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Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano - 02 aprile 2010
Santa Sede
- Via Crucis al Colosseo con il Papa, speranza per il credente
- Cristo, il migliore alleato della donna, secondo il predicatore del Papa
- I Vescovi manifestano il loro sostegno al Papa
- La tomba di Giovanni Paolo II, cinque anni dopo
- Padre Cantalamessa: gli ebrei esprimono solidarietà al Papa
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Santa Sede
Via Crucis al Colosseo con il Papa, speranza per il credente
"Dal tradimento può nascere l'amicizia"
“Il Venerdì Santo è il giorno della speranza più grande, quella maturata sulla croce mentre Gesù muore, mentre esala l'ultimo respiro”, ha spiegato il Papa, a cinque anni dalla morte di Giovvani Paolo II, deceduto alle 21.37 del 2 aprile del 2005.
“Consegnando la sua esistenza, donata nelle mani del Padre, egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita”, ha aggiunto il Santo Padre in un discorso che ha fatto da corollario alle meditazioni scritte per l'occasione dal Cardinale Camillo Ruini, Vicario emerito del Papa per la diocesi di Roma.
“I nostri insuccessi, le nostre delusioni, le nostre amarezze che sembrano segnare il crollo di tutto sono illuminate dalla speranza – ha aggiunto il Papa nel discorso trasmesso in mondovisione –. L'atto di amore della croce viene confermato dal Padre e la luce sfolgorante della Risurrezione tutto avvolge e trasforma”.
“Dal tradimento può nascere l'amicizia, dal rinnegamento il perdono, dall'odio l'amore”, ha detto ancora il Papa, che ha poi concluso con questa preghiera: “Donaci Signore di portare con amore la nostra croce, le nostre croci quotidiane, nella certezza che esse sono illuminate dal fulgore della tua Pasqua”.
A portare la croce nelle 14 stazioni sono stati: l'attuale Cardinale Vicario Agostino Vallini (la prima e l'ultima); due fedeli haitiani; due iracheni; una donna della Repubblica Democratica del Congo e una del Vietnam; due frati francescani della Custodia di Terra Santa; tre rappresentanti dell'Unitalsi (tra cui un malato); e una famiglia della Diocesi di Roma.
Le meditazioni del Cardinale Ruini hanno dato voce alla sofferenza delle donne e degli uomini di oggi, dalla malattia alla perdita di una persona cara o del lavoro, per spiegare che la croce non può essere separata dalla Risurrezione.
“Solo credendo nella risurrezione possiamo percorrere in maniera sensata il cammino della croce”, ha scritto il porporato che è stato per anni Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e che recentemente è stato nominato dal Papa a capo di una Comissione di inchiesta su Medjugorje.
I passi del Vangelo, in italiano, sono stati letti dall'attore Luca Lionello, che ha interpretato Giuda nel film “The Passion” di Mel Gibson, un ruolo che lo ha portato a convertirsi alla fede cristiana.
In occasione del Sabato Santo, alle 21, il Papa presiederà la Veglia Pasquale nella Basilica Vaticana. Nella mattina della domenica, alle 10.15, clebrerà invece la messa e, a mezzogiorno, pronuncerà il suo messaggio di Pasqua e impartirà la benedizione “Urbi et Orbi”.
La Via Crucis, nella sua forma attuale – con le quattordici stazioni disposte nello stesso ordine – è attestata in Spagna nella prima metà del secolo XVII, soprattutto in ambienti francescani.
Dalla penisola iberica essa passò prima in Sardegna, allora sotto il dominio della corona spagnola, e poi nella penisola italica. Qui incontrò un convinto ed efficace propagatore in San Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751).
Questo frate minore eresse personalmente oltre 572 Via Crucis. Tra queste è rimasta famosa quella eretta nel Colosseo, su richiesta di Benedetto XIV, il 27 dicembre 1750, a ricordo di quell'Anno Santo. Allora nel Colosseo vennero poste 14 edicolette e una grande croce al centro dell’Arena, tolti solamente più tardi nel 1874.
Dal 1964, con Papa Paolo VI, la pia pratica della Via Crucis si è svolta al Colosseo fino ad oggi ininterrottamente.
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Cristo, il migliore alleato della donna, secondo il predicatore del Papa
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Con la croce, Cristo ha invertito la logica della violenza, sconfiggendola. Ad ogni modo, questa continua a dominare nelle relazioni umane, dei potenti contro i deboli e, purtroppo, tra uomo e donna.
Lo ha affermato il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., in occasione della celebrazione della Passione del Signore, presieduta da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana.
Padre Cantalamessa ha insistito sulla gravità della violenza contro la donna, affermando che “è una occasione per far comprendere alle persone e alle istituzioni che lottano contro di essa che Cristo è il loro migliore alleato”.
In Cristo, “non è più l’uomo che offre sacrifici a Dio, ma Dio che si 'sacrifica' per l’uomo”, ha spiegato. Il sacrificio “non serve più a 'placare' la divinità, ma piuttosto a placare l’uomo e farlo desistere dalla sua ostilità nei confronti di Dio e del prossimo”.
“Il sacrificio di Cristo contiene un messaggio formidabile per il mondo d’oggi. Grida al mondo che la violenza è un residuo arcaico, una regressione a stadi primitivi e superati della storia umana e - se si tratta di credenti - un ritardo colpevole e scandaloso nella presa di coscienza del salto di qualità operato da Cristo”, ha affermato padre Cantalamessa.
In quasi tutti i miti antichi, ha spiegato, la vittima è il vinto e il carnefice il vincitore. “Gesù ha cambiato segno alla vittoria. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima”.
“Il valore moderno della difesa delle vittime, dei deboli e della vita minacciata è nato sul terreno del cristianesimo, è un frutto tardivo della rivoluzione operata da Cristo”.
Per questo, appena si abbandona la visione cristiana, “si smarrisce questa conquista e si torna ad esaltare il forte, il potente”.
“Purtroppo, però, la stessa cultura odierna che condanna la violenza, per altro verso, la favorisce e la esalta. Ci si straccia le vesti di fronte a certi fatti di sangue, ma non ci si accorge che si prepara ad essi il terreno con quello che si reclamizza nella pagina accanto del giornale o nel palinsesto successivo della rete televisiva”.
Accanto alla violenza giovanile e a quella sui bambini, padre Cantalamessa ha segnalato quella contro la donna, “tanto più grave in quanto si svolge spesso al riparo delle mura domestiche, all’insaputa di tutti, quando addirittura essa non viene giustificata con pregiudizi pseudo-religiosi e culturali”.
“La violenza contro la donna non è mai così odiosa come quando si annida là dove dovrebbe regnare il reciproco rispetto e l’amore, nel rapporto tra marito e moglie”.
Il predicatore ha quindi proposto, seguendo l'esempio di Giovanni Paolo II, una richiesta “di perdono per torti collettivi”, “il perdono che una metà dell’umanità deve chiedere all’altra metà, gli uomini alle donne”.
“Essa non deve rimanere generica e astratta. Deve portare, specie chi si professa cristiano, a concreti gesti di conversione, a parole di scusa e di riconciliazione all’interno delle famiglie e della società”, ha affermato.
“Anche nei confronti della donna che ha sbagliato, che contrasto tra l’agire di Cristo e quello ancora in atto in certi ambienti!”, ha aggiunto citando il brano evangelico del giudizio dell'adultera.
“L’adulterio è un peccato che si commette sempre in due, ma per il quale uno solo è stato sempre (e, in alcune parti del mondo, è tuttora) punito”.
“Ci sono famiglie (anche in Italia ) dove ancora l’uomo si ritiene autorizzato ad alzare la voce e le mani sulle donne di casa. Moglie e figli vivono a volte sotto la costante minaccia dell’'ira di papà'”.
