ZENIT
Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano - 01 maggio 2010
Interviste
Documenti
- Comunicato della Santa Sede sulla Visita Apostolica ai Legionari di Cristo
- Globalizzazione e valori comuni da difendere
Interviste
Da 40 anni al servizio della Santa Sede
Parla l'Arcivescovo Józef Kowalczyk, Nunzio apostolico in Polonia
VARSAVIA, sabato, 1° maggio 2010 (ZENIT.org).- Alcuni sacerdoti donano la loro vita per la missione nelle frontiere della povertà o della malattia, altri lo fanno nella diplomazia al servizio della Chiesa e dei Papi. E' questo il caso dell'arcivescovo Józef Kowalczyk (Jadowniki Mokre, 28 agosto 1938), Nunzio apostolico in Polonia.
E' stato nominato a questo carico nel 1989 da Papa Giovanni Paolo II. Più di 20 anni sono passati da allora e la Polonia e il mondo sono cambiati radicalmente, come spiega in questa intervista concessa a ZENIT ormai al termine dell'Anno sacerdotale.
Eccellenza, alcuni media la presentano come “Arcivescovo polacco” – ignorando o dimenticando - che lei è cittadino vaticano e rappresenta la Santa Sede in un Paese estero. Per di più, lei da 40 anni sta al servizio dei Papi. In quali circostanze ha cominciato il suo lavoro nella Curia Romana?
Mons. Kowalczyk: Dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI volle internazionalizzare la Curia Romana. In tale circostanza il Cardinale Stefan Wyszyński – a nome dell’episcopato polacco - propose me per il lavoro nella Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti: il Cardinale Antonio Samorè, allora Prefetto, accettò la mia candidatura e così, il 19 dicembre 1969, cominciai il mio servizio.
Lei, nato in Polonia, si occupava anche dei problemi particolari riguardanti quel Paese?
Mons. Kowalczyk: All’inizio no, ma nel 1976 fui nominato – d’accordo con l’episcopato polacco - membro del gruppo della Santa Sede per i Contatti Permanenti di Lavoro con la Repubblica Popolare della Polonia. Nell’ambito di tale incarico viaggiavo in Polonia con gli altri membri del Gruppo – tra i quali voglio ricordare almeno l’Arcivescovo Luigi Poggi - per incontrare i rappresentanti dell’episcopato, del governo e dell’Ufficio per il Culto.
Com’è cambiata la sua vita con l’elezione alla Cattedra di Pietro dell’Arcivescovo di Cracovia?
Mons. Kowalczyk: Subito dopo la sua elezione, il 18 ottobre 1978, Giovanni Paolo II mi chiese di diventare capo della sezione polacca della Segretaria di Stato, che dovevo organizzare e far funzionare, assumendo dei collaboratori. Il mio compito primario era di curare tutti i testi in polacco del Santo Padre – encicliche, lettere apostoliche, omelie, catechesi del mercoledì, messaggi, ecc, e la loro pubblicazione. Per di più, la sezione polacca doveva occuparsi della corrispondenza, ufficiale e privata, che il Papa riceveva in polacco. Ovviamente, in accordo con lui, rispondevo alle lettere o le smistavo tra i vari uffici della Curia.
Posso immaginare che dovesse essere un compito enorme…
Mons. Kowalczyk: E’ vero. Ma subito dopo dovevo occuparmi anche d’altro: il 17 novembre del 1978 il Segretario di Stato mi mise a capo della Commissione per la pubblicazione degli scritti di Karol Wojtyła, il cui compito fu la preparazione delle traduzioni e delle pubblicazioni di tutti i testi di Wojtyła, prima dell’elezione alla Cattedra di Pietro; questo lavoro – che comprendeva anche centinaia di contratti per le traduzioni e le pubblicazioni in varie lingue – si faceva in collaborazione con la Libreria Editrice Vaticana.
Lei fu anche impegnato nella Fondazione “Giovanni Paolo II”…
Mons. Kowalczyk: Fu un altro compito che mi affidò il Segretario di Stato: dovevo preparare lo statuto e il regolamento della Fondazione “Giovanni Paolo II”, che serviva per raccogliere la documentazione del pontificato e per la diffusione del magistero del Papa Polacco.
Nel contempo continuava ad occuparsi anche dei contatti con le autorità comuniste polacche?
