Corriere della Sera 3.8.08
Nella notte del 2 agosto 1944 furono trucidati nel lager nazista dai due ai tremila zingari. «Nuova ondata d'odio»
L'accusa dei rom da Auschwitz: governo italiano razzista
Appello della comunità polacca e tedesca all'Europa: «Situazione senza precedenti»
di Mara Gergolet
L'appello
«E' ora che l'Europa cominci a trattare la nostra comunità come un partner di pieno diritto» Il ricordo Il capo della comunità rom polacca Kwiatkowski ad Auschwitz
L'eccidio Nella notte tra il 2 e il 3 agosto 1944 ad Auschwitz furono sterminati dai due ai tre mila rom mandati a morire nelle camere a gas del forno crematorio n.5.
Entro il 1945 ne vennero sterminati oltre mezzo milione
Deportati I rom furono deportati ad Auschwitz nel 1941, nel «campo per famiglie zingare». Un triangolo nero sul braccio indicava che erano «asociali»
BERLINO — Sono venuti a ricordare la notte dell'eccidio. Quando, tra il 2 e il 3 agosto 1944, dai due ai tremila rom — tutti quelli che erano rinchiusi nel campo di concentramento di Auschwitz — furono mandati a morire nelle camere a gas del forno crematorio n.5.
Rom polacchi e tedeschi insieme, ma anche i rappresentanti dei governi della Slovacchia, Polonia e Ungheria, l'ampia fascia dell'Europa centrale (Romania compresa) che è la patria d'origine di questa «minoranza» di 10 milioni di persone. E da Auschwitz — il luogo simbolo del loro sterminio, non meno che di quello degli ebrei — hanno lanciato accuse forse mai così dirette, «ufficiali» e dure all'Italia.
«Da quasi un anno, c'è in Italia una situazione senza precedenti nella storia dell'Europa dopo la fine della II guerra mondiale » dice il capo della comunità polacca, Roman Kwiatkowski. «Le autorità regionali e centrali si sono unite all'ondata d'odio alimentata dalla maggioranza dei media». Non basta: «Per la prima volta dalla fine della guerra, uno Stato si è attivamente impegnato in una politica di repressione e discriminazione nei confronti di una comunità nazionale ». Parla davanti a trecento persone. Uomini in vestiti scuri e, a volte, cappelli bianchi di paglia, qualche donna, pochi sopravvissuti, una decina di bambini. Depongono lumini e rose rosse, dove di solito si portano pietre.
Ad Auschwitz, si stima, morirono più di 20 mila rom. La tappa finale della persecuzione nazista che, ponendo «gli zingari» sul gradino infimo della scala umana, una razza più «degenere » di quella ebraica, fin dal 1935 cominciò a stivarli in ghetti ai margini delle città sorvegliati dalle SS e, poi, a sterilizzarli. Ad Auschwitz i rom e i sinti arrivano nel 1941, un triangolo nero sul braccio a segnalare che erano «asociali», le prime vittime per i disumani esperimenti del dottor Josef Mengele. Finché, il 2 agosto, i gerarchi decisero di liquidare il Zigeunerfamilienlager
e i suoi abitanti. Saranno oltre mezzo milione (ma alcuni storici sostengono un milione e mezzo) i rom sterminati dai nazisti entro il 1945.
Un attacco al governo italiano preparato e meditato, dopo le polemiche sulle impronte ai rom, le critiche dell'Ue e di organismi dei diritti umani come il Consiglio d'Europa. E concertato, perché dopo il polacco Kwiatkowski, parla anche il rappresentante dei tedeschi, Romani Rose. La politica italiana, dice, mira a colpire i rom di tutti i Paesi dell'Unione. Un appello all'Ue perché elabori una «politica comune ». «È l'ora — dice — che l'Europa cominci a trattare la nostra comunità come dei partner di pieno diritto».
l’Unità 3.8.08
Il caso Englaro
«Ho votato no, l’ho fatto per Eluana»
Intervista a Barbara Pollastrini di Maria Zegarelli
Pollastrini: «Il mio no per Eluana»
L’ex ministra non è uscita dall’aula come il resto del Pd. «Così ho espresso la mia vicinanza umana»
DISOBBEDIENZA Quando tutto il gruppo Pd è uscito dall’aula durante il voto per il conflitto di attribuzione sul caso di Eluana Englaro, lei è rimasta al suo posto. Non ce l’ha fatta. Ha votato no. «Non è stata una scelta in polemica con il mio partito».
Barbara Pollastrini, lei una disobbediente... Perché ha votato “no”?
«È la seconda volta in nove anni di esperienza parlamentare che dò un voto diverso dal mio gruppo. L’unico precedente riguardava la pace. L’altro giorno ho semplicemente fatto una scelta personale, avevo bisogno di esprimere anche in questo modo una vicinanza a Eluana e alla sua famiglia. Ma anche la ribellione a una destra che persino su temi etici e umani usa la forza dei numeri come una clava».
La decisione del Pd di uscire dall’aula ha creato polemiche. C’è stata o no una difficoltà a trovare l’accordo sul “no”?
«Non ho vissuto questo passaggio della discussione nei gruppi di Camera e Senato come una divisione al nostro interno. In questa vicenda non ci siamo tirati indietro. Ci sono stati l’intervento autorevole di Zaccaria e quello appassionato del professor Ignazio Marino. Al Senato è stato approvato un ordine del giorno in cui si chiede di discutere la legge sul testamento biologico. C’è stata una presa di posizione di Veltroni, la controrelazione alla Camera presentata dalla vicepresidente Rosy Bindi, la lettera del capogruppo Soro al presidente Fini... Il Pd è un grande partito anche per la ricchezza delle convinzioni e delle culture, è chiaro che il dibattito ogni volta è articolato, ma l’importante è arrivare ad un punto di sintesi alto».
Il problema sembra proprio questo. Sul testamento biologico il Pd ha due proposte: quella di Marino, sottoscritta da 101 senatori e quella di Baio Dossi, sottoscritta da 36 cattolici...
«Non è così, la divisione non è tra laici e cattolici perché molti cattolici hanno firmato e condividono la proposta di Ignazio Marino. Noi potremo diventare davvero un grande partito se riusciremo a trovare un profilo culturale robusto e il lavoro che ha portato al testo presentato da Marino va in questa direzione, è frutto di una ricerca e di un confronto approfonditi, propone una mediazione alta. Personalmente sento di dovere molto a Marino perché è sempre stato animato dalla volontà del dialogo e della contaminazione dei pensieri, non è mai caduto nella trappola degli antichi steccati tra laici e cattolici».
Rutelli dice che è più facile staccare la spina che prendersi cura e assistere continuamente i malati. Non le sembra una posizione chiara sul caso Englaro?
«Non mi permetto di dare valutazioni in segno di rispetto della famiglia Englaro. Penso che quando si tratta di temi che chiamano in causa principi, valori ed etica, non parliamo di un antico conflitto tra Guelfi e Ghibellini che appartiene alla storia, né parliamo di uno scontro tra laici e cattolici. Ci si confronta su come interpretare nel presente il grande tema dei diritti della persona nei momenti più drammatici della vita. Sarebbe banale se etichettassimo la discussione come uno scontro tra laici e cattolici, la politica quando discute di questi argomenti deve avere una bussola: mantenere uno sguardo laico, avendo come riferimento la Costituzione italiana, la Carta di Oviedo, le direttive e gli insegnamenti che ci arrivano dall’Europa. Chiediamoci, e lo dico alla destra, come mai in quasi tutti i paesi europei, negli Stati Uniti, in Australia si siano dati delle leggi molto simili alla proposta di Marino. Forse è davvero arrivato il momento di aprire un dibattito parlamentare serio e approfondito per dotarci di una legge».
L’italia nel 2008 ancora non ha una legge sulle coppie di fatto. Non c’è riuscita con il governo Prodi. Speranze con quello Berlusconi?
«Il programma del Pd ha un chiaro riferimento al riguardo e quello resta il nostro obiettivo. Combatteremo, alcuni di noi hanno già depositato delle proposte nelle commissioni competenti, ma con questa destra sarà difficile. Basta tornare con la mente al discorso di insediamento del premier: non è stato neanche richiamato alla lontana il tema dei diritti e doveri dei cittadini. Anche il termine “diritti umani” è stato solo sfiorato. Il ministero delle Pari Opportunità non si chiama più «dei Diritti e delle Pari Opportunità. Le parole hanno un forte valore anche simbolico, e questi tre fatti messi insieme rendono bene l’idea di come agisce questa destra. Dunque spetta a noi continuare la battaglia. Il Partito democratico è il partito che ha nel suo Dna la convinzione che non ci si debba arrestare mai per l’affermazione e l’allargamento dei diritti civili e umani. In una idea di democrazia il valore essenziale è quello della persona, cioè i suoi diritti e suoi doveri. Non ci sono dei diritti riconoscibili e altri no, dei doveri importanti e altri meno. I diritti delle coppie di fatto non sono meno importanti di altri».
l’Unità 3.8.08
Come può Eluana dividere uno Stato?
di Tania Groppi
Il drammatico caso della giovane Eluana non divide soltanto le coscienze (e i gruppi parlamentari). Ma anche i poteri dello Stato. E costituisce l’ennesima occasione per un attacco alla magistratura.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento ha deciso di sollevare un conflitto tra poteri per difendere la propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione (e poi, di conseguenza, la Corte d’Appello di Milano) ha ritenuto legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
La maggioranza parlamentare, con un colpo di fantasia degno di un prestigiatore, di fronte alla mancanza di una legge sulla fine della vita, anziché procedere speditamente ad approvarla (riprendendo il lavoro già svolto nelle precedenti legislature in materia di testamento biologico), ha deciso invece di attaccare il potere giudiziario, nella specie la sua massima e più autorevole espressione, la Corte di Cassazione. Criticando i contenuti della sentenza dell’ottobre 2007 (definita “frettolosa”) ma soprattutto accusandola di avere un contenuto sostanzialmente legislativo. La Corte di Cassazione si sarebbe trasformata indebitamente da interprete del diritto in creatore del diritto, si sarebbe fatta legislatore, violando il principio della separazione dei poteri.
La questione viene quindi sottoposta alla Corte Costituzionale, che dovrà decidere nei prossimi mesi. Una nuova tappa in una lunga e drammatica vicenda umana e giuridica.
Una tappa peraltro anche di un’altra ormai annosa storia, che travaglia la nostra democrazia ben più di quanto avvenga in altri paesi. Si è di fronte, infatti, all’ennesimo tentativo di piegare le ragioni del diritto a quelle della lotta politica, attraverso l’utilizzazione impropria di uno strumento giuridico, il conflitto di attribuzione, al fine di affermare una concezione del diritto dei rapporti tra i poteri alternativa a quella prevista dalla nostra Costituzione.
Sul piano strettamente giuridico, infatti, i precedenti della Corte Costituzionale portano dritti alla manifesta inammissibilità del conflitto, in camera di consiglio e con ordinanza, già in sede di prima delibazione.
Basta richiamare due aspetti. Prima di tutto, la carenza di interesse a ricorrere. Le Camere lamentano l’invasione di una competenza, quella a legiferare sulla fine della vita, che non hanno mai esercitato: la giurisprudenza costituzionale è costante nel richiedere una lesione della competenza “in concreto” affinché possa essere ammissibile il conflitto di attribuzione. Tale lesione non può ritenersi sussistere in un caso come il presente, nel quale per rimuovere l'effetto ritenuto invasivo il parlamento potrebbe semplicemente legiferare, colmando così esso stesso la lacuna.
In secondo luogo, inammissibilità della censura perché si denunciano “errores in iudicando”, ovvero il “cattivo uso” del potere giudiziario. Se accolta, trasformerebbe la Corte Costituzionale in un ulteriore grado di giudizio, attivabile ogni qualvolta il Parlamento non “gradisca” una interpretazione giudiziaria.
Ma c’è di più. Si tratta di un atto che disvela la radicale incomprensione (per non dire la negazione), da parte di questa maggioranza, per la forma di Stato in cui viviamo, quella della democrazia costituzionale. Che si traduce nella nostalgia giacobina per lo Stato legislativo, di cui gli interventi in aula e la stessa delibera di ricorrere sono impregnati. Quello che si vuole “restaurare”, come hanno messo in luce al Senato i relatori dell’opposizione, è lo Stato legislativo basato sulla centralità della legge, fonte suprema del diritto, rispetto alla quale i giudici altro non sono che “bouches de la loi”, chiamati ad applicarla meccanicamente attraverso i meccanismi del sillogismo giudiziario.
Si chiede alla Corte Costituzionale di mettere in atto una sorta di référé legislatif sul modello della costituzione francese del 1791, che implicava, a tutela della legge, il ricorso al Tribunal de Cassation «établi auprès du Corps législatif» per l’annullamento delle sentenze, proprio per impedire l’interpretazione della legge e per assicurare il prevalere della volontà del legislatore su quella dei giudici.
Questa è la separazione dei poteri che si vuole garantire, una separazione dei poteri estranea allo Stato costituzionale in cui viviamo, nel quale al vertice dell'ordinamento non si trova la legge, ma la costituzione e il patrimonio di diritti che essa garantisce ai singoli: una “dotazione di diritti” originaria, indipendente e protetta nei confronti della legge. Nello Stato costituzionale il ruolo del giudice, che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o no, non è quello di mero applicatore della legge: egli è chiamato a valutarne la costituzionalità e a dettare la regola del caso concreto, attraverso le tecniche del bilanciamento e l’applicazione diretta dei principi costituzionali. E ciò è tanto più vero quando, come nel caso che qui ci interessa, una legge approvata dal Parlamento non ci sia. Di fronte a questa lacuna, che chiamerei piuttosto “omissione del legislatore”, al fine di garantire i diritti non ci sono che due soluzioni: l’applicazione diretta dei principi costituzionali, con effetti inter partes, nel caso concreto, da parte dei giudici, oppure l’intervento, erga omnes, in funzione di supplenza del legislatore, da parte della Corte Costituzionale.
È stata la Corte stessa, con un orientamento costante nella sua giurisprudenza, ad incoraggiare l'attivismo interpretativo dei giudici, allo scopo, assai chiaro, di preservare la sfera del legislatore. L’alternativa, infatti, una sentenza additiva della Corte Costituzionale con conseguenze erga omnes e vincolante anche per il legislatore (tranne che per quello costituzionale) sarebbe assai più invasiva della pronuncia di un giudice comune, che resta circoscritta alle parti e lascia spazio a un futuro intervento legislativo ordinario.
Leggiamo correttamente, e non stravolgendola come è stato fatto dalla maggioranza nel corso dei lavori parlamentari la sentenza n. 347 del 1998 sulla fecondazione assistita. In assenza di una norma di legge, la Corte dichiarò inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, che le chiedeva una sentenza additiva, le chiedeva di “farsi legislatore”, affermando che «L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali».
Pertanto, invece di sollevare conflitti fasulli a meri scopi propagandistici contro un giudice (e che giudice! È la nostra Corte di Cassazione) che si è limitato a svolgere il suo ruolo costituzionale (garantire i diritti applicando i principi nel caso concreto), sarebbe invece bene che il Parlamento si interrogasse sulle ragioni del suo silenzio.
È davvero il legislatore intenzionato, sulle questioni eticamente sensibili, a tacere? A lasciare al potere giudiziario, sotto la pressione inarrestabile dei casi, la soluzione? Con i rischi in ciò insiti, non solo per il principio democratico, ma anche per quello di uguaglianza, dato che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianze. Oppure, anche nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i principi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes, smentendo in tal modo chi lo vuole votato ad una inevitabile marginalizzazione? Non è attaccando il potere giudiziario, ma riprendendo il proprio ruolo istituzionale, che il Parlamento potrà difendere la sua potestà legislativa.
Repubblica 3.8.08
Il bene di vivere e il diritto di morire
di Eugenio Scalfari
QUANDO Emanuele Severino e Umberto Galimberti segnalarono l´irruzione della tecnica nel mondo dell´etica sembrò ai più che la questione avesse un contenuto esclusivamente filosofico e quindi astratto e di scarsa importanza pratica.
Se ne erano del resto già occupati scrittori e filosofi americani e, in Europa, tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, greci. Era insomma una questione posta dall´attualità e dall´evidenza: la tecnica, la "tecné", aveva conquistato una vera e propria egemonia che incideva nel mondo dei comportamenti sociali, determinava lo sviluppo dell´economia, accresceva ma al tempo stesso vulnerava i territori della libertà.
Le reazioni più preoccupate da quell´egemonia provennero dal campo religioso, sia di parte cristiana sia di parte islamica sia dalle numerose credenze asiatiche: le religioni denunciavano lo squilibrio tra il progresso tecnico e quello morale e vedevano la propria autorità sempre più insidiata dai progressi delle scienze che non ammettevano limiti alla ricerca né si preoccupavano che i risultati di volta in volta raggiunti fossero compatibili con le verità rivelate delle quali le religioni ritenevano di avere esclusiva rappresentanza.
La discussione investì tutte le culture e divenne tanto più intensa quanto più si avvicinava alla fine del secolo e del millennio, con l´inevitabile carica apocalittica che i grandi eventi portano con loro. Sul bordo del XXI secolo e del terzo millennio dell´era cristiana il tema era ormai chiaro in tutta la sua importanza. Non si trattava più soltanto dell´egemonia ma addirittura dell´avvenuto capovolgimento di dipendenza tra l´uomo e gli strumenti da lui creati: non erano più al suo servizio quegli strumenti, ma era l´uomo al servizio della "tecné", diventata ormai un´ideologia possessiva alla quale l´intero genere umano si era piegato e asservito.
