sabato 6 marzo 2010

ZI100306

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 06 marzo 2010

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La dottrina sociale della Chiesa per i nuovi politici cattolici
RICCIONE, sabato, 6 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 19 febbraio scorso a Riccione dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, intervenendo a una riunione dell'associazione Rete Italia.




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Nella società di oggi, occuparsi di giovani e politica rischia di apparire un esercizio di stile. Riguardo al ruolo dei giovani nella politica, infatti, secondo una prima linea di pensiero vi sarebbe l'utopia come unica strada, cioè la speranza in un futuro migliore e tuttavia ogni giorno più lontano. Una seconda impostazione denuncia al contrario il rischio di atarassia,ossia una disaffezione dei giovani per la politica e l'indifferenza verso un mondo percepito come chiuso al cambiamento, o a nuovi sistemi di pensiero e di azione.

A ben vedere le due visioni, appena accennate, mancano di precisare un concetto: cos'è la politica? Essa è un valore positivo o negativo? Ricorrendo ad una espressione forte, che prendiamo in prestito da don Luigi Sturzo, grande sacerdote e politico del secolo scorso - sul quale avremo modo di ritornare - ci chiediamo: la politica é cosa sporca? Dalla risposta a questa domanda dipende quella sul ruolo dei giovani nella politica.

Certamente, non si può biasimare il sentimento di delusione per le “storture” che la politica può mostrare, legate alla fragilità di una condizione umana compromessa, anche se non in maniera irreparabile, dal peccato originale: «In questa rottura originaria va ricercata la radice più profonda di tutti i mali che insidiano le relazioni sociali tra le persone umane, di tutte le situazioni che nella vita economica e politica attentano alla dignità della persona, alla giustizia e alla solidarietà» [1].

Al tempo stesso, per i cristiani esiste un motivo di speranza: «La Salvezza, che il Signore Gesù ci ha conquistato “a caro prezzo” (1 Cor 6,20; cfr. 1 Pt 1,18-19), si realizza nella vita nuova che attende i giusti [...] ma investe anche questo mondo nelle realtà dell'economia e del lavoro, della tecnica e della comunicazione, della società e della politica, della comunità internazionale e dei rapporti tra le culture e i popoli» [2].

Appare allora chiaro un primo punto. Volendolo sintetizzare, potremmo dire che quella politica è una vocazione al bene comune e alla salvezza della società. Un bene che non può non proiettarsi nel futuro. I giovani non sono quindi, semplici spettatori, ma attori della politica, che non può essere né rivolta al passato, né appiattita sul presente.

E' dunque con questo spirito che, anche di recente, Benedetto XVI ha rimarcato la necessità di una nuova generazione di politici cattolici, lanciando ai giovani l'appello ad «evangelizzare il mondo del lavoro, dell'economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati» [3].

Quale paradigma di politica? Niccolò Machiavelli e Tommaso Moro

Se quella dei giovani è una chiamata, qual è il modello al quale fare riferimento? Vorrei rifarmi a due figure, che se vogliamo rappresentano due paradigmi della politica, e cioè Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Tommaso Moro (1478-1535). Il primo, esempio di una politica dell'astuzia e dell'utilitarismo; il secondo, modello della politica come servizio, come via della santità e finanche del martirio. Due grandi ingegni, due uomini che passiamo definire rinascimentali, eppure portatori di una visione diametralmente opposta della politica. Se guardiamo al mondo di oggi, si sarebbe tentati dall'affermare che il modello proposto da Machiavelli è quello che ha avuto maggiore fortuna. Mentre quello di Moro sembra avere la natura di un'eccezione, di una vocazione personale che non indica necessariamente una strada da seguire, un modello praticabile per tutti e in particolare per i giovani che si affacciano alla politica. Come orientarsi allora?

Prima di procedere nella nostra analisi, ascoltiamo ciò che ha detto Giovanni Paolo II ai giovani argentini nel 1985: «La giovinezza è una tappa fondamentale della vita umana; si manifesta, tra le altre caratteristiche, per il suo desiderio di un mondo migliore sia dal punto di vista spirituale che materiale. Per questo, nel corso della storia dell’umanità, i giovani hanno sognato l’avvento di un mondo più giusto, più fraterno, più tollerante, più solidale e più abitabile». E ancora: «Voi sperimentate talvolta dei sentimenti frammisti a disillusione e frustrazione davanti alle difficoltà di un rapido rinnovamento sociale, politico, culturale e anche religioso, desiderato con tanto ardore. Ciò può portarvi a vivere alle frontiere del timore e della speranza. Davanti a una situazione simile, è di vitale importanza trovare delle solide ragioni che vi permettano di vivere, di credere, di sperare e di amare pienamente. In questi momenti cruciali della vostra esistenza, vi invito ad avvicinarvi alla Chiesa, sempre giovane, che vuole presentarvi Cristo come compagno e amico di tutti i giovani» [4].

Vediamo quindi che dall'alternativa tra utopia e disaffezione, si passa all'ipotesi della grande responsabilità dei giovani, i quali sono partecipi delle cose future già a partire da quelle presenti. Un onere che potrebbe sembrare fin troppo gravoso! I giovani – come ci ha ricordato Giovanni Paolo II - non sono tuttavia soli in questa missione. Essi possono trovare un solido riferimento nel Vangelo e nella dottrina sociale della Chiesa.

