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ZENIT
Il mondo visto da Roma
Servizio quotidiano - 29 marzo 2010
Santa Sede
Dove Dio piange
Notizie dal mondo
- I cattolici iracheni rispondono alla violenza con una nuova scuola
- Caritas Cile lancia un piano di aiuto per 542.000 persone
- Causa di beatificazione in vista per il primo sacerdote nero degli USA
Italia
- Esperienze di formazione nei diversi Seminari del mondo
- "I peccati degli uomini non deturperanno mai la bellezza della Chiesa"
- Internet, strumento indispensabile per la democrazia in Africa
Interviste
Documenti
- Il Papa nella Messa con i Cardinali a 5 anni dalla morte di Wojtyla
- Intervento della Santa Sede a Ginevra contro l'intolleranza religiosa
Santa Sede
Benedetto XVI: l'amore muoveva Giovanni Paolo II
Così ha potuto farsi "compagno di viaggio per l'uomo di oggi"
di Jesús Colina
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Ciò che muoveva Giovanni Paolo II “era l'amore verso Cristo”, ha spiegato Benedetto XVI nella Messa presieduta questo lunedì nel V anniversario della sua morte.
In un ambiente di grande raccogliento, in piena Settimana Santa, nella Basilica vaticana, il suo successore ha sintetizzato la vita di Karol Wojtyła (1920-2005) come “svolta nel segno di questa carità, della capacità di donarsi in modo generoso, senza riserve, senza misura, senza calcolo”.
Roma ha vissuto nuovamente l'emozione sperimentata il 2 aprile 2005 - quest'anno la ricorrenza cade di Venerdì Santo, e per questo motivo si è anticipato il ricordo liturgico -, quando la folla seguiva sotto la finestra del Papa polacco i suoi ultimi respiri.
Per l'occasione, è giunto tra i porporati radunati intorno all'altare il suo fedele segretario per 40 anni, l'attuale Cardinale Stanislaw Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia, ma sono arrivati anche pellegrini dei cinque continenti, in particolare della Polonia, che avevano fatto in giornata la coda per visitare la tomba nelle grotte vaticane.
Durante l'omelia, in un grande silenzio, il Papa ha spiegato che “ciò che lo muoveva era l'amore verso Cristo, a cui aveva consacrato la vita, un amore sovrabbondante e incondizionato”.
“E proprio perché si è avvicinato sempre più a Dio nell'amore, egli ha potuto farsi compagno di viaggio per l'uomo di oggi, spargendo nel mondo il profumo dell'Amore di Dio”, ha aggiunto.
Il suo successore e stretto collaboratore ha ricordato gli ultimi giorni di sofferenza di Giovanni Paolo II: “la progressiva debolezza fisica non ha mai intaccato la sua fede rocciosa, la sua luminosa speranza, la sua fervente carità”.
“Si è lasciato consumare per Cristo, per la Chiesa, per il mondo intero: la sua è stata una sofferenza vissuta fino all'ultimo per amore e con amore”, quell'“amore di Dio che tutto vince”.
Durante l'omelia, il Papa ha parlato in italiano. L'unica lingua che ha usato brevemente è stata il polacco per assicurare che “la vita e l'opera di Giovanni Paolo II, grande polacco, può essere per voi motivo di orgoglio”.
“Bisogna però che ricordiate che questa è anche una grande chiamata ad essere fedeli testimoni della fede, della speranza e dell'amore, che egli ci ha ininterrottamente insegnato”, ha aggiunto parlando la lingua natale di Papa Wojtyła.
Nella preghiera dei fedeli si è pregato in tedesco con queste parole: “Per il nostro Santo Padre Benedetto XVI: affinché continui sulle orme di Pietro a svolgere il ministero con perseverante mitezza e fermezza per confermare i fratelli”.
In polacco, poi, si è aggiunto: “Per il venerabile Papa Giovanni Paolo II, che ha servito la Chiesa fino all'estremo limite delle sue forze: affinché dal cielo interceda nell'alimentare la speranza che si realizza pienamente prendendo parte alla gloria della risurrezione”.
Benedetto XVI ha approvato il 19 dicembre il decreto che riconosce le virtù eroiche di Karol Wojtyła. Lo studio del presunto miracolo sperimentato da una suora francese affetta dal morbo di Parkinson, attribuito all'intercessione di Giovanni Paolo II, segue il processo stabilito dalla Congregazione per le Cause dei Santi, secondo quanto è stato confermato il mese scorso.
Anche se Benedetto XVI aveva concesso la licenza per non attendere i cinque anni richiesti per avviare la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, l'iter è sottoposto a tutti i requisiti necessari per qualsiasi altro caso, tra cui il riconoscimento di una guarigione inspiegabile da parte di una commissione medica, riconosciuta poi come “miracolo” da una commissione teologica, da una commissione di Cardinali e Vescovi e dallo stesso Papa.
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Messa a Roma per le vittime del terremoto del Cile
Presieduta dal Cardinal Sodano e concelebrata da rappresentanti ecclesiali del Paese
di Olga de los Santos
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- La comunità cilena che vive a Roma si è riunita per pregare con speranza per il Cile e la sua ricostruzione, ricordando in modo particolare le vittime del terremoto.
Nella splendida Basilica di Santa Maria Maggiore, si è celebrata questo venerdì un'Eucaristia solenne in suffragio delle vittime del sisma che ha devastato il Paese il 27 febbraio.
La cerimonia è stata presieduta dal Cardinale Angelo Sodano, decano del Collegio cardinalizio ed ex Nunzio Apostolico in Cile, ed è stata concelebrata dall'Arcivescovo di Santiago, il Cardinale Francisco Javier Errázuriz, dal presidente della Conferenza Episcopale, monsignor Alejandro Goic, e da molti Vescovi e sacerdoti.
Erano presenti l'ambasciatore del Cile presso la Sede, Pablo Cabrera, che ha rivolto un breve saluto, e l'ambasciatore del Cile in Italia, Cristián Barros, molti rappresentanti del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, comunità cilene e latinoamericane residenti a Roma e cittadini romani.
“Alla fine della vita saremo giudicati dall'amore”
Il Cardinal Sodano ha iniziato la sua omelia ricordando che “è passato un mese da quel 27 febbraio in cui ci è arrivata, come un fulmine a ciel sereno, la notizia della tragedia che aveva colpito il Cile, soprattutto nelle zone costiere centrali. Ancora una volta l'Oceano non era più 'Pacifico'. Non era 'quel mare che ti bagna tranquillo', come recita l'inno nazionale cileno. La televisione ha portato le immagini della tragedia nelle case di tutto il mondo, immagini che hanno colpito profondamente i romani, da sempre molti vicini a quella nobile Nazione”.
A un mese da “quell'evento doloroso”, ha proseguito, “la comunità di Roma, insieme a rappresentanti di vari Paesi sudamericani, ha voluto riunirsi per pregare in questa storica Basilica mariana per porre nelle mani misericordiose del Padre celeste le anime dei defunti e implorare per i sopravvissuti il dono della serenità e della pace”.
“Di fronte a una tragedia come questa, tutti noi ci sentiamo molto piccoli e persi”, ha riconosciuto. Nell'“enigma del dolore”, tuttavia, si riesce a vedere “qualche raggio di luce”: “è la luce della fede che ci assicura che Dio ci ama sempre ed è sempre vicino a noi con amore di Padre”.
Il porporato, decano del Collegio cardinalizio, ha aggiunto che di fronte al dolore dei fratelli si ha il dovere di aiutare con opere di bene. “E' l'esempio che ci hanno lasciato tutti i santi e le sante della solidarietà cristiana”, ha ricordato.
Ha quindi chiesto alla Vergine Maria di essere “la salvezza del popolo cileno. Che ella ottenga per quegli amati fratelli la pazienza della speranza cristiana e faccia nascere in tutti noi propositi di profonda solidarietà nei confronti di chi ha sofferto”.
Dal canto suo, il Cardinale Francisco Javier Errázuriz ha espresso al termine della celebrazione liturgica la propria gioia per il fatto che il Cardinal Sodano abbia accettato di presiederla: “Fa piacere trovare questa comunità viva, che prega per quanti hanno sofferto e per i defunti. E' una solidarietà che non ha frontiere; le frontiere non sono né le Ande né il deserto, siamo tutti cileni. Viviamo gli stessi momenti di gioia e gli stessi momenti di tristezza, e vogliamo accompagnarci ed essere solidali pur stando lontano”, ha dichiarato.
Monsignor Goic, presidente della Conferenza Episcopale del Cile, ha sottolineato la presenza alla cerimonia di “molta gente che ama il Cile ed è venuta in questa chiesa meravigliosa di Santa Maria Maggiore per esprimere attraverso la preghiera e la solidarietà la vicinanza con il Cile”.
Interpellato sul significato di questa Eucaristia, il rappresentante diplomatico cileno presso la Santa Sede, Pablo Cabrera, ha detto: “Questa Messa è un'espressione della vicinanza della Santa Sede, della Curia, della Chiesa italiana, latinoamericana e cilena... è una conseguenza naturale del messaggio di Sua Santità subito dopo il terremoto che abbiamo subito e che ha portato a molte espressioni di amicizia e vicinanza, di affetto per quanti soffrono e per le vittime”.
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Dove Dio piange
In Nigeria la convivenza non è più pacifica
Intervista all'Arcivescovo di Jos
JOS (Nigeria), lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- La Nigeria è uno dei Paesi più popolati dell’Africa, in cui vivono gruppi etnici e religiosi diversi costretti a vivere uniti durante il governo coloniale britannico.
Eppure questa convivenza ha perdurato nonostante le tensioni. Oggi la pace è scomparsa e l’Arcivescovo di Jos, Ignatius Kaigama, si domanda il perché.
Sebbene si dica che i contrasti scaturiscano dalle tensioni tra musulmani e cristiani, il presule di 51 anni sospetta che vi siano altri motivi meno evidenti.
