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Servizio quotidiano - 16 gennaio 2010
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- Introduzione allo spirito della liturgia
- La divina bellezza liturgica: il canto gregoriano nel XXI sec.
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Introduzione allo spirito della liturgia
ROMA, sabato, 16 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una conferenza tenuta il 6 gennaio scorso, in Vaticano, da mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, alla presenza di un gruppo di sacerdoti anglofoni giunti a Roma in occasione dell’Anno Sacerdotale.
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Mi propongo, con questa riflessione, di soffermarmi con voi su alcuni temi che riguardano lo spirito della liturgia. Mi propongo molto, mi verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri: Romano Guardini e Joseph Ratzinger.
D’altra parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai necessario, soprattutto tra noi sacerdoti. Anche perché è urgente riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”. E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato?
Eppure, a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica.
Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra – quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato. Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa.
Quanto affermato fin qui a proposito della “continuità” ha a che fare con il tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.
Riguardo al tema proposto non pretendo di essere esauriente. Non pretendo, neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, con riferimento specifico alla Celebrazione Eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a Benedetto XVI: un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il suo insegnamento, sia attraverso l’esempio del suo celebrare.
E se, nel considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, mi troverò ad annotare qualche comportamento che ritengo non del tutto in sintonia con l’autentico spirito liturgico, lo farò solo per offrire un piccolo contributo perché tale spirito possa risaltare ancor di più in tutta la sua bellezza e verità.
1. La sacra liturgia, un grande dono di Dio alla Chiesa
Come ben sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero documento, il primo in ordine di pubblicazione, alla liturgia. Il suo nome è “Sacrosanctum concilium” ed è definito come la Costituzione sulla sacra liturgia.
E’ il termine sacro che intendo sottolineare, in quanto affiancato a “liturgia”. Al riguardo, non si tratta di un caso né di un dato di poca importanza. In tal modo, infatti, i Padri conciliari hanno inteso dare forza al carattere sacro della liturgia.
Ma che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo, consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una realtà, dunque, che ci supera, da accogliere in dono e dalla quale lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)
Ponendosi in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività. E in questo noi sacerdoti abbiamo una grande responsabilità.
Ecco, in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).
Affermare, dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo.
Una forma di adattamento alle situazioni particolari è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. Il motivo è importante ed è bene riaffermarlo: la liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani. “Anche nei nostri tempi – ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia – l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia” (n. 52).
Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede?
C’è un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù di tale diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita nuova.
Mi dilungo ancor un momento su questo tema che, posso testimoniare, sta tanto a cuore al Papa, riascoltando con voi un brano di “Sacramentum caritatis”, l’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, successiva al Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche… La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme… Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia” (40).
2. L’orientamento della preghiera liturgica
Al di là dei cambiamenti che storicamente hanno caratterizzato la disposizione architettonica delle chiese e degli spazi liturgici, una convinzione è rimasta sempre chiara all’interno della comunità cristiana, quasi fino ai giorni nostri. Mi riferisco alla preghiera rivolta a oriente, tradizione che risale alle origini del cristianesimo.
Che cosa si intende con “preghiera rivolta a oriente”? Si intende l’orientamento del cuore orante a Cristo, Colui dal quale proviene la salvezza e al quale si tende come al Principio e al Fine della storia. A est sorge il sole e il sole è simbolo di Cristo, la Luce che sorge dall’oriente. Si ricordi, in proposito, il passo del cantico messianico del “Benedictus”: “…per cui verrà a visitarci dall’alto come sole che sorge”.
Studi molto seri e anche recentissimi hanno ormai dimostrato che, in ogni tempo della sua storia, la comunità cristiana ha trovato il modo di esprimere anche nel segno liturgico, esterno e visibile, questo orientamento fondamentale per la vita della fede. Così troviamo le chiese costruite in modo tale che l’abside fosse rivolta verso oriente. Quando non fu più possibile un tale orientamento nella edificazione del luogo sacro, si fece ricorso al grande crocifisso posto sopra l’altare e a cui tutti potessero rivolgere lo sguardo. Si pensi, ancora, alle absidi decorate con splendide raffigurazioni del Signore, verso le quali tutti erano invitati ad alzare gli occhi al momento della Liturgia Eucaristica.
