lunedì 11 gennaio 2010

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Servizio quotidiano - 11 gennaio 2010

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Benedetto XVI: il rispetto del creato esige quello della vita umana
"La terra può nutrire tutti i suoi abitanti"

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La difesa dell'ambiente non può essere opposta a quella della vita umana. Lo ha ricordato Benedetto XVI nel suo tradizionale discorso di inizio anno al Corpo Diplomatico, questo lunedì mattina.

Il Papa ha affrontato il tema del degrado ambientale, in linea con il suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio, sottolineando che questo degrado ha cause morali che risiedono “nella mentalità corrente egoistica e materialistica, dimentica dei limiti propri a ciascuna creatura”.

“Oggi mi preme sottolineare che questa stessa mentalità minaccia anche il creato”, ha affermato.

In questo senso, ha espresso la sua preoccupazione per “le resistenze di ordine economico e politico alla lotta contro il degrado dell’ambiente”, come si è potuto constatare alla Conferenza di Copenhagen del dicembre scorso.

A questo proposito, ha ribattuto all'idea, risuonata in questo vertice, di utilizzare il controllo della popolazione come presunta soluzione ai problemi ambientali.

“Se, infatti, si vuole edificare una vera pace, come sarebbe possibile separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita?”, si è chiesto.

Il Papa ha avvertito che “è nel rispetto che la persona umana nutre per se stessa che si manifesta il suo senso di responsabilità verso il creato. Perché, come insegna S. Tommaso d’Aquino, l’uomo rappresenta quanto c’è di più nobile nell’universo”.

Ha inoltre sottolineato, ricordando il suo discorso al recente Vertice Mondiale della FAO sulla Sicurezza alimentare, il 16 novembre, che “la terra può sufficientemente nutrire tutti i suoi abitanti, purché l’egoismo non porti alcuni ad accaparrarsi i beni destinati a tutti”.

In tal senso, si è detto fiducioso che nei prossimi vertici sull'ambiente di Bonn e Città del Messico sia possibile giungere a un accordo dal punto di vista economico e politico “per affrontare tale questione in modo efficace”.

“La posta in gioco è tanto più importante perché ne va del destino stesso di alcune Nazioni, in particolare, alcuni Stati insulari”, ha aggiunto.

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Il Papa chiede a israeliani e palestinesi di riconoscere i reciproci diritti
Esprime una particolare preoccupazione per i cristiani del Medio Oriente

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La pace in Terra Santa verrà raggiunta solo quando sia i palestinesi che gli israeliani si riconoscerannno reciprocamente il diritto di avere uno Stato, ha affermato Papa Benedetto XVI questo lunedì.

Il Pontefice ha menzionato la situazione mediorientale, così come quella dei cristiani che vivono in questa regione, durante l'udienza che ha concesso al Corpo Diplomatico per l'inizio dell'anno.

“Durante il mio pellegrinaggio in Terra Santa, ho richiamato in modo pressante Israeliani e Palestinesi a dialogare e a rispettare i diritti dell’altro”, ha ricordato.

Il Papa ha voluto rinnovare il suo appello alla pace a entrambe le parti, e ha chiesto che “sia universalmente riconosciuto il diritto dello Stato di Israele ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti”.

Allo stesso modo, ha insistito sul fatto che deve essere “riconosciuto il diritto del Popolo palestinese ad una patria sovrana e indipendente, a vivere con dignità e a potersi spostare liberamente”, rinnovando anche la richiesta a che “siano protetti l’identità e il carattere sacro di Gerusalemme, la sua eredità culturale e religiosa, il cui valore è universale”.

“Solo così questa città unica, santa e tormentata, potrà essere segno e anticipazione della pace che Dio desidera per l’intera famiglia umana”, ha commentato.

La situazione dei cristiani

Il Papa ha voluto menzionare in particolare la situazione dei membri delle minoranze cristiane del Medio Oriente, che si vedono costretti a emigrare a causa delle tante difficoltà.

“Colpiti in varie maniere, fin nell’esercizio della loro libertà religiosa, essi lasciano la terra dei loro padri in cui si è sviluppata la Chiesa dei primi secoli”, ha lamentato.

In particolare, si è riferito alla situazione conflittuale in Iraq e ha esortato i governanti e i cittadini iracheni “ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro Paese”.

“Anche le comunità cristiane vogliono dare il loro contributo, ma perché ciò sia possibile, bisogna che sia loro assicurato rispetto, sicurezza e libertà”, ha affermato.

Si è poi riferito al caso del Pakistan, “duramente colpito dalla violenza in questi ultimi mesi e alcuni episodi hanno preso di mira direttamente la minoranza cristiana”.

“Domando che si compia ogni sforzo affinché tali aggressioni non si ripetano e i cristiani possano sentirsi pienamente integrati nella vita del loro Paese”, ha dichiarato.

Allo stesso modo, ha deplorato l'attentato “di cui sono state vittime le Comunità copte egiziane in questi ultimi giorni, proprio quando stavano celebrando il Natale”.

La convocazione dell'Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente, che si svolgerà nell'ottobre prossimo a Roma, ha proprio l'obiettivo di dare sostegno alle minoranze cristiane mediorientali e di “far loro sentire la vicinanza dei fratelli nella fede”, ha spiegato.

Risoluzione dei conflitti

Benedetto XVI ha rivolto anche un appello alla “concordia” e alla “stabilità” degli Stati: “quando insorgono divergenze ed ostilità fra questi ultimi, per difendere la pace debbono perseguire con tenacia la via di un dialogo costruttivo”.

In questo senso, ha voluto ricordare l'esperienza, 25 anni fa, del Trattato di Pace e Amicizia tra Argentina e Cile, “raggiunto grazie alla mediazione della Sede Apostolica” e che ha portato “abbondanti frutti di collaborazione e prosperità, di cui ha beneficiato, in qualche modo, l’intera America Latina”.

Il Papa si è poi detto “lieto del riavvicinamento intrapreso da Colombia ed Ecuador, dopo parecchi mesi di tensione”, e ha espresso il proprio compiacimento per l'intesa conclusa tra Croazia e Slovenia “a proposito dell’arbitrato relativo alle loro frontiere marittime e terrestri”, così come per l'accordo tra Armenia e Turchia, “in vista della ripresa delle loro relazioni diplomatiche”.

Ha quindi auspicato che questo dialogo si estenda ad altri conflitti esistenti, riferendosi concretamente alla necessità di un miglioramento dei rapporti “fra tutti i Paesi del Caucaso meridionale”.

Ha anche menzionato l'Iran, chiedendo che “attraverso il dialogo e la collaborazione, si raggiungano soluzioni condivise, sia a livello nazionale che sul piano internazionale”. Quanto al Libano, “che ha superato una lunga crisi politica”, ha auspicato che si possa “proseguire sempre sulla via della concordia”.

“Confido che l’Honduras, dopo un periodo di incertezza e trepidazione, si incammini verso una ritrovata normalità politica e sociale. E lo stesso mi auguro che si realizzi in Guinea ed in Madagascar, con l’aiuto effettivo e disinteressato della comunità internazionale”, ha aggiunto.

Catastrofi naturali

Benedetto XVI ha poi sottolineato l'importanza della solidarietà internazionale non solo nella mediazione dei conflitti, ma anche al momento di rispondere alle grandi catastrofi naturali che “durante l’anno scorso hanno seminato morti, sofferenze e distruzioni nelle Filippine, in Vietnam, nel Laos, in Cambogia e nell’isola di Taiwan”.

“Come non ricordare poi l’Indonesia, e, più vicino a noi, la regione dell’Abruzzo, scosse da devastanti terremoti?”, ha chiesto.

“Di fronte a simili eventi non deve venire meno l’aiuto generoso, perché la vita stessa delle creature di Dio è in gioco”.

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Benedetto XVI: l'Occidente deve adottare una "laicità positiva"
Le radici del degrado ambientale sono "di ordine morale"
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Papa ha chiesto questo lunedì, soprattutto all'Occidente, un riconoscimento del contributo che le religioni danno alla pace e al rispetto della creazione attraverso una “laicità positiva”. 

Lo ha affermato durante il suo discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la santa Sede durante la tradizionale udienza di inizio anno, nella quale il Pontefice si riferisce alla situazione mondiale.

In questa occasione, ha voluto dedicare il suo intervento alla questione della salvaguardia dell'ambiente come condizione “indispensabile” per la pace nel mondo.

Le cause del degrado ambientale, ha osservato, sono tuttavia “di ordine morale e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo, per promuovere un effettivo cambiamento di mentalità ed instaurare nuovi stili di vita”.

In questo senso, ha affermato che “può e vuole essere partecipe la comunità dei credenti, ma perché ciò sia possibile, bisogna che se ne riconosca il ruolo pubblico”.

Il Papa ha lamentato che “in alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si diffondono, negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo verso la religione, in particolare quella cristiana”.

“E’ chiaro che, se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso”, ha osservato.

Secondo Benedetto XVI, questo modo di concepire la società “crea tuttavia scontro e divisione, ferisce la pace, inquina l’ecologia umana e, rifiutando, per principio, le attitudini diverse dalla propria, si trasforma in una strada senza uscita”.

Per questo, è necessario “definire una laicità positiva, aperta, che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa”.

In questa prospettiva, ha espresso la propria soddisdazione per il fatto che il Trattato di Lisbona, attualmente in fase di ratifica, affermi all'art. 17 che l'unione Europea manterrà con le Chiese “un dialogo aperto, trasparente e regolare”.

Il Papa ha poi auspicato che “l’Europa sappia sempre attingere alle fonti della propria identità cristiana”.