“A questi tali bisognerebbe dire amabilmente: 'Cari colleghi uomini, creandoci maschi, Dio non ha inteso darci il diritto di arrabbiarci e pestare i pugni sul tavolo per ogni minima cosa. La parola rivolta a Eva dopo la colpa: 'Egli (l’uomo) ti dominerà', era una amara previsione, non una autorizzazione”.
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I Vescovi manifestano il loro sostegno al Papa
Da tutto il mondo appoggiano la sua azione di fronte ai casi di pefodilia
MADRID, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Innumevoli Vescovi di tutto il mondo stanno esprimendo la propria adesione a Benedetto XVI e sostenendo la sua risposta di fronte agli abusi sessuali da parte di alcuni sacerdoti. Lo fanno attraverso le loro omelie, le dichiarazioni, gli scritti, le lettere indirizzate al Papa e altre iniziative con cui respingono le accuse di aver coperto questi abusi o di non aver agito con il rigore necessario. Di seguito riportiamo alcune testimonianze dell'area ispanica.
“Il capo visibile del Corpo Mistico di Cristo è stato maltrattato dai nemici della Chiesa, con un'inusitata mancanza di rispetto per la verità e un'incredibile ostentazione di cinismo; si vede, dietro a ciò, un attacco alla Chiesa per danneggiarla”, ha affermato l'Arcivescovo di Lima (Perù), il Cardinale Juan Luis Cipriani, nella Messa Crismale celebrata nella Cattedrale peruviana.
“Noi suoi figli non possiamo restare in silenzio – ha sottolineato –. La preghiera è l'arma principale che lo Spirito Santo mette a disposizione”. “Preghiamo per il Papa, per la Chiesa, per i Vescovi, per i sacerdoti e per la vita consacrata – ha continuato –. Cerchiamo con più forza la santità personale”.
“Siamo chiamati ad essere collaboratori e cooperatori della verità”, ha detto davanti a più di 200 presbiteri che hanno rinnovato i propri impegni di fedeltà sacerdotale, esortandoli “a restare vicini al Papa nella preghiera, con l'impegno di seguire i suoi insegnamenti con obbedienza”.
La Conferenza Episcopale del Paraguay ha inviato a Benedetto XVI una lettera di “sostegno, comunione e solidarietà per gli attacchi che appaiono sulla stampa internzionale”. I Vescovi vi hanno espresso “la loro comunione con il Papa, in questo momento di dolore per gli attacchi che riceve nel suo carattere di pastore della Chiesa universale”, che cercano di “indebolire la sua voce e la sua autorità morale”.
A Santiago del Cile, il Cardinale Francisco Javier Errázuriz ha dichiarato la Domenica delle Palme che “alcuni mezzi di comunicazione cercano di colpire il buon nome del Papa accusandolo di cose nelle quali il Santo Padre non ha avuto alcuna responsabilità”.
Lo stesso giorno, il Vescovo della Diocesi messicana di San Cristóbal de Las Casas, monsignor Felipe Arizmendi Esquivel, ha dichiarato che Benedetto XVI ha sempre agito in modo responsabile di fronte a questo problema.
“Stiamo soffrendo per i peccati interni che sono innegabili, come lo sono anche il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro e l'allontanamento degli apostoli, che hanno lasciato solo Gesù”, ha detto.
“Si è voluto anche infangare Papa Benedetto XVI, mentre da quando era Arcivescovo di Monaco e poi responsabile della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha sempre trattato questi casi con estrema delicatezza e somma responsabilità”.
Nella Repubblica Dominicana, l'Arcivescovo di Santo Domingo, il Cardinale Nicolás de Jesús López Rodríguez, ha sottolineato i criteri di fermezza, trasparenza e severità con cui Benedetto XVI ha trattato e tratta i casi di abusi sui minori.
Il porporato ha affermato nel corso di una conferenza stampa a Santo Domingo che alcuni mezzi di comunicazione cercano di “sottovalutare i fatti e forzare le interpretazioni”. “Ciò non è affatto nuovo e nessuno ignora che si tratti di una macchinazione di settori dei Governi europei e gruppi degli Stati Uniti, che non perdonano al Papa o alla Chiesa la sua ferma posizione in difesa della vita e il suo rifiuto del crimine dell'aborto”, ha dichiarato.
In Spagna, monsignor Jesús Sanz Montes ha indirizzato una lettera a Benedetto XVI insieme all'Arcivescovo emerito di Oviedo, monsignor Gabino Díaz Merchán, al Vescovo ausiliare di Oviedo Raúl Berzosa Martínez e ai presbiteri, alle comunità di vita consacrata e ai fedeli laici dell'Arcidiocesi di Oviedo, della Diocesi di Huesca e della Diocesi di Jaca, per fargli giungere un abbraccio rispettoso e filiale.
Nel testo, monsignor Sanz Montes comunica al Santo Padre che “in questi giorni di profonda vita liturgica le Diocesi che la Santa Sede mi ha affidato come Arcivescovo di Oviedo e amministratore apostolico di Huesca e di Jaca hanno avuto l'occasione di celebrare la Messa crismale nelle rispettive Cattedrali. In questo contesto abbiamo compiuto una speciale menzione e abbiamo elevato le nostre preghiere per la sua amata persona”.
“La testimonianza di amore per la verità che Sua Santità ci sta trasmettendo con profondità e bellezza – aggiunge – non nasconde il profondo dolore che i fatti accaduti tra alcuni sacerdoti e consacrati hanno provocato nel suo cuore di Padre. La chiara vicinanza a queste vittime innocenti e la riprovazione dei gravi peccati commessi da questi figli della Chiesa è stato un esempio evangelico di fermezza, libertà e misericordia che abbiamo riconosciuto con gratitudine”.
“Lamentiamo che questi fatti siano avvenuti ai danni di bambini e giovani, che avrebbero dovuto ricevere da questi sacerdoti e consacrati ciò che il Signore voleva dar loro”, sottolinea il messaggio delle tre Diocesi.
Insieme alla gratitudine per la testimonianza di amore per la verità del Papa, la lettera esprime il suo dolore per il “maltrattamento ingiusto e fallace che alcuni mezzi di comunicazione e gruppi interessati stanno compiendo nei confronti della sua persona e del suo lungo e ineccepibile ministero come Arcivescovo di Monaco, come Cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e ora come Successore di Pietro”.
Anche il presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, il Cardinale Antonio María Rouco Varela, ha espresso nella Messa Crismale celebrata nella Cattedrale di Madrid l'unione al Papa “proprio in questi giorni in cui è tanto offeso e attaccato”.
Dal canto suo l'Arcivescovo castrense, monsignor Juan del Río, ha espresso comunione e affetto filiale al Papa attraverso una lettera, e la giurisdizione castrense ha dedicato l'Ora Santa del Giovedì Santo alla preghiera per la Chiesa.
Il Vescovo di Urgel, monsignor Joan Enric Vives, ha trasmesso al Papa con una lettera “l'adesione filiale alla sua persona e al suo magistero esemplare, alla sua manifesta bontà e umiltà e alla sua tenace lotta contro il peccato, che offende Dio e fa male ai suoi figli”.
L'Arcivescovo di Valencia, monsignor Carlos Osoro, ha affermato che “nulla, neanche le opinioni degli uomini, per quanto possano essere organizzate e orchestrate, distruggerà il ministero sacerdotale che lo stesso Gesù Cristo ha delineato con tanto amore”.
A Roma, il Cardinale Antonio Cañizares, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ha espresso la sua vicinanza al Papa martedì, nell'omelia della Messa con i membri del Parlamento italiano.
“Grazie, Santo Padre!”, ha detto. “Con tutta la Chiesa, e in modo particolare nel momento atttuale, siamo con Pietro, con il grande dono che Dio ci ha dato nel suo successore, il nostro amatissimo Papa Benedetto XVI”.