Siamo ormai tutti "tecno-dipendenti" in ogni atto e momento della nostra vita e tutti in un modo o in un altro lavoriamo per accumulare nuovi saperi che accrescono il potere della tecnica a detrimento della nostra libertà.
I due eventi che dominano la nostra intera vita, l´alfa e l´omega delle nostre esistenze individuali, erano fino a poco fa al di fuori del nostro controllo. Ma ora non è più così poiché la tecnica se ne è impadronita: ha creato strumenti che consentono di determinare la nascita non solo secondo natura ma anche in laboratorio ed ha prolungato la vita anche oltre i limiti posti dalla natura.
Le religioni – e quella cattolica in particolare – hanno assunto un atteggiamento dogmatico e ideologico sul tema della vita, trasformandolo in una vera e propria ideologia. Per quanto riguarda la nascita la Chiesa ha rigorosamente vietato la contraccezione respingendo ogni strumento tecnico che potesse limitare le nascite; sul tema della morte al contrario la Chiesa difende il ricorso agli strumenti che la tecnica è in grado di fornire per prolungare artificialmente una pseudo-vita al di là dei limiti segnati dalla natura.
Questo duplice e contraddittorio atteggiamento che vieta la tecnica limitatrice di nascite non volute e invoca invece la tecnica capace di mantenere una vita artificiale, ha ideologizzato la discussione facendo irruzione nella politica, nei governi, nei parlamenti. Si è arrivati al punto di far votare dagli elettori e dai loro rappresentanti parlamentari questioni di estrema privatezza, con tutte le torsioni politiche ed etiche che queste intrusioni comportano nelle coscienze e nella libertà individuale. La privatezza della morte è diventata argomento pubblico non solo come indirizzo generale ma perfino nei casi specifici di questo e di quello. Di conseguenza, mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali degli individui, anche la magistratura è stata chiamata in campo.
La discussione sui principi si è incattivita e imbarbarita. Attorno alle camere di rianimazione si svolgono polemiche interminabili; le Corti di giustizia emettono verdetti contrapposti e sentenze inaccettate. Nel caso attualmente aperto di Eluana Englaro le Camere sollevano addirittura conflitti di competenza tra potere legislativo e potere giudiziario. La Corte costituzionale è ora chiamata a sciogliere una questione a dir poco imponderabile, al solo dichiarato intento da parte della maggioranza di centrodestra di guadagnare qualche settimana o mese di tempo lasciando l´esistenza di una persona tecnicamente già morta da 16 anni, agganciata ad un tubo che le somministra sostanze capaci di ossigenarle il sangue, come si trattasse d´una pianta e non di una vita umana.
Scendere da questo livello e discutere se abbia giudicato correttamente un Tribunale, una Procura, una Corte di cassazione; se una legge debba colmare il vuoto di legislazione e in che modo la sua precettistica debba essere formulata: tutto ciò immiserisce una questione che dovrebbe essere affidata alla volontà responsabile della persona interessata o ai suoi legali rappresentanti se l´interessato non è in condizione di intendere, di esprimersi, di volere.
Ma poiché questa è in una molteplicità dei casi lo stato di fatto, di esso bisognerà dunque discutere superando il disagio che ce ne deriva. Le domande che ci dobbiamo porre nel caso specifico di Eluana sono le seguenti: esiste una manifestazione chiara e recente di volontà dell´interessata? Se non esiste o è considerata remota ci sono persone validamente in grado di decidere per lei? Infine: su quali punti d´appoggio o principi si basa la sentenza della Suprema Corte che ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere le cure e determinare l´arresto del cuore, pulsante in un corpo che è in coma da 16 anni con encefalogramma piatto e una vita non umana ma vegetale?
I fautori ad oltranza dell´ideologia della vita obiettano che quelle manifestazioni di volontà siano remote rispetto al momento in cui Eluana entrò in coma e quindi "scadute", prive di legittima volontà. L´argomento a sostegno di questa tesi si appoggia alla considerazione che in una materia così delicata e privata si può cambiare parere fino ad un attimo prima dell´ultimo respiro. È vero, si può cambiare parere fino all´ultimo respiro se si è in condizioni di cambiar parere e di esprimerlo. Ma se si è già morti cerebralmente? L´espianto degli organi con i quali si salvano altre vite non avviene forse quando la morte cardiaca non è ancora avvenuta e gli organi sono ancora vitali se l´autorizzazione a disporne è già stata data e i se i parenti consentono?
Alla seconda domanda la risposta è netta: il padre e la famiglia di Eluana, che l´hanno assistita per sedici anni ed hanno raccolto una serie di evidenze cliniche sull´irreversibilità del suo stato, vogliono che la vita artificiale non prosegua e che cessi l´accanimento terapeutico. Esprimono in nome della propria figlia il rifiuto delle cure in atto; un rifiuto che è un diritto riconosciuto del malato o di chi lo rappresenta.
Infine la terza domanda: la validità della sentenza della Cassazione. La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare sul diritto dell´interessata o di chi la rappresenta di rifiutare le cure. Non ha neppure avuto bisogno di fondare la sentenza sulle manifestazioni di volontà di Eluana di molti anni fa. Ha accertato, la Suprema Corte, l´inesistenza di una legislazione in materia e si è quindi rifatta, come è suo dovere prescritto in Costituzione, al diritto del malato, anch´esso riconosciuto in Costituzione, di rifiutare le cure.
Sentenza ineccepibile: in assenza di norme e in presenza di diritti costituzionalmente garantiti la Corte giudica in base ai principi dell´ordinamento giudiziario che riconosce il dovere del giudice di tutelare i diritti dei cittadini.
Nessuno nega che spetti al potere legislativo legiferare e non certo alla magistratura, ma qui siamo in una situazione in cui il potere legislativo non ha legiferato provocando un vuoto nel quale solo alla magistratura incombe il dovere di tutelare diritti riconosciuti in Costituzione.
Non esiste dunque conflitto tra i due poteri. Quello giudiziario è intervenuto in difesa d´un diritto in mancanza di legislazione. Quando quel vuoto sarà riempito la magistratura disporrà di una legge e dovrà applicarla sempre che essa non sia in contrasto con i principi costituzionali.
Vedremo comunque quale sarà la sentenza della Corte costituzionale investita del problema.
Alla Camera, come poi al Senato, i rappresentanti del Pd hanno espresso la loro opposizione al conflitto di competenza sollevato dalla maggioranza e si sono poi assentati dall´aula per non provocare crisi di coscienza tra i deputati cattolici aderenti al Pd.
Al Senato invece è stato presentato un ordine del giorno proposto da Luigi Zanda che stabiliva l´impegno a discutere ed approvare la normativa sul testamento biologico entro l´anno in corso. L´ordine del giorno è stato votato anche dai senatori di centrodestra e appoggiato dal presidente del Senato. L´astensione ha avuto dunque una contropartita abbastanza forte.
Duole tuttavia registrare che una parte di parlamentari democratici e cattolici ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico difforme in alcune parti sostanziali da un altro analogo documento di legge presentato dallo stesso Partito democratico.
È evidente che queste differenze dovranno essere sanate prima dell´inizio del dibattito parlamentare. Il Pd su un argomento di questa importanza non può che avere una sola voce, ispirata alla laicità dello Stato oltreché alla tutela dei diritti del malato.
Ci sono molti problemi davanti al Pd che dovranno esser chiariti entro il prossimo autunno, ma sarebbe grave se questo tema non fosse considerato tra quelli prioritari. Dall´incontro tra laici e cattolici democratici è nato il Pd. La laicità è stato fin dall´inizio considerato il valore fondante. Questa è la prima prova concreta per saggiare la validità dell´incontro tra quelle due culture. Se la prova fallisse le conseguenze metterebbero in discussione l´esistenza stessa del partito.
l’Unità 3.8.08
Il muro
di Furio Colombo
Gli addetti lavorano svelti e senza molto disturbo o distrazioni. Dove c’era un passaggio per la giustizia, in modo che l’azione del giudice potesse intercettare il sospetto colpevole, adesso c’è il blocco di cemento del “lodo Alfano”. Tiene strettamente legati insieme colpevoli e innocenti. In questo modo i colpevoli sono salvi per sempre, come non avviene in nessun luogo del mondo democratico. Lo dimostrano le dimissioni del Primo ministro israeliano Olmert. È inseguito da un’inchiesta che non si è fermata mai (benché quel Paese sia in situazione di grande emergenza). Ma Olmert, non ha mai lamentato persecuzioni. E prima del processo si è dimesso senza tentare di coinvolgere nel suo destino le altre cariche dello Stato.
Ma - voi direte - l’Italia è la patria del diritto. Forse è per questo che, sfidando non solo il nostro diritto ma anche il diritto degli altri europei e degli altri esseri umani, si è provveduto a murare il percorso di civiltà o anche solo di media umanità che porta verso i cosiddetti campi nomadi, in modo da isolare bambini poveri senza diritti a cui vengono prese a piacimento le impronte digitali che violano ogni principio, ma aggiungendo il sarcasmo tipico del governare ottuso e totalitario. Invece de «Il lavoro rende liberi» adesso c’è scritto (e ripetuto ben oltre il ridicolo, persino dal premier italiano in pomposa conferenza stampa, lasciando un po’ indignati il collega rumeno e il commissario europeo Hammerberg) che «le impronte digitali fanno bene ai bambini». Come se, invece di essere forzati a premere, impotenti, il piccolo dito sul tampone, ricevessero una medicina. Maroni, non può sapere che sta ricreando, in tutto il suo squallore, il mondo dickensiano dei “poveri per sempre” o “poveri come razza” di Oliver Twist.
Berlusconi avrà scorso qualche sceneggiatura sul tema, sa che comunque fa “audience” (il solo tema a cui è sensibile, oltre alla sottomissione dei giudici).
E comunque ha bisogno di Bossi, Borghezio, dei leghisti peggiori, tipo Salvini con cane anti-negro al guinzaglio, tipo Cota, che invece offre il candore di non saper leggere le parole di Mameli (crede e dice alla Camera che l’Italia, e non la vittoria, è “schiava di Roma” nell’Inno che lui crede dei calciatori, e gli sfugge la metafora, seguendo l’esempio del futuro condottiero Renzo Bossi). E butta avanti la “sicurezza” presieduta dai militari come in Honduras. Lancieri e granatieri occuperanno le città italiane d’agosto e daranno man forte, insieme alla crisi di abbandono dell’Alitalia, alla fuga dei turisti. Nessuno decide di fare vacanza in un Paese in cui “la sicurezza” (parola codice per indicare il rigetto verso i Rom e gli immigrati in genere, quegli stessi immigrati che muoiono di fatica e di lavoro, ma senza pensione) diventa “emergenza” (parola gravissima, molto dannosa e mai spiegata) ed è necessaria l’azione continua e convulsa del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa, i Graziani e i Badoglio della nuova Italia di destra, finalmente tornata libera di sognare il peggio. Del resto, la sapete l’ultima? Il sindaco leghista di Novara, Massimo Giordano, vieta gli assembramenti di più di tre persone, proprio come nell’Italia del 1933.
Di là dalla barriera un po’ folle di poliziotti senza paga e senza benzina e di soldati “ad arma corta” mandati a cercare nemici che non ci sono, nelle città vuote, si intravedono ospedali sul punto di chiudere (dalla Lombardia al Lazio) per i tagli della prodigiosa nuova Legge finanziaria che rifiuta di rimborsare le Regioni. Se sono ancora in funzione e ancora senza ticket, quegli ospedali sono infestati dalla nuova piaga della Sanità italiana: i medici obiettori. Sono medici che, di giorno, negano di essere obiettori per preservare l’inclita clientela della ricca pratica privata. Ma improvvisamente diventano obiettori di notte, al Pronto soccorso, a voce ben alta, preferibilmente di fronte alle suore, in modo che la coraggiosa dichiarazione giovi alla tanto attesa promozione a primario. Quando si tratta di negare l’iniezione anti-dolore alla donna povera che viene all’ospedale pubblico per partorire, quando si tratta di negare la pillola del giorno dopo o assistenza e indicazioni anticoncezionali a sciagurate ragazze che non solo non sono caste, ma non sono neanche ricche, i medici obiettori esibiscono tutta la loro fede e ubbidienza cristiana. Qualcuno deve pur insegnare a queste pazienti pretenziose che non sono a Copenaghen o a Lione, quando cercano assistenza in un ospedale pubblico italiano. Sono in territorio Vaticano. E in territorio Vaticano “partorirai nel dolore” (roba che ha a che fare col peccato originale) ma vivrai per sempre. Vedi la condanna del Parlamento italiano e della Procura generale di Milano che comandano a Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo da 16 anni, di restare legata ai sondini per sempre perché in questo Paese è proibito, per rifiuto di fare la legge, il testamento biologico. Ed è proibito morire con dignità perché non c’è la legge.
Al Nord sindaci xenofobi opportunamente dotati di poteri speciali di polizia che scardinano in ogni senso la norma costituzionale «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione», governano con cattiveria contro immigrati e Rom (anche se cittadini italiani) guidati dalle loro piccole menti senza storia, ispirati dalla grettezza, isolati persino dal contesto produttivo delle loro città dove le fabbriche cercano e chiedono nuovi lavoratori.
Hanno denominato il loro finto paese “Padania”, nei loro luoghi invocano la secessione, al punto di far giocare la loro “nazionale” di calcio nel campionato degli Stati non riconosciuti (che vuol dire ovviamente “non ancora riconosciuti, cioè non ancora liberati). Ma occupano a Roma vari ministeri, fra cui il ministero dell’Interno, realizzando per la prima volta l’operazione inversa: il partito secessionista occupa il Paese da cui dichiara di separarsi e impone a tutti gli altri italiani i suoi “valori”, inventati o recuperati nelle sottoculture locali. Dovreste ascoltarli a Roma, quando in Parlamento parlano e insultano in nome della Padania senza che il Presidente dell’Assemblea li interrompa per dire: «Scusi onorevole, ma lei è un deputato italiano e questo è il Parlamento italiano. In questo Parlamento nessuno ha mai detto, o anche solo discusso, che cosa sia la Padania». Indifferenti, questi secessionisti operano sul territorio per far apparire “emergenza” e allarmata richiesta di sicurezza il meno pericoloso Paese d’Europa (con l’eccezione, mai più citata, della criminalità organizzata e indisturbata che occupa tre regioni del Sud italiano, con solide filiali al Nord e le sue mattanze senza fine). E all’interno dello Stato praticano la crudeltà di privare gli immigrati di pensioni minime, anche se sono immigrati legali, anche se hanno lavorato come schiavi nella nuova civiltà padana.
Al Sud un muro isola e protegge il siciliano Lombardo, e nessuno sembra aver notato il ritorno (originariamente mafioso e fascista) del separatismo. È un muro di omertà giornalistica e di silenzio politico.
Al Nord la Lega si è ormai rivelata, come ci avverte con allarme l’Europa, il movimento secessionista più estremo, generatore di rancore, vendetta, razzismo. Non esita a dichiarare le sue intenzioni, letteralmente “di lotta e di governo”. Incassa, senza imbarazzo, autorevoli rimproveri per il grado estremo di volgarità, che è pronta a ripetere subito, contando sul fatto che le poche frasi o gesti o iniziative non apertamente offensive, non dichiaratamente minacciose della Lega Nord vengono subito salutate, più o meno da tutti, come grandiosi atti di civiltà.
Stampa e politica hanno già alzato un muro a protezione della Lega che - a quanto pare - interpreta sentimenti profondi degli italiani. Come il fascismo. Nel profondo, infatti, ci sono anche i sentimenti peggiori. Basta incoraggiarli, e alla fine avvelenano i pozzi del comportamento comune.
La sera del 31 luglio il Presidente del Senato Schifani era seduto nello studio del TG 1, ore 20, per spiegare se stesso. Purtroppo non come istituzione dello Stato ma come esponente del partito di governo detto “Popolo delle libertà”. È un privilegio che altrove i titolari delle istituzioni non ricevono mai in quanto militanti politici. Persino il Presidente degli Stati Uniti - se chiede di parlare al Paese - deve dire perché.
Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton si sono visti rifiutare (Reagan tre volte) le reti unificate delle più importanti televisioni americane con questa risposta: «Il suo è un discorso politico, non presidenziale. Se vuole, lo trasmettiamo a pagamento».
Renato Schifani, Presidente del Senato in veste di voce di Berlusconi, si è sentito rivolgere questa domanda dal conduttore del Tg1: «Presidente Schifani, perché la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura non è uno scandalo?».
Ma sentite come inizia il suo servizio da Napoli, il giorno 1 agosto, Sky Tg 24, ore 14: «È tornato lo Stato. Con questo spirito il presidente del Consiglio arriva per la sesta volta a Napoli». Non un tentativo di dire al pubblico se e quale rapporto c’è tra quello spirito e la realtà, ovvero la differenza fra pubbliche relazioni, che celebrano, e giornalismo, che verifica.
Quando tocca a Berlusconi, ha questo da dire sul tanto invocato dialogo: «Per ora, da parte dell’opposizione, mancano rispetto e lealtà». Ha elencato, nell’ordine, le classiche virtù dei cani.
furiocolombo@unita.it
l’Unità 3.8.08
Agli ordini di Pinochet uccideva gli italiani
Giustizia in Italia per l’uomo di Pinochet
di Maurizio Chierici
Non è proprio una buona notizia, ma è una notizia che consola. Quando la memoria non muore e insiste per la verità, i colpevoli non hanno scampo. Il delitto politico o l’imbroglio della finanza corrotta alla fine non pagano. Ci sono voluti 35 anni ma uno degli assassini in doppiopetto del generale Pinochet finalmente è in carcere.