I giovani nel Vangelo

Si può rimanere meravigliati dalle figure di giovani presenti nel Vangelo. Vorrei citarne uno su tutti, una presenza discreta ma decisiva per l'opera di Dio. Nel Vangelo di Giovanni si narra che Gesù, giungendo dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade, salì sul monte. Alzati gli occhi, «vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: "Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?"». Come sottolinea l'Evangelista, Gesù intendeva mettere alla prova la fede dei discepoli. Si fece allora avanti, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». Noi non sappiamo quale fosse lo stato d'animo del giovane. Ciò che sappiamo però è che egli mise tutto ciò che aveva nelle mani di Gesù, il quale: «prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero» (Gv 6,6-11).

I giovani potrebbero sentirsi inadeguati alla chiamata - secondo una logica umana potevano sembrare inadeguati anche i cinque pani e i due pesci - ma la risposta è una sola, e cioè l'abbandono fiducioso a Dio! Un affidamento non ingenuo poiché, come il ragazzo del Vangelo di Giovanni, occorre donare i propri talenti affinché diano frutto nelle mani di Dio e per il bene comune.

La dottrina sociale della Chiesa: piattaforma di educazione e azione politica

Giungiamo al cuore della questione. Quali risposte offre la Chiesa? Dinanzi alle sfide del mondo la Chiesa non propone una soluzione unica e universale. Come insegnano i Padri del Concilio Vaticano II, essa è tuttavia esperta di umanità, e titolare del dovere permanente di «scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» [5]. Ciò la spinge ad «estendere la sua missione religiosa ai diversi campi in cui uomini e donne dispiegano la loro attività» [6], e a proporre principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione che assieme formano la dottrina sociale della Chiesa.

Spetta quindi ai cristiani, come singoli e come comunità, il discernimento della realtà e la valutazione dei principi, criteri e direttive proposti dalla dottrina sociale della Chiesa per orientare la propria condotta nei diversi ambiti. Afferma Paolo VI: «spetta alle comunità cristiane individuare, con l'assistenza dello Spirito Santo - in comunione con i Vescovi, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà -, le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie» [7].

La dottrina sociale non si presenta perciò come un prontuario di soluzioni predefinite. Essa propone un modello di azione e di educazione politica che si esprime nei tre momenti del vedere, giudicare e agire, che nella illuminante sintesi di Giovanni XXIII consistono nella: «Rilevazione delle situazioni, valutazione di esse nella luce di quei principi e di quelle direttive; ricerca e determinazione di quello che si può e si deve fare per tradurre quei principi e quelle direttive nelle situazioni secondo modi e gradi che le stesse situazioni consentono o reclamano» [8].

La nuova generazione di politici cristiani alla quale ha fatto appello il Santo Padre è perciò chiamata a tradurre la dottrina sociale della Chiesa in scelte concrete, ad operare una mediazione nella realtà. Storicamente, pensiamo all'Unione internazionale di Scienze Sociali, fondata a Malines (Belgio) nel 1920, che elaborò il Codice di Malines, una sorta di summula e forse la prima mediazione politica della dottrina sociale della Chiesa. Ma gli esempi potrebbero essere diversi. Nella realtà di oggi sono molteplici le questioni che richiedono la mediazione politica dei cristiani: i diritti umani, in particolare il diritto alla vita e alla libertà religiosa, la famiglia, la giustizia, la pace, il lavoro, la sanità, la questione della biotecnologia, il disarmo, l'ordine internazionale ecc. Soffermarsi su ciascuna di esse richiederebbe un tempo assai maggiore di quello disponibile. In questa sede sembra utile richiamare i principi permanenti della dottrina sociale della Chiesa, che potremmo definire la Grundnorm per ogni azione politica.

 

Il codice di Camaldoli [9]

Delle tante iniziative organizzate da gruppi di cattolici, viene ancora oggi ricordata quella cosiddetta del Codice di Camaldoli.

Desidero parlarne abbastanza diffusamente con la speranza che nel nostro tempo così travagliato, gruppi di giovani intelligenti e impegnati, animati da guide competenti - ad esempio un professore ben preparato - e magari seguiti, a livello formativo, anche da saggi sacerdoti, possano diventare laboratori di nuovi progetti in campo politico e amministrativo.

Dal 18 al 24 luglio 1943 il Gruppo dei Laureati Cattolici, guidato da Mons. A. Bernareggi, assistente dei laureati dell'Azione Cattolica, tenne a Camaldoli il suo sesto raduno, che si rivelò decisivo per la Costituente. In particolare, gli intenti del gruppo di cattolici che redasse il Codice non solamente erano precisi e ambiziosi, ma diedero fiducia all'intero mondo cattolico.

L'intento era, da un lato, di «scegliere nella ricca miniera della dottrina contenuta nel Magistero della Chiesa le enunciazioni che più si attanagliano alle concrete situazioni storiche, alle necessità contingenti», dall'altro, di mettere a contatto con quelle enunciazioni «tutta la complessa problematica che si presenta in concreto a chi consideri oggi la vita economica e sociale» [10].

La struttura del Codice era formata da un'introduzione di carattere fondativo e da sette nuclei tematici. Nella parte introduttiva, intitolata «Premessa sul fondamento spirituale della vita sociale», si ribadiva la centralità della persona umana come valore indisponibile che precede qualsiasi pretesa da parte della Stato. Era evidente la presa di posizione contro le pretese assolutizzanti dello Stato etico nazi-fascista, così come dei regimi comunisti. Il riferimento filosofico e antropologico era il personalismo comunitario, che conciliava le esigenze della persona con la sua indole relazionale e sociale, contro la deriva individualistico - libertaria, lontana dall'ordine sociale ispirato cristianamente.