Mons. Kowalczyk: Sì, mi occupavo sempre dei contatti sia con l’episcopato polacco, sia con il Governo, in modo particolare con il Gruppo della Repubblica Popolare Polacca per i contatti permanenti di lavoro con la Santa Sede residenti presso l’Ambasciata Polacca a Roma. Gli argomenti delle nostre conversazioni erano molteplici, ma vorrei ricordare anzitutto i preparativi dei viaggi del Papa in Polonia, il primo nel 1979 e il secondo nel 1983, particolarmente difficile a causa del perdurare dello stato di guerra introdotto dalla giunta militare del generale Jaruzelski nel 1981 e poi per i viaggi successivi. Di tutto informavo il Santo Padre, che mi dava anche delle indicazioni. Per esempio, quando i comunisti non volevano che il primo viaggio si facesse nel maggio del 1979 e proponevano il giugno successivo, il Papa acconsentì ma mi chiese di esigere che tale viaggio coincidesse con il giubileo di san Stanislao.
Un compito particolare era il lavoro legato all’elaborazione di un accordo riguardante i rapporti Stato-Chiesa: i comunisti, per uscire dall’isolamento, lo volevano, invece per la Chiesa Cattolica in Polonia, tale accordo era una condizione necessaria perché la Santa Sede potesse allacciare i rapporti diplomatici con la Polonia.
Alla fine tale accordo fu raggiunto e, il 17 luglio 1989, si arrivò allo scambio delle Lettere tra il ministro degli esteri polacco e il Cardinale Agostino Casaroli, che dava inizio alle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Lei si aspettava di essere nominato Nunzio a Varsavia?
Mons. Kowalczyk: Per niente, ma un giorno dell'estate del 1989 Giovanni Paolo II mi invitò a pranzo a Castel Gandolfo. Dopo l’Angelus mi disse: “Andrai a Varsavia come Nunzio”. Fui sorpreso, ma il Papa mi fece capire che questa era la sua decisione personale e me ne spiegò le motivazioni. Il suo ragionamento fu il seguente: in Polonia da 50 anni non c’era un Nunzio, allora la Chiesa si era abituata ad un certo modo di lavorare e di agire, perciò serviva una persona in grado di capirlo; per di più una persona che, come me, conoscesse bene anche la Curia. Il Papa mi disse apertamente che mi avrebbe aiutato con le sue indicazioni e i suoi suggerimenti.
Guardando la cosa dalla prospettiva degli anni trascorsi, si può ben dire che il Papa avesse ragione…
Mons. Kowalczyk: Penso di sì: essendo di formazione polacca, conoscevo bene la situazione politica ed ecclesiale locale, i problemi della società e la mentalità polacca. Per uno straniero forse sarebbe stato difficilissimo affrontare i problemi che si presentavano allora.
Non tutti si rendono conto come la Polonia vanti una lunga storia di rapporti diplomatici con la Santa Sede. Potrebbe dirci qualche cosa a questo riguardo?
Mons. Kowalczyk: Il primo accordo concordatario tra il Papa Leone X e il Sejm (il parlamento polacco) fu firmato quasi 500 anni fa. Da allora in Polonia si sono susseguiti i diversi rappresentanti dei Papi: il primo fu un certo Girolamo Lando mentre il primo rappresentante al rango di Nunzio, Alois Lippomano, cominciò la sua missione nel 1555. Lo Stato Polacco cessò di esistere per 123 anni, quando venne spartito tra le tre potenze vicine: Prussia, Russia e Impero austro-ungarico. La Polonia rinasce dopo la prima guerra mondiale nel 1917. Subito dopo, nell’aprile del 1918, in Polonia arrivò il Visitatore apostolico mons. Achille Ratti, che l’anno successivo divenne Nunzio apostolico. Come curiosità vorrei dire che mons. Ratti ricevette la consacrazione episcopale nella cattedrale di Varsavia per mano di mons. Aleksander Kakowski, Arcivescovo della capitale, perciò si riteneva “Vescovo polacco”. Il Nunzio Ratti fu molto legato alla Polonia e diede un grande contributo alla rinascita della Chiesa polacca e della sua gerarchia, dopo le spartizioni. In più, Benedetto XV, tenendo conto dell’importanza del cattolicesimo polacco, decise per primo di riconoscere la sovranità della Polonia e di organizzare a Varsavia una Nunziatura di prima classe, ossia di più alto rango, come quelle di Parigi, Madrid, Vienna e Berlino. Mons. Ratti, nominato Arcivescovo di Milano, lasciò la Polonia il 4 giugno 1921. Il suo successore divenne l’Arcivescovo Lorenzo Lauri. Dal giugno all'ottobre del 1923, come Segretario di Nunziatura, lavorò a Varsavia mons. Giovanni Battista Montini.