Alfonso Podlech Michaud è un signore elegante che apre il passaporto al poliziotto di Madrid, frontiera d’Europa per chi arriva dal Cile. Per Podlech, la moglie e due nipoti, la Spagna è solo il cambio d’aereo nel viaggio verso la vacanza di Praga.
A GIORNI SARÀ ESTRADATO in Italia Alfonso Podlech Michaud, procuratore militare del dittatore cileno nella città di Temuco. Tra le vittime della sua ferocia alcuni nostri connazionali emigrati. La moglie e figlia di uno di loro hanno raccolto prove a suo carico e dopo 35 anni finalmente la giustizia sta per trionfare
Ma il computer dice qualcosa e il poliziotto li fa accomodare in una stanza dalla porta chiusa. Podlech è inseguito dal mandato di cattura internazionale firmato dal procuratore romano Giancarlo Capaldo: fra le persone che ha fatto sparire, quattro italiani sono finiti in niente. Podlech ha 84 anni portati con la sicurezza di chi protesta sottovoce: «Sono un procuratore militare in pensione. Mi guardi bene. Voglio parlare con la mia ambasciata».
Gli agenti invece avvisano l’Audiencia Nacional, procura generale. Quando i sospetti affondano nella politica e il sospettato è solo di passaggio, a volte si lascia perdere per non sopportare impicci che finiscono in niente. Ma quel 29 luglio è di turno il procuratore Baltazar Garzòn, proprio il dottore che ha congelato il generale Pinochet nell’esilio rosa di Londra. Garzon dà un’accelerata: l’avvocato deve essere consegnato alla giustizia italiana. Non è necessaria una richiesta di estradizione, la sottintende l’ordine di cattura internazionale.
Forse Podlech arriva a Roma domani, forse a ferragosto. Intanto resta in carcere a Madrid mentre moglie e nipoti si nascondono a Praga. La signora non é tranquilla. Sospetta che «la mafia di chi difende i diritti umani stia tramando qualcosa contro di lei». Non solo perché seconda moglie del procuratore militare che inventava sedizioni inesistenti per far sparire chi non gradiva il regime; anche il suo passato nei servizi segreti di Pinochet magari nasconde qualche scheletro della Dina, polizia che organizzava le squadre della morte. Lei e il suo Alfonso si sono conosciuti così. Operazione Condor galeotta; è nata una famiglia di spie che organizzavano i killer.
Il racconto di due donne fa capire cosa è successo a Temuco, sud di Santiago, dopo l’11 settembre 1973 quando Pinochet fece morire il presidente Allende. All’università cattolica di Temuco insegnava Omar Venturelli Leonelli, sacerdote che aveva lasciato l’abito talare per fare il professore. Abbraccia la politica della solidarietà nelle file dei Cristiani per il Socialismo. La famiglia Venturelli viene dal modenese. Contadini con la piccola fortuna di un mulino nella colonia Capitan Pastene dove si raccolgono gli italiani sbarcati in Cile. Parlano solo il loro dialetto. Siciliani, veneti, liguri, piemontesi: lo spagnolo riunisce la babele. Omar ha studiato in seminario. Studiato come gli altri quattro fratelli che il padre ha preteso diventassero ingegneri e chirurghi. Alla Cattolica di Temuco l’ex sacerdote incontra un’insegnante, bella, giovane, stesso impegno sociale: Fresia Cea Villalobos. Si sposano, nasce una bambina. Quell’11 settembre ’93 Maria Paz ha tre anni.
Il giorno del golpe, lungo le strade di Temuco incollano manifesti con gli elenchi delle persone pericolose da catturare vive o morte. Anche Omar e Fresia diventano sovversivi da impacchettare. Omar si rifugia nel mulino del padre, e il padre lo convince a presentarsi ai carabineros. «È solo una formalità. Ti spieghi e torni in cattedra». Si spiega e sparisce.
Freisa viene arrestata; due giorni in caserma dove la sala mensa è trasformata nell’aula di un tribunale speciale. Si firmano le prime condanne a morte mentre passano i camerieri con piatti fumanti destinati al pranzo ufficiali, una porta in là. «Volevano farmi dire che ero comunista, quindi fuori dalla nuova legge imposta dai militari che avevano rovesciato la democrazia», racconta. Non era comunista ma assieme al marito appoggiava l’occupazione di terre abbandonate nei latifondi larghi come nazioni. Gli occupanti erano (e sono, poco è cambiato) indigeni mapuche: gli agrari li trattavano come animali. «Sei comunista e devi confessarlo». La trascinano nei corridoi davanti alle stanze di tortura. Escono uomini e donne disfatti. Signori in borghese di Patria Libertà - neonazisti cari a Pinochet, uno dei capi ha sposato Lucia Pinochet, figlia maggiore - vanno e vengono, armati. Portano via i prigionieri come pacchi. «Confessa, ti conviene. Altrimenti, guarda… ». Nel grande cortile rotolano dai camion degli agrari ragazzi massacrati. «Scappate, siete liberi», e i ragazzi provano a correre mentre i carabinieri si esercitano al tiro al piccione.
Nei corridoi della caserma si aggira l’avvocato Alfonso Podlech Michaud. Tuta mimetica, truppa d’assalto. Distribuisce ordini ripetendo: «Qui dentro da oggi comando io». Pinochet lo ha personalmente nominato procuratore militare. La delega riguarda anche l’ordine pubblico.
Omar intanto è sparito. Gli ultimi testimoni lo ricordano mentre legge la Bibbia ad alta voce o conforta i compagni di cella. Torna dagli interrogatori coperto di sangue. Freisa e la figlia riescono a fuggire in Italia. Prima Palermo, poi Bologna. Quando Maria Paz diventa maggiorenne e Pinochet lascia la Moneda, Freisa vuol portarla a Temuco. Ma Maria Paz non può andare: è ancora «clandestina». Sandro Pertini riceve madre e figlia. Il suo impegno permette il viaggio nel tempo ma anche nella rabbia. Perché -raccontano Freisa e Maria Paz- le gerarchie sociali non sono cambiate. Chi comandava, continua a comandare. Attorno al monumento che ricorda centinaia di ragazzi e padri di famiglia inghiottiti dalle squadre della morte, passeggiano i protagonisti di quei massacri. L’avvocato Podlech cammina con l’aria di dire: spostati che devo passare.
Gli anni della procura militare lo hanno reso miliardario. Le inchieste pretese dai parenti delle vittime hanno suggerito di sbriciolare le proprietà in una rete di società anonime, galassia dei prestanome. Grandi proprietari e autorità militari gli si rivolgono col riguardo dovuto a un piccolo padre della patria. Vent’anni di transizione e di democrazia non hanno cambiato una virgola. L’avvocato in tribunale nega di conoscere le donne violentate quand’erano ragazze nella caserma dove imperava. Il tribunale se ne lava le mani: impossibile procedere. Falso anche il documento che testimonia la «liberazione» di Omar Venturelli: «Il 4 ottobre 1973 è tornato in libertà ed è stato trattato bene».
Freisa si ristabilisce a Temuco: lavora contro la violenza alle donne e si impegna per scoprire la verità del passato. Maria Paz è ormai italiana. Quando arriva in Cile si commuove nell’abbracciare i fratelli del padre, ma li scopre diversi da come li immaginava: non pinochettisti, per carità, ma conservatori attenti agli equilibri che gli interessi professionali suggeriscono. Omar è morto e sepolto nel loro ricordo. Freisa e la figlia scavano fra i documenti; stringono i rapporti con le famiglie di altre vittime.
Un giorno si presentano coi risultati delle ricerche al giudice Capaldo, che emette l’ordine di cattura. Vale in ogni parte del mondo, ma in Cile non ne tengono conto. L’avvocato Podlech attraversa la frontiera come un angioletto. Anche gli Stati Uniti fanno finta di niente. Intoccabile fino a quando il 28 luglio mette piede in Europa e trova Garzon giudice di turno. Freisa Cea Villalobos è tornata a Bologna per curare una malattia. La lunga rincorsa non l’ha stancata: «Voglio vivere fino a quando un tribunale condannerà Podlech e tutti gli assassini come lui».
Corriere della Sera 3.8.08
Arrestato l'«inquisitore di Temuco» il carcere dove fu torturato Sepúlveda
di Alessandra Coppola
Fermato in Spagna, sarà trasferito a Roma. L'accusa: uccise un italo-cileno
Il procuratore militare Podlech era inseguito da un mandato di cattura italiano. E' stato bloccato dal nemico n. 1 della dittatura di Santiago, il giudice Garzón
ROMA — Il penultimo capitolo, quattro giorni fa, racconta di un pensionato cileno che in vacanza con la seconda moglie e due nipoti, destinazione Praga, ha la malaugurata idea di fare scalo a Madrid. Cullato dall'impunità di cui gode in patria, Alfonso Podlech Michaud, 73 anni, ex procuratore militare di Temuco, non ha dato peso a un mandato di cattura partito da Roma che da Natale insegue 140 responsabili del piano Condor (la cooperazione tra golpisti sudamericani negli anni Settanta per l'eliminazione dei dissidenti). E ha lasciato le frontiere «protette» del Cile per consegnarsi nella mani del nemico numero uno della dittatura di Santiago: quel Baltasar Garzón che nel '98 bloccò lo stesso Pinochet agli arresti a Londra e che — di turno all'Audiencia Nacional, appena rientrato dalle ferie — si è trovato sulla scrivania il dossier Podlech e ha firmato la detenzione. A giorni il trasferimento nel carcere romano di Regina Coeli.
Capitolo primo, trentacinque anni fa. L'11 settembre, il golpe di Pinochet appena consumato, Omar Venturelli e la moglie Fresia Cea sentono i propri nomi scanditi alla radio: hanno otto ore di tempo per presentarsi in caserma per una «registrazione». «Vado io per prima», dice Fresia. Omar resta in casa con la bimba di un anno e mezzo.
A essere convocati dalla voce dei militari sono in questa fase professori, intellettuali, studenti. Ex sacerdote sospeso «a divinis» dopo le battaglie per la terra agli indios, già dirigente dei Cristiani per il Socialismo, Omar insegna Pedagogia all'Università cattolica di Temuco. Nelle ore concitate che seguono la battaglia alla Moneda e il suicidio di Allende, i dettagli — e gli orrori — del regime non sono ancora nitidi. Fresia arriva in caserma, capisce che non si tratta di burocrazia, scappa. Non riesce a comunicare con Omar, che ha però intuito il pericolo e per due giorni si nasconde.
I comunicati radiofonici iniziano a cercarlo con maggiore insistenza, «vivo o morto». Finché il padre lo convince a consegnarsi. Italiano della provincia di Modena, pioniere della colonia di Capitan Pastene nel Sud del Cile, Roberto Venturelli è un uomo di destra, convinto della pericolosità del governo Allende e delle buone intenzioni di sicurezza e difesa della proprietà del nuovo regime. Ignaro dei metodi sanguinari, è lui stesso ad accompagnare il figlio in caserma. Non lo rivedrà mai più. Il 4 ottobre 1973 Podlech firma per Omar Venturelli l'Orden de Libertad n.52 con il quale si chiede il rilascio del professore. Una settimana dopo, un giovane militante di sinistra condotto in cella al passaggio in un corridoio sente la voce disperata di un uomo: «Mi chiamo Omar Venturelli, fate sapere che sto morendo». Desaparecido, come tremila altri.
Podlech in Cile ha esibito un documento che attesta la sua nomina a procuratore militare di Temuco solo nel marzo '74. E su questa carta in patria è stato scagionato. L'ordine 52, così come le testimonianza dei sopravvissuti — alcuni ascoltati anche a Roma dal pm Capaldo — indicherebbero invece che lui c'era da subito. Alla prigione sarebbe arrivato già la mattina dell'11 settembre, ore 8, per imporre il rilascio dei terroristi di destra di Patria y Libertad. Di lì si sarebbe installato nel carcere. «Era lui a dare l'ordine di torturare e spesso partecipava direttamente alle sessioni— racconta Fresia —. Testimoni dicono di averlo sentito chiamare i torturatori e, indicando i prigionieri, dire: "Ammorbiditeli un po', poi riportatemeli". Una ragazza, insegnante delle elementari, l'ha riconosciuto come l'uomo che le ha puntato una pistola alla tempia in una finta esecuzione».
Presente e attivo inquisitore, dunque, del carcere di Temuco e della caserma Tucapel, gli stessi luoghi dell'orrore per cui è passato proprio in quegli anni lo scrittore cileno Luis Sepúlveda. Per raccontare poi ne La frontiera scomparsa dei militari «che giravano la manovella del generatore elettrico», degli infermieri «che ci applicavano gli elettrodi all'ano, ai testicoli, alle gengive, alla lingua e poi ci auscultavano per decidere chi fingeva e chi era davvero svenuto sulla "griglia"».
L'ultimo capitolo di questa storia Fresia Cea vorrebbe adesso che a scriverlo fosse la giustizia italiana. «Il pm mi ha detto che spera di arrivare alla prima condanna già entro l'anno ». Appello a Napolitano: «Chieda alla presidente cilena Bachelet che si ricordi di noi vittime. Podlech a Madrid ha già ricevuto l'assistenza legale dello Stato. Anche io ne avrei avuto bisogno. Mi auguro che non finisca come Pinochet». Esattamente il precedente a cui guarda la difesa di Podlech, che ha già fatto richiesta di «immunità » sul modello dell'intricata vicenda che riportò l'ex dittatore da Londra a Santiago. Senza mai una condanna.
l’Unità 3.8.08
Casta. Rimborsi elettorali anche ai non eletti
ROMA L’onda lunga delle elezioni di aprile stravolge il budget dei partiti. Inattesi tracolli e grandi exploit segnano le tabelle dei rimborsi elettorali. Lega Nord e Italia dei Valori raddoppiano gli incassi. Quelli del Pd crescono più di quelli del Pdl. L’Udc limita i danni. E se l’Udeur di Mastella resta a quota zero, la Sinistra Arcobaleno si accontenta delle briciole: solo un quinto rispetto al 2006.
La torta da dividere sono i 100 milioni 618 mila 876 euro l’anno di rimborsi elettorali. Circa 503 milioni nell’intera legislatura. Alla ripartizione, deliberata questa settimana dagli uffici di presidenza dei due rami del Parlamento, partecipano tutti i partiti che hanno superato la soglia dell’1% alla Camera o il 5% in una Regione al Senato. Quattordici in tutto. Anche, quindi, alcune delle formazioni che non hanno eletto neanche un parlamentare (Sinistra Arcobaleno e La Destra, ad esempio). Qualcuno, come l’Udeur dell’ex ministro Clemente Mastella, non riceverà nessun rimborso per le politiche del 13 e 14 aprile. Ma continuerà, come altri 16 partiti, a incassare quelli maturati per le elezioni 2006. Una norma stabilisce infatti che prosegua «l’erogazione anche in caso di scioglimento delle Camere», fino a quello che avrebbe dovuto essere il termine naturale della legislatura, cioè il 2011. Per quest’anno, però, le somme stanziate sono state ridotte del 24,55%, tenendo conto di un taglio strutturale previsto dalla finanziaria 2007 e delle attuali disponibilità (il Tesoro al momento non ha accantonato l’intera somma). Dal 2002 i partiti hanno diritto a un euro per ogni voto ricevuto.
l’Unità 3.8.08
Stuprata una militare su tre, ma il Pentagono non vede
Shock al Congresso Usa, il 29% delle donne soldato subisce violenze e solo l’8% dei denunciati finisce davanti a una Corte
di ro.re.
New York. Uno shock per l’opinione pubblica e il Congresso i risultati di un’indagine condotta nel circuito della sanità militare Usa. Il 41% delle veterane curate nelle sue strutture risulta essere stata vittima di abusi sessuali. Il 29% delle donne denunciano di essere state stuprate durante il servizio militare. Jane Harman, deputata democratica della California, pensava di non aver capito bene. «Sono rimasta letteralmente a bocca aperta quando i medici mi hanno riferito queste cifre. Siamo davanti a una tragedia di proporzioni epidemiche. Oggi le donne arruolate nelle nostre Forze armate hanno molte più probabilità di essere violentate da un commilitone che di essere ammazzate dal fuoco nemico in Iraq». Le ultime statistiche del Pentagono indicano che sino al 24 luglio di quest’anno le donne perite nel conflitto iracheno sono 100 su un totale di oltre 4mila morti.
Salta fuori che su un totale di 2.212 denunce di violenza sessuale nel 2007, soltanto in 181 casi i responsabili sono stati deferiti alle Corti marziali. Si tratta dell’8% circa, contro il 40% dei casi che arriva nelle aule di giustizia nel mondo civile. I comandanti militari in altri 419 casi hanno imposto non meglio precisati «provvedimenti disciplinari». Una dizione che comprende tanto l’esonero quanto l’ammonimento verbale. Le cifre si riferiscono soltanto allo scorso anno. Un’analoga inchiesta, condotta dal General Account Office, l’organo del Congresso che svolge le funzioni della Corte dei conti in Italia, giunge a conclusioni ancora più allarmanti. Su 103 denunce di violenza sessuale raccolte dagli investigatori in 14 installazioni militari, 52 non erano state riportate nei canali della giustizia militare. Il fenomeno sarebbe quindi largamente sottostimato.