I sette nuclei tematici del Codice includevano i grandi temi su cui si doveva fondare una Costituzione di un Paese democratico: lo Stato; la famiglia; l'educazione; il lavoro; la destinazione e la proprietà dei beni materiali; la loro produzione e il loro scambio; l'attività economica pubblica; la vita internazionale. È sorprendente come molti dei 76 enunciati abbiano ispirato a livello morale i costituenti della Prima e della Terza Sottocommissione della Costituente. La loro redazione, sintetica e chiara, è corredata da numerosi riferimenti ai documenti pontifici come le encicliche sociali o i Radiomessaggi di Pio XII, ma anche a documenti quali le encicliche Non abbiamo bisogno e Mit brennender Sorge di Pio XI. Inoltre sono frequenti anche molti richiami alla dottrina tomista.

La parte iniziale che ispirò i princìpi della Costituzione è centrata sulla categoria di relazione. Il Codice inizia affermando: «L'uomo è un essere essenzialmente socievole: le esigenze del suo spirito e i bisogni del suo corpo non possono essere soddisfatti che nella convivenza». La società si deve fondare non su «una somma di individui», ma «sull'unione organica di uomini, famiglie e gruppi determinata dallo stesso fine, il bene comune, e dall'effettiva convergenza delle volontà umane verso la sua attuazione, sotto la guida di un principio autoritario proprio» (n. 3). La società organizzata a Stato è «un'unità d'ordine» (n. 4), e il suo fine «è la promozione del bene comune» (n. 6). Da questo discende che «la sovranità statale non è illimitata, i suoi confini sono segnati dalla sua ragione di essere che è la promozione del bene comune» (n. 8); mentre le funzioni specifiche dello Stato devono essere quelle «dell'organizzazione e tutela del diritto e dell'intervento nella vita sociale» (n. 13).

Tra i punti di rilievo a livello morale c'è quello che tocca la coscienza. I redattori del Codice sottolineano che la dignità della persona, come essere relazionale, oltre ad aver bisogno per esprimersi di una società e di essere tutelata da uno Stato, deve rendere consapevoli della bontà della norma e, per favorire il bene comune, può addirittura obiettare per «limitazioni e rinuncia» (n. 12) davanti a disposizioni precise. La libertà di coscienza era già nel 1943 «un'esigenza da tutelare fino all'estremo limite della compatibilità col bene comune» (n. 13).

Nella parte dedicata al «campo politico» si sottolinea come i cittadini non siano dei semplici sudditi, ma per essere veri cittadini essi debbano responsabilmente «perseguire il proprio interesse tenendo conto delle esigenze superiori del bene comune», a tal punto che il Codice prevede anche il dono della vita, valore assoluto per il Vangelo, in favore degli altri consociati: «I singoli sono tenuti a sacrificare se stessi anche fino a rimettervi la propria terrena esistenza, quando fosse necessario per il bene generale della comunità» (n. 25).

Sui rapporti tra Chiesa e Stato il Codice getta le basi dell'art. 7 della Costituzione, che regola i rapporti tra lo Stato e la Chiesa: «Chiesa e Stato hanno due fini diversi. La Chiesa rigenera gli uomini alla vita della Grazia nel tempo e li guida al pieno possesso di Dio nell'eternità; lo Stato mira a provvedere gli uomini di una sufficienza di beni terreni e coopera al progresso in ogni campo» (n. 27). «Lo Stato deve riconoscere la missione divina della Chiesa, acconsentirle piena libertà nel suo campo, regolare di comune accordo lealmente le materie miste [...], informare la sua molteplice attività ai princìpi della morale cristiana» (n. 28).

La famiglia e la scuola sono concepiti come due istituzioni educatrici della società. La parte della famiglia ha una impostazione ben precisa. Il matrimonio, su cui si basa, è soggetto al regime della Chiesa e doveva essere indissolubile anche per la legislazione civile, mentre allo Stato spetta il compito di aiutarla, custodirla, spingerla nell'adempimento dei suoi doveri, supplire alle sue deficienze, completare la sua opera nell'ordine civico (cfr n. 5).

La parte dedicata alla «vita economica» è quella che ispirò E. Vanoni e A. Fanfani nella Terza Sottocommissione della Costituente. Essa è strutturata su otto princìpi morali: «1) la dignità della persona umana, la quale esige una bene ordinata libertà del singolo anche in campo economico; 2) l'uguaglianza dei diritti di carattere personale, nonostante le profonde differenze individuali, provenienti dal diverso grado di intelligenza, di abilità, di forze fisiche ecc.; 3) la solidarietà, cioè il dovere della collaborazione anche nel campo economico per il raggiungimento del fine comune della società; 4) la destinazione primaria dei beni materiali a vantaggio di tutti gli uomini; 5) la possibilità di appropriazione nei diversi modi legittimi, fra i quali è preminente il lavoro; 6) il libero commercio dei beni nel rispetto della giustizia commutativa; 7) il rispetto delle esigenze della giustizia commutativa nella remunerazione del lavoro; 8) il rispetto della esigenza della giustizia distributiva e legale nell'intervento dello Stato» (n. 3).

