domenica 14 marzo 2010

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ZENIT

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Servizio quotidiano - 14 marzo 2010

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Il Papa: il perdono di Dio ci rende davvero suoi figli
Commenta nell'Angelus il brano evangelico del "figliol prodigo"
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il perdono è la chiave per giungere a un rapporto con Dio che sia "veramente filiale e libero", ha spiegato Benedetto XVI questa domenica, recitando a mezzogiorno la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini giunti per l'occasione in Piazza San Pietro in Vaticano.

Nella domenica in cui veniva proclamato il Vangelo cosiddetto "del figliol prodigo" (Lc 15,11-32), il Papa ha sottolineato l'importanza dell'affidarsi alla misericordia di Dio per vivere davvero come Suoi figli.

Il Vangelo odierno, ha ricordato nel suo intervento, è "un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi".

"Che cosa sarebbero la nostra cultura, l'arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio Padre pieno di misericordia?", ha infatti chiesto.

Il brano, ha aggiunto, ha soprattutto "il potere di parlarci di Dio, di farci conoscere il suo volto, meglio ancora, il suo cuore". "Egli è il nostro Padre, che per amore ci ha creati liberi e dotati di coscienza, che soffre se ci perdiamo e che fa festa se ritorniamo".

Maturità nel rapporto con Dio

Nella parabola del figliol prodigo, ha constatato il Papa, i due figli si comportano "in maniera opposta": "il minore se ne va e cade sempre più in basso, mentre il maggiore rimane a casa, ma anch'egli ha una relazione immatura con il Padre; infatti, quando il fratello ritorna, il maggiore non è felice come lo è, invece, il Padre, anzi, si arrabbia e non vuole rientrare in casa".

I due figli, ha segnalato, "rappresentano due modi immaturi di rapportarsi con Dio: la ribellione e una obbedienza infantile".

"Entrambe queste forme si superano attraverso l'esperienza della misericordia", ha indicato il Pontefice, perché "solo sperimentando il perdono, riconoscendosi amati di un amore gratuito, più grande della nostra miseria, ma anche della nostra giustizia, entriamo finalmente in un rapporto veramente filiale e libero con Dio".

"Rispecchiamoci nei due figli, e soprattutto contempliamo il cuore del Padre - ha esortato -. Gettiamoci tra le sue braccia e lasciamoci rigenerare dal suo amore misericordioso".

Tappe del cammino

La relazione con Dio, ha proseguito Benedetto XVI, "si costruisce attraverso una storia, analogamente a quanto accade ad ogni figlio con i propri genitori: all'inizio dipende da loro; poi rivendica la propria autonomia; e infine - se vi è un positivo sviluppo - arriva ad un rapporto maturo, basato sulla riconoscenza e sull'amore autentico".

In queste tappe, si possono leggere anche momenti del cammino dell'uomo nel rapporto con Dio.

"Vi può essere una fase che è come l'infanzia: una religione mossa dal bisogno, dalla dipendenza"; "via via che l'uomo cresce e si emancipa, vuole affrancarsi da questa sottomissione e diventare libero, adulto, capace di regolarsi da solo e di fare le proprie scelte in modo autonomo, pensando anche di poter fare a meno di Dio".

Questa fase, ha commentato, "è delicata" e "può portare all'ateismo, ma anche questo, non di rado, nasconde l'esigenza di scoprire il vero volto di Dio".

"Dio - ha concluso - non viene mai meno alla sua fedeltà e, anche se noi ci allontaniamo e ci perdiamo, continua a seguirci col suo amore, perdonando i nostri errori e parlando interiormente alla nostra coscienza per richiamarci a sé".

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Benedetto XVI nella chiesa luterana di Roma per promuovere l'unità
Sottolinea gli elementi comuni e chiede di avanzare con impegno
di Jesús Colina

ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha visitato questa domenica pomeriggio la chiesa evangelica luterana di Roma allo scopo, come egli stesso ha affermato, di continuare a promuovere l'unità di modo che i cattolici e i figli della Riforma diano una testimonianza comune di Cristo.

"Ascoltiamo tanti lamenti sul fatto che non ci sono più nuovi sviluppi nell'ecumenismo, ma dobbiamo dire, e possiamo dirlo con tanta gratitudine, che già ci sono tanti elementi di unità", ha dichiarato in un discorso pronunciato in tedesco lasciando i fogli da parte.

Il Pontefice ha invitato a ringraziare per il fatto "che siamo qui presenti insieme, per esempio, in questa domenica, che cantiamo insieme, che ascoltiamo la parola di Dio, che ci ascoltiamo gli uni gli altri guardando tutti insieme all'unico Cristo, rendendo così testimonianza dell'unico Cristo".

Benedetto XVI è stato accolto con un prolungato applauso nella "Christuskirche" di Via Sicilia. Il coro, composto da luterani e seminaristi cattolici tedeschi, intonava lo Jubilate Deo di Mozart.

Il presidente della comunità luterana di Roma, che ha 350 membri, la signora Doris Esch, ha ricordato nel saluto di benvenuto in italiano e tedesco che nel 1983 Giovanni Paolo II aveva visitato la chiesa, in occasione del quinto centenario della nascita di Lutero.

Il Cardinale Joseph Ratzinger già conosceva il tempio, perché nel 1998, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, aveva incontrato la Comunità evangelica luterana romana per la sua festa annuale.

La signora Esch ha anche sottolineato che questo incontro ecumenico ricordava i dieci anni dalla firma della dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, e ha concluso il suo intervento dicendo: "Possa, Santità, qui sentirsi a casa".

Dal canto suo, il giovane pastore della comunità, Jens-Martin Kruse, ha iniziato il suo discorso riconoscendo: "Per noi è veramente un giorno della gioia". La sua omelia si è trasformata in un profondo commento del significato della "gioia" cristiana in questa domenica "Laetare", in pieno cammino quaresimale.

Citando San Paolo, il pastore ha invitato ad avanzare sulla via di Cristo: "non a procedere gli uni accanto agli altri, ma insieme", "ad essere gli uni per gli altri", "e nella tribolazione a consolarci mutuamente con la consolazione che noi stessi siamo consolati da Dio".

Nel suo discorso, il Papa ha riconosciuto che "certamente non dobbiamo restare contenti dei successi dell'ecumenismo negli ultimi anni, perché non possiamo bere dallo stesso calice e non possiamo essere insieme intorno all'altare".

"Questo ci deve rendere tristi perché è una situazione peccaminosa, ma l'unità non può essere fatta dagli uomini. Dobbiamo affidarci al Signore, perché è l'unico che può darci l'unità. Speriamo che Lui ci porti a questa unità", ha aggiunto.

Richiamando le parole del pastore Kruse, il Santo Padre ha riconosciuto che il primo punto di incontro tra luterani e cattolici "deve essere la gioia e la speranza che già viviamo, e la speranza che questa unità possa essere più profonda".

Dopo il servizio domenicale, il Pontefice ha partecipato a un incontro fraterno con la comunità e il suo pastore.

La costruzione della chiesa è terminata nel 1922. Il tempio è opera di Franz Schwechten, architetto di corte dell'imperatore tedesco Guglielmo IV.

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Falliscono i tentativi di coinvolgere il Papa negli scandali sugli abusi sessuali
Constata il direttore della Sala Stampa della Santa Sede
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- I tentativi di vari mezzi di comunicazione, soprattutto in Germania, di coinvolgere Benedetto XVI nei casi di sacerdoti pederasti sono falliti, constata il portavoce vaticano.

Padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha analizzato ai microfoni della "Radio Vaticana" le ultime notizie diffuse sui casi di abusi sessuali attribuiti a sacerdoti.

"E' piuttosto evidente che negli ultimi giorni vi è chi ha cercato - con un certo accanimento, a Regensburg e a Monaco - elementi per coinvolgere personalmente il Santo Padre nelle questioni degli abusi. Per ogni osservatore obiettivo, è chiaro che questi sforzi sono falliti", constata il sacerdote.

In particolare, ricorda, si è cercato di gettare sul Cardinale Joseph Ratzinger la colpa di aver reintrodotto nel ministero quando era Arcivescovo di Monaco, nel 1980, un sacerdote che in seguito si è macchiato di abusi sessuali.

