e distruggi”, che vorrebbero un mondo di “perfetti”, scoprendo che la perfezione non solo non esiste, ma non è nemmeno desiderabile tanto che un mondo di perfetti tutti uguali sarebbe dal nostro profondo colpita e sbugiardata con una grassa risata.

La perfezione delle donne ridotte a copie implasticate di Barbie, quella dei tronisti pompati, la perfezione dei bambini accettati solo se bellini e bravi a scuola sono inaccettabili, dannose, perniciose, condannate non tanto dalla nostra mente, ma dalla nostra pancia con una risata, che solo una sovrastruttura di ragione (mal applicata) può bloccare, proprio come la ragione (ben applicata) blocca la risata quando può essere offensiva. E come si rifiutano le pesche più buone perché non sono “perfette”, così non si accetta il diverso, il disabile, in un mondo di famiglie di genitori-nonni con figli unici-perfetti viziati e ingrassati di regali e merendine per renderli ancor più perfetti. E così la vita umana manipolata come un pomodoro OGM desta una reazione di ironia: perché l’uomo non è così.

Ma se la nostra pancia, nostro secondo cervello viscerale, condanna ridendo gli stereotipi, capite finalmente che alle insidie di cui sopra che giorno dopo giorno mangiano la biodiversità, non sempre si deve rispondere con un’argomentazione iperlogica, ma come ci insegnano maestri illustri dal nome di Plauto, Molière, Goldoni, Shaw o Shore (e in campo cristiano Swift, Buzzati, Chesterton, Lewis), spesso una risata vale più di un’argomentazione; e anche Aristotele sarebbe stato di quest’avviso, insegnando che alle domande ovvie non merita rispondere sensatamente. Ma troppo ci siamo impegnati ad arzigogolare per dimostrare l’ovvio, tanto che l’abbiamo fatto diventare astruso.

Abbiamo perso la capacità di satira, e di ironia, ammettiamolo: ogni provocazione ci mette in difficoltà e ci fa sentire obbligati a prenderla sul serio: oggi si discetta se il cannibalismo è etico, mentre meriterebbe una battuta o un atto giudiziario. Certo, quando occorre c’è da essere approfonditi e acuti; ma noi ci prendiamo troppo sul serio e vogliamo curare tutto a parole, senza ricordare che anche il Creatore a volte è ironico: a chi aspettava un guerriero per scacciare i romani, ha mandato un Bambino, e ha schiacciato il demonio col dolce piede di una Ragazzina di 14 anni. Cosa c’è di più ironico? E’ un’ironia che ha fatto fiorire da Pier Paolo Pasolini ateo e comunista le più belle parole mai scritte contro l’aborto; d’altronde il senso religioso più puro non lo troviamo dove ce lo aspetteremmo (nei film “pii e apologetici” è scontato, dunque quasi stereotipato), ma ironicamente in “Simpson” e “dottor House”.

Perdere la capacità di ironia – di cui invece è ricco Benedetto XVI -, che caratterizzava san Tommaso, significa pensare di salvare il mondo con le parole invece che con la carità, e finiamo trascinati dall’avversario a giocare sul suo campo, che è il campo delle parole (che ci trascina sempre a parlare sull’ultimo “eccesso” di moda, per imbambolarci e farci dimenticare il precedente). Il riso invece è la meta-parola, che giudica più di una sentenza scritta, e che dobbiamo invocare con san Tommaso Moro: “Signore, dammi una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi un’anima sana Signore, che non si avvilisca in lamentele e sospiri. Signore, dammi il senso dell’umorismo”. Non è il nostro argomentare che convince, né la nostra sapienza che salva: non siamo noi così importanti. Come si legge su qualche T-shirt: “Rilassati: Dio esiste. E per fortuna non sei tu”.



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* Il dottor Carlo Bellieni è Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

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Regina Caeli


Benedetto XVI: "nel cuore di Maria, è custodito il mistero del volto di Cristo"
Discorso introduttivo alla recita del Regina Cæli in piazza San Carlo a Torino

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI nell'introdurre questa domenica la preghiera mariana del Regina Cæli al termine della Santa Messa celebrata in piazza San Carlo a Torino.

