Il regime libico ricorda l’addio degli americani allo scalo che fu italiano, tedesco, inglese e russo. Reparti maternità senza ossigeno
Tripoli. Conto alla rovescia. Mica per Gheddafi, no. Per le nostre piccole corrispondenze. L’altro giorno ci hanno portato ad assistere alla cerimonia che solennizzava il giorno di festa nazionale, nell’anniversario dell’ammainabandiera dell’ultima base americana in Libia, nel 1970.
Nel piazzale d’onore di quella che adesso si chiama base Mittiga, dal nome di una bambina uccisa per errore durante un’esercitazione americana, c’era tutto. La banda militare, con divise da circo, uniformi rosse e alamari e bottoni dorati, che uno si aspettava un attacco jazz, e invece erano marcette militari. E poi due lunghe tribune con donne, civili e ufficiali che applaudivano i discorsi e lanciavano slogan. Il picchetto d’onore, nel quale spiccava una evidente presenza di soldati dalla pelle nera, libici del sud, che le cronache tendono a presentare sempre come mercenari (sono semplicemente neri, e spesso nigerini e maliani di antica o recente immigrazione, che Gheddafi ha arruolato nel corso degli ultimi decenni, quale elemento terzo ed equilibratore nel confronto delle tribù). E un cartello con foto color seppia della partenza degli americani.
Una bella storia, quella della base. Costruita dagli italiani nel ’23 – si chiamava Mellaha, allora – usata dalla Luftwaffe nella battaglia del nord Africa, presa dai britannici e poi rinominata Wheelus, in onore di un sottotenente caduto in Iran, dagli americani. Nel 1958 un geologo inglese, partendo da qui per una ricognizione dall’alto nel Sahara, individuò i resti di un aereo B24, il “Lady be good”, scomparso nel nulla durante la Seconda guerra mondiale, il 4 aprile del ’43, di ritorno da un bombardamento sul porto di Napoli.
Una spedizione, da terra, sul posto rintracciò il relitto e ritrovò, dopo lunghe ricerche i corpi di sette dei nove uomini dell’equipaggio. Uno accanto all’aereo, che privo di carburante, era riuscito ad atterrare sulla sabbia. Cinque a 125 chilometri di distanza, uno a 175 chilometri. Si calcolò che fossero sopravvissuti per otto giorni. E, infine, arrivò Gheddafi, che lasciò per un po’ la base ai russi, e poi se la prese. Oggi i suoi celebrano un’altra resistenza, con qualcosa che spiega meglio d’ogni altra il cultural divide: le foto ricordo con i bambini vestiti da soldato, cui gli adulti prestano un fucile per posare. Popolo in armi, secondo loro, che ti vietano tante altre inquadrature, ma ti esibiscono questa, come se fosse accattivante.
Ieri ci hanno mostrato uno stabilimento sulla costa. Centrato a più riprese dai bombardamenti, produceva gas medicinali. Accanto alla fabbrica c’è una distesa di mezzi corazzati bruciati, ci dicono che non c’entra nulla, sono stati messi lì a deposito lontano dalle case, per via dell’uranio impoverito. Il direttore, Abdullah al Maidani, trattiene a stento l’indignazione quando avverte che entro una settimana i 97 reparti maternità della Libia rimarranno senza ossigeno, e tra le altre cose, tutte le incubatrici si fermeranno. Propaganda, vero, falso? Tra una settimana, insciallah, non saremo più qui.
FOGLIO QUOTIDIANO | di Toni Capuozzo
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