Padre Lombardi cita l'"ampio e dettagliato" dell'Arcidiocesi di Monaco in cui si spiega come il Papa non abbia alcuna responsabilità in questo caso. Il Cardinale Ratzinger si limitò ad accogliere nella sua Diocesi quel sacerdote perché potesse essere sottoposto a un trattamento terapeutico, ma non accettò la sua reintegrazione pastorale.

Il portavoce spiega che il Cardinale Ratzinger, quando era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha stabilito e applicato le rigide e rigorose norme adottate dalla Chiesa cattolica in riposta ai casi di abuso scoperti negli ultimi anni.

"La sua linea è stata sempre quella del rigore e della coerenza nell'affrontare le situazioni anche più difficili", spiega padre Lombardi.

Per illustrare le sue parole, il sacerdote gesuita cita un'intervista concessa dal promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, monsignor Charles Scicluna, in cui, come mai prima, spiega in modo dettagliato il significato delle norme canoniche specifiche stabilite dalla Chiesa negli anni passati per giudicare i gravissimi delitti di abuso sessuale contro minori da parte di ecclesiastici.

"Diventa assolutamente chiaro che tali norme non hanno inteso e non hanno favorito alcuna copertura di tali delitti, ma anzi hanno messo in atto un'intensa attività per affrontare, giudicare e punire adeguatamente questi delitti nel quadro dell'ordinamento ecclesiastico", osserva padre Lombardi.

Per questo motivo, conclude affermando che, "nonostante la tempesta, la Chiesa vede bene il cammino da seguire, sotto la guida sicura e rigorosa del Santo Padre".

"Come abbiamo già avuto modo di osservare, speriamo che questo travaglio possa essere alla fine di aiuto alla società nel suo insieme per farsi carico sempre meglio della protezione e della formazione dell'infanzia e della gioventù".

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Il confessore deve evitare il "complesso di colpa" nel penitente
Intervento di mons. Gianfranco Girotti al corso in Vaticano sulla Confessione

di Mirko Testa

ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il confessore deve evitare il pericolo di creare l’“angoscia del peccato” o il “complesso di colpa” nel penitente e rendere visibile l’amore misericordioso di Dio. E' quanto ha detto mons. Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzieria Apostolica, intervenendo l'8 marzo al “Corso sul Foro interno” tenutosi presso il Papalazzo della Cancelleria a Roma.

Nel prendere la parola durante le recenti giornate di Studio sul Sacramento della Penitenza, promosse ormai da 21 anni dalla Penitenzieria Apostolica, mons. Girotti ha posto da subito l'accento sulla necessità che i sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”.

Inoltre, ha aggiunto, “è assolutamente necessario che, per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, ogni confessore, con uno studio assiduo, sotto la guida del magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, deve procurarsi la scienza e la prudenza necessaria a questo scopo”.

“Nei seminari, è vero, l’approccio alla confessione è solo quello della teologia o della morale”, ha ammesso. Tuttavia, per fare ben il confessore “occorrono anche conoscenze precise su quanto stabilisce la Chiesa riguardo a determinate situazioni che possono presentarsi in confessionale”.

Da qui la necessità per i sacerdoti “di prepararsi sotto il profilo culturale, psicologico e soprattutto ascetico, pensando che sono chiamati ad interessarsi di cose che non esaltano ma rivelano tutta la debolezza e talvolta la bassezza della condizione umana”.

Senza dimenticare, inoltre, che “la realtà umana è storica e dinamica, cosicché mentre il giudizio astratto può restare immutato, la valutazione degli atti concreti esige una sensibilità teologica e morale molto alta, per non accrescere l’evidente scollamento tra i fedeli e il Sacramento della Penitenza”.

In confessionale, ha continuato, si possono presentare anche i casi più impensati, che possono cogliere impreparato il sacerdote, come quando si affrontano i temi relativi alla bioetica.

Per questo ha invitato a non dimenticare “che il presbitero ha sempre una parola autorevole da dire nelle delicate questioni odierne riguardanti aspetti della pratica medica”.

“Può chiedere allora un po’ di tempo, di pronunziarsi sull’accusa, e consultare la Penitenzieria Apostolica, che entra in causa nelle situazioni in cui il sacerdote non ha la facoltà di assolvere, e nei casi in cui si può trovare impreparato o a disagio”, ha suggerito.

Tra i consigli offerti ai sacerdoti il Reggente della Penitenzieria Apostolica ha evidenziato il fatto che il penitente “ha bisogno di essere incoraggiato a riporre tutta la sua fiducia nell’infinita misericordia di Dio”, per cui ogni confessione dei peccati “deve prorompere in un canto gioioso di lode e di ringraziamento al Padre che 'per primo ci ha amati'”.

Inoltre, ha ricordato, “nell’imporre la penitenza bisogna badare alla sua concreta fattibilità da parte del penitente, privilegiando quelle forme che aiutano a crescere spiritualmente, come l’assistere a una S. Messa, il fare la comunione, o anche aiutare il prossimo in difficoltà o contribuire a sostenere le opere parrocchiali, coniugando vita interiore e impegno sociale, come via maestra del cristiano impegnato”.

“Ad un penitente che torna a confessarsi dopo lunghi anni che è stato lontano dalla Chiesa è imprudente dare penitenze complesse e defaticanti, mentre ad una buona monaca di clausura ordinariamente si può assegnare una diuturna preghiera”, ha aggiunto.

Nel penitente occorre però anche “curare la consapevolezza del peccato e delle sue conseguenze e far nascere la ferma decisione di aprire un nuovo capitolo nei rapporti con Dio e con il prossimo nel cuore della Chiesa”.

“E’ bene poi ricordare che il fedele che ha raggiunto l’età della discrezione è tenuto a confessare i peccati gravi almeno una volta l’anno”, e che il penitente “ha la possibilità di confessare i peccati al confessore che preferisce, legittimamente approvato, anche di altro rito”.

In più, il penitente “ha la possibilità di servirsi di un interprete”, “evitati ovviamente gli abusi e gli scandali e fermo restando l’obbligo del segreto”.

Mons. Girotti ha quindi passato in rassegna gli obblighi legati al sigillo sacramentale e al segreto dei penitenti, un tema che la Chiesa ha avuto sempre a cuore e per la cui violazione stabilisce pene severissime che risalgono al IV Concilio Lateranense del 1125, che promulgò la prima legge universale in materia.

A questo proposito, ha sottolineato che il Codice di Diritto Canonico (Can. 1550, §2, 2°) esclude, infatti, “come incapaci dal rendere testimonianza in giudizio i sacerdoti, relativamente a tutto ciò che hanno appreso nella confessione sacramentale, anche nel caso in cui sia stato il penitente a chiedere la deposizione”.

Diversamente, ha osservato, il confessore “peccherebbe d’ingiustizia verso il penitente e di sacrilegio nei confronti del sacramento stesso”, tradendo “la fiducia che il fedele ripone in lui, in quanto ministro di Dio” e rendendo “odioso il Sacramento della Penitenza agli occhi dei fedeli”.

Mons. Girotti ha poi ricordato che il Nuovo Codice di Procedura Penale entrato in vigore in Italia nel 1989 “riconosce il sigillo sacramentale, come parte del segreto professionale accordandovi una particolare tutela” e vincola al sigillo sacramentale esclusivamente il confessore, mentre “tutte le altre persone che per qualsiasi ragione venissero a conoscenza del contenuto di una confessione, come per es. l’interprete o altri che eventualmente ascoltassero, sono vincolati, invece dal segreto”.

“Tale distinzione di responsabilità determina, infatti, in caso di violazione, una diversità di pena”, ha spiegato.

Inoltre, ha proseguito mons. Girotti, “il sacerdote è tenuto al sigillo sacramentale verso chiunque, compreso il penitente. Se, infatti, il confessore desidera parlare con il penitente dei peccati confessati occorrerà il suo permesso, a meno che ciò non avvenga immediatamente dopo la confessione - in tale ipotesi questo sarebbe da considerarsi come la continuazione morale della confessione - oppure il penitente stesso, in successivi incontri, ritorni su qualche considerazione relativa alla precedente confessione”.