Questo vuol dire che nella Nunziatura apostolica a Varsavia lavorarono due futuri Papi.
Mons. Kowalczyk: Esatto. Il 5 settembre 1939, qualche giorno dopo l’inizio della seconda guerra mondiale, il Nunzio del tempo, Filippo Cortesi, lasciò la capitale e non vi fece più ritorno.
Dopo la parentesi comunista, la storia della Nunziatura ricominciò con la sua nomina nel 1989. Quali furono le più grandi sfide che ha dovuto affrontare in questi 20 anni?
Mons. Kowalczyk: Prima di tutto, dovevo organizzare e far funzionare la stessa Nunziatura. Lo facevo tenendo sempre conto delle indicazioni di Paolo VI, che diceva: il rappresentante della Santa Sede è il segno visibile della Chiesa particolare con Pietro, aggiungendo che la Chiesa locale agisce sempre cum Petro et sub Petro.
Due grandi sfide che dovevo affrontare come Nunzio in Polonia si chiamavano: il Concordato e la nuova organizzazione amministrativa della Chiesa Cattolica in Polonia e poi l’ingrandimento adeguato e degno della sede della Nunziatura apostolica in Polonia. L’avvento della democrazia in Polonia ha permesso di preparare un documento di carattere internazionale – il Concordato appunto - che impegnava sia lo Stato, sia la Chiesa. Oggi, dalla prospettiva degli anni trascorsi, si può dire che questo Concordato moderno abbia funzionato bene, tanto da essere apprezzato anche dalle altre Chiese in Polonia, che lo usano come modello per i loro rapporti con lo Stato.
Giovanni Paolo II tenne tanto alla ristrutturazione amministrativa della Chiesa polacca perché era una cosa necessaria, anche se difficilissima. Penso che ci siamo riusciti grazie alle preghiere del Papa e alla collaborazione della Conferenza Episcopale Polacca.
Eccellenza, con un certo rammarico e, direi anche un po’ di rabbia, vorrei parlare con lei di un argomento delicato che riguarda la Chiesa in Polonia: la cosiddetta “lustracja” (verifica). Va ricordato ai nostri lettori che nel 1989 i comunisti polacchi cedettero il potere (in seguito agli accordi detti “della tavola rotonda”) in cambio dell’impunità per i membri del partito e di tutto l’apparato dei servizi di sicurezza. In questo modo agli organizzatori e ai carnefici dello Stato totalitario ed anche ai fedeli servi del regime comunista - giudici, giornalisti, professori, gente di cultura ecc - veniva assicurata l’intoccabilità. La regola d’impunità venne rispettata anche quando si decise di aprire gli archivi dei servizi di sicurezza per dare la possibilità alle vittime del regime di consultare i loro dossier. Purtroppo, i primi che hanno “approfittato” della possibilità di accedere agli archivi dei servizi di sicurezza sono stati non i perseguitati ma alcuni giornalisti interessati soltanto alle carte riguardanti il clero. Per questo motivo l’opinione pubblica, non soltanto in Polonia ma in tutto il mondo, invece di sentire le storie dei carnefici e dei servi fedeli del regime comunista ha cominciato ad essere informata circa la presunta “collaborazione” del clero polacco con i servizi di sicurezza. E’ stata così capovolta la prospettiva storica e i sacerdoti polacchi, le prime vittime del regime, sono stati presentati come spie e collaborazionisti. Anni fa, avevo intitolato così uno dei miei articoli riguardante il caso del linciaggio mediatico dell’Arcivescovo Wielgus: “Dalla tomba della storia il comunismo colpisce ancora la Chiesa polacca”. I veleni hanno colpito anche lei, quando dagli archivi qualcuno ha tirato fuori i “documenti” che mostrerebbero la sua presunta collaborazione con i servizi segreti comunisti (registrato come cosiddetto “contatto informativo” con lo pseudonimo “Cappino”)…