Senza entrare nel dettaglio di un percorso storico che ci porrebbe all’interno di una riflessione riguardante lo sviluppo dell’arte cristiana, in questo contesto ci interessa affermare che la preghiera orientata, ovvero rivolta al Signore, è espressione tipica dell’autentico spirito liturgico. In questo senso, come ben ci ricorda il dialogo introduttivo del Prefazio, al momento della Liturgia Eucaristica siamo invitati a rivolgere il cuore al Signore: “In alto i nostri cuori”, esorta il sacerdote, e tutti rispondono: “Sono rivolti al Signore”. Ora, se tale orientamento deve essere sempre interiormente adottato dall’intera comunità cristiana raccolta in preghiera, esso deve poter trovare espressione anche nel segno esteriore. Il segno esteriore, infatti, non può che essere vero, così che in esso si renda manifesto il corretto atteggiamento spirituale.
Ecco, allora, il motivo della proposta fatta a suo tempo dal card. Ratzinger e ora riaffermata nel corso del suo pontificato, di collocare il crocifisso al centro dell’altare, in modo tale che tutti, al momento della Liturgia Eucaristica, possano effettivamente guardare al Signore, orientando così la loro preghiera e il loro cuore. Ascoltiamo direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.
E non si dica che l’immagine del crocifisso viene a oscurare la vista dei fedeli in rapporto al celebrante. I fedeli non devono guardare al celebrante, in quel momento liturgico! Devono guardare al Signore! Come al Signore deve poter guardare anche colui che presiede la celebrazione. La croce non impedisce la vista; anzi, le apre l’orizzonte sul mondo di Dio, la porta a contemplare il mistero, la introduce in quel Cielo da cui proviene l’unica luce capace di dare senso alla vita di questa terra. La vista, in verità, rimarrebbe oscurata, impedita se gli occhi rimanessero fissi su ciò che è solo presenza dell’uomo e opera sua.
Così si comprende perché è ancora oggi possibile celebrare la Messa agli altari antichi, quando le particolari caratteristiche architettoniche e artistiche delle nostre chiese lo dovessero consigliare. Il Santo Padre ci dona anche in questo l’esempio quando celebra l’Eucaristia all’altare antico nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore.
Nel nostro tempo è entrata nel linguaggio abituale l’espressione “celebrazione verso il popolo”. Se con tale espressione si intende descrivere l’aspetto topografico, dovuto al fatto che oggi, il sacerdote, a motivo della collocazione dell’altare, si trova spesso in posizione frontale rispetto all’assemblea, la si può accettare. Ma non la si potrebbe assolutamente accettare nel momento in cui venisse ad avere un contenuto teologico. Infatti, la Messa, teologicamente parlando, è sempre rivolta a Dio attraverso Cristo Signore e sarebbe un grave errore immaginare che l’orientamento principale dell’azione sacrificale fosse la comunità. Tale orientamento, dunque - quello al Signore –, deve animare l’interiore partecipazione liturgica di ciascuno. Ed è altrettanto importante che possa essere ben visibile anche nel segno liturgico.
3. L’adorazione e l’unione con Dio
L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente. L’adorazione conduce, di conseguenza, alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, di apparante autonomia, alla perdita di se stessi che è, poi, l’unico modo di ritrovarsi.
Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione. “C’è, nell’evento pasquale e nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, - afferma Giovanni Paolo II nella Ecclesia de Eucharistia - una capienza davvero enorme, nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grande redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella celebrazione eucaristica” (n. 5).
“Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.
Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” del 2008, ha iniziato a distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.
Mi piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).
Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia, afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est, n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore.
Considerare la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna. “L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14)
4. La partecipazione attiva
Proprio loro, i santi, hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla liturgia della Chiesa.
Giustamente, dunque, e anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni.
Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.
A riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.
Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).
Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco ad esse, perché se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è frainteso l’autentico spirito della liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare. E non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la Liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto XVI chiama “coerenza eucaristica”. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di tale coerenza l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.
Aggiungo ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?
5. La musica sacra o liturgica
In effetti, per introdursi in modo autentico nella spirito della liturgia non si può prescindere dal discorso sulla musica sacra o liturgica.
Mi permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o meno recenti, insista nell’indicare un certo tipo di musica e di canto come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica. Già il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l’aderenza alla parola è prioritaria, limitando l’uso degli strumenti e indicando una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti, non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma del canto. In epoca più recente, il Papa San Pio X fece un intervento analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e indicando il canto gregoriano e la polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla musica religiosa in generale. Il Concilio Vaticano II non ha fatto che ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi magisteriali.
Perché, dunque, l’insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica liturgica, anche popolare?
La risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato di affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle forme musicali - nella loro santità, bontà e universalità - a tradurre in note, in melodia e in canto l’autentico spirito liturgico: indirizzando all’adorazione del mistero celebrato, diventando esegesi musicata della Parola di Dio, favorendo un’autentica e integrale partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato essenziale dell’agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione del suo mistero.
Mi sia permessa un’ultima citazione di J. Ratzinger: “Gandhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gridare il cantare. Oggi… vediamo che all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli restituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall'agire comune e ci restituisce la profondità e l'altezza, il silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell'universo in attesa. E così essa redime la terra” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 153-154)
Concludo. E’ ormai da alcuni anni che nella Chiesa, a più voci, si parla della necessità di un nuovo rinnovamento liturgico. Di un movimento, in qualche modo analogo a quello che pose le basi per la riforma promossa dal Concilio Vaticano II, che sia capace di operare una riforma della riforma, ovvero ancora un passo avanti nella comprensione dell’autentico spirito liturgico e della sua celebrazione: portando così a compimento quella riforma provvidenziale della liturgia che i Padri conciliari avevano avviato, ma che non sempre, nell’attuazione pratica, ha trovato puntuale e felice realizzazione.
Non c’è dubbio che in questo nuovo rinnovamento liturgico siamo proprio noi sacerdoti a ricoprire un ruolo determinante. Possa, con l’aiuto del Signore e di Maria Madre dei sacerdoti, l’ulteriore sviluppo della riforma essere anche il frutto del nostro amore sincero per la liturgia, nella fedeltà alla Chiesa e al Papa.
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La divina bellezza liturgica: il canto gregoriano nel XXI sec.
ROMA, sabato, 16 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la presentazione di don Nicola Bux, Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, al libro di Giannicola D'Amico, Il canto gregoriano nel Magistero della Chiesa. Normativa canonica, prassi e documenti tra Età moderna e contemporanea (Rovigo 2009, pp 232).
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Nel libro del maestro Giannicola D'Amico è menzionato Johann Michael Sailer(cfr p 118). Un suo pensiero è riportato in una pagellina donatami dall'allora cardinal Joseph Ratzinger per i suoi settant'anni. Trattasi di un vescovo di Regensburg, la storica Ratisbona, precursore tra i vescovi tedeschi del movimento ceciliano che in Baviera ebbe il suo epicentro tra questa città e Monaco: è la patria d'origine del regnante pontefice. Il fatto che questi lo abbia scelto come testimone del suo percorso di studioso e di pastore, permette di intuire che Ratzinger sta restaurando col suo pensiero la liturgia e la musica sacra un po' come ai tempi di Sailer. Del resto, la sua sensibilità e formazione musicale sono note. Più volte Benedetto XVI usa la metafora del restauro a proposito della riforma della liturgia prima e dopo il Vaticano II: "Vorrei arrischiare - egli scrive - un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire. Si potrebbe dire che la liturgia era allora - nel 1918 - per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo...Grazie al movimento liturgico e - in maniera definitiva - grazie al concilio Vaticano II, l'affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei diversi tentativi errati di restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma è indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l'averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina"[1].
Ora è sotto questa cifra che mi piace leggere e presentare il testo di Giannicola D'Amico, perché egli, attraverso la storia - che è sì maestra di vita, ma ha purtroppo pochi discepoli e, come ci ammoniva un altro Benedetto (Croce), "chi non la studia, è destinato a ripeterla" - si è fatto tale per salvare ad ogni costo dal naufragio l'ingente patrimonio del canto gregoriano uno e multiforme, se mi si permette. Anzi, questo libro è un contributo a comprenderlo in modo completo; e siccome si tratta di patrimonio sacro, cioè che attiene al divino, ho ragione di ritenere che non andrà perduto ma permarrà. Allora si tratta di farlo conoscere oggi. Chi è educatore sa che le cose vanno ridette continuamente. Come ha scritto Ratzinger a proposito del lavoro di un altro giovane studioso tedesco mio amico, p. Uwe Michael Lang, sull'orientamento della preghiera ad Dominum, c'è da sperare e operare che "possa essere di aiuto nella lotta necessaria in ogni generazione, per la corretta interpretazione e la degna celebrazione della sacra liturgia"[2]. La musica sacra è tutt'uno con la liturgia, anzi è essa stessa sacra liturgia, ad onta degli attuali tentativi di musealizzarla con la scusa che prende troppo tempo. Ma nella liturgia il tempo-kronos non ci deve condizionare del tutto, in quanto in essa vige il tempo-kairòs, ossia quello favorevole alla salvezza dell'uomo che si colloca nella prospettiva dell'Eterno: in questa ottica l'incontro fra Verità e Bellezza che il canto gregoriano indubbiamente favorisce e costruisce può garantire alle celebrazioni liturgiche una valenza artistica ed estetica, priva di archeologismi manierati, ma sostanziata e radicata in una delle forme più spirituali e, al contempo, vissute e viventi dell'arte sacra cattolica.