Un ulteriore elemento di novità è quello di aver accolto la logica del gioco democratico e il ruolo regolatore e perequativo dello Stato nel garantire la giustizia sociale per tutti, specialmente per i più poveri. In questo senso si è parlato di «terza via», come una delle scelte qualificanti introdotte nell'ordinamento statale, proposta dal Codice di Camaldoli. Il testo contiene anche il rifiuto dell'antico «diritto di guerra» per promuovere la pace e la giustizia fra i popoli, e chiede una limitazione della sovranità nazionale a favore di organizzazioni sopra-nazionali. Il Codice si chiude con una parte sull'emigrazione, in cui prevede che lo Stato si adoperi per proteggere gli emigrati «durante il loro esodo», favorirne la crescita e tutelarne i risparmi e le rimesse. Allo stesso modo, è sorprendente leggere nel testo come «lo Stato deve accordare agli stranieri emigrati nel suo territorio, rispetto e tutela»; ha poi il compito di promuovere la legislazione internazionale del lavoro «secondo i princìpi di una giustizia sociale per favorire una effettiva solidarietà tra tutti i popoli» e favorire l'assistenza spirituale agli emigrati «a mezzo delle speciali istituzioni a questo fine promosse dalla carità cristiana e provvedendoli di scuole nazionali».

a) Dignità della persona umana

Il primo principio permanente della dottrina sociale della Chiesa è la dignità della persona umana. Come si afferma nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «Tutta la vita sociale è espressione della sua inconfondibile protagonista: la persona umana». Lungi dall'essere l'oggetto e un elemento passivo della vita sociale, l'uomo «ne è invece, e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine. Da lui pertanto ha origine la vita sociale, la quale non può rinunciare a riconoscerlo suo soggetto attivo e responsabile e a lui ogni modalità espressiva della società deve essere finalizzata» [11].

Utilizzando una felice espressione di Kant, potremmo dire che l'uomo è sempre il fine e mai il mezzo della politica: «L'uomo esiste come fine in sé, non soltanto come mezzo adoperabile a piacere per questa o quella volontà […].L'uomo non è una cosa, e quindi non è qualcosa che può esser adoperato solo come mezzo [...]. Dunque io non posso disporre dell'uomo nella mia persona, non posso mutilarlo, danneggiarlo, ucciderlo» [12]. Dalla visione dell'uomo si comprende la stessa natura della visione politica. Abbiamo fatto cenno a Machiavelli, il quale sosteneva al contrario una visione strumentale dell'uomo affermando che: «a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l'uomo», e che «governare è ingannare» [13].

Ogni questione politica riconduce quindi all'uomo. I diritti, i doveri, la giustizia, la pace, sono termini privi di senso in assenza di un radicamento nel valore assoluto della dignità umana. Il primo principio ispiratore della politica è la dignità dell'uomo, creato a, immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,27), che Tommaso d'Aquino definisce «quanto di più nobile nell'universo» [14] e Gaudium et spes dice che in terra «è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso» [15].

Credo che valga la pena, a questo proposito, fare un accenno al problema emergente della bioetica che tocca le questioni legate alla vita umana. Benedetto XVI, ricevendo i partecipanti all’assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita (13 febbraio 2010) ha ricordato che la vita è soggetto di diritto e non oggetto di arbitrio, e pertanto ha ricordato che «coniugare bioetica e legge morale naturale permette di verificare al meglio il necessario e ineliminabile richiamo alla dignità che la vita umana possiede intrinsecamente dal suo primo istante fino alla sua fine naturale […]. La storia ha mostrato quanto possa essere pericoloso e deleterio uno Stato che proceda a legiferare su questioni che toccano la persona e la società, pretendendo di essere esso stesso fonte e principio dell’etica. Senza principi universali che consentono di verificare un denominatore comune per l’intera umanità, il rischio di una deriva relativistica a livello legislativo non è affatto da sottovalutare. La legge morale naturale, forte del proprio carattere universale, permette di scongiurare tale pericolo e soprattutto offre al legislatore la garanzia per un autentico rispetto sia della persona, sia dell’intero ordine creaturale […]. La legge morale naturale "appartiene al grande patrimonio della sapienza umana, che la Rivelazione, con la sua luce, ha contribuito a purificare e a sviluppare ulteriormente»[16].

A questo punto mi pare conveniente citare anche una bella pagina di Don Luigi Giussani, permeata dalla sapienza umana e cristiana, che lui stesso intitola “Il valore della persona”: «Fattore fondamentale dello sguardo di Gesù Cristo è l’esistenza nell’uomo di una realtà superiore a qualsiasi realtà soggetta al tempo e allo spazio. Tutto il mondo non vale la più piccola persona umana; questa non ha nulla di paragonabile a sé nell’universo, dal primo istante della sua concezione fino all’ultimo passo della sua decrepita vecchiaia. Ogni uomo possiede un principio originale e irriducibile, fondamento di diritti inalienabili, sorgente di valori. Il valore non si può confondere (come siamo da una mentalità corrente sempre tentati di fare) con le reazioni che siamo indotti ad assumere. In questo modo il valore della persona tende ad essere ridotto ai termini prevalenti della mentalità propria all’ambito in cui vive. Al contrario, la persona gode di un valore e di un diritto in sé, che nessuno può attribuirle o toglierle. Il valore racchiude il motivo, lo scopo di un’azione, il “ciò per cui vale la pena agire”, o esistere. Quindi, essere sorgente di valori significa per la persona avere in sé lo scopo del proprio agire. Per tutto ciò Gesù dimostra nella sua esistenza una passione per il singolo, un impeto per la felicità dell’individuo che ci porta a considerare il valore della persona come qualcosa di incommensurabile, irriducibile. Il problema dell’esistenza del mondo è la felicità del singolo uomo»[17].

b) Solidarietà

Nella realtà contemporanea in particolare appare evidente la stretta, diremmo genetica, interdipendenza tra persone e popoli. L'essere umano è per sua natura sociale. Ciò riconduce al secondo principio permanente della dottrina sociale della Chiesa, e cioè la solidarietà, la quale, non è superfluo precisare, non pone in secondo piano la giustizia, ma anzi offre a questa un orizzonte senza del quale anche la giustizia si trasforma paradossalmente in uno strumento di male: summum ius, summa iniuria!