 



* * *

Mentre ci avviamo a concludere questa solenne celebrazione, ci rivolgiamo in preghiera a Maria Santissima, che a Torino è venerata quale principale Patrona col titolo di Beata Vergine Consolata. A Lei affido questa Città e tutti coloro che vi abitano. Veglia, o Maria, sulle famiglie e sul mondo del lavoro; veglia su quanti hanno smarrito la fede e la speranza; conforta i malati, i carcerati e tutti i sofferenti; sostieni, o Aiuto dei Cristiani, i giovani, gli anziani e le persone in difficoltà. Veglia, o Madre della Chiesa, sui Pastori e sull’intera Comunità dei credenti, perché siano "sale e luce" in mezzo alla società. La Vergine Maria è colei che più di ogni altro ha contemplato Dio nel volto umano di Gesù. Lo ha visto appena nato, mentre, avvolto in fasce, era adagiato in una mangiatoia; lo ha visto appena morto, quando, deposto dalla croce, lo avvolsero in un lenzuolo e lo portarono al sepolcro. Dentro di lei si è impressa l’immagine del suo Figlio martoriato; ma questa immagine è stata poi trasfigurata dalla luce della Risurrezione. Così, nel cuore di Maria, è custodito il mistero del volto di Cristo, mistero di morte e di gloria. Da lei possiamo sempre imparare a guardare Gesù con sguardo d’amore e di fede, a riconoscere in quel volto umano il Volto di Dio. Alla Madonna Santissima affido con gratitudine quanti hanno lavorato per questa mia Visita, e per l’Ostensione della Sindone. Prego per loro e perché questi eventi favoriscano un profondo rinnovamento spirituale. Regina Cæli…

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Documenti


Discorso del Papa nell'incontro con gli ammalati nella chiesa del Cottolengo

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'incontrarsi nella chiesa del Cottolengo, a Torino, con gli ammalati e gli ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza.




* * *

Signor Cardinale,

cari fratelli e sorelle!

Desidero esprimere a voi tutti la mia gioia e la mia riconoscenza al Signore che mi ha condotto fino a voi, in questo luogo, dove in tanti modi e secondo un carisma particolare si manifestano la carità e la Provvidenza del Padre celeste. E’ un incontro, il nostro, che si intona molto bene al mio pellegrinaggio alla sacra Sindone, in cui possiamo leggere tutto il dramma della sofferenza, ma anche, alla luce della Risurrezione di Cristo, il pieno significato che essa assume per la redenzione del mondo. Ringrazio Don Aldo Sarotto per le significative parole che mi ha rivolto: attraverso di lui il mio grazie si estende a quanti operano in questo luogo, la Piccola Casa della Divina Provvidenza, come la volle chiamare san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Saluto con riconoscenza le tre Famiglie religiose nate dal cuore del Cottolengo e dalla “fantasia” dello Spirito Santo. Grazie a tutti voi, cari malati, che siete il tesoro prezioso di questa casa e di questa Opera.

Come forse sapete, durante l’Udienza Generale di mercoledì scorso, insieme alla figura di san Leonardo Murialdo, ho presentato anche il carisma e l’opera del vostro Fondatore. Sì, egli è stato un vero e proprio campione della carità, le cui iniziative, come alberi rigogliosi, stanno davanti ai nostri occhi e sotto lo sguardo del mondo. Rileggendo le testimonianze dell’epoca, vediamo che non fu facile per il Cottolengo iniziare la sua impresa. Le molte attività di assistenza presenti sul territorio a favore dei più bisognosi non erano sufficienti a sanare la piaga della povertà, che affliggeva la città di Torino. Il Cottolengo cercò di dare una risposta a questa situazione, accogliendo le persone in difficoltà e privilegiando quelle che non venivano ricevute e curate da altri. Il primo nucleo della Casa della Divina Provvidenza non ebbe vita facile e non durò a lungo. Nel 1832, nel quartiere di Valdocco, vide la luce una nuova struttura, aiutata anche da alcune famiglie religiose.