Monsignor Kaigama ha parlato delle difficoltà della Nigeria al programma televisivo “Where God Weeps” gestito da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.
Effettivamente vi sono state tensioni tra cristiani e musulmani nel Nord della Nigeria e più di recente nella parte centrale, dove si trova Jos. Qual è la radice del problema?
Monsignor Kaigama: Credo che tutto nasca dalla convinzione che una religione debba prevalere sull’altra. Questo tipo di propaganda è in atto sia nell’Islam che nel Cristianesimo: ogni religione vuol controllare, più o meno, l’intero sistema e per questo si crea questa competizione. E dove, per esempio, nell’ultimo periodo è stata introdotta la Sharia, nella sua forma attuale, i cristiani si sono sentiti minacciati e a causa di ciò vi sono state forti tensioni, e i rapporti sono degenerati, con lo scoppio delle violenze. Questo è testimoniato dal fatto che in Nigeria vi sono state numerose crisi religiose, la maggior parte delle quali verificatesi nel Nord. E dall’introduzione della Sharia queste crisi sembrano riaffiorare con regolarità.
Qual è la preoccupazione principale dei cristiani di fronte all’introduzione della legge islamica in Nigeria?
Monsignor Kaigama: La Sharia, così come è stata introdotta di recente, è un po’ diversa da come era in passato. La Sharia esiste da tempo in Nigeria, ma cristiani e musulmani hanno sempre vissuto in pace e convissuto bene. Dalla recente introduzione della Sharia, i cristiani si sentono minacciati perché sono una minoranza in quella zona e hanno perso molto.
Per esempio, se nella tua attività vendi alcolici, la Sharia non lo consente, e quindi devi chiudere. Persino il modo di vestirsi e la libertà di culto e di religione sono minacciati. Quindi i cristiani hanno buoni motivi per essere preoccupati ed è per questo che molti hanno abbandonato quelle zone e chiuso le loro attività. L’incertezza è tale per cui le violenze possono esplodere da un momento all’altro. Per evitare il rischio, la gente se ne va e chiude le proprie attività. È così che stanno andando le cose.
Se non sbaglio nello Stato di Zamfara, per esempio, gli uomini e le donne non possono viaggiare insieme sui trasporti pubblici e devono osservare il codice d’abbigliamento islamico. Esiste quindi una forte pressione sociale, anche sui cristiani, derivante dalla legge islamica?
Monsignor Kaigama: Assolutamente sì. Se devi prendere l’autobus, ti dicono di prendere quello successivo perché questo sta portando solo donne, o solo uomini. È un problema. E quando non è facile fruire dei servizi pubblici, la vita si complica. Credo che tutto ciò abbia veramente creato forti tensioni, perché la gente, dopo una giornata di duro lavoro ha bisogno di potersi rilassare, di andare al cinema o a bere un bicchiere insieme. Ma ciò non è fattibile in questo contesto, la vita diventa molto noiosa e, come ho detto, la violenza può facilmente esplodere in queste circostanze.
Nella parte meridionale della Nigeria, ancora prevalentemente cristiana, un musulmano ha la libertà di convertirsi al Cristianesimo. Ma nel Nord questo non è possibile. Nella pratica cosa succede? Se nel Nord della Nigeria un giovane le si avvicina con il desiderio di convertirsi al Cristianesimo, cosa potrebbe succedere?
Monsignor Kaigama: Effettivamente ho incontrato giovani che sono venuti da me chiedendomi aiuto. Erano giovani hausa o fulani che erano venuti a dirmi: noi siamo musulmani ma vorremmo diventare cristiani. E mi hanno detto che erano già stati minacciati di morte. Erano stati buttati fuori dalle loro case, minacciati di morte e ora erano da me a chiedere aiuto.
Non è facile perché quando accogli queste persone, diventi un possibile bersaglio di aggressioni. Quindi cerchiamo di distinguere chi ha un autentico desiderio di conversione, perché qualcuno potrebbe presentarsi con l’intenzione di infiltrarsi. Una volta che siamo sicuri della buona fede cerchiamo di aiutarli. In moti casi chiedo ai miei catechisti di assisterli nel loro cammino e la cosa funziona. Ma in alcuni casi ti accorgi che hanno qualche altra motivazione non del tutto chiara. Allora gli si dice chiaramente che possono tornare alla loro religione, essere bravi musulmani ed è tutto a posto. In quei momenti scopri che sono mossi da qualche altra motivazione.
Perché gli eventi di carattere internazionale hanno ripercussioni così violente in Nigeria?
Monsignor Kaigama: Credo per ignoranza. Siamo rimasti tutti sconcertati dalle dimostrazioni violente contro le vignette danesi. Pensavamo che non avessero nulla a che fare con noi, ma come ho detto, forse per ignoranza, l’intolleranza è sfociata in queste violenze.
Abbiamo convissuto per lungo tempo, senza che vi fosse mai stato un episodio chiaro di violenza religiosa. D’improvviso esplode. E noi continuiamo a chiederci perché. Siamo sicuri che questa è religione? Potrebbero esserci altri motivi. Forse i politici, per raggiungere i propri scopi, usano la religione come strumento. E questo è successo. Alle volte sono i fattori economici a creare queste tensioni, come i giovani disoccupati che reagiscono in questo modo contro cose che in realtà non li riguardano.
Trovo quindi difficile credere che sia la religione a generare queste terribili violenze e distrazioni. L’ignoranza e poi forse anche la religione, strumentalizzata come arma politica o etnica da alcune personalità, potrebbero essere un motivo.
Più di 300 chiese sono state distrutte in quattro anni, se non vado errato. Come è possibile per i cattolici vivere la loro fede in questo contesto?
Monsignor Kaigama: Bisogna vivere giorno per giorno e imparare a sopravvivere. Non credo che tutte queste aggressioni e persecuzioni ci porteranno a rinnegare Nostro Signore Gesù Cristo o a rinnegare la nostra fede. La vita deve andare avanti.
Quando una chiesa viene distrutta, se ne raccolgono i pezzi e si va avanti. Nell’Arcidiocesi di Jos esistono in questo momento molte chiese che sono state distrutte. Ma negli ultimi sei mesi abbiamo cercato di ricostruirle. Ci possono distruggere le chiese, ma non ci possono distruggere lo spirito cristiano che ci anima. E questo è ciò che continuiamo a fare. Incoraggiamo i nostri cristiani a difendere la nostra fede. Li incoraggiamo a evitare la vendetta, a evitare la violenza. Sempre predichiamo la cultura della non violenza, perché è a questo che la nostra fede ci chiama. È a questo che Nostro Signore Gesù Cristo ci invita: a porgere l’altra guancia. E noi continuiamo a porgere, forse lo stomaco, forse la gamba. Ma questo non significa che i cristiani siano stupidi. Sappiamo bene cosa facciamo. È per il bene comune e dobbiamo evitare di rispondere con la stessa moneta. Se lottiamo, attacchiamo e uccidiamo, l’intera zona verrebbe annientata. Quindi proponiamo il dialogo come l’unica opzione fattibile.
Accennava al fatto che state lavorando alla ricostruzione delle chiese, ma che anche questo è difficile. Riuscite ad ottenere i permessi per costruire. Come è, per esempio, la situazione con il governo locale nella vostra zona?
Monsignor Kaigama: Nella mia Arcidiocesi non è un problema, perché abbiamo una forte presenza cristiana. Ma se consideriamo zone come Kano o Sokoto, lì non è facile ottenere i permessi per costruire una chiesa. Possono autorizzare la costruzione di un ospedale, una clinica o una scuola, perché sono servizi sociali per la popolazione, ma quando si parla di costruire una chiesa, pensano che lo scopo sia quello di propagare la fede cristiana e questo viene contrastato.
Quindi, direttamente o indirettamente, viene negato l’accesso alla terra o il permesso di costruire per portare la gente in chiesa. Questo è indubbio. Per esempio, a Kano sono state costruite chiese durante la notte e alcune persone della zona sono venute a distruggerle. Allora si deve iniziare tutto da capo. Il problema quindi esiste, ma questo non raffredda il nostro spirito cristiano.
Molti cristiani, impauriti da questa recente esplosione di violenze, hanno fatto i bagagli e sono partiti per il Sud. Questo mette a rischio la presenza del Cristianesimo nel Nord della Nigeria?
Monsignor Kaigama: Sì, molti cristiani del Sud, che vivono e lavorano al Nord, ritornano a casa nei periodi di crisi, perché quando le loro attività economiche vengono distrutte, e le loro case rase al suolo, non hanno motivo di continuare a restare.
Ma questo non significa che il Cristianesimo sia morto nel Nord, perché esistono sempre le popolazioni indigene. Per esempio, a Kano, c’è l’etnia maguzawa. Sono hausa, anche se normalmente si pensa che siano tutti musulmani. Aderiscono alla religione tradizionale, ma quando non sono di quella religione, sono cattolici, anglicani o altro. Quindi stanno lì e non si spostano.
L’unico problema è che soffrono molto a causa della loro identità e fede cristiane. Gli viene negato l’accesso all’istruzione, non possono arrivare ai vertici della pubblica amministrazione, solitamente sono impiegati come guardiani, fanno le pulizie, e cose simili. Difficilmente arrivano più in alto. E questo è ciò che subiscono per essere cristiani.
La Chiesa è accorsa ad aiutarli in modo incisivo, per dargli la possibilità di crescere, avviando scuole primarie, costruendo chiese nella foresta, per favorirne l’unione, la consapevolezza, la vitalità. E sta funzionando. Attualmente abbiamo almeno cinque persone provenienti da questo gruppo etnico che sono diventati sacerdoti e che stanno lavorando molto bene. Questo per dire a che punto siamo riusciti ad arrivare e che nonostante la Chiesa cattolica sia perseguitata, vi sono persone che vivono lì e che sono ancora pronte a sacrificare tutto per proclamare la loro fede e identità cristiane.