Il dottor Kaye Whintley massimo esperto del Pentagono in materia di abusi sessuali, citato in qualità di testimone davanti alla commissione d’inchiesta alla Camera, all’ultimo momento ha fatto sapere che non si sarebbe presentato. Ordini superiori giunti direttamente dal dipartimento alla Difesa. «Non so cosa stiano cercando di nascondere, ma non lo permetteremo. Questo comportamento è inaccettabile», è sbottato nel corso della seduta Henry Waxman, un altro deputato democratico. Al suo posto è stato mandato un ufficiale dell’Esercito, che ha letto una breve dichiarazione: «Il Pentagono prende estremamente sul serio le accuse che hanno per oggetto casi di violenza sessuale. Anche un singolo episodio rappresenta una violazione dei valori fondamentali per un soldato».
La commissione ha quindi ascoltato la deposizione di Mary Lauterbach, la madre di Maria, caporale dei Marine, uccisa nel dicembre scorso da un altro Marine che già l’aveva stuprata e messa incinta. La ragazza aveva vent’anni. «Mia figlia sarebbe ancora viva se il comando militare avesse preso sul serio le sue denunce». Per mesi invece i superiori hanno cercato di convincerla a lasciar perdere. Sinché lo stupratore l’ha messa a tacere per sempre.
l’Unità 3.8.08
Via all’appuntamento di Cortona con l’attore Usa che leggerà brani da Eliot e Poe in un recital in coppia con Gabriele Lavia
E Robert Redford sceglie la poesia per il «Tuscan Sun Festival»
di Elisabetta Torselli
Cortona (Ar). Robert Redford era la stella, ieri a Cortona, della presentazione dell’edizione 2008, la sesta, del Tuscan Sun Festival (dal 2 al 10 agosto). Il sempre affascinante attore e regista americano ha ovviamente calamitato su di sé la maggior parte delle domande, e ha risposto con garbo: certo che ama l’Italia, la Toscana è bellissima, del resto negli anni Cinquanta aveva studiato pittura a Firenze, è qui per leggere poesie di Eliot, Cummings e Edgar Allan Poe nel recital di poesia che divide a metà con Gabriele Lavia che invece leggerà Leopardi (l’8 agosto al teatro Signorelli, sede di quasi tutte le manifestazioni al chiuso), ma anche per accompagnare la moglie, la pittrice Sybille Szaggars, la cui personale si inaugurava appunto ieri. Ma Redford non ha davvero tolto la scena agli altri protagonisti del festival cortonese fondato dal suo amico Barrett Wissman, il presidente dell’IMG, agenzia leader nel management culturale che rappresenta molti degli artisti di questo festival, artisti emergenti come Danielle de Niese, soprano avvenente e lanciatissimo, protagonista con il giovane basso Vito Priante e con l’Orchestra Barocca di Venezia diretta da Andrea Marcon di un bel concerto haendeliano (oggi). Ricordiamo anche l’estrosa pianista venezuelana Gabriela Montero, che condisce i suoi concerti con strepitose improvvisazioni in stile jazz su temi musicali classici (suonerà Beethoven il 5 al Teatro Signorelli con l’orchestra del Festival di Verbier e un direttore importante, amico del festival, Antonio Pappano), artisti celebri già da molti anni come il violinista Joshua Bell (il 9 sempre al Signorelli con la giovane violoncellista Natasha Paremski e l’Orchestra da Camera di Mantova, e di nuovo il 10 per il concerto di chiusura). E Wissman ha anche un altro asso da calare: José Cura, che partecipa al Tuscan Sun Festival 2008 con un recital (il 4 agosto), con un gala operistico in compagnia del soprano Ana Maria Martinez (il 7 agosto), ma anche con la mostra fotografica Espontaneos, che illustra questa passione di sempre del celebre tenore argentino. Certo, è un festival diversissimo dagli altri festival italiani. Per certi aspetti è una vetrina dei «gioielli dell’IMG», senza ambizioni tematiche o di riscoperte o di progettazione culturale, ma, sembrerebbe, in uno spirito amichevole e di scambio reciproco fra artisti e pubblico, all’insegna di un’interdisciplinarietà abbastanza cordiale e vacanziera da prevedere anche stage di cucina, lezioni di yoga, naturalmente degustazioni di vini e formaggi... In ogni caso questo singolare (per l’Italia almeno) imprenditore della cultura sembra sinceramente affezionato alla sua creatura, e il sindaco di Cortona, Andrea Vignini, si dice disposto a scommettere che se il Tuscan Sun Festival (sostenuto dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione, quest’anno per ca. 120.000 euro, ma non dal Ministero) ricevesse dalla mano pubblica quanto hanno a disposizione altri festiva italiani, forse Wissman sarebbe capace di fare una seconda Salisburgo. Chissà?
l’Unità 3.8.08
Una serata in memoria di Basaglia al Lagunamovies di Grado
Una serata nel segno di Basaglia (stasera, ore 21) a Grado, nell’ambito della rassegna «Lagunamovies 2008» giunta quest’anno alla sua quinta edizione. Titolo dell’appuntamento, «Un due trenta, liberi tutti», nel corso del quale si potranno vedere i preziosi filmati della cineteca del dipartimento di salute mentale di Trieste, per celebrare i trent’anni di riforma Basaglia. Sull’isola di Anfora – Porto Buso, a circa un’ora di navigazione da Grado, la serata si propone di ripercorrere la coraggiosa avventura di Franco Basaglia insieme a Massimo Cirri, ideatore e conduttore di Caterpillar-Radio2, Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, coordfinati dal nostro Toni Jop. In proiezione alcuni video storici dagli «archivi della de-istituzionalizzazione», il patrimonio di fotografie, video e materiali che hanno documentato la vita dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste. Come Marco Cavallo, un video a cura di Geri Pozzar, che documenta la costruzione e l’uscita del cavallo Marco dall’allora ospedale psichiatrico di San Giovanni, nel 1973, commentata da Peppe Dell’Acqua e Giuliano Scabia. E come la produzione Rai, X DAY i grandi della Scienza del Novecento: Franco Basaglia (2002), per la regia di Enrico Agapito, su testi di Maria Grazia Giannichedda, che prende avvio dal primo Congresso di Psichiatria Sociale di Londra del 1964, in cui Franco Basaglia manifestò al mondo scientifico l’urgenza della distruzione dell’ospedale psichiatrico.
l’Unità Roma 3.8.08
L’energia zigana della Kocani
Con l’orchestra macedone tornano a Villa Ada i ritmi e le melodie dei Balcani
di Luca Del Fra
TZIGANI A partire dall’anno Mille dall’India centro settentrionale si spostarono verso l’Europa alcune popolazioni poi denominate zingari, zigani, o per usare un etnonimo, rom: giunto in Asia minore, alle porte del Vecchio continente, il percorso da queste
intrapreso si biforcò, da una parte verso l’Africa settentrionale e poi la penisola iberica, dall’altra seguendo i Balcani verso l’Europa centrale. Le tracce culturali lasciate da queste popolazioni sono piuttosto evidenti soprattutto nella musica: in Spagna nello spirito del flamenco e del «cante jondo», nell’Europa dell’Est in una scuola violinistica folclorica che ha però anche influenzato la musica colta. Tuttavia nei Balcani, in particolare tra Macedonia e Serbia, gli tzigani hanno sviluppato uno stile che si caratterizza invece per la presenza degli strumenti a fiato.
È da questo ceppo che si è sviluppata la Kocani Orchestra, che prende nome proprio dal piccolo villaggio, oggi nella Macedonia settentrionale, dove ha avuto origine e di quell’area geografica ripropone attraverso una profonda elaborazione i temi e i ritmi popolari. In questo senso il suo arrivo stasera a Villa Ada, a Roma incontra il Mondo risponde allo spirito della rassegna, e alla particolarità del luogo dove si tiene. Quella che propone la Kocani è, infatti, una musica da una prepotente ebbrezza ritmica, che trae origine spesso da ritmi usati nelle danze tradizionali femminili, chiamate «cocek», oppure in quelle collettive denominate «oro». Formule ritmiche che affondano le loro radici nella notte dei tempi probabilmente, che la Kocani non ripropone in senso “filologico”, ma le tratta invece come fossero materia viva, sfidandone la tenuta sul terreno sconnesso della contemporaneità.
Di qui la commistione, anche disinvolta e talvolta addirittura volutamente esilarante, con sapori musicali orientali e perfino latino americani, in direzione di un puzzle musicale dai tratti poco ortodossi e magari un po’ surreale.
www.villaada.org 06 41734712 22.00 Ingresso 8
Corriere della Sera 3.8.08
La spiegazione del «ritocco»: turbava i telespettatori
E Palazzo Chigi «velò» il seno alla Verità svelata del Tiepolo
ROMA — Le donne, a Palazzo Chigi, preferiscono vederle vestite. E non importa se quella che esibisce un seno — piccolo, tondo, pallido — se ne sta su una copia del celebre dipinto di Giamb attista Tiepolo (1696-1770): «La Verità svelata dal Tempo ». Il dipinto, che Silvio Berlusconi aveva scelto come nuovo sfondo per la sala delle conferenze stampa, viene ritoccato. È successo.
La testimonianza fotografica è inequivocabile.
Prima si scorge un capezzolo. Poi il capezzolo sparisce. Coperto, si suppone, con due colpetti di pennello.
La notizia è battuta dall'agenzia Italia alle 17,22. Un'ora dopo, Vittorio Sgarbi, critico d'arte di antica osservanza berlusconiana, ha la voce che quasi gli trema. «Cos'hanno fatto? Ma davvero?». Un ritocchino, professore. «Pazzi, sono dei pazzi...». Ci vuole un bel coraggio, in effetti, a mettere le mani su un Tiepolo, sia pure in crosta. «E allora cosa dovrebbero fare con tutte quelle statue di donna sparse in decine di musei italiani dove spesso si ammirano seni da far restare senza fiato pure Pamela Anderson? ». L'arte, evidentemente, spaventa. «Oh... io spero davvero che la decisione di questo assurdo, folle, patetico, comico, inutile ritocchino sia stata presa all'insaputa del Cavaliere. Tanto più che se volevano fargli un piacere, cercando di non far associare agli italiani una tetta alla sua immagine di uomo, come dire? incline al fascino femminile, sono riusciti invece nel-l'esatto contrario. Ma si sa, almeno, chi è il responsabile di questa cretinata?».
Non s'è capito subito, in verità. Poi il sottosegretario alla Presidenza Paolo Bonaiuti ha fatto personalmente qualche telefonatina.
«E allora, beh, direi che è andata molto semplicemente: diciamo che è stata un'iniziativa di coloro che, nello staff presidenziale, provvedono al la cura dell'immagine di Berlusconi ». Bonaiuti, scusi: ma cosa li avrebbe turbati tanto? «Beh... sì, insomma: quel seno, quel capezzoluccio... Se ci fate caso, finisce esattamente dentro le inquadrature che i tg fanno in occasione delle conferenze stampa». E quindi? «E quindi hanno temuto che tale visione potesse urtare la suscettibilità di qualche telespettatore. Tutto qui».
C'è da dire che in occasione delle prime inquadrature ormai risalenti alla conferenza stampa del 20 maggio scorso (con il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia perfettamente centrata sotto la femminile Verità ancora scoperta) al centralino di Palazzo Chigi non risultano essere giunte particolari proteste da parte della cittadinanza italiana. Nè preoccupazioni per eventuali turbamenti vennero comunque al Cavaliere e al suo architetto di fiducia, che lo aiutò nella scelta del celebre dipinto: Mario Catalano, forse non casualmente già scenografo del memorabile programma di spogliarello televisivo «Colpo Grosso», condotto da Umberto Smaila su Italia 7 dal 1987 al 1991, con le ragazze, chiamate «mascherine», che — appunto — si facevano volar via il reggiseno cantando «
Corriere della Sera 3.8.08
La scommessa dei giochi olimpici
La guerra della Cina alla natura
di Niall Ferguson
A meno di un miracolo meteorologico, quella di Pechino sarà l'aria più inquinata mai respirata dagli atleti olimpici
Alla vigilia dei Giochi Olimpici, che verranno inaugurati a giorni a Pechino, la Cina si presenta al mondo come un wok sfrigolante di aiguozhuyi (orgoglio nazionale), nelle parole dello scrittore cinese Liu Xiaobo. C'è da chiedersi però fino a che punto il governo cinese può permettersi di surriscaldare i sentimenti popolari. Dovunque si vada, è difficile sfuggire allo slogan ufficiale di Pechino 2008: «Un sogno per il mondo». Le cinque simpatiche mascotte olimpiche, note come Fuwa, sono altrettanto onnipresenti e cinguettano da schermi grandi e piccoli, dal terminale dello splendido e nuovissimo aeroporto internazionale della capitale fino al più modesto vagone ferroviario di qualche linea secondaria.
La Cina non è il primo regime non democratico intento a sfruttare le Olimpiadi per rafforzare il proprio prestigio internazionale da un lato e la legittimità interna dall'altro. Ma raramente sport e propaganda sono stati aggiogati assieme su così vasta scala. I leader comunisti cinesi non fanno segreto del fatto che ai loro occhi il successo olimpico è il simbolo perfetto della «pacifica ascesa» del loro Paese. Anche se gli atleti cinesi non ce la faranno a battere i colleghi americani nel record di medaglie conquistate (sono arrivati secondi ad Atene quattro anni fa, con quaranta medaglie in meno rispetto agli Usa), il governo cinese uscirà comunque vincitore se lo sfarzoso spettacolo olimpico verrà riconosciuto come un grande successo organizzativo.
A prima vista, è difficile negarlo. I grandi progetti architettonici necessari per ospitare i Giochi Olimpici sono esattamente quello che il regime sa fare meglio. Coloro che frequentano spesso Pechino avranno notato che nel corso dell'ultimo anno la città ha subito profondi rimaneggiamenti, con la costruzione di circa mezzo miliardo di metri quadrati di superficie calpestabile, tra cui 110 alberghi. Come l'aeroporto rinnovato, l'impressionante nuovo stadio nazionale — dove verranno ufficialmente inaugurate le Olimpiadi alle 8.08 di sera dell'8 agosto — le meraviglie architettoniche rappresentano il nuovo ruolo di superpotenza economica della Cina. Questo, dopo tutto, è il Paese che oggi conta tre delle più grandi imprese al mondo nell'Ft Global 500 (PetroChina, China Mobile and Industrial e la Commercial Bank of China). Questa è l'economia che, secondo la Fondazione Carnegie per la pace internazionale, supererà il Pil degli Stati Uniti nel 2035.
Eppure, dietro lo smalto ufficiale di tanto ottimismo, la Cina oggi tradisce segni di insicurezza, qualche tentennamento che spiega il clima arroventato in cui si crogiola il nazionalismo cinese. Si avverte in Cina un'ipersensibilità per le critiche internazionali rivolte al regime per il sostegno offerto al governo del Sudan, malgrado la crisi del Darfur; per la repressione contro i separatisti del Tibet e per la palese indifferenza verso la sorte di popolazioni oppresse, in Birmania e in Zimbabwe. Si percepisce inoltre una crescente ansietà riguardo la sostenibilità del miracolo economico cinese, che oggi si avvicina al trentesimo anniversario. Il mercato azionario è sceso del 56 per cento negli ultimi nove mesi. Il denaro «caldo» delle speculazioni, che si riversa in Cina nell'attesa di un nuovo apprezzamento valutario, va a sommarsi alle già gravi pressioni inflazionistiche. I controlli del capitale non sono impermeabili e il controllo dei prezzi non riesce più a camuffare gli aumenti globali verificatisi nella spesa alimentare ed energetica.
Le tensioni economiche accentuano i molteplici problemi sociali della Cina: la forbice della disuguaglianza dei redditi, che si allarga a dismisura; l'estrema povertà, che persiste nelle zone rurali del Paese; e infine lo squilibrio demografico, innescato dalla politica del figlio unico tramite l'aborto selettivo dei feti femminili. Nel frattempo, le conseguenze ambientali dell'industrializzazione spinta della Cina gettano una nube oscura — letteralmente — sulle imminenti Olimpiadi. A meno che non si verifichi un miracolo meteorologico, quella della capitale sarà l'aria più inquinata mai respirata dagli atleti olimpici. Per stimolare il miracolo, le autorità hanno fatto ricorso a particelle chimiche, sparate in aria da batterie antiaeree, che dovrebbero provocare la pioggia.
Ed ecco un altro simbolo, meno positivo, della Cina moderna: un regime in conflitto aperto con la natura. Una settimana dopo il terremoto nel Sichuan del 12 maggio, quando tutta la nazione si fermò per osservare tre minuti di silenzio, c'era qualcosa di assai familiare nello stato d'animo di Pechino e che avevo già provato in passato: qualcosa che riguardava il senso di unità nazionale, rafforzato dalla copertura televisiva, 24 ore al giorno, sette giorni su sette, delle operazioni di soccorso. Nella capitale regnava un'atmosfera assai simile a quella di New York dopo l'11 settembre, tranne che la responsabilità per la catastrofe nel Sichuan non poteva essere imputata né a un'organizzazione terroristica né a un regime canaglia. I soli colpevoli erano quegli imprenditori criminali e quei politici corrotti che avevano consentito la costruzione di scuole senza rispettare le normative di sicurezza ed è stato proprio il crollo di questi edifici a causare il maggior numero di vittime. I media ufficiali si sono affrettati, si capisce, a insabbiare le rivelazioni che rischiavano di indebolire il consenso popolare verso il partito. Le cronache giornalistiche sono state ben presto dirottate verso i «laghi del terremoto» — altro bersaglio naturale su cui puntare i cannoni dell' Esercito popolare di liberazione.