Il Cottolengo, pur attraversando nella sua vita momenti drammatici, mantenne sempre una serena fiducia di fronte agli eventi; attento a cogliere i segni della paternità di Dio, riconobbe, in tutte le situazioni, la sua presenza e la sua misericordia e, nei poveri, l’immagine più amabile della sua grandezza. Lo guidava una convinzione profonda: “I poveri sono Gesù - diceva - non sono una sua immagine. Sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli. Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma questi che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme. Se non li trattiamo bene, ci cacciano dalla Piccola Casa. Essi sono Gesù”. San Giuseppe Benedetto Cottolengo sentì di impegnarsi per Dio e per l’uomo, mosso nel profondo del cuore dalla parola dell’apostolo Paolo: La carità di Cristo ci spinge (cfr 2 Cor 5,14). Egli volle tradurla in totale dedizione al servizio dei più piccoli e dimenticati. Principio fondamentale della sua opera fu, fin dall’inizio, l’esercizio verso tutti della carità cristiana, che gli permetteva di riconoscere in ogni uomo, anche se ai margini della società, una grande dignità. Egli aveva compreso che chi è colpito dalla sofferenza e dal rifiuto tende a chiudersi e isolarsi e a manifestare sfiducia verso la vita stessa. Perciò il farsi carico di tante sofferenze umane significava, per il nostro Santo, creare relazioni di vicinanza affettiva, familiare e spontanea, dando vita a strutture che potessero favorire questa vicinanza, con quello stile di famiglia che continua ancora oggi.

Recupero della dignità personale per san Giuseppe Benedetto Cottolengo voleva dire ristabilire e valorizzare tutto l’umano: dai bisogni fondamentali psico-sociali a quelli morali e spirituali, dalla riabilitazione delle funzioni fisiche alla ricerca di un senso per la vita, portando la persona a sentirsi ancora parte viva della comunità ecclesiale e del tessuto sociale. Siamo grati a questo grande apostolo della carità perché, visitando questi luoghi, incontrando la quotidiana sofferenza nei volti e nelle membra di tanti nostri fratelli accolti qui come nella loro casa, noi facciamo esperienza del valore e del significato più profondo della sofferenza e del dolore. Cari malati, voi svolgete un’opera importante: vivendo le vostre sofferenze in unione con Cristo crocifisso e risorto, partecipate al mistero della sua sofferenza per la salvezza del mondo.

Offrendo il nostro dolore a Dio per mezzo di Cristo, noi possiamo collaborare alla vittoria del bene sul male, perché Dio rende feconda la nostra offerta, il nostro atto di amore. Cari fratelli e sorelle, tutti voi che siete qui, ciascuno per la propria parte: non sentitevi estranei al destino del mondo, ma sentitevi tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno anche attraverso il vostro contributo. Cristo, che è morto sulla Croce per salvarci, si è lasciato inchiodare perché da quel legno, da quel segno di morte, potesse fiorire la vita in tutto il suo splendore. Questa Casa qui è uno dei frutti maturi nati dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo, e manifesta che la sofferenza, il male, la morte non hanno l’ultima parola, perché dalla morte e dalla sofferenza la vita può risorgere. Lo ha testimoniato in modo esemplare uno di voi, che voglio ricordare: il Venerabile fratel Luigi Bordino, stupenda figura di religioso infermiere.

In questo luogo, allora, comprendiamo meglio che, se la passione dell’uomo è stata assunta da Cristo nella sua Passione, nulla andrà perduto. Il messaggio di questa solenne Ostensione della Sindone: “Passio Christi – Passio hominis”, qui si comprende in modo particolare. Preghiamo il Signore crocifisso e risorto perché illumini il nostro pellegrinaggio quotidiano con la luce del suo Volto; illumini la nostra vita, il presente e il futuro, il dolore e la gioia, le fatiche e le speranze dell’umanità intera. A tutti voi, cari fratelli e sorelle, invocando l’intercessione di Maria Vergine e di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, imparto di cuore la mia Benedizione: vi conforti e vi consoli nelle prove e vi ottenga ogni grazia che viene da Dio, autore e datore di ogni dono perfetto. Grazie.