La solidarietà ha dunque una duplice natura: quella di virtù morale e di principio sociale. Essa deve essere colta anzitutto nel suo valore di principio sociale ordinatore delle istituzioni, in base al quale le «strutture di peccato» [18] che dominano i rapporti tra persone e popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante la creazione o l'opportuna modifica di ordinamenti, di norme, di regole di mercato. Sul piano morale la solidarietà non è poi una superficiale compassione per i mali altrui, ma al contrario la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: «ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» [19].

c) Sussidiarietà

Intesa in questi termini la solidarietà ci conduce al terzo principio permanente della dottrina sociale della Chiesa: la sussidiarietà. Questo principio è tra contributi più originali della dottrina sociale della Chiesa alle scienze sociali e politiche sin dalla prima grande Enciclica sociale Rerum novarum di Leone XIII [20]. Per effetto della sussidiarietà, le istanze sociali superiori devono porsi in un atteggiamento di subsidium, di sostegno, promozione e sviluppo rispetto a quelle di ordine minore. I corpi intermedi possono e quindi devono svolgere le funzioni che loro competono, senza cederle tout court ai corpi superiori, dai quali i primi finirebbero per essere assorbiti o privati di dignità e di spazio vitale. Risulta impossibile promuovere la dignità della persona senza sostenere la famiglia e tutte le realtà associative di tipo religioso, culturale, politico, professionale che costituiscono il tessuto sociale, la comunità di uno Stato, o lo Stato - comunità.

Appare allora chiaro come la sussidiarietà abbia una duplice funzione, proattiva - il sostegno reciproco di tute le istanze sociali - e preventiva. Contrasta infatti con il principio di sussidiarietà qualsiasi forma di burocratizzazione, di assistenzialismo, di supplenza ingiustificata dello Stato: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche» [21].

Ogni persona, famiglia e corpo intermedio ha qualcosa di originale da offrire per il bene comune della società. Ciò implica un radicale cambiamento della prospettiva diffusa nell'attuale società globalizzata, dove spesso il cambiamento, inteso in senso positivo, si attende dall'alto. La sfida per la nuova generazione di politici cristiani è quella del cambiamento dal basso, dal territorio, quindi dalle comunità locali chiamate a contribuire al bene comune della comunità nazionale ed in ultima istanza internazionale. La società umana non é una somma numerica di esseri umani gli uni posti accanto agli altri; ma é una molteplicità nell'unità [22].

d) Bene comune

La dignità umana, la solidarietà e la sussidiarietà ci conducono al quarto principio permanente della dottrina sociale della Chiesa, il bene comune, cioè «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» [23]. Come la società non consiste nella somma numerica dei suoi membri, il bene comune non consiste nella somma dei beni particolari di ciascun membro della società.

Come insegnava Jacques Maritain, il bene comune è «la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene: è dunque comune al tutto e alle parti, sulle quali si riversa e che devono trarre beneficio» [24]. In tale prospettiva il bene non è solamente un obiettivo, ma un modo di essere: «Come l'agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l'agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune» [25]. Con un forte richiamo ad Aristotele e Tommaso d'Aquino, potremmo affermare che il bene comune è il vivere retto e la comunione nella rettitudine: «una volta che si è rinunciato alla giustizia» - insegna Sant'Agostino - «che cosa sono gli Stati se non una grossa accozzaglia di malfattori?».

Il bene comune non è quindi delegato allo Stato. Il suo fondamento è nella dignità dell'uomo, capax veri, boni et Dei. Un'affermazione forte che ci fa comprendere come ciascuna persona è capace di bene comune anche in una società globalizzata e pluralista, dove sembrano assenti valori e principi condivisi e lo stesso concetto di un bene comune che trascenda i singoli beni particolari. Per la dottrina sociale della Chiesa tutte le persone concorrono, con la propria rettitudine, al bene comune. Tutte sono chiamate a ricercare ciò che unisce rispetto a ciò che divide.

Conclusione: la politica è cosa sporca?

Siamo giunti a tracciare qualche linea conclusiva. Riprendiamo quindi il nostro interrogativo iniziale, il dilemma per i giovani e la giovane generazione di politici cattolici ai quali ha rivolto l'appello Benedetto XVI: la politica é cosa sporca?

Don Luigi Sturzo - al quale abbiamo già fatto cenno -, in uno scritto del 1942 offre la seguente risposta: «La politica non è una cosa sporca. Pio XI [...] la definì "un atto di carità del prossimo". Infatti, lavorare al bene di un paese, o di una provincia, o di una città […] è fare del bene al prossimo riunito in uno Stato, o provincia, o città [...]. In ogni nostra attività noi incontriamo il prossimo: chi può vivere isolato? E i nostri rapporti con il prossimo sono di giustizia e di carità. La politica è carità, ma non nel senso che non costituisca un dovere; il dovere c'è ed è quello che oggi si chiama dovere civico o dovere sociale» [26].