Mons. Kowalczyk: La lustracja era un processo di verifica il cui obiettivo era quello di scoprire chi avesse collaborato volutamente con i servizi segreti comunisti. A questo processo venivano sottoposti anche sacerdoti e Vescovi polacchi. Io sono cittadino della Santa Sede, la rappresento in Polonia, sono Decano del Corpo Diplomatico e come gli altri ambasciatori godo dell’immunità diplomatica. Per questo motivo il processo di lustracja non mi ha riguardato. Ma siccome sono nato qui, ne parlo la lingua, per tanti sono un Vescovo polacco come gli altri. Allora, qua e là si sono sollevate delle voci per “verificare” anche l’Arcivescovo Kowalczyk. Ho deciso di far controllare il mio dossier proveniente dagli archivi comunisti, in segno di solidarietà con gli altri Vescovi. Si è scoperto che nell’Istituto della Memoria Nazionale (IPN) si trovavano alcune pagine che sono state recapitate ai membri della Commissione Storica dell’Arcidiocesi di Varsavia. Dall’analisi di queste poche carte la Commissione ha scoperto che dal 1963 e poi, quando studiavo a Roma e lavoravo nelle strutture della Curia Romana e nel Gruppo della Santa Sede per i contatti permanenti di lavoro con il Governo polacco, fui tenuto sott’occhio dai servizi di sicurezza polacchi (come tutti gli altri studenti-preti sia in Polonia sia a Roma); dopo la mia partenza per Roma per l'incarico in Curia, dal 1971, fui attenzionato dai servizi segreti polacchi (I Dipartimento del Ministero degli Affari Interni) e il 15 dicembre 1982 fui registrato – certo, senza saperlo - nello stesso Ministero come “contatto informativo” con lo pseudonimo “Cappino”. Tra le carte c’è anche una nota datata il 3 gennaio 1990 con l’informazione che il dossier è stato distrutto, tenendo conto “dell’inutilità operativa”. Di conseguenza, la Commissione dell’Arcidiocesi ha dichiarato che non c’è nessun indizio che potrebbe suggerire la collaborazione volontaria e cosciente dell’allora mons. Józef Kowalczyk con i servizi di sicurezza polacchi. In seguito, la Conferenza Episcopale Polacca ha pubblicato una dichiarazione nella quale ribadisce la piena fiducia a mons. Kowalczyk, in quanto fedele e leale collaboratore del Santo Padre Giovanni Paolo II.
E poi negli Archivi di IPN hanno trovato “un documento”, in seguito pubblicato in un giornale polacco sotto il titolo “I servizi di sicurezza comunisti hanno perso con il Nunzio”, perché la registrazione è stata fatta all’insaputo dell’interessato, “in abbondanza”, per la copertura di uno dei segretari del Rappresentante del Governo polacco accreditato presso la Santa Sede che funzionava come spia delle autorità comuniste di Varsavia. Questo dimostra la falsità e la perversità dei metodi di lavoro dei rappresentanti del governo comunista polacco, anche di quelli accreditati presso la Santa Sede.
Il suo caso dimostra che i vecchi servizi di sicurezza comunisti – dalla tomba della storia – colpiscono ancora le loro vittime. Ma volevo cambiare argomento: parlavamo della sua missione quarantennale presso la Curia Romana e nella diplomazia della Santa Sede, ma lei, prima di tutto, è un sacerdote che nel 2012 celebrerà il 50° anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Vorrei chiederle qualche riflessione sul sacerdozio nell’anno che Benedetto XVI ha voluto dedicare proprio ai sacerdoti.
Mons. Kowalczyk: Giovanni Paolo II, riflettendo sul suo sacerdozio, scrisse che il sacerdote è soprattutto “amministratore dei misteri di Dio”, che è chiamato a distribuire i beni della fede, i beni della salvezza alle persone alle quali viene inviato. E’, pertanto, uomo della Parola di Dio, del sacramento, del “mistero della fede”. La vocazione sacerdotale - per Giovanni Paolo II - è un mistero, un mistero di “un meraviglioso scambio” tra Dio e l’uomo. E’ un mistero e un dono: l’uomo dona a Cristo la sua umanità, perché Egli se ne possa servire come strumento di salvezza. Quindi deve essere disponibile a tutti quelli che lo avvicinano e chiedono aiuto sacerdotale indipendentemente dall’appartenenza politica. Non deve però mescolarsi negli affari politici in modo attivo perché tale attività non è la sua vocazione e il popolo di Dio non accetta una tale attività da parte di un sacerdote. Quanto è importante ricordare queste cose nell’Anno sacerdotale che viviamo!