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Meditazione del Papa dopo l'atto di venerazione della Sindone
Icona del mistero del Sabato Santo

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la meditazione pronunciata questa domenica da Benedetto XVI dopo l’atto di venerazione della Sindone nel Duomo di Torino, nel salutare le monache di clausura di diversi monasteri della diocesi e i membri del Comitato della Sindone presenti.

 


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Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”. Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio.

Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di San Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.

Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale. In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui.

Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” - promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

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Discorso di Benedetto XVI all'incontro con i giovani a Torino
"Dio ci ha creato in vista del 'per sempre'"

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questa domenica da Benedetto XVI nell'incontrare in piazza San Carlo i giovani dell’arcidiocesi di Torino e delle diocesi limitrofe.



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Cari giovani di Torino!

Cari giovani che venite dal Piemonte e dalle Regioni vicine!

Sono veramente lieto di essere con voi, in questa mia visita a Torino per venerare la sacra Sindone. Vi saluto tutti con grande affetto e vi ringrazio per l’accoglienza e per l’entusiasmo della vostra fede. Attraverso di voi saluto l’intera gioventù di Torino e delle Diocesi del Piemonte, con una preghiera speciale per i giovani che vivono situazioni di sofferenza, di difficoltà e di smarrimento. Un particolare pensiero e un forte incoraggiamento rivolgo a quanti fra voi stanno percorrendo il cammino verso il sacerdozio, la vita consacrata, come pure verso scelte generose di servizio agli ultimi.

Ringrazio il vostro Pastore, il Cardinale Severino Poletto, per le cordiali espressioni che mi ha rivolto e ringrazio i vostri rappresentanti che mi hanno manifestato i propositi, le problematiche e le attese della gioventù di questa città e regione. Venticinque anni fa, in occasione dell’Anno Internazionale della Gioventù, il venerabile e amato Giovanni Paolo II indirizzò una Lettera apostolica ai giovani e alle giovani del mondo, incentrata sull’incontro di Gesù col giovane ricco di cui ci parla il Vangelo (Lettera ai Giovani, 31 marzo 1985). Proprio partendo da questa pagina (cfr Mc 10,17-22; Mt 19,16-22), che è stata oggetto di riflessione anche nel mio Messaggio di quest’anno per la Giornata Mondiale della Gioventù, vorrei offrirvi alcuni pensieri che vi aiutino nella vostra crescita spirituale e nella vostra missione all’interno della Chiesa e nel mondo.

Il giovane del Vangelo chiede a Gesù: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Oggi non è facile parlare di vita eterna e di realtà eterne, perché la mentalità del nostro tempo ci dice che non esiste nulla di definitivo: tutto muta, e anche molto velocemente. “Cambiare” è diventata, in molti casi, la parola d’ordine, l’esercizio più esaltante della libertà, e in questo modo anche voi giovani siete portati spesso a pensare che sia impossibile compiere scelte definitive, che impegnino per tutta la vita. Ma è questo il modo giusto di usare la libertà? E’ proprio vero che per essere felici dobbiamo accontentarci di piccole e fugaci gioie momentanee, le quali, una volta terminate, lasciano l’amarezza nel cuore? Cari giovani, non è questa la vera libertà, la felicità non si raggiunge così. Ognuno di noi è creato non per compiere scelte provvisorie e revocabili, ma scelte definitive e irrevocabili, che danno senso pieno all’esistenza. Lo vediamo nella nostra vita: ogni esperienza bella, che ci colma di felicità, vorremmo che non avesse mai termine. Dio ci ha creato in vista del “per sempre”, ha posto nel cuore di ciascuno di noi il seme per una vita che realizzi qualcosa di bello e di grande. Abbiate il coraggio delle scelte definitive e vivetele con fedeltà! Il Signore potrà chiamarvi al matrimonio, al sacerdozio, alla vita consacrata, a un dono particolare di voi stessi: rispondetegli con generosità!

