La parola ascoltata misura la gratitudine
Il Festival di Mantova ingrandisce tutti i particolari dell'impatto tra scrittore e lettore. È un vagare da zingari
Scrivere storie nella nicchia dei muri domestici, tra i rumori sospesi e poi trovarsi scaraventati in piazza: il contraccolpo, seppure lusinghiero, scombina le carte. Uno scrittore fuori della sua scrittura è un forestiero, sbanda e fa attrito col mondo. La presenza di persone venute ad ascoltarlo aumenta la sua responsabilità verso di loro: deve valere la pena del loro spostamento. Il Festival di Mantova ingrandisce tutti i particolari dell'impatto tra scrittore e lettore. Intanto dà alla testa più di un litro di rosso tracannato in fretta: la città si riempie di lettori, diventa un municipio del libro. Piazze, vicoli, cortili ospitano incontri a garganella, più di un centinaio in pochi giorni. Ci si sposta a piedi, unità di misura di ogni avvicinamento. I più celeri si permettono la bicicletta. Ci si incrocia così tutti insieme al pianoterra della città, senza pulpiti e ribalte a separare uno scrittore dalle persone.
Si usa dire che a Mantova un autore incontra il suo pubblico. È un'espressione che fa rabbrividire. Tra scrittore e lettore non esiste il pubblico, quello di un concerto, di uno stadio, di un film. Tra quei due c'è invece il più esclusivo rapporto di uno a uno, che dura finché dura la lettura. Si scrive e si legge da soli. A Mantova scintillano per contatto le due intimità, si guardano negli occhi. A volte non si riconoscono, a volte si emozionano a imbattersi. Mantova è un acceleratore di particelle solitarie che vanno all'incontro, alla collisione, al sottobraccio di una fotografia. Aiuta allegramente una folla di giovani volontari in maglietta blu, che smista i flussi, conduce per mano a destinazione, che è un piccolo destino. Esiste un popolo di lettori migratori che dai punti più sparsi dell'orizzonte si dà appuntamento a Mantova per deporre le uova dell'autunno, i libri che si schiuderanno nei nidi di ognuno. Ma perché i lettori non si fanno bastare gli scritti e bussano esigenti anche agli orali? Un po' perché c'è un'urgenza, uno spasmo di farsi raccontare delle storie. Ma di più perché nei paraggi nostrani la parola pubblica si è deprezzata.
Quella politica, quella economica, sono pubblicitarie: hanno smesso di portare conseguenze. Non devono più corrispondere a un risultato, a un fatto, a una previsione. Più volatili degli oroscopi, le parole pubbliche non valgono il peso dell'aria che le porta. Allora c'è un'urgenza, uno spasmo della parola privata che porta responsabilità della storia che racconta, narrativa, poetica o teatrale che sia. La parola a Mantova torna ad avere peso specifico, a mantenere quello che promette, a dare consistenza all'ascolto. È un ascolto che non si misura sugli indici di gradimento, ma sulla gratitudine. A Mantova non c'è industria del libro, non è mercato o fiera, è una passeggiata tra la gente del libro, chi lo scrive, chi lo stampa, chi lo legge. Non dà appartenenza: si è migratori, al posto delle ali volano gli occhi sopra i continenti delle pagine, di numero smilzo o monumentale come il prossimo di Mauro Corona, più di ottocento pagine scritte con il coltello più che con la penna. Si è zingari a Mantova in settembre, sulla soglia di autunno, di ritorno da una stagione in fiore, come le cicogne. In musica si chiamerebbe «adagio» l'aria che si respira per le vie del festival, mentre il sole si abbassa a celebrare l'equinozio, un pareggio provvisorio tra la luce e il buio.
Erri De Luca/Corriere.it
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Il Festival di Mantova ingrandisce tutti i particolari dell'impatto tra scrittore e lettore. È un vagare da zingari
Scrivere storie nella nicchia dei muri domestici, tra i rumori sospesi e poi trovarsi scaraventati in piazza: il contraccolpo, seppure lusinghiero, scombina le carte. Uno scrittore fuori della sua scrittura è un forestiero, sbanda e fa attrito col mondo. La presenza di persone venute ad ascoltarlo aumenta la sua responsabilità verso di loro: deve valere la pena del loro spostamento. Il Festival di Mantova ingrandisce tutti i particolari dell'impatto tra scrittore e lettore. Intanto dà alla testa più di un litro di rosso tracannato in fretta: la città si riempie di lettori, diventa un municipio del libro. Piazze, vicoli, cortili ospitano incontri a garganella, più di un centinaio in pochi giorni. Ci si sposta a piedi, unità di misura di ogni avvicinamento. I più celeri si permettono la bicicletta. Ci si incrocia così tutti insieme al pianoterra della città, senza pulpiti e ribalte a separare uno scrittore dalle persone.
Si usa dire che a Mantova un autore incontra il suo pubblico. È un'espressione che fa rabbrividire. Tra scrittore e lettore non esiste il pubblico, quello di un concerto, di uno stadio, di un film. Tra quei due c'è invece il più esclusivo rapporto di uno a uno, che dura finché dura la lettura. Si scrive e si legge da soli. A Mantova scintillano per contatto le due intimità, si guardano negli occhi. A volte non si riconoscono, a volte si emozionano a imbattersi. Mantova è un acceleratore di particelle solitarie che vanno all'incontro, alla collisione, al sottobraccio di una fotografia. Aiuta allegramente una folla di giovani volontari in maglietta blu, che smista i flussi, conduce per mano a destinazione, che è un piccolo destino. Esiste un popolo di lettori migratori che dai punti più sparsi dell'orizzonte si dà appuntamento a Mantova per deporre le uova dell'autunno, i libri che si schiuderanno nei nidi di ognuno. Ma perché i lettori non si fanno bastare gli scritti e bussano esigenti anche agli orali? Un po' perché c'è un'urgenza, uno spasmo di farsi raccontare delle storie. Ma di più perché nei paraggi nostrani la parola pubblica si è deprezzata.
Quella politica, quella economica, sono pubblicitarie: hanno smesso di portare conseguenze. Non devono più corrispondere a un risultato, a un fatto, a una previsione. Più volatili degli oroscopi, le parole pubbliche non valgono il peso dell'aria che le porta. Allora c'è un'urgenza, uno spasmo della parola privata che porta responsabilità della storia che racconta, narrativa, poetica o teatrale che sia. La parola a Mantova torna ad avere peso specifico, a mantenere quello che promette, a dare consistenza all'ascolto. È un ascolto che non si misura sugli indici di gradimento, ma sulla gratitudine. A Mantova non c'è industria del libro, non è mercato o fiera, è una passeggiata tra la gente del libro, chi lo scrive, chi lo stampa, chi lo legge. Non dà appartenenza: si è migratori, al posto delle ali volano gli occhi sopra i continenti delle pagine, di numero smilzo o monumentale come il prossimo di Mauro Corona, più di ottocento pagine scritte con il coltello più che con la penna. Si è zingari a Mantova in settembre, sulla soglia di autunno, di ritorno da una stagione in fiore, come le cicogne. In musica si chiamerebbe «adagio» l'aria che si respira per le vie del festival, mentre il sole si abbassa a celebrare l'equinozio, un pareggio provvisorio tra la luce e il buio.
Erri De Luca/Corriere.it
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