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La tomba di Giovanni Paolo II, cinque anni dopo
Il luogo è diventato uno dei più visitati di Roma
di Carmen Elena Villa
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Dal 2005, quando Giovanni Paolo II è morto, le Grotte Vaticane, dove si trova la sua tomba, sono uno dei luoghi più visitati dai turisti e dai pellegrini che si recano a Roma.
Fonti della Basilica di San Pietro hanno riferito a ZENIT che una media di 12.000 persone visita quotidianamente questo luogo, che resta aperto dalle 9.00 alle 17.00 (in estate fino alle 18.00) e ospita le tombe della maggior parte dei Pontefici, tra cui San Pietro, secondo la tradizione.
“Questo è un luogo sacro, chiediamo quindi silenzio e raccoglimento”, è l'annuncio che si ascolta in varie lingue quando si visitano le Grotte Vaticane.
L'ingresso è dal lato superiore destro della Basilica di San Pietro, da dove i pellegrini scendono nelle Grotte e possono ammirare anche alcuni resti delle colonne della prima basilica, costruita per ordine di Costantino tra il 326 e il 333.
I visitatori incontrano per prima la tomba di Callisto III. Seguendo il percorso, possono poi vedere quelle di Bonifacio VIII, Niccolò III, Innocenzo VII, Niccolò V, Paolo II, Paolo VI, Marcello II, Giovanni Paolo I, Innocenzo IX.
Alcune tombe mostrano l'immagine del Papa corrispondente. E' la stessa immagine che si può vedere nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, dove compaiono i 266 Papi della Chiesa cattolica.
ZENIT vi si è recato una mattina e ha visto che la maggior parte dei visitatori si raccoglie davanti alla tomba di Giovanni Paolo II.
Altri pellegrini, soprattutto quelli più anziani, si soffermano davanti alla tomba di Paolo VI e Giovanni Paolo I. Altri chiedono dove riposa il corpo di Giovanni XXIII, che dal 2002 è situato nella Basilica di San Pietro, in un'urna di cristallo davanti alla quale pregano ogni giorno centinaia di pellegrini. Giovannni Paolo II giace dove si trovava prima il corpo del “Papa Buono”.
Luogo di pellegrinaggio
Davanti alla tomba di Giovanni Paolo II c'è sempre una guardia, che chiede a quanti si mettono a pregare di rimanere dietro una corda per lascia passare i fedeli che li seguono. Molti depongono fiori, rosari, medaglie e altri oggetti sacri, altri guardano semplicemente la lapide con curiosità e stupore.
“Da quando è morto Giovanni Paolo II abbiamo dovuto sistemare tutto in modo diverso per la quantità di pellegrini che vengono quotidianamente da tutto il mondo. Non c'è giorno in cui non ci sia un'immensa folla”, ha detto uno dei custodi a ZENIT.
Prima l'accesso alle Grotte Vaticane avveniva dall'interno della Basilica. Non c'erano indicazioni chiare ed erano poche le persone che vi scendevano negli orari abituali di visita.
Oggi i pellegrini, arrivando a Piazza San Pietro, chiedono dove giacciono i resti del Pontefice. La sua tomba è praticamente una tappa obbligata per chi visita la Città Eterna.
“E' stato molto bello perché è la prima volta che vengo qui”, ha detto a ZENIT Antonia, proveniente dalla Galizia (Spagna), poco dopo aver visitato la tomba. “Ho sempre ascoltato e letto di lui, e mi è piaciuto molto e mi ha colpito vedere dov'è sepolto. L'ambiente e l'atteggiamento della gente mi hanno affascinato”.
Per Valentín, anche lui della Spagna, visitare la tomba di Giovanni Paolo II era uno degli obiettivi principali del viaggio a Roma. “Ammiro la sua semplicità e la vicinanza alla gente. E' stato molto brutto quando è morto perché è stato molto importante, ha lasciato un segno nella storia del cristianesimo e anche in quella universale”.
“Vedendo la tomba di Giovanni Paolo II mi sono emozionata”, ha detto María José, una pellegrina dell'Argentina. “Mi sono ricordata della sua vita. Era una persona molto semplice, umana, vicina. E' stata una grande tristezza quando è morto, anche se il Papa che abbiamo ora è una persona meravigliosa”.
Con il sottofondo della musica sacra che pervade sempre questo luogo e favorisce il raccoglimento, i pellegrini ricordano e ringraziano quel Pontefice morto in un giorno come questo, accompagnato dalle preghiere di decine di migliaia di fedeli in Piazza San Pietro, ai quali ha detto: “Io sono felice, siatelo anche voi”.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
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Padre Cantalamessa: gli ebrei esprimono solidarietà al Papa
Trasmette un messaggio di sostegno durante la predica del Venerdì Santo
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, ha approfittato della sua omelia nella celebrazione della Passione del Signore, presieduta da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana, in occasione del Venerdì Santo, per trasmettergli parole di solidarietà ricevute da amici ebrei di fronte agli attacchi mediatici di questi giorni.
Padre Cantalamessa ha dedicato buona parte della sua predica a riflettere sulla logica della violenza e su come Cristo la superi con il suo sacrificio.
In Cristo, “non è più l’uomo che offre sacrifici a Dio, ma Dio che si 'sacrifica' per l’uomo”, ha spiegato. Il sacrificio “non serve più a 'placare' la divinità, ma piuttosto a placare l’uomo e farlo desistere dalla sua ostilità nei confronti di Dio e del prossimo”.
“Appena si abbandona (come ha fatto Nietzsche) la visione cristiana per riportare in vita quella pagana, si smarrisce questa conquista e si torna ad esaltare 'il forte, il potente, fino al suo punto più eccelso, il superuomo', e si definisce quella cristiana 'una morale da schiavi', frutto del risentimento impotente dei deboli contro i forti”.
Il predicatore ha segnalato che, “per una rara coincidenza, quest’anno la nostra Pasqua cade nelle stessa settimana della Pasqua ebraica che ne è l’antenata e la matrice dentro cui si è formata”.
“Questo ci spinge a rivolgere un pensiero ai fratelli ebrei. Essi sanno per esperienza cosa significa essere vittime della violenza collettiva e anche per questo sono pronti a riconoscerne i sintomi ricorrenti”.
In questo senso, si è riferito a una lettera di un amico ebreo, in cui questi solidarizza con il Papa e con i cattolici a proposito degli attacchi ricevuti dai mezzi di comunicazione di tutto il mondo per la presunta negligenza del Papa di fronte ai casi di pederastia nel clero.
Padre Cantalamessa ha voluto leggere davanti al Pontefice un brano di questa lettera, in cui l'amico ebrei ha dichiarato di seguire “con disgusto l'attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del mondo intero”.
“L'uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell'antisemitismo”, si legge nel testo.
La lettera termina esprimendo “al Papa e a tutta la Chiesa la mia solidarietà di ebreo del dialogo e di tutti coloro che nel mondo ebraico (e sono molti) condividono questi sentimenti di fratellanza”.
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Anno Sacerdotale
Ordinario militare: il sacerdozio è un "passaggio di proprietà"
Il presbitero è "tolto dal mondo e assunto in Dio"
ROMA, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Con il sacerdozio, l'uomo viene sottratto al mondo e assunto in Dio, ha sottolineato l'Arcivescovo Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l'Italia, nell'omelia della Messa crismale celebrata questo giovedì a Roma.
Nell'Ultima cena, ha spiegato il presule, “Gesù, commosso profondamente, apre il cuore al Padre per consegnargli se stesso e i discepoli”.
“La preghiera risuonata in quell’Ora e in quel luogo non si è spenta, ma sino alla fine dei tempi aiuta a comprendere una storia d’amore che si gioca in Dio stesso. Dio è amore e chi vive questo amore vive di Dio ed è in Dio, come Dio in lui”.