Nel dialogo con il giovane, che possedeva molte ricchezze, Gesù indica qual è la ricchezza più grande della vita: l’amore. Amare Dio e amare gli altri con tutto se stessi. La parola amore - lo sappiamo - si presta a varie interpretazioni ed ha diversi significati: noi abbiamo bisogno di un Maestro, Cristo, che ce ne indichi il senso più autentico e più profondo, che ci guidi alla fonte dell’amore e della vita. Amore è il nome proprio di Dio. L'Apostolo Giovanni ce lo ricorda: “Dio è amore”, e aggiunge che “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio”. E “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,8.10.11). Nell’incontro con Cristo e nell’amore vicendevole sperimentiamo in noi la vita stessa di Dio, che rimane in noi con il suo amore perfetto, totale, eterno (cfr 1Gv 4,12). Non c'è nulla, quindi, di più grande per l'uomo, un essere mortale e limitato, che partecipare alla vita di amore di Dio. Oggi viviamo in un contesto culturale che non favorisce rapporti umani profondi e disinteressati, ma, al contrario, induce spesso a chiudersi in se stessi, all’individualismo, a lasciar prevalere l’egoismo che c’è nell’uomo. Ma il cuore di un giovane è per natura sensibile all’amore vero. Perciò mi rivolgo con grande fiducia a ciascuno di voi e vi dico: non è facile fare della vostra vita qualcosa di bello e di grande, è impegnativo, ma con Cristo tutto è possibile!

Nello sguardo di Gesù che fissa, come dice il Vangelo con amore il giovane, cogliamo tutto il desiderio di Dio di stare con noi, di esserci vicino. C'è un desiderio di Dio che desidera il nostro “sì”, il nostro amore. Sì, cari giovani, Gesù vuole essere vostro amico, vostro fratello nella vita, il maestro che vi indica la via da percorrere per giungere alla felicità. Egli vi ama per quello che siete, nella vostra fragilità e debolezza, perché, toccati dal suo amore, possiate essere trasformati. Vivete questo incontro con l'amore di Cristo in un forte rapporto personale con Lui; vivetelo nella Chiesa, anzitutto nei Sacramenti. Vivetelo nell’Eucaristia, in cui si rende presente il suo Sacrificio: Egli realmente dona il suo Corpo e il suo Sangue per noi, per redimere i peccati dell’umanità, perché diventiamo una cosa sola con Lui, perché impariamo anche noi la logica del donarsi. Vivetelo nella Confessione, dove, offrendoci il suo perdono, Gesù ci accoglie con tutti i nostri limiti per darci un cuore nuovo, capace di amare come Lui. Imparate ad avere familiarità con la parola di Dio, a meditarla, specialmente nella lectio divina, la lettura spirituale della Bibbia. Infine, sappiate incontrare l’amore di Cristo nella testimonianza di carità della Chiesa. Torino vi offre, nella sua storia, splendidi esempi: seguiteli, vivendo concretamente la gratuità del servizio. Tutto nella comunità ecclesiale deve essere finalizzato a far toccare con mano agli uomini l’infinita carità di Dio.

Cari amici, l’amore di Cristo per il giovane del Vangelo è il medesimo che egli ha per ciascuno di voi. Non è un amore confinato nel passato, non è un’illusione, non è riservato a pochi. Voi incontrerete questo amore e ne sperimenterete tutta la fecondità se con sincerità cercherete il Signore e se vivrete con impegno la vostra partecipazione alla vita della comunità cristiana. Ciascuno si senta “parte viva” della Chiesa, coinvolto nell’opera di evangelizzazione, senza paura, in uno spirito di sincera armonia con i fratelli nella fede e in comunione con i Pastori, uscendo da una tendenza individualista anche nel vivere la fede, per respirare a pieni polmoni la bellezza di far parte del grande mosaico della Chiesa di Cristo.