Lei ha scritto un libro intitolato “The Dialogue of Life”, in cui manifesta la speranza che il dialogo della vita possa rappresentare uno strumento attraverso il quale unire cristiani e musulmani. Cosa è il “dialogo della vita”?
Monsignor Kaigama: Diversamente da un approccio teorico e intellettuale, io propongo un dialogo della vita, basato su quei momenti di contatto tra cristiani e musulmani che vivono insieme e interagiscono quotidianamente. Cristiani e musulmani si ritrovano insieme in alcuni impegni sociali. Si ritrovano insieme – quindi non stiamo parlando di teoria – per le attività di ogni giorno: per la celebrazione dei matrimoni, dei diplomi scolastici, per il conferimento di un titolo di capo tribù. Spesso si ritrovano insieme, e per me questo rappresenta una via d’uscita. Quando tu tocchi la mia vita come musulmano e io tocco la tua come cristiano, credo che qualcosa avvenga e credo che questo possa portare a una maggiore comprensione e creare un’atmosfera di pacifica coesistenza. Io credo nel dialogo della vita. Non nel dialogo in senso teorico, ma a come questo incide sulla vita nella sua esistenza quotidiana.
Sta funzionando?
Monsignor Kaigama: Funziona. Per questo ho scritto quel libretto sul dialogo della vita, che racconta della mia esperienza nel rapporto con i musulmani. Ed ha funzionato.
Per esempio, con l’emiro di Wase è di recente nata un’amicizia. Egli è il presidente dei musulmani nello Stato di Plateau. È un emiro potente e da quando sono diventato Arcivescovo abbiamo lavorato insieme. Sono andato a visitarlo molte volte. Recentemente ho celebrato il 25° anniversario della mia ordinazione e lui era presente e ben rappresentato. Mi ha persino fatto recapitare in dono una grande mucca. E questo come è stato possibile? Chi ci vede dice: sono grandi amici. E questo perché io sono andato da lui e lui è venuto da me. Io gli ho fatto visita in occasione della Sallah (una celebrazione islamica), andando a casa sua, tra la sua gente. Io ero lì, ho portato alcuni sacerdoti, suore e fedeli cristiani. Siamo andati a salutarlo e a offrirgli la nostra amicizia. E lui ha ricambiato.
Quando ho ricevuto una lettera dal Vaticano sulla celebrazione della Sallah, ne ho portato una copia alla moschea. Anche lì, ho invitato alcuni musulmani a cui ho presentato la lettera del Papa indirizzata a loro. Erano molto felici di vedere che ci avvicinavamo a loro. L’anno seguente sono venuti da me, nel mio ufficio, per farmi gli auguri di Natale.
Quindi come vede stiamo facendo progressi. Recentemente sono stato nuovamente ospitato dall’emiro di Wase. Sono rimasto a casa sua per due giorni. Lui mi ha offerto alloggio e abbiamo parlato di tante cose. Abbiamo visitato i villaggi per predicare il messaggio della pace e della pacifica convivenza tra cristiani e musulmani. E credo che stia funzionando.
Il suo brano preferito della Bibbia è Filippesi 3,10. [“...Conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte...”]. Perché questo brano è così importante per lei?
Monsignor Kaigama: Perché per essere partecipi della resurrezione di Cristo dobbiamo partecipare alle sue sofferenze. Tra l’altro questo è anche il mio motto episcopale: Per Crucem ad Dei Gloria – Attraverso la croce, alla gloria di Dio.
Io credo che dopo la sofferenza, la persecuzione, dopo tante difficoltà, possiamo essere elevati alla gloria di Dio, come ha fatto Cristo, il quale ha dovuto soffrire. Ha dovuto morire. Ha dovuto soffrire molto per noi ed è stato elevato nella gloria.
Io credo che nessun risultato arrivi senza sforzo. Il mio rapporto con i musulmani non è facile. Il mio lavoro pastorale è pieno di difficoltà. Quando vado sul campo vedo la sofferenza della gente. Vedo la fame e la malattia. Vedo la gente che non può soddisfare i bisogni basilari. Vedo persone che soffrono l’ingiustizia. Vorrei identificarmi con loro ed è per questo che, come pastore, vado da loro e sto con loro. Bevo la loro acqua sporca. Mangio il loro cibo per condividere la loro agonia e i loro patimenti. E credo che vi sia una ricompensa per questo. Quando soffriamo per Cristo credo che vi sia una grande ricompensa che ci aspetta. Non dovremmo considerare la sofferenza come una condanna di Dio, ma come una sfida e un cammino verso la gloria.
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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.
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Notizie dal mondo
I cattolici iracheni rispondono alla violenza con una nuova scuola
L'Arcivescovo di Mosul ricorda l'impegno nell'istruzione della Chiesa
di Genevieve Pollock
MOSUL, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Di fronte alla violenza contro i cristiani in Iraq, l'Arcivescovo caldeo di Mosul sta costruendo una nuova scuola come segno di speranza per la gente.
L'Arcivescovo Emil Shimoun Nona, 42 anni, nominato alla guida dell'Arcieparchia a gennaio, ha dichiarato i suoi obiettivi in una lettera del mese scorso.
“L'assassinio e la persecuzione dei cattolici in Iraq, soprattutto a Mosul, ha portato a una crisi sociale e spirituale”, ha affermato.
“Servo le necessità delle persone sfollate e demoralizzate”, ha aggiunto.
“Molti cattolici hanno perso la vita. Migliaia di persone hanno perso la casa, i mezzi di sussistenza e la comodità di una famiglia vicina, giacché si sono visti costretti a fuggire e a cercare rifugio in altri luoghi”. “Quelli che restano vivono nella paura”.
Il presule confida nella “speranza”, che ha assunto come motto del suo ministero episcopale, “la speranza che con la forza e la grazia che ci giungono continuamente attraverso nostro Signore Gesù Cristo la comunità cattolica caldea e tutte le comunità della Chiesa d'Oriente prosperino ancora una volta”.
“Come Diocesi e comunità dobbiamo ricostruire tutto”, ha confessato.
Questo processo di ricostruzione verrà iniziato con una nuova scuola, nell'“antico villaggio cattolico caldeo di Karmless”.
Il villaggio, ha spiegato, “si trova in una zona sicura della Diocesi ed è pieno di sfollati interni cattolici che vi si sono rifugiati”.
L'Arcivescovo Nona ha inviato una richiesta di aiuto “per costruire questa nuova scuola diocesana, con il nome del nostro patrono Mar Adday”.
La costruzione della scuola, ha segnalato, comincerà a gennaio. La struttura si propone di “accogliere studenti di tutte le religioni: cristiani, musulmani e yazidi, di Karmless e dintorni”, nell'autunno 2011.
Il presule ha espresso la speranza che questo progetto aiuti le persone creando più posti di lavoro, ma dando anche ai cattolici “un'opportunità di fare qualcosa in cui spicchiamo”.
“L'istruzione è stata un carisma della nostra Chiesa fin dalla sua fondazione – ha indicato –. Nel 350 d.C., nella città di Nisibis, i nostri antenati diretti fondarono la prima università del mondo. Da allora abbiamo creato centinaia di scuole e università, e sono state riconosciute per i loro apporti significativi alla cultura e alla società irachene”.
“Nella guerra attuale e nel contesto dei suoi effetti, abbiamo due scuole autosufficienti di successo a Baghdad”, ha detto.
“Entrambe hanno almeno il 60% di iscritti musulmani e sono profondamente cattoliche nella propria identità”.
L'Arcivescovo ha anche sottolineato il “dovere di fornire un'educazione cattolica ai nostri giovani, per insegnare il messaggio di salvezza di Cristo, per infondere in loro le virtù della carità, dell'autostima e del rispetto degli altri”.
“Siamo una comunità resistente – ha detto il presule – e desideriamo prosperare qui in Iraq”.
Per questo, ha lanciato una richiesta di aiuto per “realizzare la nostra speranza” attraverso “la Nostra Santissima Madre, consolazione degli afflitti e Regina della Pace”.
Hank e Diane McCormick, una coppia di missionari che lavorano nel nord dell'Iraq per aiutare i cristiani del Medio Oriente, hanno affermato in alcune dichiarazioni a ZENIT che “la comunità cattolica irachena sta diminuendo e ha bisogno di un aiuto immediato per sopravvivere”.
“I Vescovi locali e i sacerdoti si sono concentrati sulla necessità immediata di scuole come miglior modo per sostenere la comunità per ragioni molto pratiche: un'équipe completa è disponibile per gestire le scuole, queste offrono impiego immediato, una volta costruire saranno autosufficienti e stanno accogliendo altre comunità religiose, anche i musulmani”.
L'Arcivescovo Nona, il cui predecessore è stato sequestrato e assassinato nel 2008, ha detto che se la situazione non migliorerà l'antica comunità cristiana potrebbe scomparire.
Ad ogni modo, poco dopo essere stato posto alla guida dell'Arcidiocesi di Mosul, ha affermato che la sua nuova missione è “offrire speranza e fiducia ai cristiani di Mosul, perché prendano coscienza della presenza di un padre e di un ministro al loro fianco nella difficile situazione attuale”.
“L'unica cosa a cui i fedeli continuano ad aderire è la Chiesa”, ha sottolineato il presule.
“Per questo motivo la Chiesa, nella persona del Vescovo, deve prendersi cura dei propri fedeli e aiutarli a sentirsi sicuri attraverso la sua presenza in loro e tra loro”, ha concluso.
Per ulteriori informazioni, www.charityandjustice.org.
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Caritas Cile lancia un piano di aiuto per 542.000 persone
Per un importo di 6,5 milioni di euro
MADRID, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Caritas Cile ha rivolto alla rete internazionale Caritas una richiesta speciale di aiuto d'emergenza per un valore di 8,8 milioni di dollari (circa 6,5 milioni di euro) per aiutare le vittime del terremoto che ha sconvolto il Paese andino il 27 febbraio.