Gesù chiede al Padre di consacrare nella verità i discepoli. “Consacrare qualcosa o qualcuno significa dare la cosa o la persona in proprietà a Dio, toglierla dall’ambito di ciò che è nostro e immetterla nell’atmosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma sia totalmente di Dio”.
“Consacrazione è dunque un togliere dal mondo e un consegnare al Dio vivente. Il sacerdozio ministeriale è un passaggio di proprietà; il presbitero viene tolto dal mondo e assunto in Dio, per consumarsi nel ministero”.
Essere immersi nella Verità, e quindi nella santità di Dio, “significa accettare il carattere esigente della verità” e “contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mondo”, ha osservato l'Arcivescovo.
“Unirsi a Cristo suppone la rinuncia, l’abbandono in Lui, ovunque e in qualunque maniera Egli voglia servirsi di noi”.
Allontanarsi dalla mondanità
Gesù, ha osservato monsignor Pelvi, “è particolarmente preoccupato della potenza del mondo e della possibile influenza sui discepoli”.
Secondo il presule, “forse stiamo sottovalutando lo spirito del mondo, il diavolo che tante volte è padrone della nostra vita personale e s’insinua nel cammino della Chiesa”.
“Non sempre, infatti, sappiamo discernere i sottili inganni del male dalla volontà di Dio. Il mondo delle libertà, delle uguali possibilità concesse a tutte le opinioni e modi di vivere ha un suo fascino. Abbiamo l’abitudine alla tolleranza, al permissivismo, alla laicità, alla trasgressione, alle mode che sono offerte come normali, al gusto dello scandalo e della sporcizia che sembra abbiano il diritto esclusivo di circolazione su qualsiasi mezzo di informazione”.
“Mai, forse, l’alternativa al messaggio cristiano è stata tanto sperimentata, in forme così pervasive e diffuse, soprattutto all’interno della stessa comunità cristiana”.
I cristiani, ha ricordato, sono chiamati “a vivere nella compagnia degli uomini ma a rompere con la mondanità”.
Bisogna dunque “prendere posizione riguardo alla mondanità”: “se infatti cediamo ad essa, non può esserci in noi l’amore che scende da Dio, perché quest’ultimo può solo risolversi in amore dei fratelli e delle sorelle, non degli idoli”.
“Nessuno può servire due padroni, o si amerà Cristo o la mondanità”.
Ciò, ad ogni modo, non vuol dire “abbandonare il mondo in cui Dio ci ha collocati”, ma “considerarlo nella sua verità, certi che la nostra cittadinanza vera, il nostro stile di vita appartiene al cielo”.
Unione con Dio
Nel Vangelo del Giovedì Santo, Gesù dice al Padre dei suoi discepoli “Sono tuoi”, ha proseguito l'Arcivescovo.
“Con lui sulla croce diventiamo offerta pura e santa, ferma confessione di fede, segno luminoso di speranza, ardente testimonianza di amore”.
Gesù, ha osservato monsignor Pelvi, “non chiede al Padre che noi diventiamo esperti e competenti nel fare questa o quell’opera, ma che rimaniamo uniti a lui, che siamo una cosa sola con lui e con il Padre, nel vincolo dell’amore che è lo Spirito Santo”.
“L’amore ha consumato tutto Gesù, perché ciascuno si consumi in lui e per lui e il mondo creda”.
Il valore del sacerdozio
In questo Anno Sacerdotale, l'Ordinario militare si è quindi rivolto ai presbiteri: “Quale straordinario ministero il Signore ci ha affidato!”.
“Come nella Celebrazione Eucaristica Egli si pone nelle nostre mani per continuare ad essere presente in mezzo al suo Popolo, analogamente, nel Sacramento della Riconciliazione, Egli si affida a noi perché gli uomini facciano l’esperienza dell’abbraccio con cui il Padre riaccoglie il figlio prodigo, riconsegnandogli la dignità filiale e ricostituendolo pienamente erede”.
“La Vergine Maria e il Santo Curato d’Ars ci aiutino a sperimentare nella nostra vita l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’Amore di Dio e custodisca ogni germe di vocazione nel cuore di coloro che il Signore chiama a seguirlo più da vicino”, ha concluso.
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Notizie dal mondo
Gerusalemme: cattolici e ortodossi rivivono la passione e morte di Gesù
Via Crucis per le strade, nell'anno in cui la Pasqua cade nello stesso giorno
GERUSALEMME, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il Patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, ha presieduto questa mattina la celebrazione della passione del Signore nel Santo Sepolcro.
Ad accompagnarlo c'erano il Cardinale John Patrick Foley, Gran Maestro dell'Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme, il neo Vescovo ausiliare monsignor William Shomali, e numerosi sacerdoti, francescani, seminaristi, religiosi e fedeli.
Più tardi, nella mattinata, sulla Via Dolorosa, numerosi gruppi di cristiani si sono uniti alla Via Crucis, alla quale ha preso parte anche il Patriarca Twal, che è sfilata attraverso le strette vie della Città Vecchia. Molti i blocchi della polizia per incanalare il grande flusso di pellegrini.
Quest'anno cattolici e ortodossi celebrano la Pasqua lo stesso giorno. Per questo motivo, era possibile vedere ortodossi provenienti dall’Europa dell’Est, che imbracciando grandi croci hanno ripercorso anche loro il cammino del Signore.
I fedeli della parrocchia latina di San Salvatore, insieme a religiosi locali e tanti pellegrini, si sono uniti alla processione dei francescani presieduta dal custode di Terra Santa, che ha sostato nelle varie stazioni.
La Via Crucis si è conclusa con le stazioni sul Calvario e poi davanti alla tomba vuota, dove si è pregato per le intenzioni del Santo Padre.
Giovedì pomeriggio, come ogni anno, si è svolto il tradizionale pellegrinaggio dei francescani al Cenacolo, insieme a fedeli di diverse nazionalità.
Nell’ambiente identificato con la sala al piano superiore di cui parlano i Vangeli di Marco e di Luca, sono stati letti i brani evangelici che narrano l’Ultima Cena, la lavanda dei piedi e l’addio del Signore, tutti episodi avvenuti proprio qui.
La lavanda dei piedi con i bambini della parrocchia latina, e i canti, sono gesti importanti se si considera che in questo luogo non è possibile officiare alcuna funzione e che i francescani - che ne erano custodi sin dal 1333 - possono recarsi al Cenacolo soltanto due volte l’anno: per il Vespro solenne la sera di Pentecoste e il Giovedì Santo, secondo quanto spiegato dalla Radio Vaticana.
Questo Giovedì Santo sera infine, al Getsemani si è svolto un altro suggestivo momento di preghiera, animato ancora dai francescani e presieduto dal Custode di Terra Santa.
Con loro pellegrini e fedeli locali hanno commemorato l’agonia del Signore presso la Roccia dove egli sudò sangue, e accanto agli olivi millenari che ne videro la sua ultima angoscia prima del tradimento.
La preghiera si è conclusa con la bellissima fiaccolata che parte dal Getsemani, e illuminando la Valle del Cedron, un fiume luminoso, giunge fino al santuario San Pietro in Gallicantu. Moltissimi i giovani e i pellegrini che hanno sostato in preghiera nella notte nel luogo dell’agonia, e al Gallicantu, dove una tradizione colloca il rinnegamento di Pietro e individua il palazzo di Caifa, la prigione di Gesù.
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Italia
Formazione on-line alla Gregoriana per agenti della comunicazione
ROMA, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Sono aperte le iscrizioni ai prossimi corsi on-line del Centro Interdisciplinare sulla Comunicazione Sociale (CICS) della Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Le iscrizioni ai corsi on-line di Comunicazione per lo Sviluppo e di Giornalismo Digitale si chiuderanno il 29 aprile, e l'inizio dei corsi è previsto per il 7 e l'8 maggio rispettivamente, ha reso noto a ZENIT il CICS.