Questa sera non posso non additarvi come modello un giovane della vostra Città: il beato Piergiorgio Frassati, di cui quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della beatificazione. La sua esistenza fu avvolta interamente dalla grazia e dall’amore di Dio e fu consumata, con serenità e gioia, nel servizio appassionato a Cristo e ai fratelli. Giovane come voi visse con grande impegno la sua formazione cristiana e diede la sua testimonianza di fede, semplice ed efficace. Un ragazzo affascinato dalla bellezza del Vangelo delle Beatitudini, che sperimentò tutta la gioia di essere amico di Cristo, di seguirlo, di sentirsi in modo vivo parte della Chiesa. Cari giovani, abbiate il coraggio di scegliere ciò che è essenziale nella vita! “Vivere e non vivacchiare” ripeteva il beato Piergiorio Frassati. Come lui, scoprite che vale la pena di impegnarsi per Dio e con Dio, di rispondere alla sua chiamata nelle scelte fondamentali e in quelle quotidiane, anche quando costa!

Il percorso spirituale del beato Piergiorgio Frassati ricorda che il cammino dei discepoli di Cristo richiede il coraggio di uscire da se stessi, per seguire la strada del Vangelo. Questo esigente cammino dello spirito voi lo vivete nelle parrocchie e nelle altre realtà ecclesiali; lo vivete anche nel pellegrinaggio delle Giornate Mondiali della Gioventù, appuntamento sempre atteso. So che vi state preparando al prossimo grande raduno, in programma a Madrid nell’agosto 2011. Auspico di cuore che tale straordinario evento, al quale spero possiate partecipare in tanti, contribuisca a far crescere in ciascuno l’entusiasmo e la fedeltà nel seguire Cristo e

nell’accogliere con gioia il suo messaggio, fonte di vita nuova. Giovani di Torino e del Piemonte, siate testimoni di Cristo in questo nostro tempo! La sacra Sindone sia in modo del tutto particolare per voi un invito ad imprimere nel vostro spirito il volto dell’amore di Dio, per essere voi stessi, nei vostri ambienti, con i vostri coetanei, un’espressione credibile del volto di Cristo. Maria, che venerate nei vostri Santuari mariani, e san Giovanni Bosco, Patrono della gioventù, vi aiutino a seguire Cristo senza mai stancarvi. E vi accompagnino sempre la mia preghiera e la mia Benedizione, che vi dono con grande affetto. Grazie per la vostra attenzione.



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Omelia del Papa per la Messa in piazza San Carlo a Torino

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questa domenica la Messa in piazza San Carlo a Torino.



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Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di trovarmi con voi in questo giorno di festa e di celebrare per voi questa solenne Eucaristia. Saluto ciascuno dei presenti, in particolare il Pastore della vostra Arcidiocesi, il Cardinale Severino Poletto, che ringrazio per le calorose espressioni rivoltemi a nome di tutti. Saluto anche gli Arcivescovi e i Vescovi presenti, i Sacerdoti, i Religiosi e le Religiose, i rappresentanti delle Associazioni e dei Movimenti ecclesiali. Rivolgo un deferente pensiero al Sindaco, Dottor Sergio Chiamparino, grato per il cortese indirizzo di saluto, al rappresentante del Governo ed alle Autorità civili e militari, con un particolare ringraziamento a quanti hanno generosamente offerto la loro collaborazione per la realizzazione di questa mia Visita pastorale. Estendo il mio pensiero a quanti non hanno potuto essere presenti, in modo speciale agli ammalati, alle persone sole e a quanti si trovano in difficoltà. Affido al Signore la città di Torino e tutti i suoi abitanti in questa celebrazione eucaristica, che, come ogni domenica, ci invita a partecipare in modo comunitario alla duplice mensa della Parola di verità e del Pane di vita eterna.