Proprio come gli americani hanno sferrato la loro guerra al terrore dopo l'11 settembre, oggi i cinesi sembrano impegnati a combattere la natura. Per afferrare quello che è in ballo in questa strana guerra, vale la pena allontanarsi dalla capitale, anzi, da tutta la regione orientale della Cina (...).
E la democrazia? Tre anni fa, nel suo discorso al 17˚Congresso nazionale del partito comunista, il presidente cinese Hu Jintao menzionò la parola «democrazia» 61 volte, tanto che alcuni commentatori ipotizzarono l'avvio di una qualche liberalizzazione politica. Forse il più potente agente del mutamento politico, però, sarà Internet.
Negli ultimi anni, la rete mondiale ha invaso la Cina. Dopo un incremento del 50 per cento nel 2007, oggi si contano circa 210 milioni di utenti Internet in Cina, alla pari con l'America. Via via che i telefoni cellulari si interfacciano con Internet, il tasso di crescita potrebbe aumentare ancora. Gli effetti ricordano l'impatto dell'invenzione della stampa nell'Europa centrale del secolo XVI, perché da qui parte una sfida senza precedenti al monopolio del partito comunista cinese sulle comunicazioni. Per la stragrande maggioranza, com'era da aspettarsi, sono i giovani i principali utenti online, di cui circa il 70 per cento ha meno di 30 anni. Ancor più sorprendente risulta il dato che i web surfer cinesi sono molto più disposti, in confronto alla controparte occidentale, ad abbandonare le fonti tradizionali di informazione a favore di Internet: per l'85 per cento degli utenti cinesi è Internet la principale fonte di informazione. Come in Occidente, inoltre, Internet funge anche da veicolo di espressione personale: già il 52 per cento di tutti i blog sono in lingue asiatiche e il mandarino si prepara a scavalcare il giapponese.
Certo, il regime si sforza in tutti i modi di tenere sotto controllo l'uso di Internet tra i suoi cittadini. Tutto il traffico web è incanalato nel cosiddetto «grande firewall cinese», con migliaia di funzionari che controllano gli Url fuorilegge. Eppure, l'idea di uno Stato totalitario in grado di controllare Internet appare quantomeno assurda. Ricorrendo a proxy server, software di criptaggio e altri strumenti, la nuova generazione di informatici cinesi riesce a mantenersi un passo avanti rispetto alla censura.
La questione cruciale è fino a che punto le autorità devono temere un'ondata di dissenso come conseguenza della passione dei giovani per Internet. L'analogia con la stampa ci induce a immaginare una sorta di Riforma cinese, ovvero una sfida al potere immobile dello Stato paragonabile a quella lanciata da Martin Lutero al papato medievale, una sfida che non sarebbe certo stata altrettanto rivoluzionaria senza il supporto della diffusione delle informazioni per mezzo della tipografia. E' vero inoltre che le critiche verso i funzionari locali del partito o la loro politica vengono trasmesse per lo più orizzontalmente, tramite e-mail e (più comunemente) via sms. Ma le nuove forme di comunicazione elettronica potrebbero facilmente fungere anche da canali per il rafforzamento del nazionalismo popolare, oltre che per il dissenso politico. «Non abbiamo nulla da temere » recita un video diffuso in Internet subito dopo i tumulti nel Tibet, con toni assai accesi e risentiti nei confronti dei media occidentali. Con le sue immagini ultranazionaliste, la musica squillante e l'arroganza degli slogan - «La sovranità cinese è sacra e inviolabile»; «Abbiamo l'obbligo di proteggere la prosperità e la stabilità della nazione »; «Non accettiamo provocazioni!» — esso cattura perfettamente il matrimonio tra il nazionalismo cinese e YouTube.
Alla vigilia dei Giochi olimpici, c'è davvero qualcosa che richiama l'immagine di un wok fumante nell'atmosfera che si respira in Cina. Ma sono i siti web più frequentati, dove ribolle il nazionalismo di una nuova generazione di cinesi, a suscitare sconcerto nel resto del mondo.
© The Financial Times Limited 2008 Traduzione di Rita Baldassarre
Corriere della Sera 3.8.08
Monaco: 186 fra olii, disegni, ceramiche e libri illustrati al Nuovo museo nazionale
Van Dongen la ritrae e Picasso la schiaffeggia
La «belle Fernande» aveva posato nuda per l'artista olandese
di Sebastiano Grasso
Ci sono ben sei ritratti di Fernande Olivier, dipinti nel biennio 1906-1907, nella retrospettiva che Monaco dedica a Kees van Dongen (1877-1968). Due la mostrano mezza nuda. In quel periodo, la donna ( La belle) era l'amante di Picasso che ne era geloso in maniera quasi morbosa. Tant'è che, vedendo quello in cui Kees l'aveva dipinta col seno nudo e il gomito appoggiato al tavolino, davanti ad un bicchiere d'assenzio, l'aveva presa a sberle. Allora, a Parigi, tutt'e tre abitavano al Bateau- Lavoir. Picasso aveva conosciuto Fernande da poco, se n'era invaghito e l'aveva portata nel suo studio-abitazione, ma la donna era scappata: troppa confusione, ma soprattutto troppa sporcizia. Così il pittore spagnolo s'era tirato dietro Apollinaire perché l'aiutasse a pulire. Dopo, anche lei s'era innamorata del rozzo Pablo, che, fra l'altro, la inondava di profumi forti. Così, quando andava a trovarlo, gli amici che ne captavano l'odore, dicevano «Madame Picasso è da queste parti».
La rassegna di Monaco, dedicata a Van Dongen — 186 fra olii (130), disegni, ceramiche e libri illustrati — è la più grande dopo quelle di Parigi (1990) e Martigny (2002). Una conferma — o una riscoperta, se ce ne fosse bisogno — di un artista fra i più interessanti del XX secolo, soprattutto alla luce di studi e scoperte recenti.
Curata da Jean-Michel Bouhours e Nathalie Bondil, è divisa in tredici sezioni. Si comincia, naturalmente, dalle opere giovanili (1895-1901) — le prime prove olandesi (con un occhio a Rembrandt e ad altri pittori del '600) e quelle successive al suo arrivo a Parigi (luglio 1897) — disegni e caricature per la Revue illustrée, La revue blanche, L'Assiette au beurre, illustrazioni di libri, ritratti, scene di vita borghese, ecc. Vita dura, all'inizio. E così, questo olandese con la barba lunga rossiccia, imponente come Braque, fa quello che gli capita: strillone, lottatore da fiera, fattorino, imbianchino.
Se i primi nudi dipinti in Olanda avevano un aspetto «domestico», adesso Kees cerca le sue modelle nei bordelli e per le strade: prostitute, bottegaie, cabarettiste, acrobate. L'eclettismo giovanile lascia il posto ad una tavolozza dai colori accesi. Le sue donne hanno occhi così grandi e labbra così rosso-fuoco che qualcuno lo accusa di confondere i colori col trucco delle modelle.
In realtà, sul piano artistico — a parte i rapporti coi fauves ed alcuni espressionisti tedeschi — Kees se ne sta lontano da gruppi e correnti. Viene accostato a Degas e a Toulouse-Lautrec? Solo per i temi. Poi, negli anni Venti, il «salto», grazie soprattutto a due nuove amanti — Jasmy Jacob, direttrice commerciale di grandi case di moda e la marchesa Luisa Casati — e a Félix Fénelon, il critico più importante del momento. Van Dongen diventa il ritrattista del «bel mondo»: politici e cortigiane, letterati e attrici, ambasciatori stranieri e cantanti liriche, galleristi e finanzieri. La borghesia si mette in posa. Ritrae le donne non come sono, ma come vorrebbero essere; le rende desiderabili, irresistibili. La sua tavolozza coglie i patiti dell'Opera, le boutique della moda, I cambiamenti toccano, incredibilmente, anche le sue abitudini alimentari. La moglie Guus era vegetariana e dai Van Dongen si mangiano solo spinaci. Una volta che l'artista si separa dalla donna, va a mangiare al ristorante. E sulla porta di quello dov'è cliente abituale, appare il cartello: «Dove si può vedere Van Dongen mettere il cibo in bocca, masticarlo, digerirlo e fumare? Da Jordan ristoratore, 10 rue des Bons-Enfants ».
L'ascesa dell'artista supera il ventennio, sino a quando, nel 1941, accetta l'invito di Arno Breker, scultore ufficiale del III Reich, di recarsi in Germania. Un viaggio che i francesi non gli perdonano. Risultato: boicottaggio totale. Tant'è che, lasciata Parigi, va in Bretagna e da lì, nel 47, a Monaco. Su di lui cade un silenzio di decenni. Sino alla «riscoperta» postuma. Ma passeranno almeno trent'anni.
Nell’immagine Fernande Olivier ritratta da Kees Van Dongen
Monaco, Nuovo museo nazionale, sino al 10 settembre. Tel. +377/98981962
Corriere della Sera 3.8.08
Rimini: a Castel Sismondo «La rinascita dell'antico nell'arte italiana»
E un sepolcro diventa simbolo
di Flaminio Gualdoni
Federico II, imperatore e re, era detto «meraviglia del mondo ». Non era la solita piaggeria. Il nipote del Barbarossa è il monarca che fa rinascere in Italia, nel '200, il culto per le immagini antiche, per una classicità che deve legare strettamente ai fasti della Roma antica quelli della cultura nuova di cui egli è protagonista. Ci sono opere del passato che vengono reimpiegate in contesti moderni, oppure che scultori come Nicola e Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio reinventano nel linguaggio espressivo da cui nasce l'arte italiana, proprio come dal latino sgorga il volgare che Dante rende lingua autonoma e autorevole.
Il progetto della mostra riminese è questo, e il titolo Exempla suggerisce il senso di tale nitida continuità: l'antico come esempio per la cultura nuova vagheggiata da Federico, e questa stessa cultura come esempio per ciò che, di lì a poco, sarà la rivoluzione che da Giotto porta al Rinascimento. È una mostra difficile, severa, che si fa apprezzare proprio perché rinuncia al solito stucchevole clima d'intrattenimento turistico e vuole davvero far comprendere un passaggio cruciale della storia dell'arte.
Detto questo, i capolavori non mancano affatto, fra le circa 90 opere esposte. La gemma incisa «all'antica» con Poseidon e Anfitrite già posseduta da Lorenzo de' Medici si affianca a codici miniati leggendari come il De arte venandi cum avibus, il trattato che illustra la passione di Federico per la falconeria, e il De balneis puteolanis, esempio precoce di cure termali a Pozzuoli.
La rara cassetta-reliquiario di Sant'Elena, in legno di sandalo dipinto in rosso e oro, fa il paio con il rilievo marmoreo di Nicola e Giovanni Pisano che raffigura Rea Silvia e Romolo e Remo, proveniente dalla Fontana Maggiore di Perugia.
La lastra marmorea di Arnolfo di Cambio con una processione funebre, dal sepolcro Annibaldi, è per molti versi un simbolo della mostra: cinque figure a rilievo altissimo su un fondo ornato da mosaici dorati si susseguono in pose diverse, citando quasi testualmente i bassorilievi romani con scene di processione ma contemporaneamente non sottomettendosi a quel modello, bensì riprendendolo e facendone cosa nuova. Il clima di rinnovamento è rappresentato d'altronde anche da una bellissima Testa di Cristo dipinta da Pietro Cavallini, che idealmente chiude il '200.
EXEMPLA. LA RINASCITA DELL'ANTICO NELL'ARTE ITALIANA
Rimini, Castel Sismondo, sino al 7 settembre. Tel. 0541/783100
Repubblica 3.8.08
Disegni e racconti porno il volto segreto di Kafka
di c. nad.
LONDRA - I critici letterari si aspettano nuove rivelazioni sull´opera di Kafka dalle carte di Max Brod, l´amico e biografo dell´autore de "Le metamorfosi". Ma il segreto piccante, che può dare nuova luce alla personalità dell´autore ceco, non è a Tel Aviv nei documenti custoditi dall´erede di Brod, Hava Hoffe. Da sempre, invece, è sotto gli occhi di tutti, nelle numerose copie fatte dei diari di Kafka. Lo scrittore geniale, problematico e complesso aveva un debole da uomo comune: collezionava materiale pornografico e ogni tanto non disdegnava di aggiungervi qualcosa di suo. Nel libro che uscirà in Gran Bretagna il 7 agosto, "Excavating Kafka", pubblicato da Quercus, il romanziere James Hawes racconta come nei diari dello scrittore praghese, da tempo consultabili dagli studiosi anche nella British Library, si parli di una raccolta di materiale pornografico curata dallo stesso Kafka. Lo scrittore si faceva mandare da Franz Blei, il suo primo editore nel 1908, disegni e racconti che sono, come dice Hawes al Times «senza dubbio pura e semplice pornografia, con venature molto inquietanti, talvolta decisamente sgradevole».
Questa sua raccolta osè Kafka la teneva ben custodita a casa dei genitori, in una libreria con serratura, e portava con sé la chiave quando andava in vacanza. «C´è una nota nella prima biografia, scritta proprio da Brod, che rivela a chi sa leggerla proprio il nascondiglio della raccolta - dice Hawes in un intervento sul Guardian - e se nessuno ci ha lavorato sopra è perché non ha voluto farlo». Il libro di Hawes, che su Kafka ha preparato una tesi di dottorato e ha passato dieci anni a rovistare fra le raccolte di carte dello scrittore, non è solo una nuova lettura dell´opera dell´autore de "Il castello", ma una critica al modo in cui gli studiosi affrontano i loro miti letterari.
«Sembra proprio che l´industria che ruota intorno a Kafka non voglia sapere alcune cose del suo idolo - dice Hawes - il che significa che gli studiosi, quelli che hanno accesso più facilmente ai documenti, non vogliono che i lettori conoscano tutto». Hawes non rivela nulla di più del «materiale pornografico inquietante», cosa che gli assicura una buona vendita del libro tra cinque giorni. E convinto però che «ammettere la verità sul lato porno di Kafka rivelerà anche la verità sulla sua intera opera» e «si vedrà Kafka nella sua autentica prospettiva e non quella tramandataci dagli esistenzialisti francesi».
sabato 2 agosto 2008
l’Unità 2.8.08
Editoria, la solita «filosofia»: guai ai poveri, potenti intoccabili
La manovra azzera i fondi diretti a giornali di partito e cooperative. Ma non tocca un euro ai grandi gruppi editoriali
di Massimo Palladino
«Il taglio di 357 milioni del fondo per l’editoria, previsto nel prossimo triennio, andrà a debilitare ulteriormente realtà che già versano in una difficile situazione economica». Giovanna Melandri, ministro delle Comunicazioni nel governo ombra del Partito Democratico, boccia il provvedimento che riguarda l’editoria contenuto nella manovra triennale estiva. «Di fatto - continua la parlamentare democratica - è stata avviata la cancellazione del pluralismo culturale e politico della carta stampata italiana». Letta così, il dispositivo dell’articolo 44 contenuto nella manovra - titolo, «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi all'editoria» - ha ben poco di rassicurante. Sotto la mannaia del ministro Giulio Tremonti rischierebbero un ammanco di fondi importanti giornali di partito, ma anche quotidiani come «Avvenire» o «Manifesto» e giornali a tiratura locale. In gioco il pluralismo dell’informazione, ma anche posti di lavoro. Per non dire delle enormi difficoltà che le cooperative editoriali dovranno affrontare per far quadrare i già sofferenti bilanci e farsi anticipare i contributi dalle banche.
Tanto per dare un’idea: nel 2008 il fabbisogno per l’informazione si aggirerebbe sui 590 milioni di euro, di cui 190 per i contributi diretti e 300 per quelli indiretti (agevolazioni fiscali, spese per elettricità etc.). Il precedente governo aveva previsto un fondo di 400 milioni, prontamente decurtato dall’intervento del ministro Tremonti che avrebbe tagliato circa 87 milioni di euro per l’anno corrente. Ma la vicenda, e questo è il paradosso, non riguarda i grandi gruppi editoriali. Verrebbero infatti colpiti i fondi diretti, ma non i 300 milioni di euro di contributi indiretti che sono ad appannaggio proprio dei gruppi editoriali che possono far leva anche sulla raccolta pubblicitaria. Oltre il danno, la beffa.
A chiedere un ripensamento della manovra sull’editoria è anche il presidente dell’ Associazione generale delle cooperative italiane (Agci), Rosario Altieri, che denuncia il dimezzamento delle risorse da 414 milioni a 200 milioni annui entro il 2011: «È inaccettabile la comunicazione parziale e fuorviante che viene fornita in proposito. In gioco - ha dichiarato Altieri - non ci sono solo i giornali di partito ma la totalità dell’editoria cooperativa e no profit». Il riferimento è alle testate locali, principale veicolo di comunicazione in molte realtà regionali. Una politica fatta di tagli secondo Altieri è «in aperta contraddizione con gli indirizzi del governo, che nel federalismo e quindi nel rafforzamento delle autonomie locali ha uno dei suoi assi programmatici».
Duro infine il giudizio di Giuseppe Giulietti, portavoce dell’associazione Articolo 21 e deputato di Italia dei Valori: «Quanto è accaduto in queste ore, non è accettabile. Restiamo convinti che si possa e si debba fare una riforma dell’ editoria fondata sul più ampio e positivo dialogo tra il governo e l’opposizione».
l’Unità 2.8.08
Piero Sansonetti. Direttore di «Liberazione»
Temo la scomparsa della sinistra italiana
«Con questi tagli, il governo mette in gioco anche gli equilibri politici».