Gli obiettivi contemplati nel piano di aiuti comprendono la distribuzione di cibo e articoli per l'igiene e l'avvio di programmi per far sì che i pescatori e gli agricoltori – due delle categorie più colpite dal sisma – possano recuperare i propri mezzi di sostentamento.
Nel contesto della risposta d'emergenza, Caritas Cile fornirà anche sostegno psicologico e spirituale alle persone rimaste traumatizzate dal terremoto: “Non si possono distribuire solo casse di cibo. Stiamo anche ascoltando le persone che hanno bisogno di parlare di tutto ciò che hanno passato, e che convivono con nuove scosse”, ha segnalato monsignor Manuel Camilo Vial, Vescovo di Temuco e presidente di Caritas Cile.
Il piano di risposta all'emergenza durerà nove mesi e raggiungerà 542.000 vittime del centro e del sud del Paese, inclusi i dintorni di Santiago e Concepción, uno dei luoghi più colpiti.
Il sisma, di magnitudo 8,8 gradi sulla scala Richter, è stato uno dei più violenti mai registrati. Centinaia di persone hanno perso la vita e si calcola che circa due milioni di cileni siano stati interessati dal disastro, che ha provocato gravi danni a infrastrutture, ospedali e scuole.
Il terremoto ha distrutto l'ufficio della Caritas Diocesana di Concepción e ha causato danni all'ufficio nazionale Caritas a Santiago, anche se il lavoro prosegue con relativa normalità.
Ad ogni modo, il terremoto del Cile è stato meno devastante di quello di Haiti, avvenuto sei settimane prima. Gli edifici del Cile sono più resistenti, perché dopo il sisma del 1960 sono stati costruiti con rigidi criteri antisismici.
L'epicentro del sisma cileno, inoltre, era in mare, e sono state colpite aree relativamente poco popolate, mentre il terremoto di Haiti è avvenuto molto vicino alla capitale, Port-au-Prince.
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Causa di beatificazione in vista per il primo sacerdote nero degli USA
L'Arcidiocesi di Chicago apre il processo canonico per padre Augustine Tolton
CHICAGO, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Dopo essere nato in schiavitù e aver vissuto con difficoltà il suo ministero pastorale a causa del razzismo, padre Augustine (detto anche Augustus) Tolton potrebbe diventare un giorno il primo sacerdote statunitense di origine africana ad essere dichiarato santo.
Il Cardinale Francis George, Arcivescovo di Chicago, ha annunciato infatti agli inizi di marzo che è stata appena introdotta la sua causa di beatificazione e canonizzazione.
“Abbiamo bisogno delle sue preghiere e del suo aiuto, soprattutto per diventare una Chiesa più unita”, ha dichiarato il porporato al Catholic New World, la rivista dell'Arcidiocesi.
“Il suo esempio di dedizione sacerdotale, la sua cultura e la sua predicazione sono grandi esempi per i nostri seminaristi e sacerdoti, e devono ispirare i laici”.
Soffrendo con Gesù
Augustine Tolton (1854-1897) aveva 9 anni quando sua madre fuggì dalla condizione di schiavitù con lui e i suoi due fratelli. La famiglia si recò a Quincy, nell'Illinois, dove egli venne iscritto alla scuola cattolica di St. Peter's. Lì iniziò a sentire che Dio lo chiamava a diventare sacerdote.
Fu tuttavia respinto da tutti i seminari degli Stati Uniti, venendo alla fine inviato a Roma per i suoi studi. Pensava di recarsi come missionario in Africa. Fu ordinato sacerdote a San Giovanni in Laterano nel 1886, ma il giorno prima dell'ordinazione gli venne detto che sarebbe stato inviato negli Stati Uniti.
Padre Tolton sapeva il sacrificio che ciò comportava, ma unì la sua sofferenza a quella di Gesù.
Tornò a Quincy, ma il razzismo impedì il suo ministero e chiese di essere trasferito a Chicago. La sua richiesta venne accolta nel 1889.
Padre Tolton iniziò il suo ministero nella comunità dei cattolici neri locali, e presto fu necessaria una chiesa propria, che iniziò in un negozio nel 1891 e divenne nota come la chiesa di Santa Monica.
In quel periodo, padre Tolton mantenne una corrispondenza con la futura Santa Katharine Drexel (canonizzata da Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000, fondò istituzioni educative per i neri e gli amerindi segregati dal razzismo, ndt), e la sua comunità fornì sostegno finanziario per la nuova parrocchia.
Padre Tolton lavorò instancabilmente per la sua comunità. Morì per un colpo di calore mentre tornava da un ritiro sacerdotale a 43 anni.
Raccolta di dati
Il Vescovo ausiliare, monsignor Joseph Perry, sta organizzando la causa di canonizzazione di padre Tolton. Anche se la causa viene considerata “antica” perché non ci sono testimoni viventi, ha spiegato il presule alla rivista diocesana, “credo che ci siano documenti sufficienti per un primo esame da parte di Roma”.
“Padre Tolton lavorò coraggiosamente in questa città e a Quincy, e rimase sempre un sacerdote e un cattolico fedele e obbediente”, ha sottolineato. “Non abbandonò il Signore. Rimase fedele”.
“La sua testimonianza silenziosa è una sfida ai nostri pregiudizi e alla ristrettezza di criterio che ci mantiene isolati dalla varietà nel regno di Dio”.
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Italia
Esperienze di formazione nei diversi Seminari del mondo
Tavora rotonda in occasione di un Convegno alla Santa Croce sul celibato
di Mirko Testa
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Necessità di aggiornamenti sul tema del celibato in una prospettiva interdisciplinare, vita in comunità, colloqui frequenti con psicologi e direttori spirituali e un rapporto intimo con il Signore: sono queste alcuni suggerimenti emersi durante la tavola rotonda che ha riunito il 5 marzo scorso alcuni formatori e rettori di seminari in occasione del Convegno organizzato dalla Pontificia Università della Santa Croce sul tema “Il celibato sacerdotale: teologia e vita”.
A prendere la parola per primo è stato mons. Jerry Bitoon, membro della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, che dal 1998 al 2004 è stato rettore del Saint Peter's College, il Seminario di filosofia della diocesi di San Paolo, nelle Filippine, che riunisce attualmente più di 80 studenti dai 16 ai 21 anni.
A suo avviso, “occorre che i formatori del seminario facciano insieme un regolare esame degli insegnamenti della Chiesa sul celibato e un dovuto aggiornamento sulla questione”, mentre “il programma della formazione al celibato dovrebbe essere calibrato periodicamente tenendo conto dei continui sviluppi nell'ambito della psicologia e della sociologia”.
Inoltre, ha aggiunto, “la formazione dovrebbe essere adattata ai singoli individui nel loro concreto e differenziato sviluppo personale per promuovere una formazione ad hoc”.
Nel Seminario diocesano di cui è stato rettore, ha spiegato mons. Bitoon, “i seminaristi si dividono in piccoli gruppi di circa 10-12 membri e ad ognuno di questi gruppi viene assegnato un sacerdote formatore come guida o elder companion”.
“Questo sistema offre ai formatori la possibilità di conoscere bene gli studenti, le loro difficoltà, le preoccupazioni, i dubbi e i problemi personali – ha raccontato –. Mentre il seminarista viene incoraggiato a tenere un colloquio di almeno 20-30 minuti alla settimana”.
Importante, ha continuato, anche “una sana vita di comunità”, capace di creare “un ambiente favorevole alla maturità psicologica ed emotiva negli studenti e di sviluppare in loro la capacità a relazionarsi con gli altri”.
Per mons. Jerry Bitoon, “la formazione deve essere anche impartita tramite la testimonianza dei formatori stessi”, che devono riuscire a comunicare “la bellezza dei valori del celibato”.
Importante anche la vita di preghiera, un aspetto, in base alla sua esperienza, che è stato via via sempre più trascurato da quei candidati al sacerdozio che in seguito hanno rinunciato alla loro vocazione.
Preghiera e vita spirituale
Successivamente è intervenuto mons. Giovanni Tani, Rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore, che ospita in tutto 85 alunni tra italiani e stranieri (una quindicina questi ultimi, provenienti in particolare da Croazia, Ucraina e America Latina).
“Il nostro progetto di formazione al celibato – ha spiegato – si struttura fondamentalmente sulla vita spirituale”; mirando a far sperimentare “la bellezza della preghiera” e “l'incontro con Cristo”, come “relazione fondante che regge la vita”, fin dall'anno propedeutico (il periodo di formazione che precede quello del Seminario Maggiore).
“Noi – ha spiegato – facciamo capire che la realtà spirituale non è una realtà astratta ma una persona concreta che s'incontra nel Vangelo, che s'incontra nell'Eucaristia in un rapporto che si dovrebbe poi strutturare in almeno due ore al giorno, la mattina, con la celebrazione dell'Eucarestia e nel pomeriggio con l'adorazione eucaristica”.
In questo contesto, si punta a far percepire il celibato come “dono di Dio e non come imposizione”; come “incontro con il Signore, come desiderio di vivere pienamente una relazione con Lui”.
Nel corso degli anni, ha continuato mons. Giovanni Tani, vengono poi svolti incontri con esperti e psicologi, che illustrano argomenti come “l'integrazione affettiva nel celibato, la conoscenza di sé, l'omosessualità, i comportamenti sessuali, gli effetti negativi dell'inconscio, l'affettività del sacerdote, l'amore coniugale. Inoltre, prima del diaconato, c'è un ritiro ampio sul celibato”.
“Noi formatori – ha sottolineato – cerchiamo anche di osservare dagli atteggiamenti esterni se ci sono degli indicatori che ci possono far pensare a dei problemi: come un atteggiamento molto dipendente dagli altri oppure un atteggiamento di dominio o ancora il bisogno di plauso, l'uso indiscriminato del denaro, o il ricorso eccessivo al mangiare e al bere. Tutti indicatori su cui lavorare per cercare di capire di più”.