“Come ho rimarcato durante il mio viaggio apostolico del settembre scorso nella Repubblica Ceca, essa ha un ruolo insostituibile per la formazione della coscienza di ogni generazione e per la promozione di un consenso etico di fondo, al servizio di ogni persona che chiama questo continente 'casa'”.

A questo proposito, ha affermato che con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona l'Europa “ha iniziato una nuova fase del suo processo di integrazione”, processo che la Santa Sede “continuerà a seguire con rispetto e con benevola attenzione”.

Senza Dio, non c'è rispetto del creato

“La Chiesa è aperta a tutti, perché – in Dio - esiste per gli altri! Pertanto essa partecipa intensamente alle sorti dell’umanità”, ha sottolineato il Vescovo di Roma.

Riferendosi all'attuale crisi economica, ha osservato che le cause sono di tipo morale e che devono essere ricercate “nella mentalità corrente egoistica e materialistica, dimentica dei limiti propri a ciascuna creatura”.

“Oggi mi preme sottolineare che questa stessa mentalità minaccia anche il creato”, ha constatato, portando come esempio il caso dell'Est europeo, dove i regimi comunisti atei hanno provocato, tra le altre cose, gravi danni ambientali.

“Quando cadde il Muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo Continente, non si è potuto avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria?”, ha chiesto.

La negazione di Dio, ha aggiunto, “sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione”.

Per questo, ha concluso che la salvaguardia del creato “non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio”.

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Il Papa chiede una diminuzione delle spese militari nel mondo
Soprattutto per quanto riguarda gli armamenti nucleari

di Inma Álvarez

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha chiesto questo lunedì una diminuzione delle spese militari, soprattutto degli armamenti nucleari, nel suo tradizionale discorso di inizio anno al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede.

L'udienza si è celebrata alle 11.00 nella Sala Regia del Palazzo Apostolico. Durante il suo intervento, il Papa ha ripreso il suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno, dedicato alla questione ambientale.

La difesa dell'ambiente “è un importante fattore di pace e di giustizia”, ha affermato il Pontefice, insistendo sul fatto che “fra le tante sfide che essa lancia, una delle più gravi è quella dell’aumento delle spese militari, nonché quella del mantenimento o dello sviluppo degli arsenali nucleari”.

“Ciò assorbe ingenti risorse, che potrebbero, invece, essere destinate allo sviluppo dei Popoli, soprattutto di quelli più poveri”, ha aggiunto.

Il Papa ha espresso la propria fiducia nel fatto che nella prossima Conferenza di esame del Trattato di Non-Proliferazione nucleare, in programma a New York a maggio, “vengano prese decisioni efficaci in vista di un progressivo disarmo, che porti a liberare il pianeta dalle armi nucleari”.

Dall'altro lato, ha condannato “la produzione e l’esportazione di armi”, che contribuiscono “a perpetuare conflitti e violenze”, soprattutto in Africa.

In concreto, si è riferito ai conflitti nel Darfur, in Somalia e nella Repubblica Democratica del Congo, deplorando l'“incapacità delle parti direttamente coinvolte di sottrarsi alla spirale di violenza e di dolore generata da questi conflitti”.

A questo, ha sottolineato, “si aggiunge l’apparente impotenza degli altri Paesi e delle Organizzazioni internazionali a riportare la pace, senza contare l’indifferenza quasi rassegnata dell’opinione pubblica mondiale”.

“Non occorre poi sottolineare come tali conflitti danneggino e degradino l’ambiente”, ha rilevato.

Allo stesso modo, ha condannato anche “il terrorismo che mette in pericolo un così gran numero di vite innocenti e provoca un diffuso senso di angoscia”.

“In questa solenne circostanza, desidero rinnovare l’appello che ho lanciato il 1° gennaio durante la preghiera dell’Angelus a quanti fanno parte di gruppi armati di qualsiasi tipo affinché abbandonino la strada della violenza e aprano il loro cuore alla gioia della pace”.

Risorse per tutti

Queste “gravi violenze”, ha spiegato Benedetto XVI, “unite ai flagelli della povertà e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra”.

La lotta per accedere alle risorse naturali, ha dichiarato, è un'importante fonte di conflitti, particolarmente in Africa, e una permanente fonte di rischi per la pace.

“Anche per questa ragione ripeto con forza che, per coltivare la pace, bisogna custodire il creato!”, ha esclamato.

La salvaguardia del creato “implica una corretta gestione delle risorse naturali dei Paesi, in primo luogo, di quelli economicamente svantaggiati”.

In particolare, il Pontefice ha richiamato la situazione africana, per come si è riflessa nel recente Sinodo dei Vescovi.

“I Padri sinodali hanno segnalato con preoccupazione l’erosione e la desertificazione di larghe zone di terra coltivabile, a causa dello sfruttamento sconsiderato e dell’inquinamento dell’ambiente”.

“In Africa, come altrove, è necessario adottare scelte politiche ed economiche che assicurino forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti”, ha ricordato il Papa, che si è riferito anche al traffico di droga che avviene in molti Paesi poveri.

“Ci sono ancora vaste estensioni di terra, per esempio in Afghanistan ed in alcuni paesi dell’America Latina, dove purtroppo l’agricoltura è ancora legata alla produzione di droga e costituisce una fonte non trascurabile di occupazione e di sostentamento”.

“Se si vuole la pace, occorre custodire il creato con la riconversione di tali attività. Chiedo perciò alla comunità internazionale, ancora una volta, che non si rassegni al traffico della droga ed ai gravi problemi morali e sociali che essa genera”.

Il Papa ha quindi esortato tutti i Paesi “ad operare con fiducia e generosità per la dignità e la libertà dell’uomo”, consapevoli che “l’ecologia ambientale ne trarrà beneficio, poiché il libro della natura è uno ed indivisibile”.

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Il Patriarca di Gerusalemme e il Nunzio in Israele con il Papa in Sinagoga
I cattolici di Terra Santa accompagnano il Pontefice nella visita al Tempio Maggiore di Roma
ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- “Ci saranno anche i cattolici di Terra Santa ad accompagnare Benedetto XVI nella sua visita alla sinagoga di Roma”, prevista per domenica 17 gennaio. E’ lo stesso Patriarca latino di Gerusalemme, mons. Fouad Twal, a dichiararlo all'agenzia SIR.

L'annuncio è stato fatto a margine della visita alle popolazioni cristiane e alle Chiese presenti in Terra Santa, in corso fino al 14 gennaio, di una delegazione di ventisei persone tra Vescovi e rappresentanti di Conferenze episcopali e Organismi ecclesiali europei e nord americani.

Insieme al Patriarca Twal ci saranno anche mons. Antonio Franco, Nunzio apostolico in Israele e Delegato apostolico per Gerusalemme e i Territori palestinesi, mons. Giacinto Boulos Marcuzzo, Vicario del Patriarca di Gerusalemme dei latini per Israele.

“Andrò con il Papa in sinagoga – ha detto mons. Twal -, il mio augurio è che questa visita possa aiutare i nostri rapporti interreligiosi. E’ un gesto che facciamo con il cuore per dimostrare il nostro rispetto anche alla comunità israeliana. Speriamo che questo gesto avrà un impatto positivo sull’opinione pubblica israeliana e su Gerusalemme”.

Secondo il padre David Neuhaus, Vicario patriarcale per le comunità cattoliche di lingua ebraica, “questa visita, che pure non rappresenta una novità, ha un alto valore simbolico. Ebrei e cattolici – ha spiegato sempre all'agenzia SIR - forse non sono ancora abituati a vedere che la Chiesa cattolica andare con rispetto verso i fratelli ebrei”.

“Significativo – ha poi commentato – il fatto che domenica ci siano il Patriarca ed il Nunzio, perché indica che anche la Chiesa di Terra Santa fa parte della Chiesa universale che ha a cuore anche le sorti di queste comunità mediorientali. Una visita che potrebbe contribuire nel tempo a far cambiare mentalità alle generazioni future”.

Intanto è stata confermata anche la presenza di una delegazione del Gran Rabbinato di Israele alla cerimonia alla Sinagoga di Roma in occasione della visita del Papa. La delegazione giungerà a Roma per la IX riunione del Comitato misto che riunisce le delegazioni della Commissione della Santa Sede e del Gran Rabbinato d'Israele per le relazioni con la Chiesa cattolica, che si svolgerà dal 17 al 20 gennaio.

La visita del Papa il 17 gennaio cade in occasione della 21.ma Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che ha come tema: “La Quarta Parola: 'Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo' (Es 20,8)”.

La data riveste un ulteriore significato per la comunità ebraica romana, perché in quel giorno si celebra anche il “Mo’ed di piombo”, ovvero la “festa di piombo”, in memoria di un evento considerato come prodigioso verificatosi nel 1793, quando la comunità ebraica di Roma si salvò dall'assalto di alcuni facinorosi che volevano dare alle fiamme il ghetto.

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Il Battesimo amministrato dal Papa: una doppia benedizione
Intervista con due genitori, Luca Girnone e Samantha Barreca

di Carmen Elena Villa

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Questa domenica mattina, la Cappella Sistina ha accolto 14 invitati speciali. Erano i neonati – la più piccola del gruppo è nata il 3 dicembre – che hanno ricevuto il primo sacramento della vita cristiana dalle mani di Papa Benedetto XVI in occasione della festa del Battesimo del Signore.

I celebri affreschi di Michelangelo e l'opera chiamata “Il battesimo di Cristo” di Pietro Perugino e Pinturicchio, che adorna la Cappella Sistina, sono stati i testimoni dell'iniziazione alla vita cristiana di questi piccoli.