Siamo nel tempo pasquale, che è il tempo della glorificazione di Gesù. Il Vangelo che abbiamo ascoltato poc’anzi ci ricorda che questa glorificazione si è realizzata mediante la passione. Nel mistero pasquale passione e glorificazione sono strettamente legate fra loro, formano un’unità inscindibile. Gesù afferma: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (Gv 13,31) e lo fa quando Giuda esce dal Cenacolo per attuare il piano del suo tradimento, che condurrà alla morte del Maestro: proprio in quel momento inizia la glorificazione di Gesù. L’evangelista Giovanni lo fa comprendere chiaramente: non dice, infatti, che Gesù è stato glorificato solo dopo la sua passione, per mezzo della risurrezione, ma mostra che la sua glorificazione è iniziata proprio con la passione. In essa Gesù manifesta la sua gloria, che è gloria dell’amore, che dona tutto se stesso. Egli ha amato il Padre, compiendo la sua volontà fino in fondo, con una donazione perfetta; ha amato l’umanità dando la sua vita per noi. Così già nella sua passione viene glorificato, e Dio viene glorificato in lui. Ma la passione è soltanto un inizio. Per questo Gesù afferma che la sua glorificazione sarà anche futura (cfr v. 32). Poi il Signore, nel momento in cui annuncia la sua partenza da questo mondo (cfr v. 33), quasi come testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri» (v. 34). Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi.

Gesù parla di un "comandamento nuovo". Ma qual è la sua novità? Già nell’Antico Testamento Dio aveva dato il comando dell’amore; ora, però, questo comandamento è diventato nuovo, in quanto Gesù vi apporta un’aggiunta molto importante: «Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri». Ciò che è nuovo è proprio questo "amare come Gesù ha amato". L’Antico Testamento non presentava nessun modello di amore, ma formulava soltanto il precetto di amare. Gesù invece ci ha dato se stesso come modello e fonte di amore. Si tratta di un amore senza limiti, universale, in grado di trasformare anche tutte le circostanze negative e tutti gli ostacoli in occasioni per progredire nell’amore.

Nei secoli passati la Chiesa che è in Torino ha conosciuto una ricca tradizione di santità e di generoso servizio ai fratelli – come hanno ricordato il Cardinale Arcivescovo e il Signor Sindaco - grazie all’opera di zelanti sacerdoti, religiosi e religiose di vita attiva e contemplativa e di fedeli laici. Le parole di Gesù acquistano, allora, una risonanza particolare per questa Chiesa, una Chiesa generosa e attiva, a cominciare dai suoi preti. Dandoci il comandamento nuovo, Gesù ci chiede di vivere il suo stesso amore, che è il segno davvero credibile, eloquente ed efficace per annunciare al mondo la venuta del Regno di Dio. Ovviamente con le nostre sole forze siamo deboli e limitati. C’è sempre in noi una resistenza all’amore e nella nostra esistenza ci sono tante difficoltà che provocano divisioni, risentimenti e rancori. Ma il Signore ci ha promesso di essere presente nella nostra vita, rendendoci capaci di questo amore generoso e totale, che sa vincere tutti gli ostacoli. Se siamo uniti a Cristo, possiamo amare veramente in questo modo. Amare gli altri come Gesù ci ha amati è possibile solo con quella forza che ci viene comunicata nel rapporto con Lui, specialmente nell’Eucaristia, in cui si rende presente in modo reale il suo Sacrificio di amore che genera amore.

Vorrei dire, allora, una parola d’incoraggiamento in particolare ai Sacerdoti e ai Diaconi di questa Chiesa, che si dedicano con generosità al lavoro pastorale, come pure ai Religiosi e alle Religiose. A volte, essere operai nella vigna del Signore può essere faticoso, gli impegni si moltiplicano, le richieste sono tante, i problemi non mancano: sappiate attingere quotidianamente dal rapporto di amore con Dio nella preghiera la forza per portare l’annuncio profetico di salvezza; ri-centrate la vostra esistenza sull’essenziale del Vangelo; coltivate una reale dimensione di comunione e di fraternità all’interno del presbiterio, delle vostre comunità, nei rapporti con il Popolo di Dio; testimoniate nel ministero la potenza dell’amore che viene dall’Alto.