Sono già aperte anche le iscrizioni ai corsi on-line per il prossimo anno accademico 2010-2011 di Produzione Radiofonica e Internet e di Comunicazione Istituzionale, che inizieranno il 10 e l'11 settembre.
In casi particolari, il CICS offre sconti speciali per gruppi di più di tre persone nei limiti delle risorse destinate a questo scopo.
Alla fine del seminario, i partecipanti riceveranno un certificato spedito dal CICS da Roma, oltre ai crediti accademici.
Per ulteriori informazioni, www.unigre.it, nella sezione del Centro Interdisciplinare sulla Comunicazione Sociale.
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Interviste
Una famiglia medita la Passione
Intervista a una coppia di giovani sposi di Lecco
di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- E’ appena arrivato in libreria il libro “Con noi divise il pane” (edizioni Ares). Si tratta di una meditazione sulla Passione scritta da una coppia di giovani sposi di Lecco, genitori di 3 figli: Cecilia Pirrone, psicologa e già autrice per le edizioni Ancora, e il marito, Giovanni Ferrario, un tecnico, al suo primo libro.
Il testo della meditazione è servito come sceneggiatura della Pasqua Vivente che si svolge a Lecco con il coinvolgimento di tre parrocchie il Venerdì santo, e che raccoglie un grande numero di fedeli e di pubblico anche da fuori città.
Le immagini riportate nel libro sono tratte dalla rappresentazione della Pasqua vivente, e sono state realizzate da Daniele Calisesi un fotografo ravennate già collaboratore coi periodici Mondadori e Rizzoli.
Nella prefazione al libro il Cardinale Angelo Comastri, Vicario generale di Sua Santità per lo Stato della Città del Vaticano, sottolinea l’originalità della meditazione nata in seno alla famiglia.
“Ho letto queste stupende pagine correndo con gli occhi e esultando con il cuore”, ha scritto il porporato: “Undici scene si susseguono con un ritmo incalzante, lasciando con il fiato sospeso e con il bisogno incoercibile di seguire il racconto”.
Sono le scene della Passione di Gesù rappresentate con parole e immagini poetiche sotto una prospettiva nuova. Chi parla sono gli stessi personaggi del Vangelo che, raccontando il loro incontro col Maestro durante la sua passione, morte e resurrezione, aprono un nuovo sguardo sul mistero della Pasqua.
Ha spiegato il Cardinal Comastri: “Mi è sembrato particolarmente significativo il fatto che queste scene siano state ‘dipinte’ dal cuore credente di due giovani sposi. Questo fatto è un chiaro messaggio: è la famiglia il primo luogo dove la fede deve essere raccontata con la vita”.
ZENIT ha intervistato gli autori del libro.
Che cos'è il libro "Con noi divise il pane" e che cosa vi ha spinto a scriverlo?
Pirrone-Ferrario: Il libro "Con noi divise il pane" è un testo di meditazione che vuole dare alcuni punti di riflessione "diversi" circa la passione, morte e resurrezione di Gesù. In realtà, a ben guardare, vediamo che la "chiave di lettura" utilizzata ricalca quanto già indicato dal Cardinale Martini quando esortava a comprendere il Vangelo, a partire dal Vangelo stesso.
Come citato nell'introduzione del libro, il testo è nato "per caso" durante alcune passeggiate sulle montagne lecchesi. Il passo che ha portato alla sua pubblicazione è stato il riscontro positivo che ha suscitato sia come base alla rappresentazione della "Pasqua vivente", sia come bozza sottoposta all'editore e al Cardinale Comastri che ne ha redatta la prefazione. Da questi riscontri abbiamo intuito che il testo avrebbe potuto essere un valido contributo di approfondimento e che quindi era "cosa buona" renderlo pubblico.
Che cosa c'entra la famiglia con la Passione di Gesù Cristo?
Pirrone-Ferrario: La vicenda umana del Figlio di Dio traccia una rotta chiara, inequivocabile e soprattutto percorribile verso quella meta di amore, pace ed unità che è il Regno dei Cieli. Ogni uomo è chiamato, nella sua libertà, a scegliere di percorrere questo sentiero di salvezza anche quando passa attraverso i dolori della Passione. In questa logica di redenzione, la famiglia, "invenzione" del Creatore sin dalle origini (Gn 1,28), è il luogo dove più "facilmente" è possibile ritrovare i caratteri della Passione di Cristo: l'amore filiale tra genitori (Maria) e figli (Gesù), la fiducia incondizionata dei bambini nei genitori (il ladrone sulla croce), la fedeltà dei coniugi che malgrado le fatiche si scelgono l'un l'altra ogni giorno (gli apostoli), il dolore per le scelte non condivise o i tradimenti (Giuda), la paura di affidarsi e di crescere (Gesù nel Getsemani), il perdono che quotidianamente ci si scambia (Gesù sulla croce).
Perché vi siete impegnati in una sceneggiatura della Pasqua vivente?
Pirrone-Ferrario: Ogni anno nella nostra parrocchia la sera del Venerdì Santo si mette in scena la Rappresentazione della Pasqua Vivente come momento di preghiera e meditazione. Noi vi abbiamo sempre preso parte come famiglia facendo la folla che osanna Gesù e che poi lo condanna, interpretando Maria in un'occasione o impersonando Gesù. Questa partecipazione attiva è un momento forte di preghiera e così ripensandovi si è provato a proporre un nuovo punto di vista che è stato ben accolto dal regista e quindi poi scritto.
Qual è il fine di queste attività?
Pirrone-Ferrario: Pregare!
Tante famiglie si lamentano perché non riescono a trovare il tempo per coniugare lavoro e famiglia. Voi come fate a coniugare gli impegni di lavoro, con quelli familiari compresa la cura e l'educazione di tre figli, insieme a scrivere un libro e curare la sceneggiatura della Pasqua vivente?
Pirrone-Ferrario: Non abbiamo curato la sceneggiatura, ma solo il testo. C'è poi un regista e una commissione che lavora con lui che si occupa di tutto il resto. L'idea è di coinvolgere il maggior numero di persone possibile "intorno a Gesù": i ragazzi delle medie catturano il Signore con i bastoni, le ragazze ballano all'entrata in Gerusalemme, gli adolescenti fanno gli apostoli, i più grandi gli anziani del Sinedrio, le famiglie la folla... e via dicendo.
Tutti in preghiera di fronte alla Passione. Senza dimenticare i tecnici che mesi prima si impegnano a montare le impalcature e le luci quando la rappresentazione si svolge all'aperto, coloro che dipingono le scenografie, chi si occupa dell'audio e della fotografia, chi delle preghiere, chi di fornire i cavalli per i soldati, chi prepara i costumi per circa duecento persone... Ognuno ha il suo compito prezioso per la buona riuscita di questo momento di preghiera.
Alla stesura del libro abbiamo dedicato, visti gli impegni familiari e lavorativi, circa un anno durante il quale abbiamo ampliato e arricchito il testo che avevamo scritto per la rappresentazione.
I momenti privilegiati per questo lavoro sono stati prevalentemente la sera quando tutti dormivano o qualche pomeriggio dove ognuno aveva i suoi compiti: i ragazzi quelli di scuola, la mamma il libro.
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Spiritualità
Padre Cantalamessa: "Abbiamo un grande Sommo Sacerdote"
Predica del Venerdì Santo 2010 nella Basilica di S. Pietro
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., Predicatore della Casa Pontificia, in occasione della celebrazione della Passione del Signore, presieduta da Benedetto XVI nella Basilica Vaticana.