Inoltre, ha precisato, “neppure la morte del penitente potrà sciogliere il confessore da questo vincolo.

Infine, mons. Girotti ha ricordato che la Chiesa, a partire da un decreto emanato nel 1988 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, punisce con particolare severità anche “chi viola il segreto relativo alla confessione, registrando per mezzo di strumenti tecnici oppure divulgando per mezzo di strumenti di comunicazione sociale, ciò che viene detto dal confessore e dal penitente”.

“In questo caso – ha concluso –, l’interessato incorre nella pena specifica della scomunica latae sententiae”.

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Benedetto XVI riceve il Primo Ministro della Croazia
Tra gli argomenti trattati, l'integrazione del Paese nell'UE
CITTA' DEL VATICANO, marzo 2010 (ZENIT.org).- Le tematiche relative al cammino della Croazia verso la piena integrazione nell'Unione Europea sono state uno degli argomenti trattati questo sabato durante l'udienza che Papa Benedetto XVI ha concesso al Primo Ministro del Paese, la signora Jadranka Kosor.

Il premier croato ha poi incontrato il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, che era accompagnato da monsignor Dominique Mamberti, Segretario per i Rapporti con gli Stati.

Il Papa e il Primo Ministro, spiega una nota diffusa dalla Sala Stampa della Santa Sede questo sabato, hanno avuto "un fruttuoso scambio di opinioni su alcuni temi di attualità internazionale e sulla situazione della Regione".

In particolare, si sono soffermati "sulla condizione della comunità croata in Bosnia ed Erzegovina, uno dei tre popoli costitutivi del medesimo Paese".

E' stata inoltre "riconfermata la comune volontà di proseguire il dialogo costruttivo sui temi di interesse comune per la Chiesa e per lo Stato croato".

La Croazia ha quasi cinque milioni di abitanti, per l'88% cattolici.

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Notizie dal mondo


Le reliquie di Sant'Antonio in Sri Lanka per favorire la pace
ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Domenica 7 marzo, le reliquie di Sant'Antonio hanno lasciato per la prima volta in 750 anni Padova per compiere un pellegrinaggio nello Sri Lanka.

L'iniziativa ha voluto celebrare il 175° anniversario della Basilica di Kochchikade, dedicata al santo francescano, ed è stata realizzata a seguito della richiesta personale avanzata da monsignor Malcom Ranjith, Arcivescovo della capitale Colombo, ai custodi delle reliquie.

Migliaia di persone, cattoliche e non, hanno accolto le reliquie pregando per "la pace e l'unità del Paese", riferisce l'agenzia AsiaNews.

Alla Messa di benvenuto, presieduta da monsignor Ranjith insieme a monsignor Joseph Spiteri, Nunzio Apostolico in Sri Lanka, erano presenti sacerdoti diocesani, laici, religiose e i due delegati giunti da Padova con le spoglie del santo.

Durante il rito, l'Arcivescovo di Colombo ha invitato i fedeli a "seguire l'esempio di Sant'Antonio" e imparare da lui a "ricostruire le nostre vite".

Alla cerimonia hanno partecipato circa 5.000 persone, tra cui la moglie del Presidente, Shiranthi Rajapaksa, politici cattolici, monaci buddisti e fedeli di altre religioni.

Le reliquie di Sant'Antonio hanno poi lasciato la Basilica di Kochchikade per raggiungere la Diocesi di Galle, nel sud del Paese.

Nei prossimi giorni, le spoglie del santo peregrineranno in tutto lo Sri Lanka come "segno di pace e di speranza".

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Cina: arrestato un sacerdote clandestino
Per aver organizzato un campo per studenti
ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Dal 3 marzo, padre John Baptist Luo Wen, di 39 anni, si trova in stato di "detenzione amministrativa" in un centro gestito dalla polizia di Fu'an, città della provincia costiera di Fujian (Cina). E' accusato di aver organizzato senza autorizzazione un campo per studenti.

L'arresto è stato annunciato giovedì da "Eglises d'Asie", l'agenzia delle Missioni Estere di Parigi.

Il sacerdote è stato accusato, insieme ad altri sei presbiteri che sono stati rilasciati, di aver organizzato il campo durante le vacanze per il Capodanno cinese.

Nella dinamica Diocesi di Mindong, che ha 70.000 fedeli, appartenenti soprattutto alla sezione "clandestina" della Chiesa cattolica, organizzare campi per i giovani durante le vacanze scolastiche è un mezzo per insegnare il catechismo.

I campi vengono organizzati anche per gli studenti universitari, per rimanere in contatto con loro e formarli alla vita cristiana.

Il campo organizzato da padre Luo Wen e dagli altri sacerdoti doveva durare quattro giorni, tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, e riunire circa 300 studenti cattolici. Il 3 febbraio, verso la fine dell'iniziativa, la polizia ha fatto irruzione nella chiesa di Saiqi, dove erano riuniti i giovani, e ha ordinato la chiusura.

"Abbiamo deciso di obbedire e abbiamo informato gli studenti della situazione", ha spiegato padre Luo all'agenzia Ucanews prima del suo arresto. "Abbiamo detto a quanti avevano paura di tornare a casa che saremmo rimasti con coloro che decidevano di restare fino alla fine del campo".

Circa 20 studenti sono tornati a casa, mentre gli altri sono rimasti, spesso esortati dai genitori, a cui avevano telefonato per chiedere consiglio.

La polizia alla fine non ha fatto evacuare le strutture. Il 4 febbraio i sacerdoti sono stati convocati al commissariato, da dove sono usciti in libertà.

L'arresto di padre Luo è avvenuto un mese dopo i fatti, un ritardo che i cattolici del luogo spiegano con il fatto che i poliziotti hanno avuto paura di fare una brutta figura il 3 febbraio e si sono presi del tempo per preparare la vendetta.

Ora padre Luo può essere trattenuto per un massimo di 15 giorni, come prevede la legge nel caso in cui non si obbedisca a un'ingiunzione volta a mantenere l'ordine pubblico.

Il sacerdote ha dichiarato a Ucanews che era disposto ad affrontare l'arresto "come testimone di Dio ed erede dei santi martiri".

Attivo nell'evangelizzazione con i giovani, soprattutto via Internet, padre Luo appartiene alla generazione che non ha conosciuto la Cina maoista ed è cresciuto nella Cina delle riforme, che hanno trasformato la società in modo molto rapido.

Per quanto riguarda i sei sacerdoti che erano con padre Luo nel campo, tre di loro - Guo Xijin, Miu Yong e Liu Maochun - hanno ricevuto un ordine di arresto che per ora è rimasto lettera morta, gli altri hanno ricevuto una multa di 500 yuan ciascuno (circa 50 euro), che rifiutano di pagare. "Preferiscono correre il rischio dell'arresto che pagare questa multa", affermano fonti cattoliche locali.

La Diocesi di Mindong ha circa 60 sacerdoti clandestini e una decina di sacerdoti ufficiali. Dalla morte di monsignor James Xie Shiguang, avvenuta il 25 agosto 2005, è diretta da monsignor Vincent Huang Shoucheng, Vescovo clandestino di 86 anni.




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Interviste


Il "pm" della Santa Sede: "Chiesa rigorosa sulla pedofilia"
Intervista a monsignor Charles J. Scicluna

di Gianni Cardinale

CITTÀ DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'intervista a monsignor Charles J. Scicluna, "promotore di giustizia" della Congregazione per la Dottrina della fede, apparsa questo sabato sul quotidiano dei Vescovi italiani, "Avvenire".

Si tratta, in pratica, del pubblico ministero del tribunale dell'ex sant'Uffizio, che ha il compito di indagare sui cosiddetti delicta graviora, i delitti che la Chiesa cattolica considera i più gravi in assoluto: quelli contro l'Eucaristia, contro la santità del sacramento della penitenza e il delitto contro il sesto comandamento ("non commettere atti impuri") di un chierico con un minore di diciotto anni.