Il celibato nei diversi riti
Subito dopo, mons. Pedro Huidobro, cappellano della Pontificia Università della Santa Croce e rettore per molti anni del Collegio Ecclesiastico Internazionale Sedes Sapientiae, ha condiviso la sua esperienza personale legata alla fomazione di seminaristi di rito greco-cattolico provenienti dalla Romania, che avevano quindi la possibilità di sposarsi prima della ordinazione diaconale.
Questi studenti, ha raccontato, erano stati inviati dal Cardinale Alexandru Todea che aveva trascorso parecchi anni nelle carceri sotto il regime comunista e dittatoriale di Ceauşescu: “il Cardinale aveva scelto i seminaristi da inviare a Roma tra quelli che veramente avevano manifestato la loro intenzione di vivere il celibato”, in modo da “prepararli al tipo di formazione che avrebbero ricevuto”.
“Il primo anno a Roma – ha detto – l'inserimento nel seminario risultò del tutto soddisfacente, mentre nel secondo anno non si trovavano più a loro agio e mancava uno spirito di collaborazione nella loro formazione”.
“Dei 10 seminaristi rumeni di rito greco-cattolico rimasti in seminario per più di un anno tutti tranne uno hanno manifestato gli stessi disagi nel secondo anno di permanenza – ha continuato –. E soltanto quest'ultimo candidato ha ricevuto l'ordinazione sacerdotale celibataria. Gli altri nove sono tornati in Romania dove hanno continuato gli studi. Di questi, i quattro che hanno ricevuto l'ordinazione sacerdotale, lo hanno fatto dopo essersi sposati”.
“Anni dopo – ha spiegato mons. Pedro Huidobro – parlando con alcuni di loro sulle difficoltà che hanno incontrato in seminario, siamo arrivati alla conclusione che la ragione era la formazione impartita alla Sedes Sapientiae improntata al sacerdozio celibatario”.
“Infatti – ha aggiunto – sebbene non si trattasse di un argomento frequente nella formazione, casomai il contrario, il fatto stesso di convivere con altri candidati al sacerdozio che avrebbero vissuto il celibato, li faceva sentire a disagio”.
“D'altronde – ha continuato il cappellano della Santa Croce – l'atmosfera e l'impostazione generale del Seminario di provenienza, in Romania, erano votate al matrimonio. E i seminaristi cercavano di trovarsi una fidanzata, in alcuni casi anche con una certa urgenza, vista la necessità di doversi sposare prima dell'ordinazione diaconale”.
“La conclusione a cui sono giunto – ha spiegato – è la non compatibilità nella formazione, all'interno di uno stesso Seminario, di candidati al sacerdozio di riti che prevedono il celibato come condizione per ricevere il sacramento dell'ordine o hanno fatto una scelta celibataria insieme a candidati di riti che contemplano la possibilità per i sacerdoti di essere uxorizzati”.
“E andando a monte – ha osservato ancora – si può anche concludere che rifiutare un aspetto della formazione al sacerdozio anche se si accettano tutti gli altri in pratica compromette tutta la formazione. La visione del ministero sacerdotale uxorizzato è infatti molto diversa da quella del sacerdote celibe, cioè la prima somiglia più a un impiego il che logicamente condiziona anche il resto della formazione”.
L'Africa e la questione della fecondità
Da canto suo mons. Njen Gérard, capo ufficio alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, che ha vissuto per tre anni nel Seminario minore “Giovanni XXIII” di Ebolowa ed è stato formatore nel Seminario del Camerun, ha riportato alcuni dati contenuti in un dossier sulla vita materiale e spirituale dei sacerdoti camerunensi risalente all'82.
Nell'inchiesta, in cui si chiedeva quale fosse il valore più difficile da vivere, emersero in ordine di importanza: la povertà, poi l'accoglienza/l'ospitalità, il celibato, la sofferenza, la passione per la giustizia, la fedeltà/perseveranza, il perdono, la vita fraterna, la disponibilità, la condivisione e la testimonianza.
In merito al celibato, si indicavano questi ostacoli: la mentalità dell'ambiente sociale, la mancanza di fiducia, il sospetto, la mancanza di una comunità, l'appello profondo all'amore umano, l'ipocrisia.
Mons. Njen Gérard ha quindi affermato di aver tratto grande giovamento, negli anni della sua formazione, dalla lettura dell'Enciclica del Pontefice Pio XI Ad Catholici Sacerdotii fastigium, risalente del 1935, mentre al contrario “oggi è difficile trovare un documento che ti parla della bellezza del celibato ecclesiastico”.
A suo avviso, decisivo è il titpo di educazione che si apprende in famiglia, perché “se il bambino ha imparato la castità e la continenza in famiglia, che non valgono solo per i sacerdoti, continuerà a rispettarle anche in Seminario”.
La questione principale, ha sottolineato è però che “in Africa abbiamo problemi specifici legati all'ambiente e al matrimonio”; “l'Africa è assetata di fecondità” ed è “difficile dire a un africano di rimanere senza produrre qualcosa”.
“Io ho 37 nipoti e 7 tra fratelli e sorelle – ha raccontato –. E uno dei miei fratelli mi ha detto una volta scherzando: 'Ne faccio uno in più perché tu non ne hai'”.
Il contributo della famiglia nella formazione
Don José de Jesus Palacios Torres, già rettore per 5 anni del Seminario dell'Immacolata Concezione della diocesi di Celaya, in Messico, ha parlato infine della necessità di inquadrare la formazione al celibato nella cornice di una formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale a tutto tondo.
“Noi abbiamo un direttore spirituale per il Seminario minore e due per il Seminario maggiore per un totale di 122 seminaristi”, ha raccontato. “E anche noi formatori teniamo un incontro periodico come i seminaristi per parlare di temi concreti riguardanti la formazione e il celibato”.
Secondo don José de Jesus Palacios Torres, al lavoro di discernimento che ogni seminarista deve fare per comprendere se si sente realmente chiamato al sacerdozio e alla vita celibataria “deve aggiungersi anche l'aiuto della famiglia del seminarista”.
Per questo, ha continuato, “come Seminario abbiamo voluto coinvolgere il più possibile le famiglie dei seminaristi convinti che la nostra formazione è rivolta sì a questa persona ma che in seguito questa persona tornerà dalla famiglia cui appartiene e che quindi potrebbe essere più difficile vivere una vita celibataria”.
Anche il sacerdote messicano ha sottolineato come aspetto decisivo quello di “crescere nell'amicizia e nella fraternità della comunità” e a questo proposito ha parlato della istituzione dei cosiddetti 'equipos de vida', cioè di gruppi di persone che si riuniscono periodicamente per affrontare questioni legate alla vita spirituale e che possono fornire un contributo determinante “non soltanto nella comunità ma anche nel lavoro pastorale che il seminarista si trova ad affrontare ogni settimana”.
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"I peccati degli uomini non deturperanno mai la bellezza della Chiesa"
Comunicato del Rinnovamento nello Spirito Santo sulle vicende degli ultimi giorni
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- I peccati commessi dagli uomini non potranno mai offuscare la bellezza della Chiesa e della sua missione, sottolinea il Comitato Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS) in un comunicato ufficiale sulle ultime vicende che hanno coinvolto Benedetto XVI e il Vaticano.
Nel testo, datato 28 marzo 2010, Domenica delle Palme, e firmato da Salvatore Martinez, presidente nazionale del RnS, si afferma che i laici e i sacerdoti del Rinnovamento nello Spirito, “interpellati dalle ultime vicende di cronaca”, sentono “vivo il dovere di allertare la coscienza delle migliaia di persone che disorientate guardano alla nostra capacità di giudizio e alla nostra responsabilità”.
Ribadendo “profondo affetto e vicinanza spirituale” a Papa Benedetto XVI, al Cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e a “tutti i Pastori della Chiesa sfidati nell’esercizio della verità che, in nome della giustizia, si vorrebbe data senza misericordia”, il RnS dichiara che “non saranno mai i peccati degli uomini di Chiesa, figli anch’essi del tempo corrente che va smarrendo drammaticamente il senso del peccato e la nozione di bene comune, a deturpare la bellezza e la missione divina della Chiesa”.
“Essa è stata e sempre sarà esperienza di salvezza da ogni male e per ogni uomo, sia esso offeso o offensore”.
“Amare la Chiesa e renderla ancora più vicina agli uomini è la missione di ogni cristiano”, ricorda il Rinnovamento nello Spirito Santo, sottolineando di non voler “mancare all’appello” ed esortando “a non tradire il Vangelo mancando di fedeltà e di perseveranza proprio nell’ora della prova”.
Nel contesto dell'Anno Sacerdotale, il RnS rende grazie “per i tanti preti che nel silenzio soffrono a causa del Vangelo e offrono la loro vita, tra incomprensioni e persecuzioni, nell’impegno quotidiano di rendere questo nostro mondo più giusto e a misura d’uomo”.
Allo stesso tempo, prega “perché quei consacrati che hanno offeso Dio e gli uomini con una condotta deplorevole rientrino in se stessi e ritrovino uno stile di vita adeguato alla vocazione e alla missione che hanno abbracciato”.
“A quanti hanno subito violenze e pensano che la loro ferita non possa essere rimarginata, va tutta la nostra comprensione”, aggiunge, sottolineando di voler dire alle vittime “di confidare nella giustizia di Dio e non solo in quella degli uomini, perché nessuna legge ha mai salvato dal dolore e nella Chiesa l’amore che si può incontrare è più grande del male subito”.
“Sussulto spirituale”
Secondo il Rinnovamento nello Spirito Santo, “la madre di tutte le crisi del nostro tempo è spirituale”.