Dopo questa ampia premessa passiamo in breve rassegna il libro del maestro D'Amico, che questo Conservatorio ha avuto - oserei dire - il "profetico coraggio" di pubblicare, in un momento storico in cui le sorti della liturgia sembrano, finalmente, imboccare vie di corretta e ponderata riforma che auspica il recupero di quel patrimonio di cui l'Autore tesse un elogio, oltre che da intenditore, da vero innamorato.
Non ho la pretesa di sintetizzare il volume - cosa impossibile, bisogna attingervi a sorsi e non d'un fiato, tanto è ricco di dati e riferimenti musicali, storici e giuridici, per non dire delle lunghe erudite note, alcune volte di carattere canonistico e dottrinario - ma di presentare i passaggi salienti, quasi fossero il fluire, a volte placido e rasserenante, a volte impetuoso e intricato, a volte limaccioso e sconcertante, di un fiume, fatto dal canto dei nostri padri, che dal Medioevo giunge ai nostri giorni.
L'opera parte prima del Rinascimento, dal fulgore del canto liturgico agli abusi stigmatizzati da papa Giovanni XXII nella Cost.Ap. Docta Sanctorum; in verità non sempre si trattava di abusi, "ma di progressi nella tecnica poetica e musicale" (p 13) se si pensa alla diffusione della forma innica, per non parlare della polifonia che pian piano prendeva il posto della monodia e della "rivoluzione" di Guido d'Arezzo nel quale l'Autore vede, in concomitanza con un innegabile progresso facilitativo della notazione musicale e del contemporaneo apprendimento, l'inizio della decadenza estetica del gregoriano, giunto poi lentamente, attraverso numerose, contorte e deplorevoli manomissioni, cui contribuì l'introduzione della stampa nel corso del Quattrocento, nel sec.XVIII ad un imbastardimento quasi generalizzato che finiva per presentare il canto liturgico sotto il nome di cantus fractus, cioè spezzato nel ritmo: ormai quasi ovunque totalmente irriconoscibile rispetto ai suoi prototipi, cominciò a perdere anche la originaria connotazione anonima. Tuttavia la produzione innica era avanzata grazie in gran parte ad anonimi, ma anche a noti o addirittura notissimi come Abelardo e Tommaso d'Aquino. Non si trattava necessariamente di composizioni originali, ma spesso in origine dotate di una impressionante "sensazione di Assoluto": a chi vi parla è stato possibile riscontrare l'ispirazione dell'Angelico all'Officium S.Nicolai in auge dal sec X e composto da Reginold di Eichstätt[3].
Il progresso del canto liturgico è dipeso non poco, come nell'alto medioevo dai benedettini così nel basso medioevo dai nuovi ordini religiosi che lo prescrivevano all'interno "con regole precise per lo studio e l'esecuzione"(p 42): così fece ancora l'incrollabile Ignazio di Loyola: e siamo già all'età rinascimentale e al concilio di Trento. Non fu da meno il cardinal Ghisleri, futuro Pio V, cui si deve la promulgazione dei libri liturgici voluti dal Concilio tridentino.
Se qualcuno però pensasse che il Concilio abbia solo conservato, scoprirebbe invero che le forbici intervennero largamente su molte parti della liturgia latina e, con specifico riferimento a quel che qui interessa, su molta parte del tardo repertorio cantuale, e principalmente sulle sequenze, note composizioni medievali che in tutta Europa si erano sviluppate all'inverosimile, spesso trasferendo nell'ambiente rituale leggende e credenze che la Chiesa ufficialmente riprovava: la falcidie fu forse fin troppo severa, salvando esclusivamente Victimae paschali, Veni Sancte Spiritus, Lauda Sion e Dies Irae. Lo Stabat Mater di Jacopone restò fuori del Messale instaurato, tuttavia, con l'autorizzazione ai riti locali ultrabicentenari, che il Concilio tridentino concesse (ad onta di quanti ancora pensano ad un ossessivo centralismo romanistico), si salvarono preziosi patrimoni di canto liturgico particolare contenuti nelle tradizioni del rito ambrosiano che trovò un campione nella figura eccelsa di Carlo Borromeo, nel rito aquileiense nelle Venezie - ben presto però decaduto, in concomitanza con la decadenza dell'antico patriarcato-, quello bracarense in Portogallo, alcune peculiarità dei vari riti gallicani, il c.d. rito augustano in Val d'Aosta, oltre ad alcune tradizioni rituali di diversi ordini religiosi.
