Egregio Direttore,
l'articolo "Le due casseforti di Riva, re dell'acciaio" di Roberta
Scagliarini sul Corriere della Sera del 17 agosto fotografa in maniera
ineccepibile lo straordinario successo imprenditoriale del Gruppo Riva e
del suo fondatore Emilio Riva. Dall'articolo tuttavia non emerge che la
gran parte degli stratosferici utili accumulati dal Gruppo negli ultimi
quattro anni proviene dallo stabilimento siderurgico Ilva di Taranto. Ci
sia permesso di illuminare l'altra faccia della medaglia di questo
eccezionale successo.
Da oltre 40 anni i Tarantini subiscono le conseguenze delle emissioni
inquinanti dell'Ilva, un tempo di proprietà dello Stato e nel 1995
acquistata dal Gruppo Riva.
L'importanza strategica per l'Italia di questo colosso siderurgico e la
benevolenza dei potenti hanno fatto sì che per tutto questo tempo
l'inquinamento ambientale prodotto dal più grande stabilimento siderurgico
d'Europa non fosse contrastato come occorreva.
Da poco tempo i Tarantini hanno preso coscienza del loro diritto a vivere
in un ambiente non inquinato, diritto naturale sancito più di un decennio
fa dalla Comunità Europea ma a lungo ignorato in Italia per irresponsabile
disinteresse dei governi e di gran parte dei parlamentari nonché. Non
mancano inoltre le responsabilità dei Sindaci, massimi tutori della salute
dei cittadini in virtù del Testo unico sanitario del 1934.
Sono del 1996 le norme europee che hanno stabilito che anche le aziende
italiane, Ilva inclusa, dovessero dotarsi di Autorizzazione Integrata
Ambientale (AIA) entro il 30 ottobre 2007. L'AIA prevale su tutte le
autorizzazioni precedenti e condiziona l'esercizio degli impianti
all'adozione delle migliori tecnologie disponibili e alla massima
riduzione delle emissioni di inquinanti in aria, acqua e suolo. In Europa,
gli impianti privi di AIA non sono autorizzati a funzionare. Alla data del
30 ottobre 2007 nessuna grande azienda italiana era in possesso dell'AIA e
tutte hanno continuato a produrre ed a inquinare. In più, gli Italiani ed
i Tarantini in gran parte non sanno che al danno subito per l'inquinamento
non contrastato si aggiungerà la beffa delle salatissime multe che la
Comunità Europea comminerà allo Stato italiano per infrazione della legge
comunitaria del 1996 relativa all'AIA, multe che gli Italiani pagheranno
con le tasse, mentre ai veri colpevoli dell'infrazione non verrà chiesto
un euro.
A Taranto, dichiarata per legge "città ad elevato rischio di crisi
ambientale", è stata accertata inequivocabilmente l'emissione continuativa
di diossina dall'impianto di agglomerazione dell'Ilva, con valori tali che
l'impianto dovrebbe essere chiuso se si trovasse in altri Stati europei.
In Italia, però, "misteriosamente" è stato definito per legge un limite
per la diossina "siderurgica" irragionevolmente alto, tale da porci
nettamente al di sopra dai valori indicati dal Protocollo di Aarhus.
Quel limite abnorme adottato dalla legge italiana per la diossina (10000
nanogrammi calcolati in concentrazione totale) resta immodificato
nonostante rapporti ufficiali di organismi dello Stato, dichiarazioni di
Sottosegretari del Ministero della salute, interrogazioni parlamentari,
richieste ufficiali del Presidente della Regione Puglia, Ordini del Giorno
di Consigli comunali, appelli di associazioni, comitati e cittadini al
Presidente della Repubblica ed altro. Solo nel civilissimo Friuli Venezia
Giulia è stato possibile adottare il limite europeo per la diossina
proveniente dall'impianto di agglomerazione.
Ora, con la procedura nazionale dell'AIA e con l'Accordo di Programma del
11 aprile 2008, specifico per il territorio di Taranto e Statte, firmato
da tre Ministeri, Agenzie nazionali, Presidente di Regione ed Enti Locali
e sottoscritto da 7 aziende che operano nel territorio, Ilva SpA inclusa,
si presenta l'occasione storica per mettere fine alla catena di ritardi,
omissioni e distorsioni che hanno caratterizzato l'intera vicenda
dell'inquinamento ambientale di origine industriale a Taranto.
Il nostro obiettivo è quello di contribuire a conciliare la sopravvivenza
dell'azienda con i sacrosanti diritti alla salute, alla sicurezza e
all'ambiente, in una parola, alla vita e alla salute dei Tarantini,
compromessa dai veleni che quotidianamente vengono sparsi nel cielo e nel
mare di Taranto. Tanto per fare un esempio, secondo i dati di stima
dell'INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e delle Sorgenti), il
90,3% della diossina industriale in Italia verrebbe prodotta a Taranto e
precisamente dall'Ilva.
Il nostro obiettivo è pertanto quello di porre fine a questo scandalo
nazionale ed europeo.
Per fare questo occorrono grandi e specifici investimenti finanziati
dall'Ilva utilizzando una parte degli stratosferici utili accumulati,
senza peraltro trascurare le possibilità offerte dalla Comunità Europea
con i Fondi strutturali 2007 – 2013. E' necessario, però, che il Gruppo
Riva presenti un nuovo piano di adeguamento dello stabilimento alle MTD
(Migliori Tecnologie Disponibili): quello presentato dall'azienda il 10
giugno 2008 è insufficiente oltre che inattendibile. L'Associazione
PeaceLink ha ripetutamente sfidato l'Ilva ad un pubblico confronto su quel
piano che rimanda al 2014 gli investimenti per ridurre la diossina a
livelli "europei". Ad oggi dichiara di non essere disposta a scendere
sotto i 3,5 nanogrammi a metro cubo di diossina (calcolati in tossicità
equivalente) quando invece esistono tecnologie (come la MEROS applicata in
Austria) che potrebbero far scendere quelle emissioni sotto il livello di
0,1 nanogrammi a metro cubo. Siamo quindi di fronte a un'azienda che, come
ben documentato dal Corriere della Sera, fa utili e naviga nell'oro ma
lesina quando si tratta di investire nelle migliori tecnologie per
abbattere le proprie micidiali emissioni cancerogene e genotossiche.
Prof. Alessandro Marescotti – Presidente Nazionale di PeaceLink
Ing. Biagio De Marzo – Portavoce di PeaceLink Nodo di Taranto
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