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“Abbiamo un grande Sommo Sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di Dio”: così inizia il brano della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato nella seconda lettura. Nell’anno sacerdotale, la liturgia del Venerdì Santo ci permette di risalire alla sorgente storica del sacerdozio cristiano.
Essa è la sorgente di entrambe le realizzazioni del sacerdozio: quella ministeriale, dei vescovi e dei presbiteri, e quella universale di tutti i fedeli. Anche questa infatti si fonda sul sacrificio di Cristo che, dice l’Apocalisse, “ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue e ha fatto di noi un regno e dei sacerdoti del Dio e Padre suo” (Ap 1, 5-6). È di vitale importanza perciò capire la natura del sacrificio e del sacerdozio di Cristo perché è di essi che sacerdoti e laici, in modo diverso, dobbiamo recare l’impronta e cercare di vivere le esigenze.
La Lettera agli Ebrei spiega in che consiste la novità e l’unicità del sacerdozio di Cristo, non solo rispetto al sacerdozio dell’antica alleanza, ma, come ci insegna oggi la storia delle religioni, rispetto a ogni istituzione sacerdotale anche fuori della Bibbia. “Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri […] è entrato una volta per sempre nel luogo santissimo, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue. Così ci ha acquistato una redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano, in modo da procurar la purezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!” (Eb 9, 11-14).
Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto se stesso; ogni altro sacerdote offre delle vittime, Cristo si è offerto vittima! Sant’Agostino ha racchiuso in una formula celebre questo nuovo genere di sacerdozio in cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa: “Ideo sacerdos, quia sacrificium”: sacerdote perché vittima”[1].
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Nel 1972 un noto pensatore francese lanciava la tesi secondo cui “la violenza è il cuore e l’anima segreta del sacro” [2]. All’origine infatti e al centro di ogni religione c’è il sacrificio, e il sacrificio comporta distruzione e morte. Il giornale “Le Monde” salutava l’affermazione, dicendo che essa faceva di quell’anno “un anno da segnare con asterisco negli annali dell’umanità”. Già prima però di questa data, quello studioso si era riavvicinato al cristianesimo e nella Pasqua del 1959 aveva reso pubblica la sua “conversione”, dichiarandosi credente e tornando alla Chiesa.
Questo gli permise di non fermarsi, negli studi successivi, all’analisi del meccanismo della violenza, ma di additare anche come uscire da esso. Molti, purtroppo, continuano a citare René Girard come colui che ha denunciato l’alleanza tra il sacro e la violenza, ma non fanno parola del Girard che ha additato nel mistero pasquale di Cristo la rottura totale e definitiva di tale alleanza. Secondo lui, Gesù smaschera e spezza il meccanismo del capro espiatorio che sacralizza la violenza, facendosi lui, innocente, la vittima di tutta la violenza[3].
Il processo che porta alla nascita della religione è rovesciato, rispetto alla spiegazione che ne aveva dato Freud. In Cristo, è Dio che si fa vittima, non la vittima (in Freud, il padre primordiale) che, una volta sacrificata, viene successivamente elevata a dignità divina (il Padre dei cieli). Non è più l’uomo che offre sacrifici a Dio, ma Dio che si “sacrifica” per l’uomo, consegnando alla morte per lui il suo Figlio unigenito (cf. Gv 3,16). Il sacrificio non serve più a “placare” la divinità, ma piuttosto a placare l’uomo e farlo desistere dalla sua ostilità nei confronti di Dio e del prossimo.
Cristo non è venuto con sangue altrui, ma con il proprio. Non ha messo i propri peccati sulle spalle degli altri –uomini o animali -; ha messo i peccati degli altri sulle proprie spalle: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1 Pt 2, 24).
Si può, allora, continuare a parlare di sacrificio, a proposito della morte di Cristo e quindi della Messa? Per molto tempo lo studioso citato ha rifiutato questo concetto, ritenendolo troppo segnato dall’idea di violenza, ma poi ha finito per ammetterne la possibilità, a patto di vedere, in quello di Cristo, un genere nuovo di sacrificio, e di vedere in questo cambiamento di significato “il fatto centrale nella storia religiosa dell’umanità”.
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Visto in questa luce, il sacrificio di Cristo contiene un messaggio formidabile per il mondo d’oggi. Grida al mondo che la violenza è un residuo arcaico, una regressione a stadi primitivi e superati della storia umana e - se si tratta di credenti - un ritardo colpevole e scandaloso nella presa di coscienza del salto di qualità operato da Cristo.
Ricorda anche che la violenza è perdente. In quasi tutti i miti antichi la vittima è lo sconfitto e il carnefice il vincitore. Gesù ha cambiato segno alla vittoria. Ha inaugurato un nuovo genere di vittoria che non consiste nel fare vittime, ma nel farsi vittima. “Victor quia victima!”, vincitore perché vittima, così Agostino definisce il Gesù della croce[4].
Il valore moderno della difesa delle vittime, dei deboli e della vita minacciata è nato sul terreno del cristianesimo, è un frutto tardivo della rivoluzione operata da Cristo. Ne abbiamo la controprova. Appena si abbandona (come ha fatto Nietzsche) la visione cristiana per riportare in vita quella pagana, si smarrisce questa conquista e si torna ad esaltare “il forte, il potente, fino al suo punto più eccelso, il superuomo”, e si definisce quella cristiana “una morale da schiavi”, frutto del risentimento impotente dei deboli contro i forti.
Purtroppo, però, la stessa cultura odierna che condanna la violenza, per altro verso, la favorisce e la esalta. Ci si straccia le vesti di fronte a certi fatti di sangue, ma non ci si accorge che si prepara ad essi il terreno con quello che si reclamizza nella pagina accanto del giornale o nel palinsesto successivo della rete televisiva. Il gusto con cui si indugia nella descrizione della violenza e la gara a chi è il primo e il più crudo nel descriverla non fanno che favorirla. Il risultato non è una catarsi del male, ma un incitamento ad esso. È inquietante che la violenza e il sangue siano diventati uno degli ingredienti di maggior richiamo nei film e nei videogiochi, che si sia attirati da essa e ci si diverta a guardarla.
Lo stesso studioso ricordato sopra ha messo a nudo la matrice da cui prende avvio il meccanismo della violenza: il mimetismo, quella connaturata inclinazione umana a considerare desiderabile le cose che desiderano gli altri e, quindi, a ripetere le cose che vedono fare gli altri. La psicologia del “branco” è quella che porta alla scelta del “capro espiatorio” per trovare, nella lotta contro un nemico comune - in genere, l’elemento più debole, il diverso -, una propria artificiale e momentanea coesione.
Ne abbiamo un esempio nella ricorrente violenza dei giovani allo stadio, nel bullismo delle scuole e in certe manifestazioni di piazza che lasciano dietro di sé rovina e distruzione. Una generazione di giovani che ha avuto il rarissimo privilegio di non conoscere una vera guerra e di non essere stati mai richiamati sotto le armi, si diverte (perché si tratta di un gioco, anche se stupido e a volte tragico) a inventare delle piccole guerre, spinti dallo stesso istinto che muoveva l’orda primordiale.
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Ma c’è una violenza ancora più grave e diffusa di quella dei giovani negli stadi e nelle piazze. Non parlo qui della violenza sui bambini, di cui si sono macchiati sciaguratamente anche elementi del clero; di essa si parla già abbastanza fuori di qui. Parlo della violenza sulle donne. Questa è una occasione per far comprendere alle persone e alle istituzioni che lottano contro di essa che Cristo è il loro migliore alleato.
Si tratta di una violenza tanto più grave in quanto si svolge spesso al riparo delle mura domestiche, all’insaputa di tutti, quando addirittura essa non viene giustificata con pregiudizi pseudo-religiosi e culturali. Le vittime si ritrovano disperatamente sole e indifese. Solo oggi, grazie al sostegno e all’incoraggiamento di tante associazioni e istituzioni, alcune trovano la forza di uscire allo scoperto e denunciare i colpevoli.