Un motu proprio del 2001, il Sacramentorum sanctitatis tutela, ha riservato questi delitti, come competenza, alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Di fatto è il "promotore di giustizia" ad avere a che fare, tra l'altro, con la gravissima questione dei sacerdoti accusati di pedofilia periodicamente alla ribalta sui mass media. Monsignor Scicluna, originario di Malta, ha la fama di adempiere al compito che gli è stato affidato con il massimo scrupolo.

Monsignore, lei ha la fama di essere un "duro", eppure la Chiesa cattolica viene sistematicamente accusata di essere accomodante nei confronti dei cosiddetti "preti pedofili".

Monsignor Scicluna: Può essere che in passato, forse anche per un malinteso senso di difesa del buon nome dell'istituzione, alcuni vescovi, nella prassi, siano stati troppo indulgenti verso questi tristissimi fenomeni. Nella prassi dico, perché sul piano dei principi la condanna per questa tipologia di delitti è stata sempre ferma e inequivocabile. Per rimanere al secolo scorso basta ricordare l'ormai celebre istruzione Crimen Sollicitationis del 1922...

Ma non era del 1962?

Monsignor Scicluna: No, la prima edizione risale al pontificato di Pio XI. Poi con il beato Giovanni XXIII il Sant'Uffizio ne curò una nuova edizione per i Padri conciliari, ma ne vennero fatte solo duemila copie e non bastarono per la distribuzione che fu rinviata sine die. Si trattava comunque di norme procedurali da seguire nei casi di sollecitazione in confessione e di altri delitti più gravi a sfondo sessuale come l'abuso sessuale di minori ...

Norme che raccomandavano però il segreto...

Monsignor Scicluna: Una cattiva traduzione in inglese di questo testo ha fatto pensare che la Santa Sede imponesse il segreto per occultare i fatti. Ma non era così. Il segreto istruttorio serviva per proteggere la buona fama di tutte le persone coinvolte, prima di tutto le stesse vittime, e poi i chierici accusati, che hanno diritto - come chiunque - alla presunzione di innocenza fino a prova contraria. Alla Chiesa non piace la giustizia spettacolo. La normativa sugli abusi sessuali non è stata mai intesa come divieto di denuncia alle autorità civili.

Quel documento però viene periodicamente rievocato per accusare l'attuale Pontefice di essere stato - in qualità di prefetto dell'ex Sant'Uffizio - il responsabile oggettivo di una politica di occultamento dei fatti da parte della Santa Sede...

Monsignor Scicluna: Si tratta di un'accusa falsa e calunniosa. A questo proposito mi permetto di segnalare alcuni fatti. Tra il 1975 e il 1985 mi risulta che nessuna segnalazione di casi di pedofilia da parte di chierici sia arrivata all'attenzione della nostra Congregazione. Comunque dopo la promulgazione del Codice di diritto canonico del 1983 c'è stato un periodo di incertezza sull'elenco dei delicta graviora riservati alla competenza di questo dicastero. Solo col motu proprio del 2001 il delitto di pedofilia è ritornato alla nostra competenza esclusiva. E da quel momento il cardinale Ratzinger ha mostrato saggezza e fermezza nel gestire questi casi. Di più. Ha mostrato anche grande coraggio nell'affrontare alcuni casi molto difficili e spinosi, sine acceptione personarum (cioé senza riguardi per nessuno ndr). Quindi accusare l'attuale Pontefice di occultamento è, ripeto, falso e calunnioso.

Nel caso che un sacerdote sia accusato di un delictum gravius, cosa succede?

Monsignor Scicluna: Se l'accusa è verosimile il vescovo ha l'obbligo di investigare sia l'attendibilità della denuncia che l'oggetto stesso della medesima. E se l'esito di questa indagine previa è attendibile non ha più potere di disporre della materia e deve riferire il caso alla nostra Congregazione, dove viene trattato dall'ufficio disciplinare.

Da chi è composto questo ufficio?

Monsignor Scicluna: Oltre al sottoscritto, che essendo uno dei superiori del dicastero, si occupa anche di altre questioni, c'è un capo ufficio, padre Pedro Miguel Funes Diaz, sette ecclesiastici ed un penalista laico che seguono queste pratiche. Altri officiali della Congregazione prestano il loro prezioso contributo secondo le esigenze di lingua e di competenza.

Questo ufficio è stato accusato di lavorare poco e con lentezza...

Monsignor Scicluna: Si tratta di rilievi ingiusti. Nel 2003 e 2004 c'è stata una valanga di casi che ha investito le nostre scrivanie. Molti dei quali venivano dagli Stati Uniti e riguardavano il passato. Negli ultimi anni, grazie a Dio, il fenomeno si è di gran lunga ridotto. E quindi adesso cerchiamo di trattare i casi nuovi in tempo reale.

Quanti ne avete trattati finora?

Monsignor Scicluna: Complessivamente in questi ultimi nove anni (2001-2010) abbiamo valutato le accuse riguardanti circa tremila casi di sacerdoti diocesani e religiosi che si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni.

Quindi di tremila casi di preti pedofili?

Monsignor Scicluna: Non è corretto dire così. Possiamo dire che grosso modo nel 60% di questi casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30% di rapporti eterosessuali e nel 10% di atti di vera e propria pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi - per carità! - ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere.

Tremila quindi gli accusati. Quanti i processati e condannati?
Monsignor Scicluna: Intanto si può dire che un processo vero e proprio, penale o amministrativo, si è svolto nel 20% dei casi e normalmente è stato celebrato nelle diocesi di provenienza - sempre sotto la nostra supervisione - e solo rarissimamente qui a Roma. Facciamo così anche per una maggiore speditezza dell'iter. Nel 60% dei casi poi, soprattutto a motivo dell'età avanzata degli accusati, non c'è stato processo, ma, nei loro confronti, sono stati emanati dei provvedimenti amministrativi e disciplinari, come l'obbligo a non celebrare Messa coi fedeli, a non confessare, a condurre una vita ritirata e di preghiera. È bene ribadire che in questi casi, tra i quali ce ne sono alcuni particolarmente eclatanti di cui si sono occupati i media, non si tratta di assoluzioni. Certo non c'è stata una condanna formale, ma se si è obbligati al silenzio e alla preghiera qualche motivo ci sarà...

All'appello manca ancora il 20% dei casi...

Monsignor Scicluna: Diciamo che in un 10% di casi, quelli particolarmente gravi e con prove schiaccianti, il Santo Padre si è assunto la dolorosa responsabilità di autorizzare un decreto di dimissione dallo stato clericale. Un provvedimento gravissimo, preso per via amministrativa, ma inevitabile. Nell'altro 10% dei casi poi, sono stati gli stessi chierici accusati a chiedere la dispensa dagli obblighi derivati dal sacerdozio. Che è stata prontamente accettata. Coinvolti in questi ultimi casi ci sono stati sacerdoti trovati in possesso di materiale pedopornografico e che per questo sono stati condannati dall'autorità civile.

Da dove vengono questi tremila casi?

Monsignor Scicluna: Soprattutto dagli Stati Uniti, che per gli anni 2003-2004 rappresentavano circa l'80% del totale di casi. Per il 2009 la percentuale statunitense è scesa a circa il 25% dei 223 nuovi casi segnalati da tutto il mondo. Negli ultimi anni (2007-2009), infatti, la media annuale dei casi segnalati alla Congregazione dal mondo è stata proprio di 250 casi. Molti paesi segnalano solo uno o due casi. Cresce quindi la diversità ed il numero dei paesi di provenienza dei casi ma il fenomeno è assai ridotto. Bisogna ricordare infatti che il numero complessivo di sacerdoti diocesani e religiosi nel mondo è di 400mila. Questo dato statistico non corrisponde alla percezione che si crea quando questi casi così tristi occupano le prime pagine dei giornali.

E dall'Italia?

Monsignor Scicluna: Finora il fenomeno non sembra abbia dimensioni drammatiche, anche se ciò che mi preoccupa è una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo diffusa nella Penisola. La Conferenza episcopale italiana (Cei) offre un ottimo servizio di consulenza tecnico-giuridica per i vescovi che devono trattare questi casi. Noto con grande soddisfazione un impegno sempre maggiore da parte dei vescovi italiani di fare chiarezza sui casi segnalati loro.