Benedetto XVI durante il suo viaggio apostolico in Polonia ha detto ai sacerdoti polacchi che cosa veramente conta nella vita sacerdotale e che cosa invece può distrarre un sacerdote – particolarmente quello vissuto sotto il regime totalitario - dalla sua autentica missione: “Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l'incontro dell'uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale. A tal fine, quando un giovane sacerdote fa i suoi primi passi, occorre che possa far riferimento ad un maestro sperimentato, che lo aiuti a non smarrirsi tra le tante proposte della cultura del momento. Di fronte alle tentazioni del relativismo o del permissivismo, non è affatto necessario che il sacerdote conosca tutte le attuali, mutevoli correnti di pensiero; ciò che i fedeli si attendono da lui è che sia testimone dell'eterna sapienza, contenuta nella parola rivelata. La sollecitudine per la qualità della preghiera personale e per una buona formazione teologica porta frutti nella vita”. Il Papa ha toccato anche il problema legato alla nostra precedente situazione politica: “Il vivere sotto l'influenza del totalitarismo può aver generato un'inconsapevole tendenza a nascondersi sotto una maschera esteriore, con la conseguenza del cedimento ad una qualche forma di ipocrisia. È chiaro che ciò non giova all'autenticità delle relazioni fraterne e può condurre ad un'esagerata concentrazione su se stessi. In realtà, si cresce nella maturità affettiva quando il cuore aderisce a Dio. Cristo ha bisogno di sacerdoti che siano maturi, virili, capaci di coltivare un'autentica paternità spirituale. Perché ciò accada, serve l'onestà con se stessi, l'apertura verso il direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia” (Incontro con il clero, Varsavia, Cattedrale 25 maggio 2006).
Per vivere il proprio sacerdozio così come viene delineato dal Papa Benedetto XVI occorre un continuo esame di coscienza e un impegno formativo di ciascuno dei sacerdoti. Le sfide dei tempi di oggi richiedono ai sacerdoti una testimonianza data non tanto a parole, ma con opere che qualche volta devono apparire come segno di contraddizione rispetto al mondo pieno di mentalità laicista e laicizzante e di relativismo morale. Ecco perché il Papa ha istitutito quest’Anno Sacerdotale presentando san Giovanni Vianney come esempio del sacerdote che si dedica totalmente a servire le anime ed avvicinarle a Dio. Solo con tale atteggiamento un sacerdote può affrontare le sfide del mondo contemporaneo.
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Comunicato della Santa Sede sulla Visita Apostolica ai Legionari di Cristo
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1. Nei giorni 30 aprile e 1° maggio il Cardinale Segretario di Stato ha presieduto in Vaticano una riunione con i cinque Vescovi incaricati della Visita Apostolica alla Congregazione dei Legionari di Cristo (mons. Ricardo Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid; mons. Charles Joseph Chaput, OFMCap., Arcivescovo di Denver; mons. Ricardo Ezzati Andrello SDB, Arcivescovo di Concepción; mons. Giuseppe Versaldi, Vescovo di Alessandria; mons. Ricardo Watty Urquidi, M.Sp.S., Vescovo di Tepic). Ad essa hanno preso parte i Prefetti della Congregazione per la Dottrina della Fede e della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica e il Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato.
Una delle sessioni si è svolta alla presenza del Santo Padre, al quale i Visitatori hanno presentato una sintesi delle loro Relazioni, già anteriormente inviate.
Nel corso della Visita sono stati incontrati personalmente più di 1.000 Legionari e sono state vagliate diverse centinaia di testimonianze scritte. I Visitatori si sono recati in quasi tutte le case religiose e in molte delle opere di apostolato dirette dalla Congregazione. Hanno ascoltato, a voce o per iscritto, il giudizio di molti Vescovi Diocesani dei Paesi in cui la Congregazione opera. I Visitatori hanno anche incontrato numerosi membri del Movimento "Regnum Christi", benché esso non fosse oggetto della Visita, in particolare uomini e donne consacrate. Hanno ricevuto anche notevole corrispondenza da parte di laici impegnati e di familiari di aderenti al Movimento.