Piero Sansonetti direttore di Liberazione, organo di Rifondazione Comunista, è drastico anche se in realtà spera che fino alla fine possano intervenire dei cambiamenti. Il dispositivo dell’ articolo 44 messo a punto dal ministro Giulio Tremonti, secondo il direttore di Liberazione, andrebbe a tagliare i contributi ai giornali, ma alla lunga inciderebbe anche sullo stato della democrazia del Paese.
Secondo quanto sostiene, il rischio chiusura per l’informazione partitica o edita da cooperative, avrebbe conseguenze anche sul clima politico.
«L’eventuale chiusura di Liberazione, ma anche del manifesto, dovrà essere letta come la scomparsa della sinistra politica italiana già esclusa dal Parlamento dopo il voto di aprile. Poi, come già detto da altri commentatori, in generale c’è in gioco la libertà di stampa. I giornali di informazione partitica influenzano infatti, più di quanto si possa pensare, l’informazione».
Cosa pensa della proposta della direttrice del Secolod’Italia? Lei ipotizza una tutela speciale ai giornali davvero di partito, come Liberazione, Secolo, Padania, Unità, Europa.
«Mi trova d’accordo, ma aggiungerei anche il manifesto, un giornale politico anche se non ha un partito alle spalle».
E Avvenire?
«No, Avvenire no».
Ipotizziamo che in autunno nulla sarà cambiato. Cosa direte ai lettori ?
«Intanto lavoriamo per far cambiare le misure previste in questa manovra. Detto questo, per settembre, abbiamo in cantiere una serie di iniziative, ma credo sia presto per parlarne».
m. p.
l’Unità 2.8.08
Gabriele Polo. Direttore de «il manifesto»
Qui è in gioco la libertà non solo il nostro futuro
Una foto nera e un titolo eloquente Ci vogliono chiudere. Così il manifesto in edicola ieri. Il direttore Gabriele Polo parla di un «diritto condizionato agli stanziamenti che di anno in anno verranno erogati», di un manifesto che comunque sarà sempre in edicola e di un’iniziativa pubblica per settembre.
Il quotidiano da tempo convive con crisi finanziarie e rischi chiusura. Questa volta come lo spega ai lettori?
«Proprio perché veniamo da una storia sofferta, troveremo il modo di salvarci. Siamo abituati a stipendi pagati con ritardo, al coinvolgimento fattivo di chi ci legge che in passato ha sottoscritto campagne di autofinanziamento e di sostegno. L’allarme però riguarda, è vero la stampa politica, ma anche i giornali locali, ricchezza autentica per il pluralismo dell’informazione. A leggere bene c’è una sottile linea di fondo che unisce questa misura con gli altri provvedimenti antidemocratici del governo».
Non può negare però che sempre in nome della libertà di informazione, siano stati sperperati soldi pubblici.
«È vero, ma la normativa sulla stampa cooperativa, parla proprio di un “bene comune” per la collettività. Quindi a prescindere dai bilanci, un bene meritevole di tutela che non può essere condizionato da equilibri contabili».
E intanto i grandi gruppi editoriali continueranno a usufruire dei finanziamenti indiretti esclusi dai tagli.
«Proprio così. Sarebbe meglio introdurre strumenti di verifica, il monitaraggio tra copie stampate e vendute. Mentre un certo tipo di stampa è a rischio chiusura, i grandi gruppi editoriali continueranno a privatizzare gli utili e collettivizzare le perdite. Insomma, si è scelto di tagliare i contributi diretti, invece che intervenire sugli sperperi».
E se le cose non venissero modificate?
«Abbiamo in cantiere una manifestazione pubblica, di massa sulla democrazia. E naturalmente l’informazione sarà al centro dell’iniziativa. Ripeto non è in discussione il futuro del manifesto, ma della libertà». m. p
l’Unità 2.8.08
Direttore de «Il secolo d’Italia»
Si tutelino i cinque giornali di partito
La scure dei tagli del ministro Tremonti si abbatte sui giornali di partito e cooperative non risparmiando nessuno, a sinistra come a destra. Flavia Perina direttrice del Secolo, il quotidiano di Alleanza Nazionale, non è però pessimista e anzi avanza una proposta.
Di fronte a questi tagli, targati centrodestra, e che riguarderanno anche il giornale da lei diretto, è più perplessa o imbarazzata?
«Chiariamo subito che è dalla passata legislatura che si riduce il bacino delle sovvenzioni economiche. Nonostante ciò sono cautamente ottimista e convinta che a partire da settembre, con la discussione della Finanziaria, si recupererà un atteggiamento positivo, autenticamente meritocratico. I tagli indiscriminati così come proposti non vanno bene, ma anche mettere sullo stesso piano i cinque giornali di partito (Liberazione, Secolo, Padania, Unità, Europa), con altri quotidiani non va nella stessa direzione. Quello che ipotizzo è una tutela speciale per i giornali di partito, portatori di storie particolari».
Una proposta pesante di scrematura che escluderebbe gli altri.
«La legge sul finanziamento pubblico all'editoria nasce per i quotidiani di partito, poi nel ciclone degli anni Novanta il principio è stato esteso a tutto il resto. Due parlamentari erano sufficienti a garantire le sovvenzioni pubbliche. Nelle cassette postali spesso arrivano fogli e giornali di aggregazioni politiche che nessuno conosce. Cerchiamo ora di invertire la rotta recuperando un atteggiamento selettivo».
Insomma i tagli vanno anche bene purché non riguardino gli organi partitici?
«Guardi che a dirla tutta, i quotidiani di partito hanno già dato. Mi riferisco alle ristrutturazioni, agli abbattimenti di costi che in questi anni hanno interessato Liberazione, Secolo, Padania, Unità, Europa. Operazioni non indolori, compiute con confronti veri, serrati ma con un atteggiamento di responsabilità».
m. p.
l’Unità 2.8.08
Anche il Senato vota contro il padre di Eluana
Sì al conflitto di attribuzione con la Cassazione. Il Pd lascia l’aula. Veltroni: «È una destra cinica»
di Roberto Monteforte
Dopo il sì della Camera arriva quello del Senato: il Parlamento apre il conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale contro la decisione della Cassazione sul caso di Eluana Englaro. Un’«iniziativa strumentale e cinica», commenta Walter Veltroni. Il Pd anche a Palazzo Madama ha lasciato polemicamente l’aula mentre Pdl, Lega e Mpa votavano sì e Idv e senatori radicali ribadivano il no. Ormai è un vero accanimento nei confronti della ragazza in coma vegetativo permanente da 16 anni e contro i familiari che vorrebbero «staccare la spina», rispettando la volontà di Eluana. Approvata mozione Pd per far approvare entro l’anno il testamento biologico.
SARÀ LA CORTE Costituzionale a decidere se vi è stato o meno un conflitto di competenze tra poteri dello Stato, quello giudiziario e quello legislativo a proposito del caso Englaro. Se cioè, la Corte di appello civile di Milano, autorizzando la sospensione dell’alimentazione e dell’idradazione forzata della giovane che da 16 anni è in stato vegetativo permanente, abbia o meno violato le prerogative del Parlamento. Questa è la decisione presa ieri dal Senato a maggioranza. A favore della mozione Cossiga-Quagliarello hanno votato i parlamentari del Pdl, della Lega e del Mpa. Contro quelli dell’Italia dei Valori e i «radicali» del Pd in «dissenso con il loro gruppo» che, invece, hanno deciso di non partecipare al voto. Una decisione che ricalca quella già assunta a Montecitorio e che è stata spiegata dal senatore Ignazio Marino. «La maggioranza, che potrebbe mettere all'ordine del giorno una legge che interessa tutto il Paese, non lo fa. Lo ha fatto per difendere l'immunità del premier e non si occupa invece di qualcosa che riguarda la vita di tutti i cittadini». In una nota lo stesso segretario del Pd, Walter Veltroni chiarisce come «dal voto del Parlamento sul conflitto d'attribuzione non dipende affatto la drammatica vicenda personale di Eluana Englaro». «L'iniziativa del centrodestra è strumentale e cinica» commenta. «È il tentativo - ha chiarito - di limitare il potere della giurisdizione di decidere sulla base delle norme e dei principi del diritto». Questo è un piano che il Pd «respinge in blocco». Da qui la scelta di non partecipare al voto. Il punto vero è l’approvazione di una legge seria che regolamenti il testamento biologico. Il Pd incalza. Ha presentato una sua mozione, prima firmataria la presidente del gruppo Anna Finocchiaro, che impegna il Senato ad approvare entro il 2008 una legge in materia. La mozione passa. L’impegno è congiunto. Lo sottolinea anche una dichiarazione del presidente del Senato, Renato Schifani: «Sul tema delicatissimo del testamento biologico il Parlamento faccia la sua parte». In autunno vi sarà un’apposita sessione di Palazzo Madama.
Intanto vanno registrate le reazioni alla decisione della Procura generale di Milano di presentare ricorso contro la sentenza della Corte d'Appello che aveva autorizzato il padre della ragazza a interrompere l'alimentazione artificiale di Eluana. Non solo il medico della giovane, Carlo Alberto Defanti, attacca la decisione definendola «un ricorso ideologico copiato dagli studi dei medici cattolici». Ma anche il procuratore generale aggiunto di Milano, Gianfranco Montera non nasconde il suo imbarazzo. Prende le distanze dalla decisione assunta dai coleghi che finisce per «cozzare con la sentenza della Cassazione dell’ottobre 2007» sul tema, vero «decalogo» e «capolavoro giuridico e umano». Quello che bolla come «un mostro giuridico» è il ricorso alla Consulta per «conflitto di attribuzione» sollevato dal Parlamento. «In questo Paese - commenta - si soggiace alle necessità politiche e alle scelte ideologiche». Comunque nei prossimi giorni la Procura chiederà alla Corte d’Appello di sospendere l’esecutività della sentenza.
«Il vuoto legislativo è enorme» afferma il vice presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, Lorenzo D'Avack che aggiunge: «Le colpe dei politici sono altrettanto enormi» visto che «si discute dalla decima legislatura sul problema». Chi plaude alla decisione della Procura di Milano è mons. Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita: pone il problema dei limiti della scienza nel definire l’«irreversibilità» di uno stato come quello di Eluana.
l’Unità 2.8.08
Pd. Chiesta accelerazione della legge sul testamento biologico
Il non voto lascia strascichi. Tra rutelliani e teodem...
di Maria Zegarelli
Giornata controversa nel Partito democratico alle prese in Senato con il voto sul conflitto di attribuzione per il caso Eluana. Passi avanti verso un punto di sintesi, come il progetto di legge sul testamento biologico depositato con la firma di 101 senatori tre mesi fa, ma anche tensioni, come dimostra la decisione di non partecipare al voto dettata dalla consapevolezza che quello resta un terreno minato, malgrado le dichiarazioni unanimi sul fatto che quella di ieri non è stata una “via di fuga”. E poi ci sono i teodem. Lettura controversa, dunque, per la giornata politica di questo venerdì di inizio agosto.
È il botta e risposta fra i democratici a rivelare lo stato d’animo. Binetti, Bobba, Carra, Calgaro, Lusetti, Musella, Ria e Sarubbi (i teodem e i cattolici più intransigenti) firmano un comunicato per dire che il «Pd con sofferta mediazione ha offerto una importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione», e aggiungono, in sintesi, che alla fine ha avuto la meglio la posizione dei «rutelliani», che non vogliono «collaborare in nessun modo a trasformare un dramma personale e familiare in una sentenza di morte». Il passo successivo è stato il deposito di un loro progetto di legge sul testamento biologico nel quale si prevede un deciso «no» all’eutanasia e all’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale del paziente. I malumori e le prese di distanza sono stati immediati. Non solo tra gli ex ds e gli ex popolari. Anche dagli stessi rutelliani sono arrivati i distinguo. «Non se esista nel Pd una corrente “rutelliana” - ha commentato a caldo Roberto Della Seta - ma di sicuro i rutelliani del Pd, cioè coloro che in questi anni, dalla nascita del Democratici in poi, hanno condiviso l’esperienza collettiva rappresentata da Rutelli, non possono essere confusi con le posizioni dei cosiddetti “teodem”, sul caso Englaro come in generale sulle questioni eticamente sensibili». Un colpo, per la minicorrente dei cattolici «duri e puri» che durante la scorsa legislatura ha cercato di imporre la linea al partito minacciando ogni volta di far mancare i voti necessari alla maggioranza a Palazzo Madama. Il loro “peso specifico” è in caduta libera eppure il Pd non può ignorare le posizioni che esprimono e che rappresentano una fetta di elettorato cattolico.
Di contro, nel pomeriggio il partito del Nazareno ha registrato come un proprio successo l’ approvazione a Palazzo Madama - il Pdl non ha partecipato al voto - di un ordine del giorno presentato dal Pd (firmatari Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola La Torre) in cui si chiede che entro la fine dell’anno si arrivi a dotare il paese di una legge sul testamento biologico. Proposito auspicato anche dallo stesso presidente Renato Schifani. Ma il percorso - malgrado le intenzioni - non si annuncia per niente facile. Sarà importante giungere a maggioranze trasversali perché nello stesso Pd, ancora una volta, i teodem annunciano battaglia. Non sono d’accordo su uno dei punti fondamentali - e per questo non l’hanno sottoscritto - del disegno di legge depositato a Palazzo Madama, (primi firmatari Ignazio Marino, Anna Finocchiaro e Vittoria Franco) firmato da 101 senatori. Tra i 23 articoli che lo compongono c’è anche quello che prevede l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale nei casi in cui le condizioni del paziente siano disperate. «Farraginoso, complesso e complicato approvare un testo come quello a cui ha lavorato Marino», commenta Paola Binetti avvisando che i teodem, «ma anche tanti altri del partito» non voteranno mai una legge che prevede l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale. Per loro quella resta «una sentenza di morte». «Abbiamo già presentato una nostra proposta di legge, anzi tre», spiega la senatrice. Sintetica la risposta di un senatore Pd: «Abbiamo 101 firme per un testo di legge che è un grande lavoro di sintesi. I teodem? Non sono loro il partito».
l’Unità 2.8.08
Eluana, il Pd e la destra miope
di Roberto Zaccaria*
L’articolo di ieri di Miriam Mafai su Repubblica in merito alla drammatica vicenda di Eluana Englaro discussa giovedì alla Camera dei deputati deforma completamente la posizione del Partito Democratico.
Innanzitutto non c’è stato silenzio. Il Pd ha espresso formalmente la propria posizione all’inizio del dibattito in Aula attraverso il mio intervento, che tutti hanno potuto ascoltare e con grande attenzione. L’intervento è stato riportato dalle agenzie ed è facilmente leggibile come sempre nello stenografico immediato della Camera.
Non c’è stata astensione, perché il Partito Democratico, convinto che la proposizione del conflitto da parte del Pdl fosse una mossa tattica, manifestamente infondata dal punto di vista costituzionale e chiaramente strumentale ha scelto di non partecipare al voto, comportamento che si adotta, quando il provvedimento è del tutto estraneo alle regole parlamentari. Non è un caso del resto che un simile atteggiamento sia stato tenuto anche da un gruppo non trascurabile di liberali del centro destra (Della Vedova, Chiara Moroni, La Malfa ed altri).
Non c’è stata quindi nessuna “fuga del Pd” dall’esame del problema, come si legge nel titolo dell’articolo di ieri. È vero esattamente il contrario: è stata la maggioranza che attraverso la proposizione di un improbabile e rischiosissimo conflitto di attribuzioni ha messo in pratica una vera e propria “fuga dal Parlamento” dalla via maestra di una soluzione legislativa.
Su questi temi delicatissimi della disciplina della fine della vita c’è stato, soprattutto al Senato nel corso della XV legislatura, un ampio dibattito che aveva anche registrato positive convergenze. Un intervento legislativo equilibrato sarebbe oggi possibile sulla base, del divieto, da un lato, di praticare ogni forma di eutanasia e, dall’altro, dell’accanimento terapeutico, si potrebbe disciplinare al contempo l’alleanza nella terapia tra medico e paziente, l’equa distribuzione delle cure palliative e l'accompagnamento terapeutico. Questi concetti sono presenti, del resto, in un ordine del giorno presentato dal Pd al Senato su questa vicenda.
La strada del conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale è costellata di errori di grammatica e rischia di diventare un pericoloso boomerang.
Non si possono sollevare conflitti contro provvedimenti giurisdizionali non ancora definitivi e il ricorso di ieri del procuratore generale di Milano contro il provvedimento della Corte di appello ne è chiaramente la prova; non si può contestare attraverso il conflitto il diritto dovere dei giudici di pronunciarsi anche nel caso di incompletezza della norma legislativa, perché in mancanza di una legge più chiara è il giudice del caso concreto che deve bilanciare i principi fondamentali anche costituzionali (art.12 delle preleggi).
Non si può in ogni caso considerare una sentenza per quanto importante della Suprema Corte di Cassazione, alla stregua di un atto legislativo perché nel nostro ordinamento quella decisione vale solo per il caso concreto deciso e non ha alcun valore di precedente vincolante in altri casi.
Ma c’è un rischio ancora più pericoloso nel voler chiamare in causa la Corte Costituzionale come una sorta di Giudice di ultima istanza sulla vicenda Englaro.