Lei diceva che i processi veri e propri riguardano circa il 20% dei circa tremila casi che avete esaminato negli ultimi nove anni. Sono finiti tutti con la condanna degli accusati?

Monsignor Scicluna: Molti dei processi ormai celebrati sono finiti con una condanna dell'accusato. Ma non sono mancati quelli dove il sacerdote è stato dichiarato innocente o dove le accuse non sono state ritenute sufficientemente provate.  In tutti i casi comunque si fa non solo lo studio sulla colpevolezza o meno del chierico accusato, ma anche il discernimento sull'idoneità dello stesso al ministero pubblico.

Un'accusa ricorrente fatta alle gerarchie ecclesiastiche è quella di non denunciare anche alle autorità civili i reati di pedofilia di cui vengono a conoscenza.

Monsignor Scicluna: In alcuni Paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all'autorità giudiziaria. Si tratta di un dovere gravoso perché questi vescovi sono costretti a compiere un gesto paragonabile a quello compiuto da un genitore che denuncia un proprio figlio. Ciononostante, la nostra indicazione in questi casi è di rispettare la legge.

E nei casi in cui i vescovi non hanno questo obbligo per legge?

Monsignor Scicluna: In questi casi noi non imponiamo ai vescovi di denunciare i propri sacerdoti, ma li incoraggiamo a rivolgersi alle vittime per invitarle a denunciare quei sacerdoti di cui sono state vittime. Inoltre li invitiamo a dare tutta l'assistenza spirituale, ma non solo spirituale, a queste vittime. In un recente caso riguardante un sacerdote condannato da un tribunale civile italiano, è stata proprio questa Congregazione a suggerire ai denunciatori, che si erano rivolti a noi per un processo canonico, di adire anche alle autorità civili nell'interesse delle vittime e per evitare altri reati.

Un'ultima domanda: è prevista la prescrizione per i delicta graviora?

Monsignor Scicluna: Lei tocca un punto - a mio avviso - dolente. In passato, cioè prima del 1898, quello della prescrizione dell'azione penale era un istituto estraneo al diritto canonico. E per i delitti più gravi solo con il motu proprio del 2001 è stata introdotta una prescrizione di dieci anni. In base a queste norme nei casi di abuso sessuale il decennio incomincia a decorrere dal giorno in cui il minore compie i diciotto anni.

È sufficiente?

Monsignor Scicluna: La prassi indica che il termine di dieci anni non è adeguato a questo tipo di casi e sarebbe auspicabile un ritorno al sistema precedente dell'imprescrittibilità dei delicta graviora. Il 7 novembre 2002, comunque, il Servo di Dio Venerabile Giovanni Paolo II ha concesso a questo dicastero la facoltà di derogare dalla prescrizione caso per caso su motivata domanda dei singoli vescovi. E la deroga viene normalmente concessa.

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Bioetica


Laicità e autodeterminazione

di Renzo Puccetti*

ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il professor Rodotà, nel ricevere il premio "Laico dell'anno", ha deliziato l'uditorio con un intervento proteso a tracciare una linea ideale che dall'habeas corpus transiterebbe all'articolo 32 della costituzione italiana per giungere, secondo il professore, alla sovranità dell'individuo sulla propria vita. Certo è comprensibile che citare un principio antico incorporato nella Magna Charta faccia molto british e conferisca un tocco di autorevolezza che, quando la sostanza del discorso rischia di essere leggerina, non guasta mai. Insomma che cosa afferma il professor Rodotà che possa interessare la bioetica? Che il vero laico è colui che rispetta l'autonomia e la sua declinazione concreta, rappresentata dal diritto all'esercizio dell'autodeterminazione di ciascuno. Ogni minaccia ad un tale diritto costituisce un attentato ad un diritto individuale sancito già nel medio-evo; implicitamente porre in dubbio la signoria dell'autoderminazione costituirebbe un tentativo di fare regredire il diritto di centinaia di anni e minaccerebbe di ricacciare l'uomo nei famigerati secoli bui. Questo, in sintesi, è il sunto argomentativo esposto dal laico dell'anno.[1] Leggendo l'estratto del suo discorso immaginiamo l'altezza da cui, declamate, le parole discendono su un uditorio estasiato e quasi ci pare di vedere la ieratica compostezza dei misurati, ma netti cenni del capo usati dall'oratore per sottolinearne l'incontrovertibile potenza persuasiva.

C'è da esserne impressionati, ma dura poco. In un attimo percepisco che quella stessa solidità argomentativa che incuteva timore è una rappresentazione degna di Carnera, "il colosso d'argilla".

L'uomo descritto dal professore sarà forse un tipo assai comune per chi frequenta i salotti radical chic, ma se egli osserverà in modo limpido le persone che sono in una sala d'attesa di un qualsiasi pronto soccorso, o se si accomoderà ad attendere il suo turno dal medico di famiglia, si accorgerà che le cose sono assai meno nette di come egli le illustra; si renderà conto che le persone non sono monadi, sole come la molecola di sodio nella bottiglia della nota acqua, ma si relazionano le une alle altre; attraverso un fitto scambio di messaggi verbali e non verbali influenziamo le decisioni degli altri e dagli altri veniamo influenzati. Come ha fatto notare l'antropologo Girard, persino i nostri desideri non sono interamente nostri. L'autodeterminazione "hard" che emerge dalla rappresentazione del professor Rodotà sembra davvero poco attenta persino alle recenti acquisizioni neurofisiologiche e alla conseguente riflessione neuroetica.[2] Vi è un equilibrio: così come la dimensione intima dell'uomo non può essere annullata da quella comunitaria, neppure deve avvenire il contrario. La dipendenza non è qualcosa che subiamo e malediamo, è qualcosa costitutiva del vivere, che ricerchiamo quando siamo sotto il peso delle difficoltà, che come medici accogliamo di buon grado quando il paziente ci domanda: "dottore, che cosa mi consiglia? Che cosa devo fare?". La dipendenza, quale orizzonte entro cui la vita umana è totalmente inscritta, è una realtà che la cultura greca affermava cristallizzandola nel mito della dea Cura; è un dato oggi rilevato con pari efficacia da un medico credente come Carlo Bellieni[3] e da una femminista come Rita Dominijanni, che di fronte al suicidio dell'amica rivendicato come estremo atto di autodeterminazione, ricorda: "si nasce dipendenti, da una madre, e si muore dipendenti, da chi abbiamo intorno".[4]

Strana idea di autodeterminazione quella del professore; quando include l'aborto, compreso quello con la RU-486, tra i diritti all'auto-determinazione egli tralascia il particolare non trascurabile che per il concepito esso si risolve nella etero-determinazione a morire sulla base di una etero-determinata privazione del diritto alla vita a sua volta fondata su una etero-attribuita presunta mancanza di personalità. Vale la pena ricordare ai puristi dell'autodeterminazione le parole di Ronald Reagan, pronunciate quando si accingeva a diventare presidente degli Stati Uniti d'America: "There's one individual who's not being considered at all. That's the one who is being aborted. And I've noticed that everybody that is for abortion has already been born" (C'è un individuo che non viene considerato per niente. È colui che viene abortito. Ed ho notato che tutti coloro che sono a favore dell'aborto sono già nati).[5]

E che dire del ricorso museale alla "sessualità liberata" e "maternità consapevole" per esaltare una pratica, quella della contraccezione, che, per quanti si accostano a queste tematiche con un minimo di rigore scientifico, è nota per non avere minimamente contenuto il ricorso all'aborto, talora anzi incrementandolo[6] e che, nell'attesa che giungesse la mitica "consapevolezza", ha spinto nella popolazione l'idea di procrastinare la prima gravidanza al punto tale da favorire l'infertilità di coppia, giunta oggi ad un caso ogni sette. E quale psicologo dell'infanzia direbbe che oggi i bambini e gli adolescenti sono più sereni, equilibrati e meglio accuditi rispetto ai coetanei nati in epoca pre-contraccettiva?