I cinque Visitatori hanno testimoniato l’accoglienza sincera loro riservata e lo spirito di fattiva collaborazione mostrato dalla Congregazione e dai singoli religiosi. Pur avendo agito indipendentemente, sono giunti ad una valutazione ampiamente convergente e ad un giudizio condiviso. Essi hanno attestato di avere incontrato un gran numero di religiosi esemplari, onesti, pieni di talento, molti dei quali giovani, che cercano Cristo con zelo autentico e che offrono l’intera loro esistenza per la diffusione del Regno di Dio.
2. La Visita Apostolica ha potuto appurare che la condotta di P. Marcial Maciel Degollado ha causato serie conseguenze nella vita e nella struttura della Legione, tali da richiedere un cammino di profonda revisione.
I gravissimi e obiettivamente immorali comportamenti di P. Maciel, confermati da testimonianze incontrovertibili, si configurano, talora, in veri delitti e manifestano una vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso. Di tale vita era all’oscuro gran parte dei Legionari, soprattutto a motivo del sistema di relazioni costruito da P. Maciel, che abilmente aveva saputo crearsi alibi, ottenere fiducia, confidenza e silenzio dai circostanti e rafforzare il proprio ruolo di fondatore carismatico.
Non di rado un lamentevole discredito e allontanamento di quanti dubitavano del suo retto comportamento, nonché l’errata convinzione di non voler nuocere al bene che la Legione stava compiendo, avevano creato attorno a lui un meccanismo di difesa che lo ha reso per molto tempo inattaccabile, rendendo di conseguenza assai difficile la conoscenza della sua vera vita.
3. Lo zelo sincero della maggioranza dei Legionari, emerso anche nelle visite alle case della Congregazione e a molte loro opere, non da pochi assai apprezzate, ha portato molti in passato a ritenere che le accuse, via via divenute più insistenti e lanciate qua e là, non potessero essere che calunnie.
Perciò la scoperta e la conoscenza della verità circa il fondatore ha provocato, nei membri della Legione, sorpresa, sconcerto e profondo dolore, distintamente evidenziati dai Visitatori.
4. Dai risultati della Visita Apostolica sono emerse con chiarezza, tra gli altri elementi:
a) la necessità di ridefinire il carisma della Congregazione dei Legionari di Cristo, preservando il nucleo vero, quello della "militia Christi", che contraddistingue l’azione apostolica e missionaria della Chiesa e che non si identifica con l’efficientismo a qualsiasi costo;
b) la necessità di rivedere l’esercizio dell’autorità, che deve essere congiunta alla verità, per rispettare la coscienza e svilupparsi alla luce del Vangelo come autentico servizio ecclesiale;
c) la necessità di preservare l’entusiasmo della fede dei giovani, lo zelo missionario, il dinamismo apostolico, per mezzo di un’adeguata formazione. Infatti, la delusione circa il fondatore potrebbe mettere in questione la vocazione e quel nucleo di carisma che appartiene ai Legionari di Cristo ed è loro proprio.
5. Il Santo Padre intende rassicurare tutti i Legionari e i membri del Movimento "Regnum Christi" che non saranno lasciati soli: la Chiesa ha la ferma volontà di accompagnarli e di aiutarli nel cammino di purificazione che li attende. Esso comporterà anche un confronto sincero con quanti, dentro e fuori la Legione, sono stati vittime degli abusi sessuali e del sistema di potere messo in atto dal fondatore: ad essi va in questo momento il pensiero e la preghiera del Santo Padre, insieme alla gratitudine per quanti di loro, pur in mezzo a grandi difficoltà, hanno avuto il coraggio e la costanza di esigere la verità.
6. Il Santo Padre, nel ringraziare i Visitatori per il delicato lavoro da essi svolto con competenza, generosità e profonda sensibilità pastorale, si è riservato di indicare prossimamente le modalità di questo accompagnamento, a cominciare dalla nomina di un suo Delegato e di una Commissione di studio sulle Costituzioni.