Un punto di snodo nevralgico nella vicenda del canto liturgico, fu l'introduzione della stampa, avvenuta nel momento storico della imposizione delle logiche prosodiche classiche, che l'Umanesimo stava diffondendo, ad un repertorio testuale che con l'antichità non aveva nulla a che vedere: gli antichi segni reumatici persero ogni significato, per essere sostituiti gradualmente con le "rozze" figurazioni a stampa.
Cosa successe all'editoria liturgica romana prima e dopo i provvedimenti tridentini? D'Amico ricorda che si stampò quanto "avvenuto all'ombra della Curia papale negli ultimi 250 anni" (p 57) ovvero il lento lavorio liturgico intervenuto almeno dalla fine del Trecento, epoca in cui il papato era tornato da Avignone, sui precedenti nobilissimi, come l'opera di Durando di Mende.
Bisognava uniformare la liturgia romana, grazie all'opera previa dei Francescani che con la loro missione portarono con sé la liturgia della Curia e così - come ho potuto constatare studiando i codici liturgici latini di Terra Santa nel museo di Gerusalemme - "alla fine del sec.XIV a Roma tutti i libri liturgici erano ‘novi et franciscani'.[4]
L'esempio preclaro è che il primo libro a stampa venuto in luce a Roma nel 1476, presso la stamperia francescana della basilica dell'Ara caeli fu proprio il Messale romano, con le intonazioni gregoriane in note nere sul rigo rosso: un prototipo di enorme fortuna in tutta Europa e oltre.
Ma dopo Trento si voleva restaurare integralmente i libri ufficiali liturgici per il canto: così Gregorio XIII incaricò il princeps musicae Pierluigi da Palestrina dell'emendazione del repertorio gregoriano (operazione tortuosa e, agli occhi odierni, apparentemente bizzarra, vista la volontà di "tagliare le melodie" considerate da più parti un incomprensibile sequela di suoni) che però fu opera di altre mani e divenne la quintessenza del travisamento cui fu sottoposto tra ‘500 e 600 il canto liturgico e contro cui si schierarono eminenti studiosi come il fiorentino Giovan Battista Doni, a voi musicisti ben noto, o liturgisti di grande levatura, come il card. Giovanni Bona - rimando in proposito alle pagine che descrivono la vicenda in cui l'Autore, non senza una vena ironica, stigmatizza quanto alcune "abitudini romane" avessero contribuito alla cattiva riuscita del progetto.
L'Autore passa poi a considerare le sorti del canto liturgico tra Seicento e Primo Ottocento, gli studi, le edizioni, la normativa: già, perché lo studio di D'Amico è importante documento a sostegno del "diritto liturgico", ossia del modo giusto di adorare Dio in quanto stabilito dal medesimo, ed è certamente un tentativo, molto sommesso - ma in questo particolarmente elegante - di rammentare a musicisti e liturgisti quella dimensione giuridica degli studi di musicologia liturgica, negli ultimi decenni un po' perduta.
Si pensi, fra le norme citate, alla Costituzione Piae sollicitudinis di papa Alessandro VII del 1657 "che costituisce - scrive D'Amico - un caposaldo della normativa pontificia in materia musicale: il papa denunziava apertamente l'indegnità di molti coristi e cantori di Roma, divenuti ‘offesa alla Maestà divina, scandalo ai fedeli ed ostacolo alla pietà cristiana' " (p 92): quanta attualità in queste parole.
Ma, si annota, "i tempi non erano ancora maturi per una rinascita gregoriana"(p 102) che doveva arrivare faticosamente molto tempo dopo e tramite alcuni tentativi passati attraverso la molta erudizione bibliografica settecentesca, ad esempio l'immensa opera dell'abate Gerbert in Germania, come tramite la normativa promulgata da Benedetto XIV, pontefice fra i massimi canonisti di tutti i tempi, a metà del Settecento (ad es. la Lett. Ap. Annus qui), mentre le chiese locali, soprattutto nella Francia neo-gallicana del XVIII sec. facevano del repertorio di canto liturgico ampio strazio, in nome di particolarismi che, in realtà, mascheravano aspirazioni nemmeno troppo copertamente scismatiche in alcuni casi: la musica ed il canto liturgici divennero luogo di lotte politiche e di una novella iperproduzione di scarso rilievo artistico pelopiù.