Se, dunque, volessimo attualizzare l'insegnamento di don Sturzo, e cogliere il senso della missione di una nuova generazione di politici cattolici, dovremmo anzitutto pensare all'universalizzazione della carità politica. In tempi più recenti, Chiara Lubich, iniziatrice, fra l’altro, del Movimento Politico per l’Unità, ha definito questa carità “amore politico”: «Il compito dell’amore politico – ha detto - è quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti gli altri amori di fiorire: l’amore dei giovani che vogliono sposarsi e hanno bisogno di una casa e di un lavoro, l’amore di chi vuole studiare e ha bisogno di scuole e di libri, l’amore di chi si dedica alla propria azienda e ha bisogno di strade e ferrovie, di regole certe… La politica è perciò l’amore degli amori, che raccoglie nell’unità di un disegno comune la ricchezza delle persone e dei gruppi, consentendo a ciascuno di realizzare liberamente la propria vocazione. Ma fa pure in modo che collaborino tra loro, facendo incontrare i bisogni con le risorse, le domande con le risposte, infondendo in tutti fiducia gli uni negli altri»[27].

Una visione della politica intesa come esercizio di responsabile carità verso il prossimo e che si colloca nel cuore della dottrina sociale della Chiesa. Come insegna Benedetto XVI: «Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità [...]. Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro - relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» [28].

Attraverso la lente della carità, le micro - relazioni, come l'amicizia e la famiglia, e le macro-relazioni, come lo Stato e la comunità internazionale, risultano essere connesse ed interdipendenti. In questo senso, ogni relazione umana ha una valenza pubblica: «Tutti i vizi sociali che si oppongono all'amore, quali l'invidia, l'odio, l'ira, il disprezzo, la superbia, sono cagioni e sorgenti d'ingiustizia» [29]. Ciò richiama tutti ad orientare la propria vita e le proprie relazioni alla virtù. Poiché dalla virtù della persona dipende la virtù della società. Non esiste separazione tra etica individuale ed etica sociale, «le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento di una espone a rischio anche le altre» [30].

Per i cattolici il richiamo alla virtù diventa un imperativo che si lega alla propria missione nella storia, cioè quella di orientare la società a valori superiori. Afferma sempre don Sturzo: «La missione del cattolico in ogni attività umana, politica economica [...] è tutta impregnata di ideali superiori, perché in tutto ci si riflette il divino. Se questo senso del divino manca, tutto si deturpa: la politica diviene mezzo di arricchimento, l'economia arriva al furto e alla truffa» [31].

Quale modello di politica allora? Risulta sempre ineludibile il machiavellismo? La grandezza di Machiavelli è stata quella di mettere a nudo quello che gli uomini fanno, ma «tra ciò che gli uomini fanno e quello che dovrebbero fare [...] c'è una differenza notevole» [32]. Come afferma Maritain, la responsabilità di Machiavelli è quindi quella di «aver accettato, riconosciuto e accolto come regola il fatto dell'immoralità della politica e di aver dichiarato che la buona politica, quella conforme alla sua natura e ai suoi fini autentici, è per essenza una politica non morale» [33].

Quella proposta dal machiavellismo è quindi l'illusione del successo immediato [34]. Mentre il bene comune non si esprime nell'immediato, ma nella storia. La politica è chiamata a confrontarsi con la fragilità dell'uomo, anche ad apprendere dagli errori del passato e del presente, ma sempre coltivando la responsabilità dell'avvenire, da orientare alla virtù: «la giustizia opera, con la sua propria causalità, nel senso della prosperità e del successo per l'avvenire, come una buona linfa opera in vista del frutto perfetto; [...] il machiavellismo, con la sua propria causalità, opera per la rovina e la bancarotta, come il veleno nella linfa opera per la malattia e la morte dell'albero» [35].

Ecco allora la chiamata per una nuova generazione di politici cattolici: l'impegno di iniettare buona e nuova linfa nella società, orientandola alla virtù, con rettitudine e discernimento alla luce del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa.

Vi saluto quindi con un questi auspici, affidandovi al Signore e lasciandovi, come un faro per la vostra opera, le parole Don Luigi Giussani: «Non è compito di Gesù risolvere i vari problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta questa fatica, la cui funzione dell’esistenza sta proprio in quel tentativo […]. Il compito di coloro che hanno scoperto Gesù Cristo – il compito della comunità cristiana – è proprio quello di realizzare il più possibile la soluzione degli umani problemi in base al richiamo di Gesù […]. Riconoscere e seguire Cristo (fede) genera così un atteggiamento esistenziale caratteristico per cui l’uomo è un camminatore eretto e infaticabile verso una meta non ancora raggiunta, certo del futuro perché tutto poggiato sulla Sua presenza (speranza); nell’abbandono e nell’adesione a Gesù Cristo, fiorisce un’affezione nuova a tutto (carità), che genera un’esperienza di pace, l’esperienza fondamentale dell’uomo in cammino» [36].

Ed infine possiamo fare nostro, con realismo, il noto aforisma di Tommaso Moro, che rivolgendosi a Dio, pregava: «di avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, di avere soprattutto l'intelligenza di saperle distinguere».

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[1] PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano, 2004, 27.

[2] Id. supra nota 1, 1.

[3] BENEDETTO XVI, Omelia alla Celebrazione eucaristica sul Sagrato del Santuario di Nostra Signora di Bonaria, Cagliari. 7 settembre 2008.

[4] GIOVANNI PAOLO II, Messaggio ai giovani argentini, 8 settembre 1985.

[5] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 4.

[6] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, 41.

[7] PAOLO VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens, 4.

[8] GIOVANNI XXIII, Lettera enciclica Mater et Magistra, 246. Cfr. MARIO TOSO, Verso quale sociale? La dottrina sociale della Chiesa per una nuova progettualità, Roma, 2000. p. 84.

[9] Sull’argomento vedi FRANCESCO OCHETTA, Il pensiero cattolico e la democrazia in “La Civiltà Cattolica”, quaderno 3832 (20 febbraio 2010) pagg. 355-360.