Durante la cerimonia si sentivano pianti, balbettii e le domande che i fratelli maggiori dei neonati ponevano ai genitori.

I battezzati sono tutti figli di impiegati del Vaticano. Erano accompagnati dai genitori, dai padrini e dalle madrine, oltre che da un piccolo gruppo di familiari.

In questa occasione i fratelli e le sorelle maggiori hanno avuto un ruolo speciale, venendo incaricati di portare le offerte all'altare. Il Pontefice ha salutato ciascuno e ha rivolto loro alcune parole.

Un privilegio e una responsabilità

Tra i bambini c'era Gabriele, nato il 1° dicembre. Il suo nome completo è Gabriele Maria Andrea Karol. E' il primogenito di Luca Grilone, impiegato dei Musei Vaticani, e Samantha Barreca, che si sono sposati nel luglio 2008.

Parlando con ZENIT dopo la cerimonia, Luca ha affermato che il Battesimo di suo figlio è un fatto doppiamente sacro: “primo per quanto riguarda il fatto in se stesso, e poi perché è stato battezzato dal Papa, proprio nel luogo in cui viene eletto il Santo Padre”.

Per Luca non è una novità ricevere un sacramento dalle mani del Papa, visto che è stato Giovanni Paolo II a dargli la prima Comunione nel 1986.

Per vari anni, il neopapà è stato anche accolito in alcune cerimonie papali. “Vedevo i cerimonieri e pensavo che 20 anni fa ero al loro posto. Ora mi sono sposato e sono diventato papà”, ha ricordato.

Dal canto suo, Samantha ha confessato a ZENIT che prima della cerimonia era preoccupata del fatto che il bambino potesse piangere, ma il piccolo Gabriele è rimasto silenzioso per tutta la celebrazione, quasi due ore. “Magari stava pregando”, ha commentato il papà sorridendo.

“Il nostro bambino è stato purificato dal peccato originale. Ci auguriamo che tramite il nostro esempio riusciamo a camminare con lui nel percorso cristiano che inizia oggi”, ha detto Samantha.

La mamma di Gabriele ha aggiunto che vorrebbe che il figlio diventasse sacerdote. “Forse è troppo presto. Non so se sarà la volontà di Dio. Bisogna vedere la strada che prenderà il bambino, poi si vedrà”.

Il rito del Battesimo è stato compiuto al fonte battesimale bronzeo opera dello scultore Mario Toffetti. I genitori del neonato hanno ricevuto la Comunione dal Papa.

“Quando abbiamo ricevuto la Comunione e al fonte battesimale quasi non ce la facevo, ridevo e piangevo contemporaneamente. Ho cercato di trattenere le lacrime”, ha spiegato Samantha.

La mamma di Gabriele ha concluso il suo dialogo con ZENIT esprimendo la sua ammirazione per il Papa: “Mi piace come parla, come si esprime con piccoli gesti. È affettuoso. Chi non lo vive personalmente non nota le piccole cose. Nel momento del Battesimo, sembrava un nonno. Pur non conoscendoci ci ha trasmesso l'affetto con lo sguardo. Porterò questa cosa nel cuore per tutta la vita”.

La celebrazione eucaristica è stata concelebrata dall'Arcivescovo Beniamino Stella, presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, e dall'Arcivescovo Felix del Blanco, elemosiniere del Santo Padre.

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La Santa Sede mantiene relazioni diplomatiche con 178 Stati

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Attualmente sono 178 gli Stati che intrattengono relazioni diplomatiche piene con la Santa Sede. E' quanto si legge in un comunicato diramato questo lunedì dalla Sala Stampa della Santa Sede.

A questi vanno aggiunti l’Unione Europea ed il Sovrano Militare Ordine di Malta e una Missione a carattere speciale: l’Ufficio dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Per quanto riguarda le Organizzazioni internazionali, la Santa Sede è presente all’ONU in qualità di "Stato osservatore"; è, inoltre, membro di 7 Organizzazioni o Agenzie del sistema ONU, osservatore in altre 8 e membro o Osservatore in 5 Organizzazioni regionali.

Il 9 dicembre 2009, la Santa Sede ha stabilito relazioni diplomatiche con la Federazione Russa, a livello di Nunziatura apostolica da parte della Santa Sede e di Ambasciata da parte della Federazione Russa. Il Vaticano e l'ex Unione Sovietica aveva già stabilito relazioni diplomatiche nel 1990, successivamente al crollo del regime comunista, ma con semplici uffici di rappresentanza.

Nel corso del 2009 è stato firmato il 12 gennaio un accordo della Santa Sede con il Land Schleswig-Holstein (Germania) per regolare la situazione giuridica della Chiesa cattolica in quel Land; lo scambio degli strumenti di ratifica di tale è accordo è avvenuto il 27 maggio.

Il 5 marzo è stato sottoscritto il VI accordo addizionale alla Convenzione fra la Santa Sede e l’Austria per il regolamento di rapporti patrimoniali; lo scambio delle ratifiche si è svolto il 14 ottobre.

Il 10 dicembre si è proceduto allo scambio degli strumenti di ratifica dell’accordo con il Brasile, firmato il 13 novembre 2008.

Infine, il 17 dicembre è stata conclusa una nuova Convenzione monetaria tra lo Stato della Città del Vaticano e l'Unione Europea, che sostituisce quella del 29 dicembre 2000, con la quale si introduceva nello Stato della Città del Vaticano l’euro come moneta ufficiale.

La Convenzione stabilisce a 2.300.000 euro fissi, più una quota supplementare variabile, il valore nominale della massa monetaria che può essere battuta dal Vaticano (prima il valore nominale era di 1.074.000 euro).

Inoltre, d’ora in poi, almeno il 51% della moneta vaticana dovrà essere destinata alla circolazione. In passato, infatti, poteva succedere che gran parte degli euro vaticani venissero destinati al collezionismo.

Infine, con la firma della Convenzione, il Vaticano recepisce tutte le normative comunitarie contro il riciclaggio di denaro, la frode e la falsificazione delle banconote.



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Notizie dal mondo


Il Custode francescano: la barriera in Egitto accentuerà la separazione

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- “La barriera servirà ad accentuare la separazione, l’impenetrabilità del confine”. E' quanto ha affermato padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, in un'intervista alla “Radio Vaticana” in merito alla decisione del Primo Ministro israeliano Benyamin Netanyahu di costruire una barriera lungo il confine con l'Egitto per impedire l'ingresso agli immigrati clandestini provenienti dall'Africa e a quelli che ha definito “terroristi”.

Secondo il Custode, il muro – pensato sul modello di quelli già esistenti con la Striscia di Gaza e la Cisgiorndania – non avrà grandi ripercussioni sul confine: “anche se adesso non c’è una barriera, è già piuttosto custodito”.

Il premier ha comunque affermato che Israele continuerà ad accogliere i profughi che provengono da zone di conflitto.

Israele, ha ricordato, è ormai di fatto “un’enclave separata rispetto a tutto il resto del Medio Oriente”.

Questo atteggiamento, ha ammesso, “ha ottenuto degli effetti”, visto che “bisogna riconoscere onestamente che gli attentati sono quasi del tutto scomparsi”.

I muri, ha denunciato padre Pizzaballa, sono comunque estremamente deleteri dal punto di vista sociale e umano.

Per la popolazione palestinese, ha ricordato, gli effetti “sono drammatici, perché sono separati dalle scuole, dal lavoro, dalle attività: intere comunità sono divise”.

“Il muro blocca la vita di centinaia di migliaia di palestinesi. Soprattutto nelle zone fra Gerusalemme e Betlemme il muro separa i bambini dalla scuola, la gente dall’ospedale, gli uomini dai posti di lavoro, creando seri problemi per la vita normale di ogni giorno”.

In questo contesto, ha commentato, è necessario “che la Chiesa continui, come il Papa sta facendo, e così anche i Vescovi, ad essere presente con la preghiera anzitutto, ma anche con un’azione forte sui mezzi di comunicazione e sulle autorità politiche, perché questa realtà non venga dimenticata e venga affrontata con la serenità necessaria”.

Il muro tra Israele e l'Egitto richiederà due anni di lavori, costando circa 270 milioni di dollari.

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Portogallo: approvato il matrimonio omosessuale
I Vescovi lamentano che si legiferi contro istituzioni "naturali e fondamentali"

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Parlamento del Portogallo ha approvato venerdì il disegno di legge del Governo che permette il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso. La possibilità che queste coppie possano adottare bambini è rimasta finora fuori dalla nuova legislazione.

La proposta è stata approvata con il sostegno dei voti del Partito Socialista (PS), che governa in minoranza con 97 dei 230 seggi dell'Assemblea. Hanno dato il proprio sostegno anche il Partito Comunista del Portogallo (PCP), il Blocco di Sinistra e i Verdi.

L'agenzia dell'episcopato portoghese, Ecclesia, ha ricordato che vari membri della gerarchia cattolica si sono pronunciati su questo tema nelle ultime settimane.

Monsignor Ilídio Leandro, Vescovo di Viseu, ha lamentato il fatto che il Governo legiferi “contro istituzioni che sono basi naturali e fondamentali” della società.

Il Cardinal-Patriarca di Lisbona, monsignor José Policarpo, ha indicato che “il problema in questione non è l'omosessualità. Il discorso ha altri parametri. In questo momento, è in gioco la natura del matrimonio, che non è una questione religiosa, ma innanzitutto culturale”.