In questa temperie europea si giunge al risveglio dell'Ottocento con il già citato mons. Sailer: in tutto il Continente, invero, i segnali si moltiplicarono come il tentativo di riforma suggerito da Gaspare Spontini, musicista di fama universale, al papa Gregorio XVI (p. 112 e ss) o le fruttuose ricerche archivistiche in Francia, Belgio, Germania.
In realtà sarà Solesmes ad inaugurare la più feconda opera di restaurazione del canto liturgico, con Dom Prosper Guèranger che, con l'inizio degli anni Trenta dell'800, infuse a quella comunità "Una altissima sensibilità liturgico-musicale" (p 129) a partire da alcune celebri opere: Les institutions liturgiques e L'année liturgique, opere pubblicate in tre e nove volumi tra il 1840 e il 1866 (di quest'ultima altri sei saranno opera del discepolo dom L. Fromage). Da allora la sua diffusione è stata ininterrotta. Oggi le si trova su internet. L'influenza di quel monastero fu lenta, a volte contestata, ma inesorabile, e giunse a Roma alcuni decenni dopo, prima in mezzo a schermaglie di scuola con gli ambienti tedeschi ed italiani, congressi musicali, pubblicazioni sempre più specifiche da un lato e nel contempo divulgative dall'altro, in mezzo a cui giganteggiano le figure di grandi musicisti come Giovanni Tebaldini, religiosi di veemente figura come l'abate Amelli, musicologi come Luigi Casamorata, solo per citare gli italiani, fino ad avere un suggello autoritativo nel 1898 grazie al suo antico allievo Lorenzo Perosi divenuto direttore aggiunto della Cappella Sistina, forse dietro suggerimento del card.Sarto, futuro papa Pio X (p 141). E le cose cambiarono davvero sotto il pontificato di questi (1903-1914).
Cosa succede da Pio X al concilio Vaticano II forse è cosa più nota, a partire dal Motu proprio Tra le sollecitudini emanato da papa Sarto tre mesi dopo l'elezione. Un documento giuridico di capitale importanza, perché "La santità della musica sacra, definita humilis ancilla liturgiae...è legata alla santità del culto quale antitesi di tutto ciò che è profano e secolare ed in questo essa deriva ontologicamente dalla purezza dei sacri testi e dalla estrinseca bellezza dei riti" (p 149). Saggiamente il Maestro D'Amico, pur riportando la valutazione di chi lo ritiene una reazione alla mondanità della musica sacra ottocentesca, ricorda "che il perpetuo divenire storico della musica e del canto liturgico ha proposto ininterrottamente...tale azione/reazione nel corso dei secoli, in forme tutto sommato simili" (Ibidem). Definendo che il canto gregoriano è proprio della Chiesa romana - allo stesso modo in cui altri papi avevano riconosciuto alle Chiese orientali il loro proprio canto - Pio X ammoniva che "tanto più l'arte musicale è sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, ispirazione e sapore si accosta alla melodia gregoriana, dotata delle suddette caratteristiche approvate per la musica sacra" (p 150).
Era il coronamento del cecilianesimo che riceveva il sigillo della suprema autorità apostolica.Un ruolo preminente come abbiamo detto ebbe Perosi nel raccordo tra musica liturgica e dogma. Lo ricorda la lapide apposta all'ingresso del S.Uffizio ove egli abitò fino alla morte, avvenuta nel 1956.
Le edizioni liturgiche di canto nel 1904 furono definitivamente affidate ai monaci di Solesmes e poi venne la nota Commissione per l'edizione vaticana, con le diatribe fra i grandi gregorianisti dell'epoca, Pothier e Moquereau, e la progressiva "normalizzazione" voluta da Pio X per scongiurare lo spettro di altre edizioni particolari e localismi di bassa lega che, dalla metà dell'800, proprio sotto l'influsso degli scritti di Gueranger si erano lentamente eclissati, in favore di un universalismo liturgico e musicale di ampio respiro, anche estetico e musicale.