Il rischio estremamente concreto è che la Corte rifiuti molto presto un conflitto di attribuzioni così inconsistente e finisca col porre inevitabilmente, nella lettura mediatica, un ancor più pesante sigillo su tutta questa vicenda.
Di fronte ad un atteggiamento della maggioranza così miope e così irrispettoso del ruolo proprio del Parlamento che è quello di fare le leggi e di non impedire ai giudici di fare il loro dovere, non partecipare a questa messa in scena, era il minimo che si potesse fare.
Il rispetto per le istituzioni di garanzia significa anche non cercare di coinvolgerle in riti chiaramente strumentali.
* Vice Presidente Commissione Affari Costituzionali Camera dei Deputati
Corriere della Sera 2.8.08
Vita artificiale e libertà di scelta
di Giovanni Sartori
Tutto è cominciato con l'Enciclica del 1968 Humanae Vitae di Paolo VI.
A 40 anni esatti di distanza, l'altro giorno il Corriere ha accolto nella sua pubblicità la «Lettera aperta al Papa» del movimento dei Catholics for Choice (il diritto di scegliere) sottoscritta da un centinaio di organizzazioni cattoliche di tutto il mondo. L'esordio della Lettera è duro: «Le gerarchie cattoliche hanno fondato sulla Humanae Vitae la politica di opposizione alla contraccezione».
Politica, continua la Lettera, «che ha avuto effetti catastrofici sui poveri, ha messo in pericolo la vita delle donne ed esposto milioni di persone al rischio di contrarre l'Hiv». Ma il testo si ferma su questo problema ignorando il crescendo successivo.
Con Wojtyla e Ratzinger la contraccezione e l'aborto vengono condannate allo stesso titolo. Ma perché? Con quale logica? La contraccezione — lo dice la parola — impedisce la concezione.
E prevenire una gravidanza non è « uccidere », non è interrompere una gravidanza (aborto). Vorrei che qualcuno mi dimostrasse il contrario.
Un altro passo in avanti consiste nell'asserire che l'embrione è già vita umana. Per dimostrarlo la Chiesa dovrebbe distinguere tra «vita» e «vita umana», e provare che le caratteristiche della seconda sono già presenti nell'embrione. In passato, e con San Tommaso, la vita dell'uomo era contraddistinta dalla presenza dell'«anima razionale». Ma quest'ultima, per Tommaso, arrivava «tardi», in vicinanza della nascita e non certo dell'embrione.
Teologicamente parlando l'ostacolo è grosso, e Wojtyla lo supera dimenticandosi dell'anima e citando la scienza. Così: «La scienza ha ormai dimostrato che l'embrione è un individuo umano che possiede fin dalla fecondazione la propria identità».
Ma la scienza può soltanto attestare che l'embrione è programmato per diventare, dopo 9 mesi, un individuo umano ma non che lo è già sub specie di embrione. Anche se un uovo diventerà una gallina non è gallina finchè resta uovo; né io, mangiando un uovo, divento assassino di una gallina.
Dunque, in teoria qualsiasi vita è intoccabile (anche quella dei pidocchi o delle zanzare), visto che la Chiesa spesso e volentieri confonde tra qualsiasi vita e vita specificamente umana. In pratica, però, la vita intoccabile è solo la vita dell'uomo. Ma ecco ancora un ulteriore salto in avanti. Finora la vita umana era intoccabile «in entrata» (aborto) e anche «in pre-entrata» (contraccettivi); ma «in uscita» le persone erano lasciate libere di morire. Beninteso, non di suicidarsi ma di morire «naturalmente». Ma siccome la scienza ha inventato la sopravvivenza artificiale, ecco che oggi la Chiesa nega il diritto di morire anche a chi, come essere umano, è già morto.
L'ultimo caso è quello di Eluana Englaro, in coma profondo da addirittura 16 anni. A questo punto i genitori chiedono che venga staccata dal macchinario che la tiene in vita (in vita vegetale) e due tribunali (Cassazione e Corte d'appello) consentono. Apriti cielo! A distanza di pochi giorni il pg di Milano blocca. Il che implica che dovrebbe intervenire il Parlamento.
Sì, il Parlamento si dovrebbe svegliare nel consentire il «testamento biologico» di ciascuno di noi quando siamo ancora sani di corpo e di mente. Anche il legislatore «papista» lo potrebbe benissimo fare in tutta coerenza, visto che Wojtyla si era rimesso alla scienza per stabilire quando comincia la vita. E la scienza stabilisce che una persona è morta quando il suo cervello è morto, quando l'elettroencefalogramma è piatto e non rileva più onde magnetiche cerebrali. Punto e finito lì. Per me.
Ma non per la deputata azzurra Isabella Bertolini la cui mozione, sostenuta da 80 firme di neo-sanfedisti, chiede che il governo introduca «il divieto di qualunque atto che legittimi pratiche eutanasiche o di morte indotta».
Non facciamo finta di non capire. Questo testo impedirebbe il «testamento biologico». Già consentito negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, agli italiani non lo si vuole consentire. Poveri noi, e intanto povera Eluana.
Repubblica 2.8.08
Il forum di Repubblica.it catalizza molti delusi del Pd. "Indignati per la fuga dall’aula. Attenti, non vi votiamo più"
Sul web la protesta degli orfani della laicità
di Chiara Brusa Gallina
ROMA - Il mal di pancia del Pd viaggia anche su internet. Erano passati solo pochi minuti dalla decisione di astenersi alla Camera sul caso-Eluana, giovedì scorso, e sul forum aperto da Repubblica. it molti lettori hanno dato voce alla loro perplessità.
Il primo timore è per la laicità che non riesce a farsi largo nel partito di Walter Veltroni. «Dove è finito il laicismo del Pd?» si chiede Aldo2. Nei messaggi gli aggettivi si sprecano: «costernato», «amareggiato», «disilluso». «Fughe come quelle messe in scena dal Pd mi lasciano indignato» scrive Mariano48. A volte c´è una promessa di "ritorsione": «Cari deputati del Pd, con la vostra uscita dall´aula vi siete giocati il mio voto» scrive Dizzymisslizzy. E gli umori del popolo della Rete arrivano a mandare a tutti l´indirizzo del sito della Camera «per protestare contro l´ennesimo disgustoso episodio di asservimento all´estremismo cattofanatico dell´ala ultraclericale del Pd e contro la totale mancanza di laicità».
Poi ieri, su Repubblica, un commento di Miriam Mafai ha preso di mira «la brutta giornata di chi crede nel Partito democratico e nella laicità del nostro Stato». E i naviganti plaudono. «Condivido del tutto» afferma Berluschippo. Altri, come Napoleone 1805, azzardano previsioni: «A questo punto l´unica cosa che resta da fare al Pd, visto che al posto di autorizzare a staccare la spina ad Eluana ha preferito staccarla a se stesso, fatto irragionevole in politica, è dichiararsi assolutamente incompetente sulle questioni di coscienza e abdicare a partito di governo e ritirarsi a partitino di paese».
Infine, messaggi più ispirati ad argomentazioni di tipo strettamente etico. Alcuni hanno il tono di invettive. «Ma quale mente malata può calpestare la volontà di un padre che per 16 anni ha accudito la propria figlia? Chiedo rispetto ed ammirazione per queste persone, che vada oltre il Credo politico e religioso» dice Skin. E c´è anche chi, come Donrinofirenze, chiama in causa direttamente Gesù: «Io sono convinto che, se Gesù fosse qui ora, direbbe sì». Sottinteso: sì all´interruzione dell´alimentazione forzata di Eluana.
l’Unità 2.8.08
L’analisi. Se questo è l’inizio per chi vive di scuola c’è da stare poco allegri per il resto che il governo ci riserva
Ma dietro la lavagna ci finisce il diritto all’istruzione
di Marina Boscaino
Il Presidente del Consiglio è veramente un impareggiabile umorista: "Potremo tornare a sanzionare le intemperanze degli studenti più irrequieti mettendoli magari dietro la lavagna, come avveniva ai miei tempi". Eh, già: la nostalgia dei bei tempi passati. La chiosa dell’esimio statista al disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri non lascia adito a dubbi: nel paese di Romolo e Remolo, delle corna, della boutade da scanzonato "gran simpatico" a tutti i costi, l’educazione è un problema serio e sentito, che viene affrontato (e commentato) con i più raffinati strumenti della ricerca pedagogica; e soprattutto attraverso un’analisi seria e attenta delle condizioni dell’esistente. Non deve stupire che per illustrare il provvedimento siano state spese le formule più trite (e più retrive) di un repertorio tradizionalista e miope, senza preoccuparsi di individuare strategie di analisi che vadano oltre l’osservazione (e la valutazione più scontata) degli episodi di bullismo. Il vuoto cosmico di costruzione di senso rappresentato dal Gelmini-pensiero sulla scuola viene riempito dalle continue incursioni di più abili e spregiudicati "addetti ai lavori" a vario titolo, come Brunetta e Aprea, la cui costruzione di senso coincide con l’individuazione di provvedimenti che proiettano un’idea di scuola irreggimentata e selezionata secondo parametri incondivisibili e per giunta improntati al risparmio. È per questo che la voce del ministro produce suoni stentati, banali, scontati: il problema è che, nel tentativo di riempire quel vuoto di idee, passano provvedimenti superficiali, improntati ad un efficientismo demagogico e senza respiro, nonché a una datatissima visione pedagogica. Come il restyling dell’educazione civica - Cittadinanza e Costituzione - nelle scuole secondarie: al ministro evidentemente sfugge che qualunque insegnante interpreti in maniera dignitosa la propria funzione ha come obiettivo fondamentale la creazione di cittadini consapevoli; e che lo strumento per raggiungere questo obiettivo sono le discipline tutte, attraverso l’individuazione di competenze trasversali.
Sarebbe stato forse opportuno chiedersi - prima di ricorrere a facili soluzioni improntate ad inflessibili quanto inopportune "strategie educative" - che cosa fanno società, famiglie, media e la scuola stessa per proporre alternative comportamentali che si oppongano alle derive di cui i giornali sono pieni. Valutare i comportamenti prima di aver messo a punto strumenti adeguati di educazione preventiva è la solita soluzione sbrigativa di chi non ha altre frecce al proprio arco che la banalità, ad effetto e punitiva. E mentre Gelmini ci dà l’interessantissima notizia che alcune case di moda vogliono cimentarsi nella creazione del grembiule - la divisa, come l’ha chiamata il premier - si concretizzano drammaticamente le conseguenze dei tagli del decreto 112: nel giro di 3 anni circa 2mila istituzioni scolastiche potrebbero "chiudere o essere accorpate". Una vera mano santa per gli alunni dei centri con meno di 5mila abitanti, che saranno costretti a ritmi proibitivi per raggiungere le scuole più vicine. A spese di comuni e province, se questi - taglieggiati come sono stati - riusciranno a mettere a disposizione mezzi di trasporto; a spese delle famiglie in caso contrario. Con buona pace del diritto allo studio.
Se il buongiorno si vede dal mattino, ci aspetta una giornata di bufera. Il panorama è disorientante: è quello di un governo che stigmatizza i comportamenti e rende più difficile l’esercizio dell’obbligo di istruzione; che antepone la logica del risparmio a quella della qualità del sistema; che sostiene la scuola privata e destabilizza quella pubblica; che sancisce definitivamente il doppio canale, quello dell’istruzione e quello della formazione professionale, con tutto il suo carico di iniquità socio-culturale-economica. Tanto rumore per nulla, si potrebbe dire, considerando la banalità delle proposte in una situazione problematica. In realtà, come una goccia che scava la pietra, si sta - attraverso provvedimenti superficiali e frettolosi - definendo un disimpegno totale sulle grandi questioni che riguardano il sistema scolastico. È da chiedersi se questo sia un male, considerando l’idea di scuola che la destra ha: un’idea che con il progresso del Paese non ha davvero nulla a che fare. Se il compito principale della scuola deve essere quello di individuare strategie per potenziare sistematicamente tutti quegli elementi costitutivi dell’identikit di un cittadino consapevole, grembiule e 7 in condotta, contrazione e tagli non sembrano provvedimenti che vanno in quella direzione. Ma, pericolosamente, indeboliscono l’esercizio della coscienza critica e un’idea di cultura e di educazione che abbiano il respiro più ampio dell’estemporanea e demagogica cura a malattie endemiche della nostra società (e, di conseguenza, del sistema scolastico) che meriterebbero di essere affrontate con ben altri strumenti.
l’Unità 2.8.08
San Mauro Pascoli «processerà» Togliatti
L’accusa: essere stato «uomo di Stalin». Succederà il 10 agosto
Bologna. Palmiro Togliatti processato in piazza con l’accusa di essere stato un «uomo di Stalin», ovvero agli ordini di una potenza nemica, ma con una difesa che lo dipingerà invece come un «padre della democrazia italiana». Succederà nella serata di domenica 10 agosto a villa Torlonia di San Mauro Pascoli, il paese della pianura romagnola dove il «processo» storico o culturale è diventato una tradizione dell’estate.
Il primo verdetto fu otto anni fa per l’omicidio di Ruggero Pascoli, padre del poeta; poi pubblici ministerì e difensori esaminarono le storie controverse del Passatore, di Giuseppe Mazzini, Secondo Casadei, Giuseppe Garibaldi, ma anche la Romagna di Mussolini e la cucina romagnola.
Il processo, promosso e organizzato dall’associazione pubblico-privato Sammauroindustria, che riunisce i principali imprenditori di San Mauro e l’amministrazione comunale, avrà un’accusa guidata da Marina Cattaruzza (Università di Berna) e Victor Zaslavsky (Luiss di Roma) e una difesa rappresentata da Maurizio Ridolfi (Università della Tuscia) e Carlo Spagnolo (Università di Bari). Presidente del tribunale il sindaco Gianfranco Miro Gori, fondatore del Processo, cancelliere che scriverà il verdetto in camera di consiglio Antonio Carioti, giornalista del «Corriere della Sera».
l’Unità 2.8.08
Rifugiati, impronte, ricongiungimenti. Maroni aspetta l’ok dall’Europa
Tra i punti più a rischio la schedatura per i cittadini comunitari e l’obbligo di iscriversi all’anagrafe e di avere un reddito adeguato
di Maristella Iervasi
Dopo le sonore «batoste» e i continui moniti sul pacchetto sicurezza da parte della Commissione europea, dell’Europarlamento, del Consiglio d’Europa; e non ultima la posizione del governo della Romania sulle norme per i nomadi (impronte comprese) il ministro leghista Roberto Maroni mostra cautela e prudenza. I 3 decreti legislativi che prevedono una stretta sul soggiorno dei cittadini comunitari anche attraverso l’uso delle impronte - (aggiunta fatta al decreto Prodi del 2007 con l’espressione: «rilievi dattiloscopici») -, sul riconoscimento dello status di rifugiato (con l’ipotesi di rigetto della domanda per infondatezza o evitare l’espulsione) e sui ricongiumenti familiari con l’obbligo del Dna, non entrano subito in vigore: sono stati inviati all’esame dell’Europa e salvo modifiche, verranno approvati definitivamente solo dopo l’estate. La decisione è stata presa ieri, a sorpresa, nel corso del Consiglio dei ministri in trasferta a Napoli. «Sono materie assai delicate - ha spiegato lo stesso Maroni. La procedura anomala è stata concordata con l’opposizione, in particolare con il collega ombra del Pd Marco Minniti che l’ha ritenuta assai utile». I 3 testi e anche il rapporto sul censimento dei campi nomadi sono stati dunque inviati a Jacques Barrot, Commissario europeo alla Giustizia, Sicurezza e Libertà. Che in serata ha precisato: «È un atto che appare come la testimonianza di una volontà di rispettare la legislazione europea».
Per evitare nuove bufere sul tema caldo dell’immigrazione Maroni ha scelto di andare con «i piedi di piombo». Alcune misure contenute nei dlg corrono infatti il rischio di essere censurate da Bruxelles. In particolare, il testo sulla libera circolazione dei cittadini comunitari. Il provvedimento dispone - tra l’altro - che la libera decisione giudiziale sull’istanza di sospensione cautelare del provvedimento di allontamento sia decisa entro 90 giorni. Ma non è questo il punto: profili di dubbia compatibilità con le norme Ue sarebbero emersi per la previsione della mancata iscrizione all’anagrafe tra i motivi che giustificherebbero l’allontanamento del comunitario. Così come l’obbligo di avere «risorse economiche sufficienti, derivanti da attività dimostrabili come lecite» quale condizione per poter soggiornare in Italia per oltre 3 mesi.
E non finisce qui. Si riparla di «impronte». Il decreto sui comunitari attualmente vigente - approvato dal governo Prodi dopo l’omicidio Reggiani da parte di un romeno - prevede che per l’iscrizione anagrafica ed il rilascio della ricevuta di iscrizione e del documento d’identità si applicano al comunitario le medesime disposizioni previste per il cittadino italiano. Viceversa, il decreto legislativo «corretto» da Maroni propone un’aggiunta: dopo le parole «cittadino italiano è stato inserito «compresi i rilievi dattiloscopici nei casi previsti dalla legge». Vale a dire, la schedatura del comunitario.
Un passaggio questo sul quale la Commissione Ue potrebbe esprimere dubbi. Idem per il trattenimento dei comunitari colpiti da provvedimenti di espulsione nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione).