“Le culture millenarie considerano il matrimonio un contratto tra un uomo e una donna, che dà luogo a un'istituzione, la famiglia. Cambiare questa comprensione millenaria di ciò che è la famiglia nell'umanità può avere conseguenze gravissime in futuro”, ha affermato il Cardinale.

Monsignor Manuel Clemente, Vescovo di Porto, ha ribadito dal canto suo che il matrimonio è “basato sull'alterità uomo/donna, che è alla base della costruzione della società”.

“Dico questo da cittadino: c'è qui un valore strutturante della società, istituzionale, relativo a qualcosa che la società ha riconosciuto come molto importante e per questo aveva bisogno di essere salvaguardato e promosso”, ha indicato.

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Pakistan: al via il primo canale televisivo cattolico
Trasmette eventi religiosi, ma anche informazione e attualità

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Natale in Pakistan ha visto l'inizio delle trasmissioni di Good News Tv, il primo canale satellitare cattolico del Paese, che diffonde Messe quotidiane e rosari ma anche informazione, attualità e intrattenimento.

Il canale, visibile in Asia, Africa, Oceania ed Europa, ha diffuso un messaggio di auguri natalizi a cattolici, musulmani e protestanti, ricorda AsiaNews.

Monsignor Evaristo Pinto, Arcivescovo della Diocesi di Karachi, ha presieduto la cerimonia di inaugurazione del canale, durante la quale ha benedetto Good News Tv e la sua sede, a Karachi.

Il presule ha definito il lancio del canale cattolico “una data storica per la Chiesa cattolica in Pakistan”, sottolineando che la televisione “sarà davvero annunciatrice della Buona Novella, sarà fonte di armonia e un ponte per superare le distanze fra le persone”.

Un gruppo di musulmani e protestanti ha inviato un messaggio di congratulazioni, auspicando che “porti un cambiamento in positivo nella società”.

Il direttore di Good News Tv, padre Arthur Charles, spera che diventi “il canale più visto del Paese”. Il palinsesto prevede la Messa giornaliera, la recita del Rosario, programmi sulla vita dei santi, informazione, trasmissioni di attualità e formazione, musica e intrattenimento.

L’obiettivo è quello di “trasformare il panorama dell’informazione del Pakistan”, attraverso programmi “pensati per il pubblico” e “di altissima qualità”.

I giornalisti e i conduttori di grande esperienza, ha aggiunto padre Charles, “sapranno fare la differenza” rispetto agli altri canali del Paese.

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Quando Indro Montanelli lodava i missionari

di Piero Gheddo

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- A quasi dieci anni dalla sua scomparsa, si pubblicano ancora biografie e libri di ricordi su Indro Montanelli (22 aprile 1909-22 luglio 2001). L’ultimo è di Giorgio Torelli: “Non avrete altro Indro”, (Ancora editrice, Milano 2009, pagg. 136, 13 Euro). Il titolo dice bene i contenuti del volume.

Torelli, ricorda in modo appassionato il suo amico e direttore Indro (fu tra i primi ad unirsi a lui per fondare “Il Giornale” nel 1974). Mario Cervi, presentando il volume sul Giornale, scrive che Torelli ricorda Indro come “un laico raccontato con nostalgia cristiana”. Espressione felice, perché questo è proprio il sentimento che ha mosso l’amico Giorgio a scrivere ed a chiedere anche a me un contributo al suo volume.

Personalmente non ho avuto una vera e propria frequentazione con Indro, ma molte occasioni di incontro e riflessione. Ho collaborato con “Il Giornale” e poi con “La Voce” dal 1986 al 1995 e prima ancora, nel 1972 a Campione d’Italia mi aveva assegnato l‘immeritato “Premio Campione” dei giornalisti italiani, per il volume “Terzo mondo perchè povero?” (Emi).

Dopo la consegna del Premio, mi prese in disparte e mi disse (ricordo benissimo queste parole): “Ti ho assegnato con la Giuria questo Premio, perché sei un missionario e parli dei missionari italiani nel mondo, raccontando le loro esperienze di aiuto ai popoli poveri”. E aggiungeva con tono un po’ maligno: “Se eri un prete e parlavi dei preti in Italia, il Premio te lo potevi sognare”.

Poi, nel 1986 mi chiamò al Giornale, attraverso Giorgio Torelli ed Egisto Corradi, incontrato più volte nel Vietnam in guerra (dal 1967 al 1973).

In quegli anni ero direttore della rivista del Pime, “Mondo e Missione” e avevo appena fondato l’agenzia “Asia News”, allora su carta oggi in Internet. Montanelli sapeva che facevo molti viaggi di visita alle missioni e mi chiese di mandargli articoli sulla vita e il lavoro dei missionari italiani.

Ecco, quel che posso dire di lui è la sua ammirazione per i missionari, che aveva visto nei suoi viaggi come inviato del “Corriere della Sera” soprattutto in Asia e Africa.

Gli mandavo sempre una cartolina dai quattro angoli del mondo e quando ritornavo in Italia portavo alcuni articoli consegnandoli personalmente a lui. Non sempre, ma a volte mi faceva sedere e chiedeva notizia di dov’ero stato e dei missionari che avevo visto.

Ammirava sinceramente i missionari e aveva di essi un’immagine mitica. Diceva ad esempio: “Voi missionari siete tutti eroi” e se gli dicevo che anche tra i missionari c’è l’eccellenza ma pure i segni dell’umana debolezza, rispondeva: “No, siete tutti eroi perché abbandonate la nostra bella Italia, per andare a vivere tra i più poveri dei poveri, spesso in capanne di fango e paglia”.

E mi raccontava di aver incontrato parecchi missionari sul campo, in vari paesi ma soprattutto in Etiopia ed Eritrea durante la guerra coloniale italiana, che rischiavano la vita per un ideale di amore alla poverissima gente del posto, vivendo una vita grama più o meno al loro livello.

Tornando dai miei viaggi extra-europei, andavo a trovarlo e l’incontro con lui mi lasciava un buon ricordo. Era curioso di sapere come vivevano i missionari, cosa facevano, che risultati ottenevano. Quando nel 1990-1991 la Somalia era nel caos e io c’ero stato da poco,

Montanelli mi chiese articoli sui missionari in quel paese a cui lui era affezionato e poi scrisse due editoriali invitando i lettori ad “aiutare i missionari di padre Gheddo in Somalia”. Poi volle che precisassi chi erano questi missionari e missionarie, con indirizzi e riferimenti precisi in Italia, per poter orientare i lettori nel mandare aiuti. Le Missionarie della Consolata mi hanno detto di aver ricevuto circa due miliardi di lire, i Francescani milanesi non so quanto, ma anche loro, credo, una bella somma.

Ho conservato due testi di Indro sui missionari. Il primo è una sua “stanza” sul “Corriere della Sera” di domenica 7 febbraio 1999. Aveva scritto sulle difficoltà che incontrava lo sviluppo in Africa. Dopo avergli telefonato, gli ho mandato una lunga lettera che ha pubblicato integralmente quel giorno, dichiarandosi “d’accordo con padre Gheddo in tutto e su tutto, ma specialmente nei suoi dubbi. Padre Gheddo ha perfettamente ragione nell’indicare cosa il mondo cosiddetto 'civile' dovrebbe fare per risolvere, o almeno alleviare, i problemi dell’Africa.

Ma che il mondo civile possa tradurli in iniziative concrete, mi pare che sia lui il primo a dubitarne…. Ciò che padre Gheddo dice è tutto vero: tonnellate di rifornimenti e 'cattedrali nel deserto' servono a poco.

Bisogna insegnare ai somali e ai liberiani a 'fare da sé', come infatti fanno i missionari. Ma quanti missionari e quanti secoli ci vorranno prima di ottenere qualche risultato? Io so che padre Gheddo questo interrogativo se lo pone da trent’anni, ma ciò non gli ha impedito di fare per trent’anni ciò che fa e vuole continuare a fare. Ecco perché ho detto, e ripeto, che per l’Africa non servono né le diplomazie con i loro 'protocolli', né gli eserciti con le loro armi. Servono solo i missionari. Se vogliamo aiutare l’Africa, aiutiamo loro”.

Il secondo testo che ho conservato di Indro, fra l’altro molto significativo anche della fede che aveva e non sapeva di avere, è la prefazione al mio volume “Missionario. Un pensiero al giorno” (Piemme 1997), dove parla ancora degli aiuti all’Africa e scrive: “Per soccorrere quei popoli disgraziati un mezzo ci sarebbe. Dare la gestione dei miliardi di 'aiuti' ai missionari, di cui padre Gheddo scrive in questo libro: quelli che da anni e decenni vivono laggiù, peones tra i peones, sfidando lebbra e colera e tutto il resto, combattendo la fame non con la distribuzione di farina, ma insegnando alla gente – nella sua lingua – come si coltiva il grano, come si scavano i pozzi e i canali, condividendone, giorno dopo giorno, rischi e privazioni.

E’ tra questi ultimi grandi Crociati della civiltà cristiana che la Chiesa dovrebbe reclutare i suoi nuovi santi, perché sono i missionari, figli del nostro mondo ricco e arido, che indicano ai giovani la via per stabilire con i popoli poveri ponti di comunicazione e di aiuto fraterno.

Per aiutare i popoli poveri – aggiungeva Indro - i miliardi non bastano. Ci vogliono i missionari alla Marcello Candia (industriale della Milano opulenta che vende tutto e va in Amazzonia a servire i poveri) e alla Clemente Vismara (eroe della prima guerra mondiale che trascorre 65 anni fra i tribali in Birmania), di cui parla questo libro.