Ai membri consacrati del Movimento "Regnum Christi", che lo hanno richiesto con insistenza, il Santo Padre invierà un Visitatore.
7. Infine, il Papa rinnova a tutti i Legionari di Cristo, alle loro famiglie, ai laici impegnati nel movimento "Regnum Christi", il suo incoraggiamento, in questo momento difficile per la Congregazione e per ciascuno di loro. Li esorta a non perdere di vista che la loro vocazione, scaturita dalla chiamata di Cristo e animata dall’ideale di testimoniare al mondo il suo amore, è un autentico dono di Dio, una ricchezza per la Chiesa, il fondamento indistruttibile su cui costruire il futuro personale e quello della Legione.
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Globalizzazione e valori comuni da difendere
World Summit of Religious Leaders a Baku
CITTA' DEL VATICANO, sabato, 1° maggio 2010 (ZENIT.org).- Il 26 e 27 aprile si è svolto a Baku, in Azerbaigian, il quinto World Summit of Religious Leaders, con la partecipazione di rappresentanti cristiani, musulmani, ebrei, buddisti e indù provenienti da trentadue Paesi.
Pubblichiamo qui di seguito l'intervento del presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, il cardinale Jean-Louis Tauran.
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Prima di tutto, desidero salutare quanti hanno organizzato questo importante vertice: sua santità il Patriarca Cirillo, capo della Chiesa ortodossa russa, e sua eccellenza lo Sheykh-ul-Islam Allahshükür Pasha-Zadé. È per me un privilegio rappresentare la Santa Sede fra voi, insieme con l'arcivescovo Claudio Gugerotti, nunzio apostolico in Azerbaigian, e gli altri membri della mia delegazione: padre Milan {U-Zcaron}ust, collaboratore del cardinale Kasper, e padre Filippo Ciampanelli, segretario della nunziatura apostolica. Desidero cogliere l'opportunità di esprimere al presidente dell'Azerbaigian, sua eccellenza Ilham Alyev, la nostra profonda gratitudine per la generosa ospitalità che ci è stata concessa e la nostra più profonda stima. Non posso non menzionare la presenza fra noi di sua santità Karekin ii, Patriarca supremo e Catholicos di tutti gli Armeni, e di tutti gli altri religiosi che Papa Benedetto xvi mi ha chiesto di salutare, con amore fraterno.
Il tema che ci fa riunire — «Globalizzazione, religioni, valori tradizionali al servizio del mondo» — ha catturato l'attenzione di Papa Benedetto xvi che, nell'inviarmi da voi, non solo desidera assicurarvi dei suoi buoni e ferventi auspici per il successo della vostra opera, ma anche esprimere pubblicamente il suo interesse per le vostre riflessioni. Questo interesse non sorprende perché il Papa, nella sua ultima enciclica, Caritas in veritate, ha scritto: «La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene». E, pur invitando uomini e donne oggi a viverla «in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione» (n. 42), ha raccomandato il rispetto per il principio di sussidiarietà che è «particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano» (n. 57).
L'assemblea interreligiosa che formiamo è un forte simbolo di questa possibilità — in realtà una vocazione — che i credenti hanno di vivere la diversità nell'unità, nella consapevolezza che «Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande» (n. 78).
Un'osservazione è necessaria: il mondo globalizzato in cui viviamo non è automaticamente fraterno. Al massimo possiamo dire che è un mondo ambiguo. Ha compiuto progressi grandiosi (mi riferisco al progresso scientifico, all'educazione per tutti, a tutto ciò che concerne i diritti umani fondamentali...), ma soffre anche per ovvi fallimenti (povertà, pandemie, guerre, fragilità della famiglia, spreco di risorse naturali). Di conseguenza molte persone sono disilluse e inclini a un vero e proprio pessimismo.
Inoltre, si tratta di un mondo organizzato senza Dio (a volte anche contro Dio!). Tuttavia — e questo è il paradosso — dopo un secolo di propaganda atea in Europa centrale e orientale, la fine dell'uniformità culturale, l'invasione del relativismo, lo sviluppo del pluralismo e la collocazione delle religioni in quarantena nella sfera privata, la «Religione» è diventata in alcuni anni un fattore inevitabile nel dialogo pubblico. Ci è stata inflitta la morte di Dio e ora Dio «si sta vendicando» (Kepel).