“Il disarmo morale corrente ha bisogno di un riarmo spirituale per una nuova coscienza sociale. Se l’uomo è de-spiritualizzato, anche la società diventa de-moralizzata, l’onestà e la capacità di resistere al male appassiscono, prevalgono i paradigmi materialistici, la deriva individualistica non conosce più freni”.
In questo contesto, è necessario “un sussulto spirituale”.
“È possibile ancora ritrovare in noi stessi quell’eredità di bene e di benevolenza che nei momenti più confusi e ardui della storia non solo ha fatto sollevare lo sguardo verso Dio, ma soprattutto spalancare le braccia verso gli uomini”.
“Non lasceremo cadere le nostre braccia dinanzi al male che sembra imperare nel cuore degli uomini ancor prima che della storia”, ribadisce.
Amore per il Papa
Il RnS rivolge quindi un “pensiero riconoscente” a Papa Benedetto XVI, “uomo e pastore integerrimo”.
“Se lui soffre, tutti i cristiani soffrono; se lui denuncia con coraggio la 'sporcizia' che deturpa il volto luminoso della Chiesa, a noi il compito di renderla capace di un amore puro e contagioso”.
Per questo, il Rinnovamento invita a far proprio l'appello papale contenuto nell'Enciclica sociale, la Caritas in Veritate, secondo cui “lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità da cui procede l'autentico sviluppo non è da noi prodotto ma ci viene donato”.
“Lo sviluppo – conclude – implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine”.
Per ulteriori informazioni, www.rns-italia.it.
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Internet, strumento indispensabile per la democrazia in Africa
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- L'informazione, e in particolare Internet, può aiutare l'Africa a raggiungere davvero la democrazia. Lo ha affermato Stephen Ogongo, giornalista kenyota e direttore di Africa News, in occasione del Forum sulla Difficoltà di comunicare l'Africa promosso martedì scorso a Roma da Harambee Africa International Onlus.
“La democrazia può affermarsi e diffondersi in Africa solo in presenza di una informazione libera, non prevenuta né corriva con il potere”, ha dichiarato Ogongo.
“Internet costituisce uno strumento indispensabile per chi aspira nei prossimi anni a divenire classe dirigente dei Paesi africani”, ha aggiunto.
Per Ogongo, “i media occidentali da sempre riflettono un'immagine esclusivamente negativa del continente africano: guerre civili, malattie, fame, bambini soldato”.
Questa realtà, ha osservato, è “innegabile e perciò meritevole di essere documentata e denunciata”, ma rimane “parziale”.
La responsabilità, ha spiegato, “è in primo luogo degli stessi africani, incapaci di affrancarsi dal mainstream della comunicazione e di rappresentare compiutamente la peculiare e complessa realtà del continente: non solo problemi e difficoltà, ma anche risorse, potenzialità, talenti”.
“Non puoi pretendere che si parli bene di te se non lo fai tu stesso”.
In questo quadro, “i poteri pubblici della gran parte dei Paesi africani non solo non comunicano o comunicano male, ma percepiscono l'informazione come una minaccia”.
In questo contesto, occorre “invertire la rotta, spostare l'attenzione cioè dalle classi dirigenti, refrattarie al dialogo con i cittadini e ostili alla libera informazione, alle piccole realtà (dell'associazionismo, del mondo della cultura e delle professioni) che operano per il bene comune. Bisogna dare loro voce, spazio, visibilità”.
“Internet e, più in generale, i new media – ha concluso Ogongo – sono formidabili strumenti nelle mani di chi ha davvero a cuore il futuro democratico e civile dell'Africa”.
“Se sapientemente utilizzati, di qui a pochi anni si affermerà una nuova classe dirigente contro l'opacità e il malgoverno oggi dominanti”.
Per ulteriori informazioni, www.harambee-africa.org.
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Interviste
Esistono davvero Inferno e Paradiso?
Intervista a padre Giovanni Cavalcoli, docente di Metafisica e Teologia sistematica
di Antonio Gaspari
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- All’Inferno molti non credono, altri sostengono che non può essere eterno ed altri ancora che sia vuoto. Lo stesso dicasi dell’angelo caduto e del peccato.
Per molti si tratta di invenzioni della Chiesa cattolica e comunque in tanti vivono come se Dio non esistesse, e Inferno e Paradiso sarebbero solo illusioni.
Per cercare di spiegare come può un Dio buono come quello cristiano permettere la rivolta degli angeli, la diffusione del male, l’esistenza dell’Inferno e del Paradiso, padre Giovanni Cavalcoli, dell’Ordine Domenicano, ha scritto e pubblicato il libro “L'Inferno esiste. La verità negata” (edizioni Fede & Cultura http://fedecultura.com/Infernoesiste.aspx 96 pagine, 9,50 euro)
Padre Cavalcoli è docente di Metafisica presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna e di Teologia sistematica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Officiale della Segreteria di Stato dal 1982 al 1990, è Accademico pontificio dal 1992.
Autore di innumerevoli libri e saggi, svolge una intensa opera di formazione.
ZENIT lo ha intervistato.
Per il mondo secolarizzato ed anche per alcuni credenti l’Inferno non esiste. Si tratterebbe di una invenzione. Qual è il suo parere in proposito?
Cavalcoli: Il mondo secolarizzato ha perso la fede nell’Aldilà, si tratti del Paradiso o si tratti dell’Inferno. E una certa misura di secolarismo purtroppo si è insinuata anche tra alcuni credenti, i quali, anche se ammettono un Aldilà, questo è soltanto il Paradiso. E’ questa la mentalità cosiddetta buonista, per cui non c’è da stupirsi che, secondo queste tendenze, l’Inferno è un’invenzione.
In realtà, come ho dimostrato nel mio libro, l'Inferno non è affatto un’invenzione, ma è una verità di fede insegnata da Nostro Signore Gesù Cristo, dal Nuovo Testamento, dalla Sacra Tradizione e da alcuni Concili. Quindi si tratta di un dato della divina Rivelazione, che la Chiesa ha il compito di custodire e di insegnare.
Sulla base di quali argomenti sostiene che l’Inferno esista?
Cavalcoli: La dottrina dell’Inferno è una dottrina teologica. Ora, gli argomenti della teologia non sono di tipo empirico, ma sono le Parole di Gesù Cristo, le quali possono essere accettate solo sulla base della fede in Gesù Cristo e nella Chiesa che ci media le Parole di Cristo.
Da questo punto di vista, gli argomenti sono molti. Mi limiterò qui a citarne uno solo (cf.p.33 del mio libro sull’Inferno), che mi sembra particolarmente efficace, perché lo troviamo nel Concilio Vaticano II (LG n.48) e nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC n.1034). Si tratta del passo di Matteo 25, 31-46 dove Gesù Cristo non si limita ad annunciare la semplice possibilità della dannazione, ma semplicemente prevede il fatto dell’esistenza dei dannati.
Dove e quando è nato l’Inferno?
Cavalcoli: Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tener presente che cosa è esattamente l’Inferno. Esso, per quanto riguarda gli uomini, consiste nel rifiuto irrevocabile della misericordia che ci è offerta dal Padre per mezzo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. In questo senso, possiamo dire che la dannazione infernale ha cominciato ad esistere con la venuta di Cristo. Invece, se consideriamo il peccato degli angeli all’inizio della creazione, l’Inferno esiste per loro sin da quel momento (Mt 25,41; 2 Pt 2,4).
Dove è nato l’Inferno? Per quanto riguarda gli angeli peccatori, siccome si trovavano prima in cielo, si può dire che è nato in cielo, da cui furono precipitati (Ap 12,8). Per quanto riguarda gli uomini, l’Inferno è nato in questo mondo nel momento in cui Gesù è stato rifiutato.
Esiste nell’Aldilà o è presente anche sulla Terra?
Cavalcoli: Secondo una certa tesi del cristianesimo secolaristico-buonista, se si può parlare di “Inferno”, questo esiste solo su questa terra, nel senso che il castigo per i malvagi c’è solo quaggiù e poi c’è il Paradiso per tutti. Esiste poi un’altra tesi, del tutto pagana, secondo la quale l’Inferno sarebbe quella condizione di sofferenza che colpisce anche gli innocenti oppressi dai prepotenti.
Mentre in questo secondo caso la parola “Inferno” viene usata in un senso improprio, nel primo caso c’è una parte di verità, in quanto lo stato di peccato mortale è già in un certo senso l’Inferno. Ma questa tesi trascura il fatto che la pienezza irrevocabile della condizione infernale per l’uomo è solo dopo la morte. Tuttavia, ogni uomo, prima della morte si può pentire, può riacquistare lo stato di grazia di Cristo, per cui, se persevera in questo stato fino alla morte, può evitare l’Inferno.
Cosa dicono le Sacre Scritture in merito?
Cavalcoli: La voce più autorevole è quella di Nostro Signore Gesù Cristo. Di essa ne troviamo un’eco negli altri Libri del Nuovo Testamento, e in particolare nell’Apocalisse, nella quale abbiamo una grandiosa visione del trionfo finale di Cristo su tutte le potenze del male, le quali saranno messe in condizione di non più nuocere agli eletti.
La descrizione mirabile dell’Inferno della Divina Commedia è credibile?
Cavalcoli: Certamente nella sua sostanza è credibile, perché, come si sa, Dante non solo era cattolico, ma aveva acquistato una notevole cultura teologica di stampo tomistico frequentando il convento domenicano di Santa Maria Novella di Firenze.
Nel contempo Dante, da grande poeta qual era, si è permesso delle cosiddette licenze poetiche, per cui ha creato ambienti, eventi e personaggi che evidentemente esulano da quanto ci viene insegnato dalla Rivelazione cristiana, anche se nel contempo, nel complesso, non le sono contrari.
Una cosa curiosa che potremmo notare al riguardo e che non è un dato della fede cristiana, è la condizione dei cosiddetti “ignavi”, i quali vissero “sanza fama e sanza lodo” e pertanto vengono collocati da Dante non nell’Inferno, ma in un luogo a parte.