Ma i missionari sono difficili da stanziare nei bilanci dello Stato. Dovrebbero produrli le nostre famiglie, la nostra scuola, la nostra cultura cristiana. Temo che la vocazione profonda della civiltà cristiana – la carità verso gli altri – sia oggi in ribasso, almeno nelle cronache quotidiane e nelle 'filosofia di vita' della nostra società”.

La stessa prefazione a “Missionario. Un pensiero al giorno”, Indro la chiude ricordando un altro grande cristiano che aveva conosciuto: “Ho visto con piacere che in queste pagine padre Gheddo parla di padre Olindo Marella, che egli definisce 'un santo del nostro tempo'.

E’ vero, l’ho conosciuto bene come insegnante di filosofia a Rieti e poi a Bologna. Lo si vedeva per le strade a mendicare, completamente dedito alla missione di aiutare i ragazzi sbandati, i barboni, gli anziani abbandonati, i poveri.

Mi insegnò una cosa: a vivere per gli altri e a prendere questa vita come un passaggio. Insegnamento che peraltro io non ho seguito. In un certo senso oggi lo invidio. E’ morto ignaro di se stesso, ignaro di essere santo”.

Conservo di Indro un commosso ricordo, per quel che mi ha insegnato nel giornalismo e per le volte che mi bloccava seduto davanti a lui e mi chiedeva perché il Papa dice così o cosà, perché la Chiesa non capisce questo o quel problema, cosa contiene il volume per lui misterioso del Breviario, come si può credere a Dio che si lascia flagellare e crocifiggere…

Era un uomo assetato di Dio, voleva parlare e sentire qualcosa di questo inafferrabile Creatore e Signore di tutte le cose, di cui sentiva la presenza ma che non riusciva a incontrare, a parlarci e ad avere risposte ai suoi interrogativi.

Quando il 22 aprile 1989 sono andato a fargli gli auguri per i suoi ottant’anni mi dice: “Fra me e te il fortunato sei tu che hai ricevuto la fede. Io invece non ce l’ho. Infatti tu sei sempre sereno e sorridente, mentre io soffro di insonnia e di depressione”.

Ma questi sono i palpiti di un’anima che lasciamo alla paterna bontà e misericordia di Dio. Lo ricordo con nostalgia e prego per lui, ma sono sicuro che la sua onestà intellettuale e la sua ricerca di Dio hanno già ricevuto la giusta ricompensa dal Padre nostro che è nei Cieli.

Nei pascoli eterni del Paradiso ci incontreremo di nuovo e allora gli chiederò: Indro, quando hai incontrato il Padreterno, gli hai chiesto, come dicevi che avresti fatto: perché a me non ha dato la fede? Mi risponderà, credo, con una risata delle sue: “Ma pensa, chiedevo la fede e non sapevo di averla già!”.



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Tutto Libri


I colletti bianchi che riducono e selezionano le nascite
Un libro denuncia il "terrorismo dal volto umano"

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Esiste un terrorismo che è più subdolo e fa più vittime di quello esplicito fatto di bombe e attentatori suicidi.

Si tratta del terrorismo dei colletti bianchi di alcune istituzioni internazionali che, attraverso una cultura che si presenta come suadente e progressista, vara e applica progetti miliardari per convincere le donne ad abortire e non costruire famiglie stabili; convince anziani e malati ad accettare l’eutanasia chiamata “morte dolce”; promuove pratiche di selezione e di produzione di embrioni di tipo eugenetico.

A denunciare questa nuova forma di dittatura è il prof. Michel Schooyans, docente emerito all’Università di Lovanio, dove insegna Filosofia politica ed Etica delle questioni demografiche.

Filosofo e teologo, il prof. Schooyans è membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e della Pontificia Accademia Pro Vita. Autore prolifico ha scritto e pubblicato più di venti libri tradotti in otto lingue differenti.

Il Pontefice Giovanni Paolo II ne aveva grandissima stima e consigliava a tutti la lettura dei suoi libri. La prefazione del volume di Schooyans “Nuovo disordine mondiale” (San Paolo, 2000) tradotto in varie lingue è firmata dal Cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI.

Il libro “Il terrorismo dal volto umano”, edito da Cantagalli, è la traduzione aggiornata dello stesso volume scritto e pubblicato nel 2006 da Schooyans in collaborazione con la ricercatrice Anne-Marie Libert.

Con una documentazione accurata e precisa. Schooyans denuncia i pericoli di questo “terrorismo dolce”, che con la sua ingegneria verbale mette a punto “bombe che fanno meno rumore e meno fumo” ma che hanno avuto l’effetto devastante di veicolare una “cultura di morte”.

Secondo l’autore belga questo nuovo terrorismo “sembra avere un volto umano, sembra favorire la libertà, mentre nella realtà cerca di trascinare gli uomini nella cultura della morte”. 

Il prof. Schooyans spiega gli effetti nefasti di quella rivoluzione culturale di portata mondiale che ha rifiutato Dio e annichilito l’uomo, inseguendo l’utopia di una società che sta tentando di cancellare la speranza.

L’autore dimostra con esempi concreti e documentati in che modo il senso naturale delle parole venga distorto al fine di imporre politiche contrarie alla vita e alla famiglia naturale.

A proposito dei programmi contraccettivi, l’autore ha scritto: “È risaputo che la pillola del giorno dopo causa un aborto precoce. E invece, dagli anni Cinquanta in poi, si è sempre giocato con le parole; le si commercia, si imbroglia la gente con i termini. Si continua a martellare la gente con un ragionamento mistificatore, così esplicabile: ‘Non c’è aborto prima dell’annidamento dell’ovulo fecondato. La pillola contraccettiva agisce prima; dunque essa non è abortiva’. Così si restringe il significato del concetto di ‘aborto’ per poter ‘stabilire’ il fatto che la pillola non è abortiva”. 

In merito alla discussione sull’utilizzo della pillola contraccettiva e il passaggio dalla pillola all’aborto, insieme a una documentazione scientifica accurata, Schooyans racconta di come fu condotto il dibattito nell’ambito della “Commissione per lo studio della Popolazione, della Famiglia e della Natalità” durante il Concilio Vaticano II.

L’autore spiega esattamente come anche autorevoli esperti cristiani vennero ingannati, e di come l’ideologia relativista penetrò nel tessuto sociale della Chiesa cattolica provocando una diaspora che portò Cardinali e Conferenze episcopali a criticare e ad opporsi all’enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI.

A questo proposito Schooyans dedica un capitolo al “rischio dello scisma”, e sottolinea quanto furono importanti e decisivi gli insegnamenti magisteriali in ambito bioetico del Pontefice Pio XII.

Questa parte della trattazione fa emergere il dubbio che tante critiche contro Papa Pacelli non sono relative al rapporto con il mondo ebraico, bensì alla granitica difesa dei principi che stanno alla base della vita e della famiglia.

[Per saperne di più su cosa accadde durante il Concilio Vaticano II e sulle implicazioni relative ad un eventuale cedimento del Magistero sull’utilizzo dei contraccettivi, Schooyans ha anche scritto e pubblicato il saggio “La profezia di Paolo VI. L’enciclica Humanae vitae (1968)” (Cantagalli)]

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La forza di una vita fragile

di Anna Bono

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Di fronte all’eventualità di un figlio portatore di handicap, ci sono genitori che non si sentono in grado di sostenere il peso delle difficoltà permanenti che ciò comporta e ce ne sono altri convinti di scegliere il meglio per la loro sfortunata creatura evitandole di nascere.

In entrambi i casi abortire appare come l’unica decisione razionale, assolutamente irreprensibile.

Molti, anzi, giudicano il sì alla vita in simili condizioni come una scelta irresponsabile ed egoista, biasimano i genitori che accettano di far nascere un figlio se questo significa condannarlo a un’esistenza limitata, priva di prospettive e dipendente dall’assistenza altrui e li rimproverano per gli “inutili” oneri economici che con la loro decisione impongono alla collettività.

Sophie Chevillard Lutz ha trovato le parole per spiegare invece le ragioni della vita che hanno indotto lei e suo marito a dare alla luce una bambina, la piccola Philippine, sapendola affetta da un gravissimo polihandicap di origine cerebrale.

Su questa vicenda Sophie Chevillard Lutz ha scritto un libro “La forza di una vita fragile. Storia di una bambina che non doveva nascere” (Lindau, Torino, 2008, pp.120).

In effetti Philippine non parla, non vede bene, non è in grado di mangiare e di stare in piedi da sola e deve essenzialmente ai sensi del tatto e dell’udito il proprio rapporto con il mondo che la circonda: all’età di sette anni ha la capacità di comunicare di un neonato di pochi mesi e non vi sono speranze che la situazione possa migliorare sensibilmente. Perché allora farla vivere?

È semplice. “Non si sono mai visti un uomo e una donna generare una cosa diversa da un essere umano” scrive Sophie Chevillard Lutz e quindi la sua piccola Philippine, pur nella fragilità della sua vita incompleta, ha piena dignità umana e inalienabili diritti inerenti alla propria condizione di persona, incluso quello di esistere e di ricevere tutte le attenzioni e le cure possibili.

Né può un genitore decidere la morte di un figlio: “chi può scegliere tra un figlio handicappato e un figlio morto? Non ho scelto di avere una bambina handicappata. Ho deciso di lasciarla vivere fino alla morte naturale. So di aver scelto ciò che penso sia, nel profondo, il rispetto assoluto dovuto alla vita di ogni persona, chiunque essa sia. Non posso decidere quando la mia bambina morirà”.