[10] I principali redattori del Codice furono: Giuseppe Capograssi, Ludovico Montini, Gesualdo Nosengo, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni. Essi si avvalsero della competenza e della consulenza di due teologi: mons. Emilio Guano, vice assistente del Movimento Laureati di Azione Cattolica, e p. Ulpiano López, gesuita e docente presso l'Università Gregoriana di Roma. I lavori furono seguiti da mons. Bernareggi, vescovo di Bergamo e assistente generale del Movimento Laureati, fino a quando le comunicazioni furono possibili, e da mons. Montini già assistente della Fuci e sostituto presso la Segreteria di Stato Vaticana.

[11] Id supra nota 1, 106.

[12] IMMANUEL KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, 1765.

[13] NICCOLO' MACCHIAVELLI, Il Principe, 1513, capp. XVIII e XXV.

[14] «[…] persona signiticat id quod est perfectissimum in tota natura»; Summa theologiae, 1, q. 29, a 3.

[15] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 24.

[16] BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita, in “L’Osservatore Romano”, domenica 14 febbraio 2010, p. 7.

[17] LUIGI GIUSSANI, All’origine della pretesa cristiana, Milano 2001, p. 104-105.

[18] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, 36-37.

[19] Id. supra nota 18, 38.

[20] LEONE XIII, Lettera enciclica Rerum novarum, 11.

[21] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus, 48.

[22] PIETRO PAVAN, La democrazia e le sue ragioni, Roma, 2003, 127.

[23] Id. supra nota 5, 26.

[24] JACQUES MARITAIN, La persona umana e il bene comune, Brescia, 1995, p. 31.

[25] COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI CATTOLICI ITALIANI, Documento preparatorio, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano, Bologna, 2007, p. 33.

[26] LUIGI STURZO, È la politica "cosa sporca"?, 7 luglio 1942, in "II Popolo", 15 ottobre 1991.

[27] CHIARA LUBICH, Discorso al congresso “Mille città per l’Europa”, Lo spirito di fratellanza nella politica come chiave dell’unità dell’Europa e del mondo, Innsbruck, 9 novembre 2001.

[28] BENEDETTO XVl, Lettera enciclica Caritas in veritate, 2.

[29] LUIGI STURZO, La società. Sua natura e leggi, Bologna, 1960, p. 222.

[30] Id. supra nota 29, 51.

[31] LUIGI STURZO, Politica e Morale, Bologna, 1972, p. 208.

[32] JACQUES MARITAIN, Ricordi e appunti, Brescia, 1973, p. 409.

[33] JACQUES MARITAIN, On the teaching, in The pamphlet, Toronto, 1993, pp. 9-12; tr. It. P. VIOTTO, Sull'insegnamento, in “Humanitas”, 1975, n. 2, pp. 91-93.

[34] JAQUES MARITAIN, Distinguere per unire. I grandi del sapere, tr. It. E. MACCAGNOLO, Brescia, 1974-1981. pp. 363-364.

[35] JACQUES MARITAIN, Umanesimo integrale, Roma, 1980, pp. 163.

[36] Id supra nota 17, p. 125.



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L'umanesimo "simbolico" e integrale di Tommaso D'Aquino

AQUINO, sabato, 6 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della conferenza tenuta questo venerdì da mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, nel ricevere nella Chiesa di Santa Maria della Libera di Aquino il premio internazionale “Tommaso d’Aquino”.




* * *

Nel prologo della Prima Secundae del suo capolavoro teologico, san Tommaso d’Aquino propone questa dichiarazione programmatica: «Ci interesseremo dell’uomo in quanto egli è il principio del suo operare, essendo dotato di libero arbitrio e quindi della sovranità delle proprie azioni». Al centro della sua investigazione, espressa in quella sorta di oceano testuale che sono gli scritti del Dottore Angelico, brilla senz’altro la figura di Dio perché quella di Tommaso è pur sempre una teologia e non una pura e semplice speculazione filosofica sistematica; ma la luce che emana da quel centro irradia la prima delle sue creature per eccellenza e dignità, cioè l’uomo.

L’umanesimo di Tommaso è, perciò, squisitamente teologico e cristiano, eppure si articola tenendo conto anche del contributo della natura umana, della razionalità, una delle ali per il volo nell’orizzonte dell’essere. Un intreccio, quindi, sapiente tra fede e ragione. Egli è, certo, cosciente della fragilità della nostra conoscenza perché noi «imperfettamente conosciamo e imperfettamente amiamo» (Summa Theologiae I-II, 68,2). Nel proemio all’Expositio in Symbolum – con una metafora divenuta celebre – egli riconosce che «la nostra conoscenza è talmente debole che nessun filosofo ha mai potuto investigare in modo esaustivo la natura di una singola mosca». È la consapevolezza della nostra creaturalità che impedisce l’hybris di un umanesimo immanentista e autosufficiente: «Come gli occhi della nottola sono abbagliati dalla luce del sole che non riescono a vedere, ma vedono bene le cose poco illuminate, così si comporta l’intelletto umano di fronte ai primi principi che sono tra tutte le cose, per natura, le più manifeste» (In Metaphysicam II, 1,10).