Strana idea di autodeterminazione quella del professore; la concederebbe a tutti, ma non a quanti la pensano diversamente da lui. Quelli a cui non dovrebbe essere concesso il godimento della libertà di agire secondo la propria coscienza sono i medici obiettori, che per il campione della laicità, non dovrebbero mettere piede negli ospedali pubblici. Intendiamoci bene, non è il solo, altri la pensano allo stesso modo,[7];[8];[9] ma certe cose, come le dice lui ...: "Da moltissimi anni, quando ero in parlamento senza fortuna, io ho sostenuto esattamente gli argomenti di Carlo Flamini: è ovvio che chi entra a fare un certo lavoro nel pubblico entra a certe condizioni, che possono essere mutate ma non in maniera tale da incidere radicalmente sulle modalità di lavoro. Quindi allora l'obiezione era giustificata. Ma da un certo momento in poi si entra nelle istituzioni ospedaliere sapendo che l'interruzione della gravidanza è uno strumento a servizio della donna. Io lo chiamo anche "un diritto" della donna [...] quando la legge attribuisce una facoltà, un potere, un diritto, a una donna, la possibilità di accesso, questo implica un dovere delle istituzioni pubbliche di mettere a disposizione gli strumenti e dunque in questo senso l'obiezione di coscienza perde di significato se non di significato ideologico. E il significato ideologico è quello che porta a proporre l'obiezione di coscienza dei farmacisti, che porta a proporre l'obiezione di coscienza degli attori per le scene scabrose, che porta gli infermieri a inserire nel loro codice deontologico che stanno elaborando il loro diritto di obiezione di coscienza. Possiamo privatizzare la coscienza quando questa significa imposizione di regole a soggetti altri? Io ho diritto di accedere a alcuni servizi nessuna categoria corporativa può sequestrare questo diritto e espropriare me di un diritto fondamentale".[10] Insomma, di fronte al "diritto" attribuito dalla legge e sancito dalla coscienza delle istituzioni pubbliche, la coscienza del medico deve soccombere, così come quella del farmacista e dell'infermiere: o adeguarsi, o cambiare mestiere. Quando il professor Jean Laffitte delineava il tollerante ideologico come un piccolo Epiménide, forse aveva in mente una figura dalle convinzioni non dissimili da quelle del giurista italiano.[11] La tolleranza a tutto diventa così la norma generale, per chi non concorda o chinarsi, o essere bandito dal regno. Siamo ben oltre la nozione di stranieri morali teorizzata da Hugo Tristam Engelhardt jr.[12] Nello stato etico così delineato, al leviatano viene così ricondotto il potere di governare con la spada in una mano ed il pastorale nell'altra, il lecito diventa così giusto e il giusto, una volta dichiarato illecito, può con buona pace diventare ingiusto.[13]

È una strana autodeterminazione quella invocata dal professor Rodotà, quando, in maniera sorprendente per un giurista del suo livello, dimentica che il principio dell'habeas corpus a cui egli rimanda come radice normativa dell'auto-governo individuale non fu istituito come fine a se stesso, ma per la difesa del bene della persona dal sopruso, giacché con esso non si nega legittimità alla detenzione tout-court, ma  a quella ingiusta, cioè a quella attuata senza la decisione del giudice naturale: "Habeas corpus, ad subjiciendum judicium" (ne sia esibito il corpo, per sottoporlo a giudizio).[14] Come Rodotà stesso ammette, l'abuso e non l'esercizio della professione medica sugli esseri umani ha portato come reazione all'elaborazione di tutti quei codici di garanzia che in Norimberga, Helsinki e nella carta di Oviedo vedono tappe fondamentali. Una corretta lettura della protezione dell'autonomia, compresa quella attestata dal biodiritto, impone di riconoscere che essa non è mai stata intesa in modo auto-referenziale, libera di trasformarsi in diritto al capriccio e all'arbitrio fino all'autodistruzione, ma è sempre stata concepita, dagli albori fino ai padri costituenti della repubblica, per tutelare il bene della persona, perché proprio la dignità della persona umana, intesa laicamente in termini kantiani, non fosse messa mai in discussione, da nessuno, neppure da sé stessi. Ciascuno di noi, se ne faccia una ragione il professore, non ha scelto un mestiere per compiacere, ma ha scelto una professione fondata sulla tutela della vita, della salute e il sollievo della sofferenza, in cui un uomo, il medico, è chiamato ad aiutare un altro uomo, il paziente, che è tale proprio in quanto sofferente e che non chiameremo mai utente, perché come medici non permetteremo di essere usati come utensili; ruoli distinti, stessa dignità.

[1] S. Rodotà. Laicità e governo sulla vita: padroni della nostra esistenza Repubblica, 10 marzo 2010.

[2] Garrels SR. Imitation, Mirror Neurons and Mimetic Desire: Convergence between the Mimetic Theory of René Girard and Empirical Research on Imitation. Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture 2006;12-13:47-86.

[3] C. Bellini. Caro Rodotà, la laicità è qualcosa di più di un'impossibile autodeterminazione. L'Occidentale, 11 Marzo 2010.

[4] R. Dominijanni. Roberta Spezzata, Il Manifesto, 21 aprile 2009, p 12.

[5] Dibattito presidenziale Anderson-Reagan (21-9-1980). http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=29407

[6] Puccetti R, Di Pietro ML, Costigliola V, Frigerio L. Prevenzione dell'aborto in occidente: quanto conta la contraccezione? Italian Journal of Gynaecology & Obstetrics 2009:21(3):164-78.

[7] Paolo Flores d'Arcais. Aborto, aboliamo l'obiezione per i medici. Liberazione, 31 Ottobre 2007.

[8] C. Flamini. Aborto, basta obiezione. http://temi.repubblica.it/micromega-online/aborto-basta-obiezione/

[9] M. Srebot. Il Tirreno, 8 Aprile 2008.

[10] S. Rodotà. Il diritto minacciato, dall'habeas corpus al pugno nero. Agenda Concioni 2008;3(3):10-12. http://issuu.com/agendacoscioni/docs/marzo2008/3?mode=a_p

[11] J. Laffitte. XIII Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita. 24 febbraio 2007. http://www.academiavita.org/italiano/AssembleaGenerale/2007/rel2007/ita/laffitte-ita2007.pdf

[12] La soluzione pratica proposta da Engelhardt ai vari problemi è falsamente neutrale e quindi accettabile da tutti, dal momento che è tributaria di un'antropologia funzionalista.

[13] Le voci che pretendono di sostituirsi al Magistero sono una nota costante a partire dall'Humanae Vitae.

[14] «Nullus liber homo capiatur, vel imprisonetur, aut disseisiatur, aut utlaget

* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.

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Angelus


Benedetto XVI invita a sperimentare la misericordia divina
Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito le parole pronunciate da Benedetto XVI questa domenica a mezzogiorno affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro.





* * *



Cari fratelli e sorelle!

In questa quarta domenica di Quaresima viene proclamato il Vangelo del padre e dei due figli, più noto come parabola del "figlio prodigo" (Lc 15,11-32). Questa pagina di san Luca costituisce un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi. Infatti, che cosa sarebbero la nostra cultura, l'arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio Padre pieno di misericordia? Essa non smette mai di commuoverci, e ogni volta che l'ascoltiamo o la leggiamo è in grado di suggerirci sempre nuovi significati. Soprattutto, questo testo evangelico ha il potere di parlarci di Dio, di farci conoscere il suo volto, meglio ancora, il suo cuore. Dopo che Gesù ci ha raccontato del Padre misericordioso, le cose non sono più come prima, adesso Dio lo conosciamo: Egli è il nostro Padre, che per amore ci ha creati liberi e dotati di coscienza, che soffre se ci perdiamo e che fa festa se ritorniamo. Per questo, la relazione con Lui si costruisce attraverso una storia, analogamente a quanto accade ad ogni figlio con i propri genitori: all'inizio dipende da loro; poi rivendica la propria autonomia; e infine - se vi è un positivo sviluppo - arriva ad un rapporto maturo, basato sulla riconoscenza e sull'amore autentico.