E’ per raccontare la propria dolorosissima e faticosa esperienza e spiegare le proprie ragioni che Sophie ha scritto questo libro e lo ha fatto con tale forza e commovente passione da meritare la vittoria del Premio letterario Donna & Vita, quest’anno alla sua prima edizione, istituito dall’associazione Scienza & Vita Pontremoli-Lunigiana con il patrocinio del Dipartimento delle Pari Opportunità-Presidenza del Consiglio per promuovere opere letterarie e saggi che sottolineino l’alleanza della donna con la vita e la naturale capacità femminile di donare e difendere la vita.

“La nostra società migliora nel suo senso di umanità non quando sopprime i deboli ma quando li accoglie. Nel mondo animale è la legge del più forte che prevale: il debole è eliminato o abbandonato. Che cosa impedisce allora all’uomo di adottare questa stessa legge? – si domanda Sophie difendendo il valore della persona di sua figlia e il proprio impegno ad aiutarla a vivere – non è forse proprio dell’uomo di accogliere la debolezza e persino di proteggerla? Non costituisce questo la sua dignità? Non è questo che rende la vita sopportabile?”

Le sue sarebbero domande retoriche se potenti movimenti d’opinione non cercassero di dimostrare che invece l’eugenetica è una conquista sociale e civile e addirittura che la vita umana sul pianeta è una disgrazia e che ormai ogni nuovo nato rappresenta un fardello troppo pesante per un mondo esausto, tanto più se sano e quindi capace di vivere intensamente e a lungo.

La prospettiva di Sophie, il suo rifiuto di giudicare quali vite meritino di essere vissute e quali no, restituiscono all’uomo un valore e una missione irrinunciabili.

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Documenti


Le due colonne della Chiesa

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, contenuto nel “Codex Pauli”, un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell’Anno Paolino.

 



* * *

Fonte migliore d’informazione su Paolo di Tarso sono certamente le sue lettere, che si distribuiscono nel periodo dal 50/51 al 58 d.C., quando l’apostolo stava dispiegando una incessante attività missionaria per cercare, con ogni mezzo possibile, di mantenere i contatti con le Chiese che aveva fondato. Le lettere fanno quindi parte della sua missione; sono la sua voce che raggiunge le comunità cristiane, proseguendo un dialogo avviato, oppure, come ad esempio nella Lettera ai Romani, preannunciando un tema che spera di riprendere nella sua prossima visita. Quando scrive, Paolo continua ad essere missionario del Vangelo e le sue lettere sono come l’altro volto della sua azione apostolica. Vale per lui, la definizione di lettera: «l’altra metà del dialogo (to heteron meros tou dialogou)», che dava lo scrittore Demetrio, del I secolo d.C.

Mi soffermo sulla Lettera ai Romani, che lo studioso Günther Bornkamm ritiene il testamento di Paolo. Da persecutore dei cristiani, Saulo, abbagliato sulla via di Damasco dal fulgore di Cristo e conquistato dal suo amore, è diventato «apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio» (1,1). Per i riferimenti che contiene a circostanze concrete, questa lettera, la più estesa, non è un trattato teologico atemporale, ma, come del resto le altre, è legata a una storia concreta, che è poi la vita, la predicazione, la lotta e le difficoltà che s’intrecciano nella vicenda umana e missionaria di Paolo. Egli vi approfondisce il tema della giustificazione mediante la fede, sembrandogli urgente chiarire con accuratezza un punto tanto essenziale per l’evangelizzazione dei gentili. La dottrina sulla giustificazione costituisce il nucleo di quello che comunemente viene chiamato il “vangelo di Paolo”.

A Damasco egli aveva compreso che la salvezza è un evento di grazia, legato alla persona di Gesù Cristo. Di conseguenza, il “vangelo”, che esporrà nei suoi scritti – in maniera più argomentata nella Lettera ai Romani, – sarà proprio questo: l’unica via di salvezza è Cristo crocifisso e risorto. E poiché ogni esistenza cristiana comporta un combattimento spirituale per non ricadere sotto il giogo del peccato, i credenti debbono compiere opere conformi al dono della grazia ricevuta nel battesimo, manifestando così la propria comunione con Gesù.

Ritroviamo l’assoluta centralità di Cristo presente nella vita e nel vangelo di Paolo, anche nell’“apostolo gemello”: Pietro. La Prima Lettera di Pietro si apre, infatti, con questa esortazione: «Siate pronti ad agire, rimanete ben svegli. Tutta la vostra speranza sia rivolta verso quel dono che riceverete da Cristo Gesù, quando egli si manifesterà a tutti gli uomini» (1,13). La stessa preoccupazione pastorale di Paolo è percepibile in questo testo neotestamentario di Pietro. Stiamo parlando di uno dei documenti più importanti del Nuovo Testamento, che aiuta a capire la profondità della riflessione teologica e spirituale e l’impegno apostolico delle Chiese dell’Asia Minore. L’autore sacro vi pone in luce nuove e importanti considerazioni cristologiche, testimoni di un chiaro progresso nella comprensione di Cristo da parte di quelle prime comunità. Attingendo al pozzo della tradizione giudaica dell’Antico Testamento, Pietro focalizza l’attenzione su nuovi aspetti teologici concernenti la figura di Cristo: è “l’agnello senza difetti e senza macchia” (1,19) che ci libera dalla schiavitù del male; è il “servo sofferente” (2,21-25), che, rifacendosi alla tipologia del quarto canto del Servo (Is 53), offre la chiave interpretativa di tutto l’aspetto teologico e parenetico della lettera; è la “pietra viva” (2,4) – si tocca qui uno dei temi più originali della lettera e cioè il Cristo risorto, fondamento del nuovo tempio di Dio nel mondo – è infine “il pastore” (2,25; 5,1-4). Al Cristo si legano naturalmente alcuni temi ecclesiologici, tipici della Prima Lettera di Pietro, che affiorano in maniera esplicita o implicita nei documenti del Concilio Vaticano II, in particolare, nelle costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes.

Dunque come Paolo, anche Pietro afferma che ci salva solo l’incontro con il Signore Gesù: un incontro da vivere ogni giorno, specialmente nel momento della prova e della sofferenza (2,18-25). Trova qui logica collocazione il tema della speranza, che non si esaurisce negli orizzonti mondani, ma va oltre e tende a un adempimento costantemente volto a un incontro più pieno. A questa speranza certa, che muove all’agire e che suscita un atteggiamento permanente di conversione, il papa Benedetto XVI ha dedicato l’Enciclica Spe salvi.

La condizione del credente nella storia ondeggia nella costante tensione tra il “già” e il “non ancora”, nella dialettica permanente tra l’indicativo della salvezza («Tu sei figlio di Dio...») e l’imperativo morale («...dunque comportati da figlio di Dio!»). Sì, Cristo ci ha effettivamente liberati – questa è la nostra fede –; ma noi dobbiamo fare attenzione agli assalti del male. Sì, io sono già salvato, in forza della risurrezione; ma non sono ancora fuori dalla lotta. Sì, il Cristo ha già vinto la morte, e siede alla destra del Padre; ma la Chiesa pellegrinante non ha ancora raggiunto la sua patria. Così, spalancato al gratuito dono di Dio, il credente vive la lotta quotidiana della sua esistenza. Emerge con tutta evidenza che a salvarci non è una dottrina, bensì una persona: Gesù Cristo, il cui ritorno nella gloria attendiamo e prepariamo con fiduciosa speranza.

Maestro di sintesi, san Paolo chiude il capitolo 8 della Lettera ai Romani con un inno all’amore di Dio animato dall’insistente domanda “chi?”. Il testo respira una profondità teologica, che giunge al cuore del “vangelo di Paolo”. Se Dio ha immolato il suo Figlio per tutti noi (v. 32), egli argomenta, allora nessuno può separarci dal suo amore, dall’amore che Cristo stesso ci ha meritato sacrificandosi per noi (vv. 38-39). Sta proprio qui la ragione della gioia e di quell’ottimismo che ogni cristiano deve coltivare. «Se nonostante tutto siamo ottimisti», confessava don Franco Delpiano, missionario salesiano nel Mato Grosso, morto a 42 anni, «è perché Cristo è risorto. Immersi nella sua morte e risurrezione, risorgiamo ogni giorno». «Cristo risorto viene ad animare una festa nel più profondo dell’uomo», amava ripetere frère Roger Schutz, Priore di Taizé, ucciso mentre stava pregando, «ma la festa non è per niente un’euforia passeggera. È animata da Cristo in uomini e donne pienamente lucidi della situazione del mondo, e capaci di farsi carico degli avvenimenti più grandi... Allora la lotta diventa una festa: festa del combattimento affinché Cristo sia il primo nostro amore; festa della lotta per l’uomo schiacciato».

Questo è l’inguaribile ottimismo di chi crede all’amore di Dio, “vittoria” sul mondo e “motore” della storia. Chi rimane in questo amore non rinuncia alla lotta, non perde il coraggio di denunciare l’ingiustizia e non si lascia irretire dalle illusioni del male. Chi ama Cristo combatte la buona battaglia della fede e nutre nel cuore una grande speranza aspettando, secondo la promessa, – scrive san Pietro – «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). E la ragione ultima è perché – ricorda san Paolo – «noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,37).

In definitiva, Paolo invita i cristiani a incorporarsi, attraverso il battesimo, alla morte e alla risurrezione del Signore. Egli invita a vivere, già adesso, la vita nuova dell’amore, preparando, nell’impegno quotidiano, l’incontro definitivo con il Risorto. Questi due aspetti, dialettici tra di loro, impongono ai battezzati di vivere, di credere e di sperare a partire dalla morte e risurrezione del Signore. Nel mistero pasquale, infatti, si chiarisce il senso ultimo della fede e della speranza cristiana. Esse sono insieme dono di Dio, perché la risurrezione di Cristo ha vinto in modo irreversibile il male del mondo; ma sono anche impegno dell’uomo, perché si manifesti il pieno compimento delle promesse.