Questo senso del limite esorcizza, dunque, nel pensiero di Tommaso la deriva in un umanesimo razionalistico e autoreferenziale (sia pure “teologico” alla maniera hegeliana), ma esclude anche la caduta nel gorgo oscuro di un umanesimo esistenzialistico pessimistico alla Sartre o in un umanesimo soggettivistico, rinchiuso nel baluardo di un “io” solipsistico, incapace di uscire nel dialogo varcando la porta della sua torre d’avorio. C’è, invece, in Tommaso d’Aquino un ottimismo di fondo davanti all’essere, alla creazione e alle capacità conoscitive dell’uomo, per usare un’idea di un suo grande ammiratore, lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton nel suo saggio St. Thomas Aquinas (1933). Infatti, alla creatura umana è riconosciuta la possibilità di raggiungere la verità sia pure non nella sua pienezza esaustiva. Con la ragione essa può approdare almeno alla spiaggia di mondi tematici immensi come l’esistenza di Dio, la creazione dell’universo, la spiritualità dell’anima. Inoltre, c’è nell’uomo una potenza etica positiva, anche se non assoluta; la creazione è dotata di ordine e bellezza così da poter condividere l’asserto del libro biblico della Sapienza secondo il quale «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (13,5), asserto ripreso da san Paolo, convinto che le divine «perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Romani 1,20).

Per questo, lo stesso Chesterton suggeriva di assegnare al Dottore Angelico il titolo di san Tommaso del Creatore, così come si avrà san Giovanni della Croce e così come ci sarà santa Elisabetta della Trinità e ci sono le “Suore dello Spirito Santo”. In questa luce è da marcare anche la famosa tesi tomista dell’intima e sostanziale unione tra anima e corpo, esaltata sulla scia di Aristotele, ma con un’impronta profondamente cristiana e biblica, consapevoli come siamo dell’unità psicofisica celebrata nelle Sacre Scritture contro ogni antitesi di matrice dualistica. Il corpo cessa, allora, di essere prigione o tomba dell’anima, ma è la materia necessaria di cui l’anima è forma in un nesso inscindibile, è la potenza di cui l’anima è atto, è la carne che è vivificata dallo spirito. Le alte espressioni della persona come l’amore, l’arte, la stessa preghiera si svolgono attraverso la corporeità che è, così, epifania dell’intera grandezza della creatura umana.

Si ha in tal modo un umanesimo veramente personalistico che, prescindendo dalle appartenenze alle diverse etnie, culture o società, assegna alla persona in quanto tale una radicale dignità e nobiltà: «la persona è quanto di più perfetto esista in tutta la natura» (Summa Theologiae I, 28,3). A differenza di Averroè e di altri commentatori di Aristotele che concepivano l’intelletto come una sostanza separata, destinata a trasmettere le idee alle singole anime, Tommaso afferma che l’intelletto, essendo strutturale alla natura umana, è una facoltà personale che ogni uomo e donna posseggono ed esercitano in proprio. In sintesi possiamo dire che nel pensiero dell’Aquinate si ha una piena conferma dell’interrogativo biblico colmo di ammirazione per la grandezza di questa che rimane pur sempre una creatura limitata ma dotata di gloria: «Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato!» (Salmo 8, 5-6).

Certo, ripetiamo che questo umanesimo è monco e incompleto se non riconosce l’ordine della grazia. Nel De veritate il Dottore Angelico afferma: «Tu non possiedi la Verità, ma è la Verità che possiede te». La Verità ci precede e ci eccede, ci è svelata e rivelata e in essa noi ci inoltriamo, di luce in luce, attraverso la nostra ragione. Come scriveva Adorno nei Minima moralia, «la verità è come la felicità: non la si ha, ci si è», o come aveva già dichiarato Robert Musil nell’Uomo senza qualità, «la verità non è una gemma da mettere in tasca, è un mare infinito in cui ci si immerge». La trascendenza è necessaria non solo per la verità, ma anche e soprattutto per la redenzione e la salvezza ed è, quindi, fondamentale per una corretta concezione umana. La grazia non cancella la libertà, ma la porta a pienezza, la soprannatura non elide la natura ma la trasfigura, la Verità divina non si oppone alla verità umana ma la unisce a sé, conducendola a pienezza, l’immagine divina nell’uomo e nella donna (Genesi 1,27) non elimina l’identità creaturale coi suoi limiti e il suo peccato, ma ne rivela la grandezza.

Quello di Tommaso è, perciò, un vero umanesimo “simbolico” e integrale che permette di concludere che «il modo di esistere che comporta la persona umana è il più degno di tutti» (De potentia 9,4). Vorremmo porre qui, a suggello di questa minima antropologia tomistica da noi ritagliata all’interno di un immenso orizzonte ideale, la voce stessa dell’Aquinate al quale, tra l’altro, mi unisce un particolare legame personale, avendo per anni custodito, come Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, un importante anche se parziale autografo della Summa contra Gentiles (II, 42-44, segnatura S.P. 38), proveniente dal Convento dei Domenicani di Bergamo e donato al cardinale Federico Borromeo dal Provinciale di Lombardia dei Frati Predicatori, p. Paolo da Garessio. Lo facciamo attraverso alcuni brevi frammenti testuali che possono diventare un appello rivolto alla nostra ricerca: «Tra gli impegni a cui si possa dedicare un uomo nessuno è più perfetto, più sublime, più fruttuoso e più dolce della ricerca della Sapienza… Il sapiente onora l’intelletto perché, tra le realtà umane, è quella a cui Dio riserva l’amore più intenso». Dobbiamo, tuttavia, invocare Dio perché «penetri le tenebre del nostro intelletto con un raggio della sua luce, allontanando da noi le doppie tenebre in mezzo alle quali siamo nati, quelle del peccato e dell’ignoranza». E di ogni nostro pensare e agire Dio «ispiri l’inizio, guidi il progresso e coroni la fine».

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