Ammettere l’esistenza dell’Inferno presuppone temere il diavolo. In che modo l’angelo caduto e l’Inferno si collocano nel disegno divino?
Cavalcoli: Il cristiano deve avere un certo timore del diavolo, così come noi possiamo avere un ragionevole timore di prenderci una malattia o di cadere in un qualche peccato. Da qui il dovere del cristiano di guardarsi dai pericoli morali che possono venire dalle tentazioni diaboliche, evitando atteggiamenti di eccessiva sicurezza.
Detto questo, tuttavia, il cristiano fondamentalmente non ha paura del diavolo, perché il cristiano che vive in Cristo gode della stessa forza di Cristo, il quale ha vinto Satana. Anzi, da questo punto di vista, si può dire che è il demonio che ha paura del cristiano. Come dice infatti Santa Caterina da Siena, noi siamo vinti dal demonio solo se lo vogliamo, commettendo o amando il peccato.
Il demonio e l’Inferno si collocano nel disegno divino in quanto costituiscono un deterrente che ci aiuta ad evitare il peccato. In secondo luogo, per quanto riguarda il demonio, anch’egli va visto come uno strumento della divina Provvidenza per due finalità: per rafforzarci nella virtù e per richiamarci paternamente quando commettiamo il male. Il diavolo di per sé vorrebbe solo il nostro male, solo che la Provvidenza divina lo utilizza secondo i suoi sapientissimi disegni per il nostro bene.
Perchè Dio permette all’angelo di ribellarsi?
Cavalcoli: Perché ha un grande rispetto per il libero arbitrio della creatura. Ora, appunto, l’angelo ribelle è una creatura dotata di libero arbitrio. Allora, a questo punto, si può dire che Dio, pur di rispettare questo libero arbitrio, accetta di essere respinto da quella creatura che in realtà potrebbe trovare solo in Lui la sua piena felicità. Questo discorso vale analogicamente anche per la vicenda umana.
Inoltre si può dire che Dio ha permesso la disobbedienza dell’angelo, perché dall’eternità aveva progettato l’Incarnazione del Verbo, grazie alla quale l’umanità, salvata da Cristo, avrebbe in Cristo vinto Satana e raggiunta una condizione di vita – quella di figli di Dio – superiore a quella che ci sarebbe stata se l’angelo non avesse peccato.
Che relazione c’è tra il male e l’Inferno?
Cavalcoli: Possiamo dire che l’Inferno è una vittoria sul male morale, ovvero sul peccato, anche se resta il male di pena, cioè la sofferenza dei dannati. Qui però si tratta di una giusta pena, per cui, da questo punto di vista si può dire che è bene che ci sia questo male, per cui noi vediamo che, dal punto di vista escatologico, tutto si risolve nel bene.
C’è inoltre da precisare con tutta chiarezza che sarebbe blasfemo incolpare Dio di questo male, del quale invece è responsabile soltanto la creatura angelica o umana, mentre d’altra parte l’esistenza del male di pena manifesta semplicemente la giustizia divina, la quale peraltro è sempre mitigata dalla misericordia.
Cosa devono fare le persone per sfuggire l’Inferno e guadagnare il Paradiso?
Cavalcoli: Praticamente si tratta di mettere in opera tutti i precetti della vita cristiana, a cominciare dall’odio per il peccato, dalla consapevolezza delle sue conseguenze, per passare al dovere di obbedire con tutte le nostre forze ai comandi del Signore, di vivere in grazia, nella pratica continua della conversione e della vita cristiana, in una illimitata fiducia nella misericordia divina, frequentando i sacramenti nella comunione con la Chiesa, nella devozione ai Santi e soprattutto alla Santa Vergine Maria, coltivando un forte desiderio del Paradiso e della santità e combattendo coraggiosamente giorno per giorno contro le insidie del tentatore, sotto la protezione di San Michele Arcangelo. In casi di eccezionale aggressività da parte del diavolo, esiste la pratica dell’esorcismo.
Queste raccomandazioni naturalmente valgono per i cattolici, però siccome tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza e quindi sono chiamati ad evitare l’Inferno e a guadagnare il Paradiso, il loro dovere è quello di seguire la loro retta coscienza, nella misura in cui conoscono le esigenze del bene e coltivando, con l’aiuto della grazia, una fede almeno implicita in Dio come rimuneratore di buoni e giudice dei malvagi.
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Documenti
Il Papa nella Messa con i Cardinali a 5 anni dalla morte di Wojtyla
ROMA, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata questo lunedì da Benedetto XVI nel presiedere, nella Basilica Vaticana, la celebrazione della Santa Messa con i Cardinali nel V anniversario - che ricorre venerdì 2 aprile - della morte del Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II.
* * *
Venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
Siamo riuniti intorno all’altare, presso la tomba dell’Apostolo Pietro, per offrire il Sacrificio eucaristico in suffragio dell’anima eletta del Venerabile Giovanni Paolo II, nel quinto anniversario della sua dipartita. Lo facciamo con qualche giorno di anticipo, perché il 2 aprile sarà quest’anno il Venerdì Santo. Siamo, comunque, all’interno della Settimana Santa, contesto quanto mai propizio al raccoglimento e alla preghiera, nel quale la Liturgia ci fa rivivere più intensamente le ultime giornate della vita terrena di Gesù. Desidero esprimere la mia riconoscenza a tutti voi che prendete parte a questa Santa Messa. Saluto cordialmente i Cardinali – in modo speciale l’Arcivescovo Stanislao Dziwisz – i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose; come pure i pellegrini giunti appositamente dalla Polonia, i tanti giovani e i numerosi fedeli che non hanno voluto mancare a questa Celebrazione.
Nella prima lettura biblica che è stata proclamata, il profeta Isaia presenta la figura di un "Servo di Dio", che è allo stesso tempo il suo eletto, nel quale egli si compiace. Il Servo agirà con fermezza incrollabile, con un’energia che non viene meno fino a che egli non abbia realizzato il compito che gli è stato assegnato. Eppure, non avrà a sua disposizione quei mezzi umani che sembrano indispensabili all’attuazione di un piano così grandioso. Egli si presenterà con la forza della convinzione, e sarà lo Spirito che Dio ha posto in lui a dargli la capacità di agire con mitezza e con forza, assicurandogli il successo finale. Ciò che il profeta ispirato dice del Servo, lo possiamo applicare all’amato Giovanni Paolo II: il Signore lo ha chiamato al suo servizio e, nell’affidargli compiti di sempre maggiore responsabilità, lo ha anche accompagnato con la sua grazia e con la sua continua assistenza. Durante il suo lungo Pontificato, egli si è prodigato nel proclamare il diritto con fermezza, senza debolezze o tentennamenti, soprattutto quando doveva misurarsi con resistenze, ostilità e rifiuti. Sapeva di essere stato preso per mano dal Signore, e questo gli ha consentito di esercitare un ministero molto fecondo, per il quale, ancora una volta, rendiamo fervide grazie a Dio.
Il Vangelo poc’anzi proclamato ci conduce a Betania, dove, come annota l’Evangelista, Lazzaro, Marta e Maria offrirono una cena al Maestro (Gv 12,1). Questo banchetto in casa dei tre amici di Gesù è caratterizzato dai presentimenti della morte imminente: i sei giorni prima di Pasqua, il suggerimento del traditore Giuda, la risposta di Gesù che richiama uno degli atti pietosi della sepoltura anticipato da Maria, l’accenno che non sempre lo avrebbero avuto con loro, il proposito di eliminare Lazzaro in cui si riflette la volontà di uccidere Gesù. In questo racconto evangelico, c’è un gesto sul quale vorrei attirare l’attenzione: Maria di Betania "prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli" (12,3). Il gesto di Maria è l’espressione di fede e di amore grandi verso il Signore: per lei non è sufficiente lavare i piedi del Maestro con l’acqua, ma li cosparge con una grande quantità di profumo prezioso, che – come contesterà Giuda – si sarebbe potuto vendere per trecento denari; non unge, poi, il capo, come era usanza, ma i piedi: Maria offre a Gesù quanto ha di più prezioso e con un gesto di devozione profonda. L’amore non calcola, non misura, non bada a spese, non pone barriere, ma sa donare con gioia, cerca solo il bene dell’altro, vince la meschinità, la grettezza, i risentimenti, le chiusure che l’uomo porta a volte nel suo cuore.
Maria si pone ai piedi di Gesù in umile atteggiamento di servizio, come farà lo stesso Maestro nell’Ultima Cena, quando – ci dice il quarto Vangelo – "si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli" (Gv 13,4-5), perché – disse – "anche voi facciate come io ho fatto a voi" (v. 15): la regola della comunità di Gesù è quella dell’amore che sa servire fino al dono della vita. E il profumo si spande: "tutta la casa – annota l’Evangelista – si riempì dell’aroma di quel profumo" (Gv 12,3). Il significato del gesto di Maria, che è risposta all’Amore infinito di Dio, si diffonde tra tutti i convitati; ogni gesto di carità e di devozione autentica a Cristo non rimane un fatto personale, non riguarda solo il rapporto tra l’individuo e il Signore, ma riguarda l’intero corpo della Chiesa, è contagioso: infonde amore, gioia, luce.
"Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto" (Gv 1,11): all’atto di Maria si contrappongono l’atteggiamento e le parole di Giuda, che, sotto il pretesto dell’aiuto da recare ai poveri, nasconde l’egoismo e la falsità dell’uomo chiuso in se stesso, incatenato dall’avidità del possesso, che non si lascia avvolgere dal buon profumo dell’amore divino. Giuda calcola là dove non si può calcolare, entra con animo meschino dove lo spazio è quello dell’amore, del dono, della dedizione totale. E Gesù, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, interviene a favore del gesto di Maria: "Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura" (Gv 12,7). Gesù comprende che Maria ha intuito l’amore di Dio ed indica che ormai la sua "ora" si avvicina, l’"ora" in cui l’Amore troverà la sua espressione suprema sul legno della Croce: il Figlio di Dio dona se stesso perché l’uomo abbia la vita, scende negli abissi della morte per portare l’uomo alle altezze di Dio, non ha paura di umiliarsi "facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce" (Fil 2,8). Sant’Agostino, nel Sermone in cui commenta tale brano evangelico, rivolge a ciascuno di noi, con parole incalzanti, l’invito ad entrare in questo circuito d’amore, imitando il gesto di Maria e ponendosi concretamente alla sequela di Gesù. Scrive Agostino: "Ogni anima che voglia essere fedele, si unisce a Maria per ungere con prezioso profumo i piedi del Signore… Ungi i piedi di Gesù: segui le orme del Signore conducendo una vita degna. Asciugagli i piedi con i capelli: se hai del superfluo dallo ai poveri, e avrai asciugato i piedi del Signore" (In Ioh. evang., 50, 6).
Cari fratelli e sorelle! Tutta la vita del Venerabile Giovanni Paolo II si è svolta nel segno di questa carità, della capacità di donarsi in modo generoso, senza riserve, senza misura, senza calcolo. Ciò che lo muoveva era l’amore verso Cristo, a cui aveva consacrato la vita, un amore sovrabbondante e incondizionato. E proprio perché si è avvicinato sempre più a Dio nell’amore, egli ha potuto farsi compagno di viaggio per l’uomo di oggi, spargendo nel mondo il profumo dell’Amore di Dio. Chi ha avuto la gioia di conoscerlo e frequentarlo, ha potuto toccare con mano quanto viva fosse in lui la certezza "di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi", come abbiamo ascoltato nel Salmo responsoriale (26/27,13); certezza che lo ha accompagnato nel corso della sua esistenza e che, in modo particolare, si è manifestata durante l’ultimo periodo del suo pellegrinaggio su questa terra: la progressiva debolezza fisica, infatti, non ha mai intaccato la sua fede rocciosa, la sua luminosa speranza, la sua fervente carità. Si è lasciato consumare per Cristo, per la Chiesa, per il mondo intero: la sua è stata una sofferenza vissuta fino all’ultimo per amore e con amore.
Nell’Omelia per il XXV anniversario del suo Pontificato, egli confidò di avere sentito forte nel suo cuore, al momento dell’elezione, la domanda di Gesù a Pietro: "Mi ami tu? Mi ami più di costoro…? (Gv 21,15-16); e aggiunse: "Ogni giorno si svolge all’interno del mio cuore lo stesso dialogo tra Gesù e Pietro. Nello spirito, fisso lo sguardo benevolo di Cristo risorto. Egli, pur consapevole della mia umana fragilità, mi incoraggia a rispondere con fiducia come Pietro: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo" (Gv 21,17). E poi mi invita ad assumere le responsabilità che Lui stesso mi ha affidato" (16 ottobre 2003). Sono parole cariche di fede e di amore, l’amore di Dio, che tutto vince!
[In polacco]
Infine voglio salutare i polacchi qui presenti. Vi radunate numerosi intorno alla tomba del Venerabile Servo di Dio con un sentimento speciale, come figlie e figli della stessa terra, cresciuti nella stessa cultura e tradizione spirituale. La vita e l’opera di Giovanni Paolo II, grande polacco, può essere per voi motivo di orgoglio. Bisogna però che ricordiate, che questa è anche una grande chiamata ad essere fedeli testimoni della fede, della speranza e dell’amore, che egli ci ha ininterrottamente insegnato. Per l’intercessione di Giovanni Paolo II, vi sorregga sempre la benedizione del Signore.
Mentre proseguiamo la Celebrazione eucaristica, accingendoci a vivere i giorni gloriosi della Passione, Morte e Risurrezione del Signore, affidiamoci con fiducia – sull’esempio del Venerabile Giovanni Paolo II – all’intercessione della Beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, affinché ci sostenga nell’impegno di essere, in ogni circostanza, apostoli infaticabili del suo Figlio divino e del suo Amore misericordioso. Amen!
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
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Intervento della Santa Sede a Ginevra contro l'intolleranza religiosa
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'intervento pronunciato dall'Arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede presso l'ufficio delle Nazioni Unite e istituzioni specializzate a Ginevra, alla XIII sessione ordinaria del Consiglio dei diritti dell'uomo sulla lotta contro l'intolleranza religiosa, svoltasi il 23 marzo a Ginevra.
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Presidente,
l'aumento degli esempi di derisione della religione, mancanza di rispetto per le personalità e i simboli religiosi, discriminazione e uccisione di seguaci di religioni minoritarie e una generalizzata considerazione negativa della religione nella pubblica arena danneggiano la coesistenza pacifica e feriscono i sentimenti di considerevoli segmenti della famiglia umana. Questi fenomeni sollevano questioni politiche e giuridiche sul modo e sulla misura della realizzazione dei diritti umani, e specificatamente del diritto alla libertà religiosa, che dovrebbero proteggere le persone nell'esercizio personale e collettivo della fede e delle loro convinzioni. La tutela del diritto alla libertà religiosa è particolarmente importante perché i valori religiosi sono un ponte verso tutti i diritti umani. Permettono, infatti, alla persona di orientarsi verso ciò che è vero e reale. La dignità umana, infatti, è radicata nell'unità delle componenti spirituali e materiali della persona.
Facendo parte di una comunità, la cultura e la religione sono anche parte dell'esperienza umana, sebbene rimangano al servizio dello sviluppo integrale della persona, che costituisce la base dell'universalità dei diritti umani. L'interesse legittimo, quindi, a evitare la derisione o gli insulti alle religioni dovrà tener conto dell'interdipendenza, che deriva dal rapporto naturale della persona umana con gli altri, fra l'individuo e la comunità. Poiché i sistemi di credo sono diversi e persino contrastanti fra loro, la giustificazione del loro rispetto dovrà derivare da un fondamento universale che è la persona umana. Gli obblighi della società ne deriveranno di conseguenza. L'Udhr e altri strumenti per i diritti umani forniscono un chiaro orientamento.
Quindi la legislazione relativa dovrebbe essere orientata al bene comune e basarsi su valori, principi e regole che riflettano la natura umana e siano parte della coscienza della famiglia umana piuttosto che l'una o l'altra religione, considerando pure tutte le implicazioni della libertà di espressione e di religione. Il rispetto del diritto di tutti alla libertà religiosa non richiede la totale secolarizzazione della sfera pubblica né l'abbandono di tutte le tradizioni culturali e il rispetto della libertà di espressione non autorizza la mancanza di rispetto per i valori comunemente condivisi da una particolare società. Un quadro legislativo di tutela del bene comune e dell'uguaglianza dei cittadini in società sempre più pluralistiche implica che i sistemi normativi applicabili ai credenti non debbano essere imposti ai seguaci di altre religioni e ai non credenti, altrimenti i diritti umani e il diritto alla libertà religiosa potrebbero divenire uno strumento politico di discriminazione piuttosto che uno strumento per intrattenere rapporti interpersonali etici. Né lo Stato può divenire un arbitro di correttezza religiosa deliberando su questioni teologiche o dottrinali: sarebbe la negazione del diritto della libertà di religione.
Gli attuali strumenti giuridici vincolanti nazionali e internazionali, se correttamente applicati, possono porre rimedio a offese gratuite alle religioni e al credo facendo entrare in vigore misure a tutela del bene comune e dell'ordine pubblico. Gli attuali dibattiti sull'opportunità o meno di nuovi strumenti per prevenire la discriminazione e l'intolleranza religiosa possono offrire la possibilità di riprendere in esame la proposta di una convenzione sulla libertà di religione. Questo compito è interrotto da molti anni e riunirebbe gli argomenti suggeriti dalle nuove forme di pluralismo sociale e una comprensione più accurata della dignità umana.
D'altro canto, la delegazione della Santa Sede, è anche convinta del fatto che una buona strada verso una coesistenza pacifica sia un atteggiamento più positivo verso le religioni e le culture. Ciò si può ottenere attraverso un dialogo migliore fra fedi differenti, una sincera promozione del diritto alla libertà di religione in tutti i suoi aspetti e un dialogo franco e aperto fra i rappresentanti dei diversi sistemi di credo, come garantito dal diritto alla libertà di espressione.
Combattere gli atteggiamenti offensivi verso la religione allontanandosi dall'universalità offerta dall'umanità comune e affidandosi alla discrezione dello Stato con l'introduzione di un vago concetto di «diffamazione» nel sistema di diritti umani, non è una soluzione concreta e soddisfacente. Esiste il reale rischio aggiuntivo che l'interpretazione di ciò che la diffamazione implica cambi secondo l'atteggiamento del censore verso la religione o il credo, spesso a spese tragiche delle minoranze religiose. Purtroppo è proprio ciò che accade negli Stati che non distinguono fra questioni civili e questioni religiose, si identificano con una religione particolare o con una certa setta nell'ambito di quella religione e interpretano la diffamazione secondo le convinzioni della religione o dei credi a cui aderiscono, discriminando così inevitabilmente alcuni cittadini che non condividono le stesse convinzioni. L'esperienza con le legislazioni nazionali che applicano concetti quali «diffamazione della religione» suggerisce che un eventuale strumento internazionale sulla diffamazione della religione porterebbe soltanto a un'oppressione ulteriore delle minoranze religiose, come si può verificare in quei Paesi.
Presidente,
in conclusione, la Santa Sede chiede ai Paesi che sono membri di questo rispettato Consiglio di trasformare questi sgradevoli incidenti di intolleranza religiosa e la cultura che li sostiene in un'opportunità di nuovo impegno per il dialogo e per la riaffermazione del diritto e del valore di appartenere a una comunità di fede o di credo. Comunque, questa scelta individuale, quale espressione dei diritti umani fondamentali, è stata sempre operata nel contesto del bene comune.
[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 29-30 marzo 2010]
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