In sintesi, che risposta darebbe Paolo alla domanda cruciale su cosa significa vivere a partire dalla morte e risurrezione del Signore? Oggi, come a tutti i cristiani lungo i secoli della storia, risponderebbe che vivere a partire dalla morte e risurrezione significa portare dentro di sé un inguaribile ottimismo, la certezza che l’amore è più forte della morte, e che le scelte di bene, anche le meno appariscenti e le più smentite, mandano avanti la storia dell’uomo e del mondo. Vivere a partire dalla morte e risurrezione significa avere il coraggio di denunciare le piccole e le grandi ingiustizie dell’uomo, e riconoscere che in ogni gesto di liberazione – da qualunque parte essa venga – è presente il Signore della vita. Vivere a partire dalla morte e risurrezione è, infine, sentirsi parte di una “grande speranza”, che non è soltanto speranza nel mondo e nell’uomo, ma in quei cieli nuovi e in quella terra nuova che attendono ogni uomo di buona volontà, e che sono il dono di Dio.

Card. Tarcisio Bertone

Segretario di Stato di Sua Santità Benedetto XVI

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Discorso del Papa al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede
"La custodia del creato è un importante fattore di pace e di giustizia!"
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo lunedì in Vaticano i membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, per la presentazione degli auguri per il nuovo anno.



* * *

Eccellenze,

Signore e Signori,

E’ per me motivo di grande gioia questo incontro tradizionale d’inizio d’anno, due settimane dopo la celebrazione della nascita del Verbo incarnato. Come abbiamo proclamato nella liturgia: "Nel mistero adorabile del Natale, Egli, Verbo invisibile, apparve visibilmente nella nostra carne, e generato prima dei secoli, cominciò ad esistere nel tempo, per assumere in sé tutto il creato e sollevarlo dalla sua caduta" (Prefazio II del Natale). A Natale, quindi, abbiamo contemplato il mistero di Dio e quello della creazione; mediante l’annuncio degli angeli ai pastori ci è giunta la buona novella della salvezza dell’uomo e del rinnovamento dell’intero universo. Per questa ragione, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno, ho invitato tutti gli uomini di buona volontà, ai quali gli angeli hanno promesso giustamente la pace, a custodire il creato. Ed è in questo stesso spirito che sono lieto di salutare ciascuno di Voi, in particolare coloro che sono presenti per la prima volta a questa cerimonia. Vi ringrazio sentitamente per i voti augurali, di cui si è fatto interprete il vostro Decano, il Signor Ambasciatore Alejandro Valladares Lanza, e Vi rinnovo il mio vivo apprezzamento per la missione che svolgete presso la Santa Sede. Attraverso di Voi, desidero far giungere il mio cordiale saluto e augurio di pace e prosperità alle Autorità e a tutti gli abitanti dei Paesi che Voi degnamente rappresentate. Il mio pensiero si estende, anche, a tutte le altre Nazioni della terra: il Successore di Pietro mantiene le sue porte aperte a tutti e con tutti desidera avere relazioni che contribuiscano al progresso della famiglia umana. Da qualche settimana, sono state stabilite piene relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Federazione Russa: è questo un motivo di profonda soddisfazione. Allo stesso modo, è stata molto significativa la visita che mi ha reso recentemente il Presidente della Repubblica Socialista del Vietnam, Paese che è caro al mio cuore e nel quale la Chiesa sta celebrando la sua plurisecolare presenza con un Anno giubilare. Con tale spirito di apertura, nel corso del 2009, ho ricevuto numerose personalità politiche, provenienti da diversi Paesi; ho anche visitato alcuni di essi e mi propongo in futuro, nella misura del possibile, di continuare a farlo.

La Chiesa è aperta a tutti, perché – in Dio - esiste per gli altri! Pertanto essa partecipa intensamente alle sorti dell’umanità, che in questo anno appena iniziato, appare ancora segnata dalla drammatica crisi che ha colpito l’economia mondiale e ha provocato una grave e diffusa instabilità sociale. Con l’Enciclica Caritas in veritate ho invitato ad individuare le radici profonde di tale situazione: in ultima analisi, esse risiedono nella mentalità corrente egoistica e materialistica, dimentica dei limiti propri a ciascuna creatura. Oggi mi preme sottolineare che questa stessa mentalità minaccia anche il creato. Ciascuno di noi, probabilmente, potrebbe citare qualche esempio dei danni che essa arreca all’ambiente, in ogni parte del mondo. Ne cito uno, tra i tanti, dalla storia recente dell’Europa: vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino e quando crollarono i regimi materialisti ed atei che avevano dominato lungo diversi decenni una parte di questo Continente, non si è potuto avere la misura delle profonde ferite che un sistema economico privo di riferimenti fondati sulla verità dell’uomo aveva inferto, non solo alla dignità e alla libertà delle persone e dei popoli, ma anche alla natura, con l’inquinamento del suolo, delle acque e dell’aria? La negazione di Dio sfigura la libertà della persona umana, ma devasta anche la creazione! Ne consegue che la salvaguardia del creato non risponde in primo luogo ad un’esigenza estetica, ma anzitutto a un’esigenza morale, perché la natura esprime un disegno di amore e di verità che ci precede e che viene da Dio.

Pertanto, condivido la maggiore preoccupazione che causano le resistenze di ordine economico e politico alla lotta contro il degrado dell’ambiente. Si tratta di difficoltà che si sono potute constatare ancora di recente durante la XV Sessione della Conferenza degli Stati parte alla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, svoltasi dal 7 al 18 dicembre scorso a Copenaghen. Auspico che, nell’anno corrente, prima a Bonn e poi a Città del Messico, sia possibile giungere ad un accordo per affrontare tale questione in modo efficace. La posta in gioco è tanto più importante perché ne va del destino stesso di alcune Nazioni, in particolare, alcuni Stati insulari.

Occorre, tuttavia, che tale attenzione e tale impegno per l’ambiente siano bene inquadrati nell’insieme delle grandi sfide che si pongono all’umanità. Se, infatti, si vuole edificare una vera pace, come sarebbe possibile separare, o addirittura contrapporre la salvaguardia dell’ambiente a quella della vita umana, compresa la vita prima della nascita? E’ nel rispetto che la persona umana nutre per se stessa che si manifesta il suo senso di responsabilità verso il creato. Perché, come insegna S. Tommaso d’Aquino, l’uomo rappresenta quanto c’è di più nobile nell’universo (cfr. Summa Theologiae, I, q.29, a.3). Inoltre, come ho ricordato al recente Vertice Mondiale della FAO sulla Sicurezza alimentare, "la terra può sufficientemente nutrire tutti i suoi abitanti" (Discorso del 16 novembre 2009, 2), purché l’egoismo non porti alcuni ad accaparrarsi i beni destinati a tutti!

Vorrei sottolineare ancora che la salvaguardia della creazione implica una corretta gestione delle risorse naturali dei paesi, in primo luogo, di quelli economicamente svantaggiati. Il mio pensiero va al Continente africano, che ho avuto la gioia di visitare nel marzo scorso, recandomi in Camerun ed Angola, ed al quale sono stati dedicati i lavori della recente Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi. I Padri sinodali hanno segnalato con preoccupazione l’erosione e la desertificazione di larghe zone di terra coltivabile, a causa dello sfruttamento sconsiderato e dell’inquinamento dell’ambiente (cfr. Propositio n. 22). In Africa, come altrove, è necessario adottare scelte politiche ed economiche che assicurino "forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2010, 10).

Come dimenticare, poi, che la lotta per l’accesso alle risorse naturali è una delle cause di vari conflitti, tra gli altri in Africa, così come la sorgente di un rischio permanente in altre situazioni? Anche per questa ragione ripeto con forza che, per coltivare la pace, bisogna custodire il creato! D’altra parte ci sono ancora vaste estensioni di terra, per esempio in Afghanistan ed in alcuni paesi dell’America Latina, dove purtroppo l’agricoltura è ancora legata alla produzione di droga e costituisce una fonte non trascurabile di occupazione e di sostentamento. Se si vuole la pace, occorre custodire il creato con la riconversione di tali attività. Chiedo perciò alla comunità internazionale, ancora una volta, che non si rassegni al traffico della droga ed ai gravi problemi morali e sociali che essa genera.

Sì, Signore e Signori, la custodia del creato è un importante fattore di pace e di giustizia! Fra le tante sfide che essa lancia, una delle più gravi è quella dell’aumento delle spese militari, nonché quella del mantenimento o dello sviluppo degli arsenali nucleari. Ciò assorbe ingenti risorse, che potrebbero, invece, essere destinate allo sviluppo dei Popoli, soprattutto di quelli più poveri. Confido, fermamente, che nella Conferenza di esame del Trattato di Non-Proliferazione nucleare, in programma per il maggio prossimo a New York, vengano prese decisioni efficaci in vista di un progressivo disarmo, che porti a liberare il pianeta dalle armi nucleari. Più in generale, deploro che la produzione e l’esportazione di armi contribuiscano a perpetuare conflitti e violenze, come quelli nel Darfur, in Somalia e nella Repubblica Democratica del Congo. All’incapacità delle parti direttamente coinvolte di sottrarsi alla spirale di violenza e di dolore generata da questi conflitti, si aggiunge l’apparente impotenza degli altri Paesi e delle Organizzazioni internazionali a riportare la pace, senza contare l’indifferenza quasi rassegnata dell’opinione pubblica mondiale. Non occorre poi sottolineare come tali conflitti danneggino e degradino l’ambiente. Come, infine, non menzionare il terrorismo che mette in pericolo un così gran numero di vite innocenti e provoca un diffuso senso di angoscia? In questa solenne circostanza, desidero rinnovare l’appello che ho lanciato il 1° gennaio durante la preghiera dell’Angelus a quanti fanno parte di gruppi armati di qualsiasi tipo affinché abbandonino la strada della violenza e aprano il loro cuore alla gioia della pace.