In queste tappe possiamo leggere anche momenti del cammino dell'uomo nel rapporto con Dio. Vi può essere una fase che è come l'infanzia: una religione mossa dal bisogno, dalla dipendenza. Via via che l'uomo cresce e si emancipa, vuole affrancarsi da questa sottomissione e diventare libero, adulto, capace di regolarsi da solo e di fare le proprie scelte in modo autonomo, pensando anche di poter fare a meno di Dio. Questa fase, appunto, è delicata, può portare all'ateismo, ma anche questo, non di rado, nasconde l'esigenza di scoprire il vero volto di Dio. Per nostra fortuna, Dio non viene mai meno alla sua fedeltà e, anche se noi ci allontaniamo e ci perdiamo, continua a seguirci col suo amore, perdonando i nostri errori e parlando interiormente alla nostra coscienza per richiamarci a sé. Nella parabola, i due figli si comportano in maniera opposta: il minore se ne va e cade sempre più in basso, mentre il maggiore rimane a casa, ma anch'egli ha una relazione immatura con il Padre; infatti, quando il fratello ritorna, il maggiore non è felice come lo è, invece, il Padre, anzi, si arrabbia e non vuole rientrare in casa. I due figli rappresentano due modi immaturi di rapportarsi con Dio: la ribellione e una obbedienza infantile. Entrambe queste forme si superano attraverso l'esperienza della misericordia. Solo sperimentando il perdono, riconoscendosi amati di un amore gratuito, più grande della nostra miseria, ma anche della nostra giustizia, entriamo finalmente in un rapporto veramente filiale e libero con Dio.

Cari amici, meditiamo questa parabola. Rispecchiamoci nei due figli, e soprattutto contempliamo il cuore del Padre. Gettiamoci tra le sue braccia e lasciamoci rigenerare dal suo amore misericordioso. Ci aiuti in questo la Vergine Maria, Mater misericordiae.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai seminaristi del Seminario Maggiore di Basilicata, ai ragazzi di Paderno Dugnano, ai bambini e alle Suore Francescane Elisabettine della Scuola Montessori San Giusto di Trieste e ai volontari della Fraterna Domus. A tutti auguro una buona domenica.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Documenti


Discorso del Papa ai Vescovi del Sudan in visita ad limina apostolorum
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questo sabato mattina ricevendo in udienza i Vescovi della Conferenza Episcopale del Sudan, in questi giorni a Roma per la loro visita ad limina apostolorum, secondo la traduzione riportata da "L'Osservatore Romano".



* * *



Eminenza,

Cari Fratelli Vescovi,

con grande gioia vi do il benvenuto, Vescovi del Sudan, in occasione della vostra visita quinquennale sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo. Sono grato al Vescovo Deng Majak per le cortesi parole che mi ha rivolto a vostro nome. In spirito di comunione nel Signore che ci unisce come successori degli apostoli, mi unisco a voi nel rendere grazie per il «dono più sublime» (cfr 1 Cor 12, 31) di carità cristiana  che è evidente nella vostra vita e nel servizio generoso dei sacerdoti,  dei religiosi, uomini e donne, e dei laici del Sudan. La vostra fedeltà  al Signore e i frutti delle vostre fatiche fra le difficoltà e le sofferenze  rendono una testimonianza eloquente del potere della Croce che risplende attraverso le nostre debolezze  e  i  nostri  limiti  umani (cfr 1 Cor 11, 23-24).

So quanto  voi e i fedeli del vostro Paese desideriate la pace,  e quanto pazientemente  vi adoperate per il suo ripristino. Ancorati  alla vostra fede  e alla vostra speranza in Cristo, il principe della pace, possiate sempre trovare nel Vangelo i principi necessari a plasmare la vostra predicazione e il vostro insegnamento, i vostri giudizi e le vostre azioni. Ispirati da questi principi e facendo eco alle giuste aspirazioni di tutta la comunità cattolica avete parlato con una sola voce nel rifiutare «qualsiasi ritorno alla guerra» e nel richiedere l'instaurazione della pace a ogni livello della vita nazionale (cfr Dichiarazione dei Vescovi del Sudan, Per una pace giusta e  duratura, n. 4).

Se la pace significa mettere radici profonde, bisogna compiere sforzi comuni per diminuire i fattori che contribuiscono ai conflitti, in particolare la corruzione, le tensioni etniche, l'indifferenza  e l'egoismo. Iniziative in tal senso si dimostreranno sicuramente feconde se saranno basate sull'integrità, su un senso di fraternità universale e sulle virtù della giustizia, della responsabilità e della carità. Trattati e altri accordi, elementi indispensabili del processo di pace, recheranno frutti solo se saranno ispirati e accompagnati dall'esercizio di una guida matura e moralmente retta.

Vi esorto a trarre forza dalla vostra esperienza recente nell'Assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi mentre continuate a predicare la riconciliazione e il perdono. Gli effetti della violenza potrebbero impiegare anni per attenuarsi, ma il mutamento del cuore che è la condizione indispensabile per una pace giusta e duratura deve essere implorato fin da ora quale dono della grazia di Dio. Come araldi del Vangelo, avete cercato  di instillare  nel vostro popolo e nella società un senso di responsabilità verso le generazioni attuali e future, incoraggiando il perdono, l'accettazione reciproca e il rispetto per gli impegni presi. Nello stesso modo avete  operato per promuovere i diritti umani fondamentali attraverso lo stato di diritto e avete esortato all'applicazione di un modello integrale di sviluppo umano ed economico. Apprezzo tutto quello che la Chiesa nel vostro Paese sta facendo per aiutare i poveri a vivere con dignità e rispetto di sé, a trovare un lavoro a lungo termine e a essere in grado di dare il proprio contributo alla società.

Quale segno e  strumento di una umanità ristabilita e riconciliata,  la Chiesa, anche adesso, sperimenta la pace del Regno attraverso la sua comunione con il Signore. Che la vostra predicazione e la vostra attività pastorale continuino a essere ispirate da una spiritualità di comunione che unisce le menti e i cuori in obbedienza al Vangelo, dalla partecipazione alla vita sacramentale della Chiesa e dalla fedeltà alla vostra autorità episcopale. L'esercizio di questa autorità  non dovrebbe mai essere considerato «come qualcosa di impersonale o burocratico, proprio perché è un'autorità che nasce dalla testimonianza» (cfr Pastores gregis, n. 43). Per questo motivo, voi stessi dovete essere i primi insegnanti e testimoni della nostra comunione di fede e dell'amore di Cristo, condividendo iniziative comuni, ascoltando i vostri collaboratori, aiutando sacerdoti, religiosi e fedeli  ad accettarsi e sostenersi reciprocamente senza distinzione di razza o gruppo etnico,  in  uno  scambio  generoso  di doni.

Quale parte significativa di questa testimonianza, vi incoraggio a dedicare la vostra energia a rafforzare l'educazione cattolica, e quindi a preparare i laici in particolare a recare una testimonianza convincente  di Cristo in ogni aspetto della famiglia, della vita politica e sociale. Questo è un compito al quale l'Università di Santa Maria di Juba e i movimenti ecclesiali possono apportare un contributo significativo. Dopo i genitori, i catechisti sono il primo anello nella catena di trasmissione del prezioso tesoro della fede. Vi esorto  a vigilare sulla loro formazione e sulle loro necessità.

Infine,  desidero esprimere il mio apprezzamento  per i vostri sforzi  volti a mantenere buoni rapporti con i seguaci dell'Islam. Mentre vi adoperate a promuovere la cooperazione nelle iniziative pratiche, vi incoraggio a sottolineare i valori che i cristiani condividono con i  musulmani, come base per quel «dialogo di vita»  che è un primo passo essenziale verso  un rispetto e una comprensione interreligiosi autentici. La stessa apertura e lo stesso amore  dovrebbero  essere dimostrati verso chi appartiene alle religioni tradizionali.

Cari Fratelli Vescovi, attraverso di voi invio affettuosi saluti ai sacerdoti e ai religiosi del vostro Paese, alle famiglie, e, in particolare,  ai bambini. Con grande affetto, vi affido alle preghiere di santa Bakhita e di san Daniele Comboni nonché alla protezione di Maria, Madre della Chiesa.  A tutti  imparto di cuore  la mia Benedizione Apostolica quale pegno di saggezza, gioia e forza nel Signore.     