Ma non bisogna trascurare che tutto ciò fu in certo senso "canonizzato" nel can 1264 del Codice di Diritto Canonico del 1917 che "si occupava dell'osservanza delle leggi liturgiche espressamente in materia di musica sacra, esprimendo la sollecitudine della S.Sede nel regolare universalmente la materia con norme certe e di valenza giuridica, anche sulla scorta del magistero di Pio X"(p 162).
Sarà dunque Benedetto XV che, promulgando il codice, fisserà il termine "musica sacra" come categoria di un repertorio il cui contenuto principale è il canto gregoriano" (p 163): l'Autore vuole sottolineare così, la costante sollecitudine del Magistero ecclesiastico, nel sussumere in categorie giuridiche, al più alto grado, quel che i musicisti pratica(va)no con naturale regolarità.
E siamo a Pio XII, personalmente appassionato del gregoriano, violinista e amico di Perosi; affrontò i problemi del canto sacro nella enciclica Mediator Dei (1947) assumendo, ricorda D'Amico, la guida del movimento liturgico (cfr p 166). Egli lo dimostrò in specie nel 1955 con la grande enciclica Musicae Sacrae disciplina ribadendo per la musica sacra le qualità di santità, bontà di forme e universalità, fondate - ricorda l'Autore -"prima nella essenza della musica quale donum Dei e poi nel connubio (oserei dire) mistico della musica con la liturgia e principalmente con il vertice di questa, cioè il sacrificio eucaristico" (p 168).
Intanto il movimento di rinnovamento liturgico procedeva con i noti convegni di Maria-Laach ove si distingueva Luigi Augustoni, scomparso da pochissimi anni, tra i massimi gregorianisti del XX secolo. L'impulso rinnovato al gregoriano, non impediva a papa Pio XII, in linea con la tradizione cattolica e forte ormai di cento anni di ritrovata effettiva universalità del rito romano, di incoraggiare anche gli altri riti latini come l'ambrosiano, il mozarabico e il gallicano.
Ne sortiva un florilegio di studi impareggiabile, in tutta Europa.
Seguiva l'Istruzione De musica sacra et de sacra liturgia nel 1958. Pio XII di lì a un mese moriva.
Con il Concilio Vaticano II si avvia la revisione dei libri liturgici, dopo aver affermato nel cap VI - richiamandosi al magistero precedente e principalmente a Pio XII, iniziatore già negli anni '40 delle prime importanti riforme liturgiche che coinvolgevano il canto gregoriano - che la musica sacra partecipa della dimensione sacramentale della liturgia. Le categorie tradizionali vengono rielaborate in favore della connessione maggiore con l'azione liturgica (n 128). Il canto gregoriano è riconosciuto come proprio della liturgia romana "a parità di condizioni"(n 116): "Si completava il percorso di definizione dello status (giuridico) del canto gregoriano, intrapreso agli albori del Novecento"(p 180). Ma tutto ciò non bastò allo sfratto dalla liturgia postconciliare(p 183) per causa di equivoche interpretazioni della riforma.
Che strano, annota D'Amico: "il Concilio aveva riavvicinato l'Occidente latino ad alcune ragioni dell'Oriente, le cui chiese mai avevano abdicato l'idea cosmica della liturgia da cui derivava un modus celebrandi rigoroso ed intatto nei secoli per il Culto divino" (p 187) eppure da noi ne sortì una banalizzazione rituale passata soprattutto attraverso la deposizione di ogni tradizione musicale: via il gregoriano, via l'organo, proscritta come il fumo negli occhi la polifonia, si introducevano repertori di un tale probabilismo liturgico e di valore artistico a volte pressoché inesistente, accompagnati dalle forme più becere - mi si passi il termine - di assemblearismo a tutti i costi.
Furono gli anni in cui la tradizione musicale della Chiesa cattolica pagò il più alto tributo alle concessioni con la modernità: antiche e nobili istituzioni musicali che assicuravano da secoli il servizio musicale nei luoghi liturgici più illustri dell'Occidente vennero chiuse, venerate tradizioni musicali furono liquidate in breve.
Ciò che è avvenuto dopo il concilio è quasi cronaca. Paolo VI con la Congregazione dei Riti aveva pubblicato nel 1967 l'Istruzione Musicam sacram, che ribadiva certi punti forti del magistero dei predecessori, e più volte si era pronunciato contro deviazioni dal retto sentiero (ad es con la Lett. Ap. Sacrificium laudis) spesso con quello stile così elevato e al contempo struggente che a volte connotava i discorsi di papa Montini, ma...i buoi erano già scappati dalla stalla ed alcuni storici non hanno escluso anche influenze "esterne" all'apparato ecclesiastico in questo deplorevole abbandono.