Le gravi violenze che ho appena evocato, unite ai flagelli della povertà e della fame, come pure alle catastrofi naturali ed al degrado ambientale, contribuiscono ad ingrossare le fila di quanti abbandonano la propria terra. Di fronte a tale esodo, invito le Autorità civili, che vi sono coinvolte a diverso titolo, ad agire con giustizia, solidarietà e lungimiranza. In particolare, vorrei menzionare i Cristiani in Medio Oriente: colpiti in varie maniere, fin nell’esercizio della loro libertà religiosa, essi lasciano la terra dei loro padri in cui si è sviluppata la Chiesa dei primi secoli. E’ per offrire loro un sostegno e per far loro sentire la vicinanza dei fratelli nella fede, che ho convocato, per l’autunno prossimo, l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi sul Medio Oriente.

Signore e Signori Ambasciatori, quelle che ho tracciato finora sono soltanto alcune delle dimensioni connesse con la problematica ambientale. Tuttavia, le radici della situazione che è sotto gli occhi di tutti, sono di ordine morale e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo, per promuovere un effettivo cambiamento di mentalità ed instaurare nuovi stili di vita. Di ciò può e vuole essere partecipe la comunità dei credenti, ma perché ciò sia possibile, bisogna che se ne riconosca il ruolo pubblico. Purtroppo, in alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si diffondono, negli ambienti politici e culturali, come pure nei mezzi di comunicazione, un sentimento di scarsa considerazione, e, talvolta, di ostilità, per non dire di disprezzo verso la religione, in particolare quella cristiana. E’ chiaro che, se il relativismo è concepito come un elemento costitutivo essenziale della democrazia, si rischia di concepire la laicità unicamente in termini di esclusione o, meglio, di rifiuto dell’importanza sociale del fatto religioso. Un tale approccio crea tuttavia scontro e divisione, ferisce la pace, inquina l’"ecologia umana" e, rifiutando, per principio, le attitudini diverse dalla propria, si trasforma in una strada senza uscita. Urge, pertanto, definire una laicità positiva, aperta, che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa. In questa prospettiva, io penso all’Europa, che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha iniziato una nuova fase del suo processo di integrazione, che la Santa Sede continuerà a seguire con rispetto e con benevola attenzione. Nel rilevare con soddisfazione che il Trattato prevede che l’Unione Europea mantenga con le Chiese un dialogo "aperto, trasparente e regolare" (art. 17), auspico che, nella costruzione del proprio avvenire, l’Europa sappia sempre attingere alle fonti della propria identità cristiana. Come ho rimarcato durante il mio viaggio apostolico del settembre scorso nella Repubblica Ceca, essa ha un ruolo insostituibile "per la formazione della coscienza di ogni generazione e per la promozione di un consenso etico di fondo, al servizio di ogni persona che chiama questo continente «casa»!" (Discorso alle autorità civili e al corpo diplomatico, 26 settembre 2009).

Proseguendo nella nostra riflessione, è necessario rilevare che la problematica dell’ambiente è complessa. Si potrebbe dire che è un prisma dalle molte sfaccettature. Le creature sono differenti le une dalle altre e possono essere protette, o, al contrario, messe in pericolo, in modi diversi, come ci mostra l’esperienza quotidiana. Uno di tali attacchi proviene da leggi o progetti, che, in nome della lotta contro la discriminazione, colpiscono il fondamento biologico della differenza fra i sessi. Mi riferisco, per esempio, ad alcuni Paesi europei o del Continente americano. "Se togli la libertà, togli la dignità", come disse S. Colombano (Epist. n.4 ad Attela, in S. Columbani opera, Dublin 1957, p. 34.) Tuttavia, la libertà non può essere assoluta, perché l’Uomo non è Dio, ma immagine di Dio, sua creatura. Per l’uomo, il cammino da seguire non può quindi essere l’arbitrio, o il desiderio, ma deve consistere, piuttosto, nel corrispondere alla struttura voluta dal Creatore.

La salvaguardia della creazione comporta anche altre sfide, alle quali non si può rispondere che attraverso la solidarietà internazionale. Penso alle catastrofi naturali, che durante l’anno scorso hanno seminato morti, sofferenze e distruzioni nelle Filippine, in Vietnam, nel Laos, in Cambogia e nell’isola di Taiwan. Come non ricordare poi l’Indonesia, e, più vicino a noi, la regione dell’Abruzzo, scosse da devastanti terremoti? Di fronte a simili eventi non deve venire meno l’aiuto generoso, perché la vita stessa delle creature di Dio è in gioco. Ma la salvaguardia della creazione, oltre che della solidarietà, ha bisogno anche della concordia e della stabilità degli Stati. Quando insorgono divergenze ed ostilità fra questi ultimi, per difendere la pace debbono perseguire con tenacia la via di un dialogo costruttivo. E’ quanto avvenne venticinque anni or sono con il Trattato di Pace ed Amicizia fra Argentina e Cile, che fu raggiunto grazie alla mediazione della Sede Apostolica. Esso ha portato abbondanti frutti di collaborazione e prosperità, di cui ha beneficiato, in qualche modo, l’intera America Latina. In questa stessa parte del mondo, sono lieto del riavvicinamento intrapreso da Colombia ed Ecuador, dopo parecchi mesi di tensione. Più vicino a noi, mi compiaccio dell’intesa conclusa tra Croazia e Slovenia a proposito dell’arbitrato relativo alle loro frontiere marittime e terrestri. Mi rallegro, altresì, dell’accordo tra Armenia e Turchia, in vista della ripresa delle loro relazioni diplomatiche, ed auspico che attraverso il dialogo, i rapporti fra tutti i Paesi del Caucaso meridionale migliorino. Durante il mio pellegrinaggio in Terra Santa, ho richiamato in modo pressante Israeliani e Palestinesi a dialogare e a rispettare i diritti dell’altro. Ancora una volta levo la mia voce, affinché sia universalmente riconosciuto il diritto dello Stato di Israele ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. E che, ugualmente, sia riconosciuto il diritto del Popolo palestinese ad una patria sovrana e indipendente, a vivere con dignità e a potersi spostare liberamente. Mi preme, inoltre, sollecitare il sostegno di tutti perché siano protetti l’identità e il carattere sacro di Gerusalemme, la sua eredità culturale e religiosa, il cui valore è universale. Solo così questa città unica, santa e tormentata, potrà essere segno e anticipazione della pace che Dio desidera per l’intera famiglia umana! Per amore del dialogo e della pace, che salvaguardano la creazione, esorto i governanti e i cittadini dell’Iraq ad oltrepassare le divisione, la tentazione della violenza e l’intolleranza, per costruire insieme l’avvenire del loro Paese. Anche le comunità cristiane vogliono dare il loro contributo, ma perché ciò sia possibile, bisogna che sia loro assicurato rispetto, sicurezza e libertà. Anche il Pakistan è stato duramente colpito dalla violenza in questi ultimi mesi e alcuni episodi hanno preso di mira direttamente la minoranza cristiana. Domando che si compia ogni sforzo affinché tali aggressioni non si ripetano e i cristiani possano sentirsi pienamente integrati nella vita del loro Paese. Trattando delle violenze contro i cristiani, non posso non menzionare, peraltro, i deplorevoli attentati di cui sono state vittime le Comunità copte egiziane in questi ultimi giorni, proprio quando stavano celebrando il Natale. Per quanto riguarda l’Iran, auspico che attraverso il dialogo e la collaborazione, si raggiungano soluzioni condivise, sia a livello nazionale che sul piano internazionale. Al Libano, che ha superato una lunga crisi politica, auguro di proseguire sempre sulla via della concordia. Confido che l’Honduras, dopo un periodo di incertezza e trepidazione, si incammini verso una ritrovata normalità politica e sociale. E lo stesso mi auguro che si realizzi in Guinea ed in Madagascar, con l’aiuto effettivo e disinteressato della comunità internazionale.

Signore e Signori Ambasciatori, al termine di questo rapido giro d’orizzonte, che, a motivo della brevità non può soffermarsi su tutte le situazioni pur meritevoli di menzione, mi tornano alla mente le parole dell’Apostolo Paolo, secondo cui "la creazione geme e soffre" e "anche noi… gemiamo interiormente" ( Rm 8,22-23). Sì, c’è tanta sofferenza nell’umanità e l’egoismo umano ferisce la creazione in molteplici modi. Per questo l’attesa di salvezza, che tocca tutta quanta la creazione, è ancor più intensa ed è presente nel cuore di tutti, credenti e non credenti. La Chiesa indica che la risposta a tale anelito è il Cristo, il "primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra" (Col 1,15-16). Fissando lo sguardo su di Lui, esorto ogni persona di buona volontà ad operare con fiducia e generosità per la dignità e la libertà dell’uomo. Che la luce e la forza di Gesù ci aiutino a rispettare l’"ecologia umana", consapevoli che anche l’ecologia ambientale ne trarrà beneficio, poiché il libro della natura è uno ed indivisibile. E’ così che potremo consolidare la pace, oggi e per le generazioni che verranno. Buon Anno a tutti!

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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