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Il rigore di Benedetto XVI contro la sporcizia nella Chiesa
Monsignor Giuseppe Versaldi commenta lo scandalo degli abusi sui minori
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il commento di monsignor Giuseppe Versaldi, Vescovo di Alessandria e Ordinario emerito di Diritto Canonico e Psicologia alla Pontificia Università Gregoriana, sul rigore di Papa Benedetto XVI nel combattere gli abusi nella Chiesa, pubblicato sull'edizione di questa domenica de "L'Osservatore Romano".

* * *

Qualche precisazione è opportuna a proposito degli abusi sessuali sui minori che in passato sono stati compiuti da appartenenti al clero cattolico e che ora, specialmente in alcuni Paesi, stanno venendo alla luce con grande evidenza su molti media. Innanzitutto, va ribadita la condanna senza riserve di questi gravissimi delitti che ripugnano alla coscienza di chiunque. Se poi questi crimini vengono compiuti da persone che rivestono un ruolo nella Chiesa - persone nelle quali viene riposta una speciale fiducia da parte dei fedeli e particolarmente dei bambini - allora lo scandalo diventa ancora più grave ed esecrabile. Giustamente la Chiesa non intende tollerare alcuna incertezza circa la condanna del delitto e l'allontanamento dal ministero di chi risulta essersi macchiato di tanta infamia, insieme alla giusta riparazione verso le vittime.

Ribadita questa posizione, va però sottolineato un accanimento nei confronti della Chiesa cattolica, quasi fosse l'istituzione dove con più frequenza si compiono tali abusi. Per amore della verità bisogna dire che il numero dei preti colpevoli di questi abusi è in America del nord, dove si è registrato il maggior numero di casi, molto ridotto ed è ancora minore in Europa. Se questo ridimensiona quantitativamente il fenomeno, non attenua in alcun modo la sua condanna né la lotta per estirparlo, in quanto il sacerdozio esige che vi accedano soltanto persone umanamente e spiritualmente mature. Anche un solo caso di abuso da parte di un prete sarebbe inaccettabile.

Tuttavia, non si può non rilevare che l'immagine negativa attribuita alla Chiesa cattolica a causa di questi delitti appare esagerata. C'è poi chi imputa al celibato dei sacerdoti cattolici la causa dei comportamenti devianti, mentre è accertato che non esiste alcun nesso di causalità: innanzitutto, perché è noto che gli abusi sessuali su minori sono più diffusi tra i laici e gli sposati che non tra il clero celibatario; in secondo luogo, i dati delle ricerche evidenziano che i preti colpevoli di abusi già non osservavano il celibato.

Ma è ancora più rilevante sottolineare che la Chiesa cattolica - a dispetto dell'immagine deformata con cui la si vuole rappresentare - è l'istituzione che ha deciso di condurre la battaglia più chiara contro gli abusi sessuali a danno dei minori partendo dal suo interno. E qui bisogna dare atto a Benedetto xvi di avere impresso un impulso decisivo a questa lotta, grazie anche alla sua ultraventennale esperienza come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non va infatti dimenticato che proprio da quell'osservatorio il cardinale Ratzinger ha avuto la possibilità di seguire i casi di abusi sessuali che venivano denunciati e ha favorito una riforma anche legislativa più rigorosa in materia.

Ora, come supremo pastore della Chiesa, il Papa mantiene anche in questo campo - ma non solo - uno stile di governo che mira alla purificazione della Chiesa, eliminando la «sporcizia» che vi si annida. Benedetto xvi si dimostra, dunque, un pastore vigilante sul suo gregge, a dispetto dell'immagine falsata di uno studioso dedito soltanto a scrivere libri il quale delegherebbe ad altri il governo della Chiesa, secondo uno stereotipo che qualcuno, purtroppo anche all'interno della gerarchia cattolica, vorrebbe accreditare. È grazie al maggiore rigore del Papa che diverse conferenze episcopali stanno facendo luce sui casi di abusi sessuali, collaborando anche con le autorità civili per rendere giustizia alle vittime.

Appare dunque paradossale rappresentare la Chiesa quasi fosse la responsabile degli abusi sui minori ed è ingeneroso non riconoscere a essa, e specialmente a Benedetto xvi, il merito di una battaglia aperta e decisa ai delitti commessi da suoi preti. Con l'aggiunta di un altro paradosso: quando la Chiesa saggiamente stabilisce norme più severe per prevenire l'accesso al sacerdozio di persone immature in campo sessuale, in genere viene attaccata e criticata da quella stessa parte che la vorrebbe principale responsabile degli abusi sui minori. La linea rigorosa e chiara assunta dalla Santa Sede deve invece essere recepita nella Chiesa - e non solo - per garantire la verità, la giustizia e la carità verso tutti.

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Sugli abusi sessuali, "una rotta chiara anche in acque agitate"
Nota del portavoce vaticano, padre Federico Lombardi S.I.
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un nota diffusa da padre Federico Lombardi, S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, circa la questione degli abusi sessuali da parte di membri del clero, trasmessa dalla "Radio Vaticana".

* * *

 



Al termine di questa settimana in cui l'attenzione di gran parte della stampa europea si è concentrata sulla questione degli abusi sessuali compiuti da persone e in istituzioni della Chiesa cattolica, ci siano permesse tre osservazioni.

Anzitutto, la linea presa dalla Conferenza Episcopale Tedesca si è confermata la strada giusta per far fronte al problema nei suoi diversi aspetti. Le dichiarazioni del Presidente della Conferenza, Arcivescovo Zollitsch, dopo l'incontro con il Santo Padre, riprendono le linee stabilite nella recente Assemblea della Conferenza e ne ribadiscono i punti operativi essenziali: riconoscere la verità e aiutare le vittime, rafforzare la prevenzione e collaborare costruttivamente con le autorità - comprese quelle giudiziarie statali - per il bene comune della società. Mons. Zollitsch ha anche ribadito senza incertezze l'opinione degli esperti secondo cui la questione del celibato non va in alcun modo confusa con quella della pedofilia. Il Santo Padre ha incoraggiato la linea dei vescovi tedeschi, che - pur con le specificità del contesto del loro Paese - può ben essere considerata un modello molto utile e ispiratore per altre Conferenze episcopali che si trovino a fronteggiare analoghi problemi.

Inoltre, l'importante e ampia intervista concessa dal Promotore di Giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, Mons. Charles Scicluna, spiega dettagliatamente il significato delle norme canoniche specifiche stabilite dalla Chiesa negli anni scorsi per giudicare i gravissimi delitti di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di ecclesiastici. Diventa assolutamente chiaro che tali norme non hanno inteso e non hanno favorito alcuna copertura di tali delitti, ma anzi hanno messo in atto un'intensa attività per affrontare, giudicare e punire adeguatamente questi delitti nel quadro dell'ordinamento ecclesiastico. E' giusto ricordare che tutto ciò è stato impostato e avviato quando il card. Ratzinger era Prefetto della Congregazione. La sua linea è stata sempre quella del rigore e della coerenza nell'affrontare le situazioni anche più difficili.

Infine, l'Archidiocesi di Monaco ha risposto, con un comunicato ampio e dettagliato, agli interrogativi circa la vicenda di un sacerdote che si era trasferito da Essen a Monaco di Baviera nel tempo in cui il Card. Ratzinger era arcivescovo della città, sacerdote che si era poi reso colpevole di abusi. Il comunicato mette in luce come l'Arcivescovo era rimasto del tutto estraneo alle decisioni in seguito alle quali si erano potuti verificare gli abusi. E' piuttosto evidente che negli ultimi giorni vi è chi ha cercato - con un certo accanimento, a Regensburg e a Monaco - elementi per coinvolgere personalmente il Santo Padre nelle questioni degli abusi. Per ogni osservatore obiettivo, è chiaro che questi sforzi sono falliti.

Nonostante la tempesta, la Chiesa vede bene il cammino da seguire, sotto la guida sicura e rigorosa del Santo Padre. Come abbiamo già avuto modo di osservare, speriamo che questo travaglio possa essere alla fine di aiuto alla società nel suo insieme per farsi carico sempre meglio della protezione e della formazione dell'infanzia e della gioventù

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