Molta di questa violenza è a sfondo sessuale. È il maschio che crede di dimostrare la sua virilità infierendo contro la donna, senza rendersi conto che sta dimostrando solo la sua insicurezza e vigliaccheria. Anche nei confronti della donna che ha sbagliato, che contrasto tra l’agire di Cristo e quello ancora in atto in certi ambienti! Il fanatismo invoca la lapidazione; Cristo, agli uomini che gli hanno presentato un’adultera, risponde: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra con di lei” (Gv 8, 7). L’adulterio è un peccato che si commette sempre in due, ma per il quale uno solo è stato sempre (e, in alcune parti del mondo, è tuttora) punito.
La violenza contro la donna non è mai così odiosa come quando si annida là dove dovrebbe regnare il reciproco rispetto e l’amore, nel rapporto tra marito e moglie. È vero che la violenza non è sempre e tutta da una parte sola, che si può essere violenti anche con la lingua e non solo con le mani, ma nessuno può negare che nella stragrande maggioranza dei casi la vittima è la donna.
Ci sono famiglie dove ancora l’uomo si ritiene autorizzato ad alzare la voce e le mani sulle donne di casa. Moglie e figli vivono a volte sotto la costante minaccia dell’“ira di papà”. A questi tali bisognerebbe dire amabilmente: “Cari colleghi uomini, creandoci maschi, Dio non ha inteso darci il diritto di arrabbiarci e pestare i pugni sul tavolo per ogni minima cosa. La parola rivolta a Eva dopo la colpa: “Egli (l’uomo) ti dominerà” (Gen 3,16), era una amara previsione, non una autorizzazione.
Giovanni Paolo II ha inaugurato la pratica delle richieste di perdono per torti collettivi. Una di esse, tra le più giuste e necessarie, è il perdono che una metà dell’umanità deve chiedere all’altra metà, gli uomini alle donne. Essa non deve rimanere generica e astratta. Deve portare, specie chi si professa cristiano, a concreti gesti di conversione, a parole di scusa e di riconciliazione all’interno delle famiglie e della società.
* * *
Il brano della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato continua dicendo: “Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte”. Gesù ha conosciuto in tutta la sua crudezza la situazione delle vittime, le grida soffocate e le lacrime silenziose. Davvero, “non abbiamo un sommo sacerdote che non possa patire con noi nelle nostre debolezze”. In ogni vittima della violenza Cristo rivive misteriosamente la sua esperienza terrena. Anche a proposito di ognuna di esse egli dice: “L’avete fatto a me” (Mt 25, 40).
Per una rara coincidenza, quest’anno la nostra Pasqua cade nelle stessa settimana della Pasqua ebraica che ne è l’antenata e la matrice dentro cui si è formata. Questo ci spinge a rivolgere un pensiero ai fratelli ebrei. Essi sanno per esperienza cosa significa essere vittime della violenza collettiva e anche per questo sono pronti a riconoscerne i sintomi ricorrenti. Ho ricevuto in questi giorni la lettera di un amico ebreo e, con il suo permesso, ne condivido qui una parte. Dice:
“Sto seguendo con disgusto l'attacco violento e concentrico contro la Chiesa, il Papa e tutti i fedeli da parte del mondo intero. L'uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell'antisemitismo. Desidero pertanto esprimere a lei personalmente, al Papa e a tutta la Chiesa la mia solidarietà di ebreo del dialogo e di tutti coloro che nel mondo ebraico (e sono molti) condividono questi sentimenti di fratellanza. La nostra Pasqua e la vostra hanno indubbi elementi di alterità, ma vivono ambedue nella speranza messianica che sicuramente ci ricongiungerà nell’amore del Padre comune. Auguro perciò a lei e a tutti i cattolici Buona Pasqua”.
E anche noi cattolici auguriamo ai fratelli ebrei Buona Pasqua. Lo facciamo con le parole del loro antico maestro Gamaliele, entrate nel Seder pasquale ebraico e da qui passate nella più antica liturgia cristiana:
“Egli ci ha fatti passare
dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia,
dal lutto alla festa,
dalle tenebre alla luce,
dalla servitù alla redenzione”
Perciò davanti a lui diciamo: Alleluia”[5].
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1) S. Agostino, Confessioni, 10,43.
2) Cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Parigi 1972.
3) M. Kirwan, Discovering Girard, Londra 2004.
4) S. Agostino, Confessioni, 10,43.
5) Pesachim, X,5 e Melitone di Sardi, Omelia pasquale,68 (SCh 123, p.98).
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Parola e vita
Risurrezione: nascosti per sempre nel grembo dell'Amore
Domenica di Pasqua, 4 aprile 2010
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il primo giorno della settimana, al mattino presto, le donne si recarono al sepolcro portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: “Bisogna che il figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”. Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano a esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto (Lc 24,1-12).
Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria (Col 3,1-4).
“Proviamo a collocare il fatto nella nostra realtà quotidiana: un amico sta per morire; noi lo assistiamo, lo vediamo divenire sempre più debole, riceviamo le sue ultime parole ed esortazioni, il suo testamento...ci prendiamo cura del freddo cadavere, lo laviamo e lo ungiamo con unguento, lo avvolgiamo secondo le antiche usanze con fazzoletti e bende, deponiamo la salma nella terra,..vi rotoliamo sopra la pietra, sigilliamo il sepolcro,..ce ne andiamo a casa strisciando come mosche stordite, mezzo morte, come esseri per i quali ogni presente è sprofondato nel passato, il quale soffia nel futuro come un vento impetuoso attraverso un tronco vuoto. Dopodomani il sepolto sta in mezzo a noi, ci saluta, come se ritornasse da un viaggio e, mentre noi non sappiamo se ridere o piangere,..egli ci mostra le sue mani, i suoi piedi e il suo costato, - come un turista di ritorno da un viaggio è solito mostrare i souvenirs – per dimostrare che egli era veramente là..nel paese della morte e delle ombre, del freddo e della prigione senza speranza, di cui le quattro assi della bara sono solo un simbolo...” (H.U.V. Balthasar, “Tu coroni l’anno con la tua grazia”, p. 65s).
Il significato pasquale di questa scena stupefacente è quello espresso una settimana fa da Benedetto XVI: “La fede in Gesù Cristo non è un’invenzione leggendaria. Essa si fonda su una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare.(…) E’ commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è lui stesso” (Omelia nella Domenica delle Palme 2010).
La via interiore tracciata dal Risorto non è un percorso spirituale a tappe, ma è una crescente intimità nella fede e nell’amore con Colui che ha detto “Io sono la via” (Gv 14,6). Il Signore Gesù, risorto e vivo dentro di noi, è la via che rivela e conduce alla meta della vita terrena, quella che viene affermata dalla comunità dei fedeli ogni domenica: “credo la risurrezione della carne e la vita del mondo che verrà”.
Credere nella risurrezione della carne significa sperare (cioè essere convinti) che realmente accadrà fra noi mortali qualcosa di simile al racconto di Balthasar, con la differenza che l’infinita sorpresa del reciproco incontro è trasferita nel mondo che verrà.
Occorre precisare, inoltre, che risurrezione della carne non vuol dire semplicemente “eterna giovinezza”, l’idea che nell’aldilà saremo tutti come bambini in perfetta salute, pieni di vitalità, radiosi e gioiosi per sempre. In quest’immagine, per altro, c’è sicuramente qualcosa di vero, dal momento che Gesù stesso ha detto: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
La similitudine con il bambino va mantenuta e completata, però, alla luce di queste altre parole del Signore: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10,14-15).
Ma cosa vuol dire accogliere il Regno di Dio come un bambino? Nella risposta a questa domanda sta la comprensione del mistero della nostra personale risurrezione.