La prima lettura che abbiamo ascoltato, ci presenta proprio un modo particolare di glorificazione di Gesù: l’apostolato e i suoi frutti. Paolo e Barnaba, al termine del loro primo viaggio apostolico, ritornano nelle città già visitate e rianimano i discepoli, esortandoli a restare saldi nella fede, perché, come essi dicono, «dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22). La vita cristiana, cari fratelli e sorelle, non è facile; so che anche a Torino non mancano difficoltà, problemi, preoccupazioni: penso, in particolare, a quanti vivono concretamente la loro esistenza in condizioni di precarietà, a causa della mancanza del lavoro, dell’incertezza per il futuro, della sofferenza fisica e morale; penso alle famiglie, ai giovani, alle persone anziane che spesso vivono la solitudine, agli emarginati, agli immigrati. Sì, la vita porta ad affrontare molte difficoltà, molti problemi, ma è proprio la certezza che ci viene dalla fede, la certezza che non siamo soli, che Dio ama ciascuno senza distinzione ed è vicino a ciascuno con il suo amore, che rende possibile affrontare, vivere e superare la fatica dei problemi quotidiani. E’ stato l’amore universale di Cristo risorto a spingere gli apostoli ad uscire da se stessi, a diffondere la parola di Dio, a spendersi senza riserve per gli altri, con coraggio, gioia e serenità. Il Risorto possiede una forza di amore che supera ogni limite, non si ferma davanti ad alcun ostacolo. E la Comunità cristiana, specialmente nelle realtà più impegnate pastoralmente, deve essere strumento concreto di questo amore di Dio.

Esorto le famiglie a vivere la dimensione cristiana dell’amore nelle semplici azioni quotidiane, nei rapporti familiari superando divisioni e incomprensioni, nel coltivare la fede che rende ancora più salda la comunione. Anche nel ricco e variegato mondo dell’Università e della cultura non manchi la testimonianza dell’amore di cui ci parla il Vangelo odierno, nella capacità dell’ascolto attento e del dialogo umile nella ricerca della Verità, certi che è la stessa Verità che ci viene incontro e ci afferra. Desidero anche incoraggiare lo sforzo, spesso difficile, di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica: la collaborazione per perseguire il bene comune e rendere la Città sempre più umana e vivibile è un segno che il pensiero cristiano sull’uomo non è mai contro la sua libertà, ma in favore di una maggiore pienezza che solo in una "civiltà dell’amore" trova la sua realizzazione. A tutti, in particolare ai giovani, voglio dire di non perdere mai la speranza, quella che viene dal Cristo Risorto, dalla vittoria di Dio sul peccato e sulla morte.

La seconda lettura odierna ci mostra proprio l’esito finale della Risurrezione di Gesù: è la Gerusalemme nuova, la città santa, che scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (cfr Ap 21,2). Colui che è stato crocifisso, che ha condiviso la nostra sofferenza, come ci ricorda anche, in maniera eloquente, la sacra Sindone, è colui che è risorto e ci vuole riunire tutti nel suo amore. Si tratta di una speranza stupenda, "forte", solida, perché, come dice l’Apocalisse: «(Dio) asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (21,4). La sacra Sindone non comunica forse lo stesso messaggio? In essa vediamo, come specchiati, i nostri patimenti nelle sofferenze di Cristo: "Passio Christi. Passio hominis". Proprio per questo essa è un segno di speranza: Cristo ha affrontato la croce per mettere un argine al male; per farci intravvedere, nella sua Pasqua, l’anticipo di quel momento in cui anche per noi, ogni lacrima sarà asciugata e non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno.

Il brano dell’Apocalisse termina con l’affermazione: «Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"» (21,5). La prima cosa assolutamente nuova realizzata da Dio è stata la risurrezione di Gesù, la sua glorificazione celeste. Essa è l’inizio di tutta una serie di "cose nuove", a cui partecipiamo anche noi. "Cose nuove" sono un mondo pieno di gioia, in cui non ci sono più sofferenze e sopraffazioni, non c’è più rancore e odio, ma soltanto l’amore che viene da Dio e che trasforma tutto.

Cara Chiesa che è in Torino, sono venuto in mezzo a voi per confermarvi nella fede. Desidero esortarvi, con forza e con affetto, a restare saldi in quella fede che avete ricevuto e che dà senso alla vita; a non perdere mai la luce della speranza nel Cristo Risorto, che è capace di trasformare la realtà e rendere nuove tutte le cose; a vivere in città, nei quartieri, nelle comunità, nelle famiglie, in modo semplice e concreto l’amore di Dio: "Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri".

Amen.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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