In quegli stessi anni, un po' defilata per ragioni storiche, Solesmes dava il meglio di sé dal punto di vista degli studi semiologici con la scuola di dom Eugene Cardine: gli antichi segni recuperati, dopo quasi cent'anni di studio, spiegavano la materializzazione musicale ed estetica del Verbo divino, nelle mani di quell'esercito di oscuri ed, al contempo, illuminati melografi del Medioevo.
Il maestro D'Amico affronta anche la questione della lingua liturgica (p. 192 e ss), a cui rimando, e che invito caldamente a meditare: la vicinanza di molti giovani, oggi, al latino ed alla liturgia tradizionale deve far riflettere.
Il nuovo Codice di Diritto canonico del 1983 al can 1173 parla più genericamente del canto. Cosa pensare? Alcuni fatti da interpretare: Domenico Bartolucci lascia nel 1997 la Cappella Sistina; nel 2003, il Chirografo di Giovanni Paolo II per il centenario del Motu proprio di Pio X, in cui ne ribadisce la attualità e auspica che le nuove composizioni siano pervase dallo stesso spirito. Ma, annota d'Amico, poco è trapelato, ahimè quasi nulla.Il localismo ha prevalso sull'universalismo cattolico.
In conclusione, siamo - diceva l'Autore nel 2005 - alla separazione generale tra liturgia e canto gregoriano senza precedenti (cfr p 212). Ma, come l'araba fenice il gregoriano e la musica sacra con Benedetto XVI riprenderanno vigore, perché come egli ha detto al maestro Bartolucci nella Cappella Sistina nel giugno 2006: "Un autentico aggiornamento della musica sacra non può avvenire che nel solco della grande tradizione del passato, del canto gregoriano e della polifonia sacra" (p 216). Perché? Giannicola D'Amico fornisce egli stesso la ragione: "In una società ormai profondamente secolarizzata come la nostra, il canto gregoriano garantisce il recupero del senso del sacro ormai in gran parte smarrito" (p 215), e - aggiungo - sempre più ricercato come necessario a guarire le malattie dell'uomo. Beninteso, il senso del sacro è il bisogno di sentire Dio vicino, altrimenti l'uomo non si spiega a se stesso. Del resto, come D'Amico riconosce e il testo sta ad attestarlo, le vicende della musica liturgica si sono susseguite a fasi alterne, in una sorta di lento circolo vichiano: oggi è giunto il momento di superare la boa che si attendeva da oltre 45 anni.
Il regnante pontefice, col Motu proprio Summorum Pontificum nel 2007 e le allocuzioni durante il viaggio in Francia nel 2008 ( forse che la patria del canto franco-romano - come i musicisti mi insegnano dovrebbe meglio definirsi il gregoriano -, culla della sua rinascita solesmense, ha ispirato al papa una intuizione particolare?) sta ricordando la non opposizione tra la liturgia rinnovata dal Concilio e quella antica, c'è solo bisogno di pacificazione degli spiriti e questo può avvenire solo nella contemplazione della bellezza che trova nella liturgia (cantata) l'anticipo celeste: Benedetto XVI sta predicando incessantemente la Bellezza nella casa di Dio, quale casa di tutti i fedeli.
Il libro, che è dotato di un utile Glossario dei libri liturgici e di una bibliografia di oltre 200 titoli, si chiude così, con l'auspicio che una componente così determinante della bellezza del rito romano torni in esso, al suo posto proprio e non più nei concerti ad appannaggio di pochi intenditori: è l'opera che nelle nostre città pugliesi, l'Autore da anni, nonostante la sua età non ingravescente, ma memore di suoi predecessori illustri, pone in essere con calore tutto meridionale, affinché il canto liturgico dei padri, quale linfa pulsante di cuore e di sangue, non sia dimenticato dai figli.
Auguro che questo libro coltissimo - vera "tesi magistrale" - del maestro e giurisperito Giannicola D'Amico, trovi un vasto pubblico di lettori attenti, e sia un segno di pacificazione tra musicisti e liturgisti.
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1) Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello B. 2001, p 6.
2) Rivolti al Signore. L'orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, Siena 2003,p 10.
3) Nicola Bux, La liturgia di San Nicola.Testi medievali e moderni, Levante, Bari 1986, p 7
4) Nicola Bux, Codici liturgici latini di terra Santa/Liturgic Latin Codices of the Holy Land, Schena, Fasano(Br), 1990, p 26.
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