L’accoglienza del Regno di Dio alla maniera di un bambino non dice solo che l’adulto deve imitare la fede semplice e fiduciosa dei piccoli. Con il paragone “a chi è come loro”, Gesù vuole indicare anzitutto ciò che definisce essenzialmente l’esistenza del bambino, vale a dire quella relazione profonda con la mamma che lo fa vivere in totale e vitale simbiosi con lei.
Per comprendere meglio come sarà la pienezza di quel Regno che è già in mezzo a noi, e cosa significa risorgere nella vita del mondo che verrà, basta allora ricordare che il senso etimologico di “in mezzo” è “nelle viscere”, nel grembo. Come il grembo materno appartiene per nove mesi al bambino che vi sta nascosto fin dal primo giorno di vita, così per l’eternità sarà nostro il Regno di Dio e la nostra vita sarà “nascosta” con Cristo in Dio, custodita per sempre nell’intimità ineffabile del grembo divino della Santissima Trinità.
Perciò il Regno di Dio nel quale vivremo risorti in Cristo, sarà la nostra perfetta ed eterna comunione d’amore con le tre divine Persone, nel cui mondo vivremo beati come bambini nel grembo, assieme ad una miriade di altri figli.
Consideriamo infatti ciò che Gesù stesso, poco prima di morire, dichiara a Marta: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me , anche se muore, vivrà” (Gv 11,25). Non dice: io sono il principio, la causa, il fine della risurrezione, ma “Io sono la risurrezione e la vita”, che significa: “Io sono la risurrezione, la vita eterna di tutti i risorti”. Un po’ come se la mamma dicesse al bambino: “io sono la tua generazione, e la mia relazione con te è la tua vita”, personificando in se stessa il fatto biologico del concepimento per fondarlo nella sua vitale, profonda e perenne relazione con il figlio.
Quando ho letto per la prima volta l’Istruzione “Dignitas personae”, leggendo le splendide parole: “la vita vincerà: è questa per noi una sicura speranza. Sì, vincerà la vita, perché dalla parte della vita stanno la verità, il bene, la gioia, il vero progresso. Dalla parte della vita è Dio, che ama la vita e la dona con larghezza” (n.3), ho pensato che la vittoria della vita è un evento che riguarda anche il presente, dal momento che la Risurrezione di Gesù è un fatto perennemente attuale. Perciò, nonostante che la morte non sia stata ancora definitivamente sconfitta, la vita vince adesso, la vita è una vittoria del presente, come grida Paolo: “Siano rese grazie a Dio che ci da la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! Perciò fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili...” (1Cor 15,57-58). Ancora più esplicitamente: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?...Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35.37).
E’ un formidabile grido di sfida e di vittoria sulla morte che potrei attualizzare così: l’angoscia della perdita di una persona cara, come quella di un genitore al quale è stato tolto tragicamente un figlio per malattia o incidente; l’angoscia ancor più dolorosa di una mamma che il figlio se lo è fatto togliere per mano del medico abortista o per effetto di un farmaco mortale; e tante altre simili situazioni di morte (viste anche dal versante della stessa vittima), può realmente trovare tregua e pace duratura al presente nella verità della Risurrezione, non solo per il pensiero che nell’aldilà incontreremo i nostri cari e sarà asciugata ogni lacrima per sempre, ma per reale esperienza.
Possiamo capire questo solamente se rispondiamo alla domanda cruciale: che cos’è la vita? Qual è la verità essenziale della vita umana? Se la vita è solo qualcosa di biologico e psicologico, valgono le tristi parole di Giobbe: “Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!” (Gb 1,22).
Ma la vita non può essere e non è il contrario della morte. La vita è infinitamente di più, è una realtà incorruttibile che dimora in noi e a cui il nostro corpo da’ visibilità. Tale realtà divina proviene da una Fonte zampillante che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25).
Se Gesù è la risurrezione e la vita, allora la risurrezione e la vita non sono rimandate all’al di là, ma appartengono già all’al di qua, poiché Gesù risorto è vivo in mezzo a noi.
Per questo Benedetto XVI ha detto: “La preghiera non è un accessorio, un optional, ma è questione di vita o di morte. Solo chi prega, infatti, cioè chi si affida a Dio con amore filiale, può entrare nella vita eterna, che è Dio stesso”.
Vi può entrare da subito, per mezzo dello Spirito del Signore risorto.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
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Documenti
Discorso del Papa al termine della Via Crucis al Colosseo
ROMA, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo da Benedetto XVI al termine della “Via Crucis” al Colosseo per il Venerdì Santo.
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Cari fratelli e sorelle,
in preghiera con animo raccolto e commosso abbiamo percorso questa sera il cammino della croce, con Gesù siamo saliti al Calvario e abbiamo meditato sulla sua sofferenza riscoprendo quanto profondo sia l'amore che egli ha avuto ed ha per noi.
Ma in questo momento non vogliamo limitarci ad una compassione dettata solo dal nostro debole sentimento, vogliamo piuttosto sentirci partecipi della sofferenza di Gesù, vogliamo accompagnare il nostro maestro condividendo la sua Passione nella nostra vita, nella vita della Chiesa, per la vita del mondo, perché sappiamo che proprio nella croce, nell'amore senza limiti che dona tutto se stesso sta la sorgente della grazia, della liberazione, della pace, della salvezza.
I testi, le meditazioni, le preghiere della Via Crucis ci hanno aiutato a guardare questo mistero della Passione per apprendere l'immensa lezione di amore che Dio ci ha dato sulla croce, perché nasca in noi un rinnovato desiderio di convertire il nostro cuore vivendo ogni giorno lo stesso amore, l'unica forza capace di cambiare il mondo.
Questa sera abbiamo contemplato Gesù nel suo volto pieno di dolore, deriso, oltraggiato sfigurato dal peccato dell'uomo, domani notte lo contempleremo nel suo volto pieno di gioia, raggiante e luminoso. Da quando Gesù è sceso nel sepolcro la tomba e la morte non sono più luogo senza speranza dove la storia si chiude nel fallimento più totale, dove l'uomo tocca il limite estremo della sua impotenza. Il Venerdì Santo è il giorno della speranza più grande, quella maturata sulla croce, mentre Gesù muore, mentre esala l'ultimo respiro gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46). Consegnando la sua esistenza, donata nelle mani del Padre, egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita. Come il seme nel terreno, deve rompersi perché la pianta possa nascere. Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto. Gesù è il chicco di grano che cade nella terra, si spezza, si rompe, muore e per questo può portare frutto. Dal giorno in cui Cristo vi è stato innalzato la croce che appare come il segno dell'abbandono, della solitudine, del fallimento è diventata un nuovo inizio. Dalla profondità della morte s'innalza la promessa della vita eterna, sulla croce brilla già lo splendore vittorioso dell'alba del giorno di Pasqua.
Nel silenzio di questa notte, nel silenzio che avvolge il Sabato Santo, toccati dall'amore sconfinato di Dio, viviamo nell'attesa dell'alba del terzo giorno, l'alba della vittoria dell'amore di Dio, l'alba della luce che permette agli occhi del cuore di vedere in modo nuovo la vita, le difficoltà, la sofferenza. I nostri insuccessi, le nostre delusioni, le nostre amarezze che sembrano segnare il crollo di tutto sono illuminate dalla speranza. L'atto di amore della croce viene confermato dal Padre e la luce sfolgorante della Risurrezione tutto avvolge e trasforma. Dal tradimento può nascere l'amicizia, dal rinnegamento il perdono, dall'odio l'amore. Donaci Signore di portare con amore la nostra croce, le nostre croci quotidiane, nella certezza che esse sono illuminate dal fulgore della tua Pasqua. Amen.
[Trascrizione a cura di ZENIT]
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