Infatti, molte persone hanno dimenticato che l'uomo è la sola creatura che pondera «il significato del significato». È la coscienza (la capacità di riflettere sul proprio destino, sul significato della vita e della morte) che lo distingue dal regno animale e vegetale. Oggi come ieri, l'uomo si pone domande essenziali. Lo fa nel contesto di società pluralistiche e religiosamente indifferenti. Tuttavia, come i suoi antenati, si rivolge ancora ai Cieli per ottenere risposte!
Noi, i credenti, apparteniamo a questo mondo. Condividiamo i problemi e le speranze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle in umanità. È in questo mondo che Dio ci ha piantato affinché rechiamo frutto!
Mi chiedo se siamo consapevoli a sufficienza del fatto che molti uomini e molte donne dei nostri tempi, anche senza saperlo, cercano Dio o vagano per le strade del mondo virtuale, spesso sopraffatti da una povertà fisica o morale, o lottano con la propria identità per scoprire il loro sacerdozio e la loro dignità che derivano dal loro Creatore. Sì, abbiamo una Missione: rivelare (svelare) a quanti vivono oggi che sono «abitati» da Dio, che li ama e desidera la loro felicità.
Dobbiamo farlo secondo le nostre rispettive tradizioni religiose, con rispetto per la coscienza di ognuno, nella pratica di un dialogo interreligioso che eviti due trappole: relativismo e intolleranza. Tuttavia, insieme possiamo fare molto: fra cristiani, ovviamente, ma anche fra cristiani e non cristiani. «Le nostre rispettive tradizioni religiose insistono tutte sul carattere sacro della vita e sulla dignità della persona umana (...) Con tutti gli uomini di buona volontà, noi aspiriamo alla pace» (Benedetto xvi, 1° febbraio 2007). Inoltre, a quanti hanno incarichi negli affari pubblici ricordo quanto è importante instaurare rapporti fiduciosi con le autorità religiose per trarre valori dal patrimonio spirituale delle loro comunità che possono contribuire all'armonia di spiriti, all'incontro di culture e al consolidamento del bene comune. I valori di tolleranza religiosa promossi dall'Azerbaigian sono di certo una realtà da consolidare e un esempio da seguire.
Qual è dunque il contributo specifico dei credenti all'edificazione di questo mondo? Ricordare che «l'uomo non vive di solo pane» e invitarlo a una vita interiore - «L'infelicità degli uomini viene da una cosa sola, non sapersene stare in pace in una stanza» (Pascal); rendere disponibile tutta la conoscenza che deriva dall'esperienza dei nostri incontri di preghiera, nei quali la diversità e l'unità convivono in armonia; insegnare l'attenzione per gli altri: abbiamo diritti, ma anche doveri; insegnare, nelle nostre famiglie, nelle nostre scuole e nelle nostre comunità la pedagogia della pace: «non possiamo essere felici gli uni senza gli altri e ancor meno gli uni contro gli altri; adottare uno stile di vita rispettoso delle risorse della terra e dell'ambiente, che ci faccia pensare agli altri e alle generazioni future; non essere timidi quando di tratta di ricordare ai responsabili della società che senza libertà e solidarietà non sono possibili né la pace né la felicità; non cedere mai di fronte alle pretese della tecnologia: penso chiaramente a certi esperimenti nella sfera della biologia che potrebbero condurre a un allontanamento da un approccio equilibrato alla gestione del creato.
Infine, desidero esprimere il desiderio che possiamo riuscire ad ascoltarci gli uni gli altri in questi giorni. Ci verrà chiesto di riferire del nostro lavoro. Di certo stiamo esponendo liberamente opinioni e idee al servizio dei potenti di questo mondo. Siamo responsabili religiosi che ascoltano «religiosamente» questo mondo precario e pluralista, il nostro mondo. Desideriamo offrire a esso quel che possediamo di più prezioso: la convinzione che «il mondo non è frutto del caso né della necessità, ma di un progetto di Dio» (Caritas in veritate, n. 57). È questo che ci spinge a «unire i [nostri] sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti, affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore» (ibidem).
Quindi sorge in me una domanda, che potrebbe essere, come è stato, un faro per questi giorni di riflessione: forse noi, i credenti, siamo responsabili della speranza del mondo?!
[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 30 aprile 2010]
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