Corriere della Sera 2.8.08
Sicurezza Il sindaco leghista: multa se di notte nei parchi si è in più di due
A Novara vietato fermarsi in tre persone
di Alessandro Trocino
A Novara vietato fermarsi in tre o più persone in parchi e giardini, pena una multa fino a 500 euro. Il sindaco leghista Massimo Giordano firma l'ordinanza per «la situazione di degrado dell'ambiente urbano» e l'opposizione si scatena: «Incredibile. Ricorda le adunate sediziose del Ventennio».
Nei parchi di Novara Multe di notte se si è in tre o più. Pd all'attacco: come la repressione fascista delle «adunate sediziose»
Il sindaco leghista vieta di girare in gruppo
ROMA — Stazionare sì, ma al massimo in coppia e mai di notte. A Novara è scattato il coprifuoco notturno nei parchi e giardini. Vietato fermarsi in tre o più persone, pena una multa fino a 500 euro. Il sindaco leghista Massimo Giordano firma e l'opposizione si scatena: «È un'ordinanza incredibile che ricorda le adunate sediziose del Ventennio fascista. Ieri notte, in segno di disobbedienza civile, un gruppo di consiglieri e cittadini ha fatto irruzione al parco Valentino, per un assembramento non autorizzato e stanziale.
A motivare l'ordinanza, che prevede il divieto assoluto di «stazionamento», è «la situazione di degrado dell'ambiente urbano» e i continui «danneggiamenti» che subirebbero i parchi e giardini cittadini. Novara — «Nuara» in insubre — è una cittadina tranquilla. Qualcuno dice anche troppo. Centomila abitanti, pochi scippi e pochissime rapine, una percentuale di immigrati pari all'8 per cento, quasi tutti concentrati nel quartiere di Sant'Agadio. Ma il sonno dei residenti, e il torpore della città, parrebbero turbati da alcuni individui che, nottetempo, amano bivaccare nei parchi. Di qui l'ordinanza, che ha già ottenuto un primo effetto quasi miracoloso, ovvero ricompattare l'opposizione. Pd, Psi, Sd e Rifondazione hanno firmato un comunicato congiunto, nel quale paragonano il provvedimento ai divieti di riunione attuati dal Duce e spiegano che «dietro il paravento degli atti vandalici, si dà un ulteriore giro di vite alle pretestuose politiche per la sicurezza ».
Il sindaco Massimo Giordano, leghista doc, governa la città ormai da sette anni, con grandi consensi: alle ultime elezioni ha ottenuto il 66 per cento dei voti, portando la Lega al 22 per cento. Tanto che il gran capo del Carroccio Umberto Bossi è venuto in città a complimentarsi. E Giordano ha proseguito nel suo stile, simile a quello di tanti nuovi giovani sindaci leghisti. Attenzione quasi ossessiva alle esigenze di sicurezza dei cittadini e divieti a raffica, come quello contro il consumo di alcolici in stazione dopo le 18 e come la chiusura di un centro culturale di immigrati.
L'assessore alla Sicurezza Mauro Franzinelli spiega così l'ordinanza: «Serve per limitare i disturbi alla quiete pubblica. Ce l'hanno chiesta i cittadini». La protesta della sinistra? «Una legittima manifestazione di dissenso. Non li multeremo di certo». E il fascismo? «Quelli erano periodi drammatici, è un paragone assurdo. Qui si parla solo di limitare i frastuoni». La giovane consigliere del Pd Sara Paladini contesta: «Non c'è nessuna emergenza sicurezza a Novara: gli unici reati in aumento sono in famiglia, ma di quelli non ci si occupa mai».
Restano da chiarire i termini giuridici della norma. Il divieto è di «stazionamento ». Quindi parrebbe necessario, per essere in regola, deambulare. Anche il concetto di «gruppo» non è chiarissimo. «È un'ordinanza sperimentale — replica l'assessore Franzinelli — vale fino al 30 dicembre e serve solo per dissuadere i cittadini. Cerchiamo di risolvere un problema di cui la sinistra dovrebbe interessarsi, invece di limitarsi a accusarci di fascismo».
Corriere della Sera 2.8.08
Il modello La città rifatta in scala 1 a 1.000 per studiare gli interventi in centro
Da Giotto a Isozaki: la nuova (mini) Firenze
Tre anni di lavoro, un investimento di 250 mila euro: sarà mostrato al pubblico dal prossimo 19 settembre
di Paolo Conti
FIRENZE — Sposti l'antico Duomo di Firenze, incluso il campanile di Giotto, e scopri che il simbolo religioso e architettonico di Firenze è ben più piccolo del nuovo palazzo di Giustizia a Novoli. Oppure rileggi dall'alto, tra piazza dei Peruzzi e via Torta, il chiaro disegno dell'anfiteatro romano: le costruzioni medievali seguirono le fondamenta e quindi la sua sagoma. E scopri che palazzo Strozzi è in effetti grande quanto il cortile dell'Ammannati di palazzo Pitti: leggenda voleva che i Pitti desiderassero dimostrare d'essere ben più ricchi dei potenti con un palazzo che potesse «inglobare» quello degli Strozzi. Leggenda verissima. Il 19 settembre, nella sala d'Arme di Palazzo Vecchio, verrà mostrato al pubblico per due mesi il nuovo immenso modello di Firenze: 46 metri quadrati, superficie complessiva di 9,60 per 4,80 metri, un'altezza di 1-2 centimetri, una suddivisione in 16 pannelli ciascuno composto da numerose sezioni mobili che contengono interi isolati. Per la prima volta, Firenze sarà visibile a tutti con un colpo d'occhio in una scala 1 a 1.000 (proprio lo slogan che verrà utilizzato). Nemmeno si fosse in volo o si stesse navigando su Internet consultando un sito specializzato in mappe.
Facile immaginare che diventerà uno dei simboli di Firenze, pronto a trasformarsi in gadget per turisti.
Parlare di «plastico» sarebbe improprio, non c'è una sola scheggia di materiale che non sia naturale. Legno malese Jeloutong, chiaro e duttile, per gli edifici. Legno di pero più scuro, e più duro, per le costruzioni storiche o monumentali. In quanto alle acque dell'Arno, la traccia è sottolineata da strisce di radica olivata. Il verde dei parchi e delle colline è rappresentato da piccoli rametti di licheni: anche qui al naturale, nessun colore artificiale.
L'idea appartiene al sindaco Leonardo Domenici e dell'assessore all'Urbanistica, Gianni Biagi. Spiega proprio Biagi: «Firenze non si era mai data un modello intero della città. Abbiamo deciso di farlo cinque anni fa seguendo l'esperienza di Berlino. Ne abbiamo parlato con la Cassa di Risparmio di Firenze. E così l'abbiamo concretizzato». La realizzazione è dell'Aleph Laboratorio di architettura degli architetti Shaharad Pouladin, Nicola Malisardi e Vincenzo Giallorenzi. Tre anni di mini-cantiere, 250 mila euro di costo diluito nel triennio, 20 mila ore di lavoro artigianale affidato agli scalpelli di assistenti di studio specializzati in ebanisteria. Migliaia, forse milioni di mini-dadini di legno realizzati seguendo, dal cuore della città fino all'aeroporto di Peretola, la Carta tecnica regionale che fornisce le diverse informazioni: pianta, volume, altezza da terra a grondaia, forma del tetto. Per gli edifici storici, la mano dell'artigiano ha lasciato il posto al pantografo a controllo numerico azionato da un computer rifornito di disegno digitale.
Dice Gianni Biagi: «Il modello può sembrare solo una bella attrattiva per turisti. E non è escluso che diventi una delle prime realizzazioni in vista del futuro Museo della città che si aprirà a Palazzo Vecchio dopo il trasferimento degli uffici comunali nei locali lasciati dal Palazzo di Giustizia. Ma il modello sarà soprattutto uno strumento di studio sulla storia della città e di sperimentazione su possibili interventi urbanistici». Dice Aureliano Benedetti, presidente della Cassa di risparmio di Firenze che ha in gran parte finanziato il modello: «Nei nostri 180 anni di storia siamo sempre stati vicini alla città, sostenendo per esempio le opere per Firenze Capitale anche dopo che si decise per lo spostamento a Roma. Non è una semplice sponsorizzazione ma un contributo per la conoscenza della storia di Firenze».
Qualche curiosità. C'è già la Loggia di Isozaki agli Uffizi. Così come appare il nuovo teatro per il Maggio musicale, che verrà inaugurato nel 2011 a Porta Prato. Manca la gigantesca stazione per l'Alta velocità a Belfiore, 400 metri di lunghezza e 45 di larghezza, con l'immensa cupola trasparente di Norman Foster. Ci vorrà più tempo. Le Grandi opere ritardano anche per un modello in legno.
Corriere della Sera 2.8.08
Generazione «Z», l'ultima Cina
Integrati, consumisti, stressati: i ragazzi hanno cancellato Tiananmen
di Fabio Cavalera
PECHINO — La generazione «Z» è un grattacapo per la Cina. Sono gli ultimi arrivati, i figli minori della riforma economica promossa da Deng Xiaoping, quelli della classe anni Novanta: studiano come dannati e soffrono. Adesso, hanno scoperto il loro «libretto rosso», testimonianza dei turbamenti adolescenziali. Ridammi il sogno è un autentico bestseller che va a ruba da parecchie settimane e si è piazzato in testa alle classifiche.
Non può che essere uno di loro, uno dei dannati, l'autore del libricino. Tang Chao ha 14 anni e vive a Chengdu, nel Sichuan, la provincia del terremoto con 80 mila morti. Dicono che sia un fenomeno. Ma andiamoci molto cauti. Si è cimentato per puro caso al computer, non sapeva con chi confidarsi e nelle pause della scuola ha messo giù 200 mila caratteri costruendo un racconto d'amore e qualcosa di più: il manifesto realista di una fetta della società cinese, la meno cinese, la meno legata alla tradizioni, ai costumi, ai valori dell'antico Regno di Mezzo. La più introversa. Un piccolo universo — si fa per dire perché si tratta pur sempre di alcune decine di milioni di ragazzi — che sta scatenando la sua rivoluzione silenziosa.
Papà e mamma vogliono vederli, questi rampolli con la faccia liscia e i capelli nerissimi, a testa china sui libri? Loro non ci stanno. E contestano senza urlare, chiudendosi. Non che preferiscano disertare le lezioni. O, peggio, perdere il ciclo scolastico o abbandonare. Semplicemente, sentono il fiato sul collo, ogni giorno, ogni ora. Vogliono liberarsi dell'ombra dei genitori. E si capisce. Quella di spostare le frustrazioni e le delusioni personali sugli eredi è una vecchia e universale ossessione. Nelle famiglie cinesi, che investono fior di soldi e di speranze sulla carriera della prole, un po' di più.
Forse «colpa» di Confucio e di un'etica autoritaria che pone il rispetto delle relazioni gerarchiche al cuore di una filosofia di vita. O forse colpa di un passato, nemmeno tanto lontano: i papà e le mamme della generazione «Z» — zeta, ovvero l'ultima — erano bambini durante gli anni più difficili del comunismo e magari, attraverso i figli, esprimono a scoppio ritardato un intimo desiderio di riscatto. O forse, è l'estremizzazione di una cultura meritocratica e selettiva che ha soppiantato l'egualitarismo maoista. Nessuna via di mezzo. O è cosi — testa china sui libri — o sono guai. Obbedire e tacere.
I dolori prima o poi arrivano. Gli adolescenti crollano in preda a crisi depressive. Malattia diffusa. Inevitabile se la scuola chiede il massimo, se la famiglia chiede il massimo, se la società chiede il massimo. Non c'è mai il tempo di rifiatare, di riposare, di divertirsi. Le statistiche cinesi tacciono ma una psicologa, Deng Jun, sentita dal quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, rivela che, solo alla sua hotline
di ascolto e supporto telefonico al disagio, nel giro di qualche settimana sono arrivate ben 2500 chiamate. Tante. Ma è un buon segno: i ragazzi si sbloccano e chiedono aiuto agli specialisti. In diversi casi, all'insaputa della famiglia, che considera l'intervento di un «esterno» al gruppo parentale un insulto o, peggio, un disonore.
I quattordicenni e i quindicenni cinesi delle città sono arrabbiati. Lo sussurrano gli insegnanti. Lo confermano le ricerche. Coccolati. Fin troppo coccolati. Cresciuti nella bambagia e viziati, gli adolescenti, i ragazzi delle medie e dei primi anni di liceo, questi figli unici, un po' secchioni e un po' sognatori, un po' tormentati e un po' consumisti, con l'iPod e il telefonino, individualisti e isolati, incollati al computer, mostrano segni di sofferenza e scoppiano. Tang Chao racconta questo mondo sconosciuto. Per la Cina è un fenomeno nuovo. Sia sociale sia letterario.
Li vedi per strada e ti sembrano tutti uguali. Le cuffie con la musica ad alto volume piantata nelle orecchie, le scarpe da ginnastica, magari griffate. Che differenza c'è con i coetanei italiani, europei, americani? C'è: il conflitto generazionale è marcato, il solco è più profondo. Gli adolescenti cinesi cercano modelli di crescita diversi, quello che hanno sotto gli occhi li perseguita e li soffoca. È la rottura con uno stile educativo che rischia di causare autentici drammi. Uno dei personaggi di Tang Chao si butta giù dalla finestra: i suoi genitori gli hanno impedito di vedere la compagna di classe che ama, temendo che un semplice incontro gli possa sottrarre tempo, energie, forze nella preparazione dei pesantissimi esami di accesso alle superiori. Una storia vera.
I costumi cambiano in fretta, con la velocità della luce. Non c'è fotografia migliore della Cina di quella che offrono i suoi giovani. Le trasformazioni di questo Paese si specchiano anche nei tormenti, nelle ansie e nelle mode che i ragazzi, i figli e ormai i nipoti del miracolo economico, vivono nelle strade e nelle scuole, al cinema e ai concerti. Una volta c'era la generazione di Tiananmen: impegno politico, lotta per la democrazia, solidarietà. Spazzata via, riassorbita. Poi è venuta la generazione degli anni Ottanta che ha goduto, per prima, del boom. E lo scenario giovanile è radicalmente mutato. Coloro che sono nati mentre in Tiananmen entravano i carri armati hanno scelto vie opposte. Più ricchi, più aggressivi, più colti, pronti magari a solcare l'Oceano e a chiudersi in un campus americano, sono l'anima di un nazionalismo che diventa risentimento antioccidentale quando avvertono che «la Patria è in pericolo». La generazione dei nuovi patrioti. Integrata alla perfezione nel sistema. La si è vista all'opera in primavera a difesa della torcia olimpica contestata in alcune capitali a seguito degli scontri e dei morti in Tibet.
La generazione «Z» è un'altra cosa ancora. È il volto più antagonista di una società che sta diventando altamente competitiva. Una ragazza, pescata fuori da una discoteca di Pechino, ha riassunto questo stato d'animo al South China Morning Post, con semplicità: «I nostri genitori credono che noi siamo uguali a loro. Sbagliano tutto. Noi vogliano essere l'esatto contrario. Vogliamo vivere in modo diametralmente diverso». È una ribellione spontanea, priva dei clamori della piazza, lontana dai riflettori ma condivisa da milioni di famiglie. Tang Chao, ultimo caso letterario della Cina, ha raccolto la voce di un'età critica. Nelle librerie Ridammi il sogno
— ridammi il sogno di vivere — è volato via. Suo padre, quando ha saputo che cosa gli aveva combinato Chao, ha confiscato il computer. Per paura che non studiasse più. L'editore, che aveva scoperto il manoscritto, però non si tira indietro e promette un seguito.
Corriere della Sera 2.8.08
Il vero Don Giovanni
Saura: nel mio film sul librettista di Mozart le avventure del libertino si intrecciano con l'opera
Il set Il regista spagnolo ha finito di girare a Roma la storia di Lorenzo Da Ponte: «Ci sono le sue memorie, non so che cosa è inventato ma non me ne preoccupo»
di Valerio Cappelli
ROMA — Lorenzo Da Ponte, l'abate che correva dietro a ogni gonna, il librettista della trilogia italiana di Mozart che scriveva i doppi sensi anche su di sé, e a una 16 enne dice che era pronta «per suonare il campanello », recitava a memoria Dante e giocava d'azzardo, e nella sua vita vagabonda fece il droghiere, il produttore di liquori, il farmacista; fu arrestato, a Venezia costretto all'esilio per volere della Santa Inquisizione con l'accusa di appartenere a una società massonica e di aver agito contro la chiesa, ma pesarono anche le denunce anonime per libertinaggio. Una vita da film. «Strano che il cinema non avesse mai pensato a lui, anche in Amadeus di Forman, che era un gran film, viene ignorato», dice Carlos Saura. Negli studi De Laurentiis sulla Pontina, gran via vai di parrucche, ciprie, nei e volti bianchi come fantasmi, ché il viso nel '700 doveva esaltare la gota colorata. Il 75enne regista spagnolo ha appena finito Io, Don Giovanni,
prodotto dalla Spagna e dall'italiana Edelweiss dopo i ritardi legati anche alla complessa nobiltà di un film in costume: sarà proposto al Festival di Berlino o a Cannes. E sapete chi è il Don Giovanni del titolo? Lorenzo Da Ponte.
Ebreo convertito al cristianesimo, il suo vero nome era Emanuele Conegliano e assunse il nome del vescovo che lo battezzò, che si chiamava appunto Lorenzo Da Ponte. Portò a New York la lirica e vi allestì per la prima volta il Don Giovanni, l'opera che troneggia al centro della sceneggiatura con cinque arie più ouverture e finale. «La trama si intreccia al Don Giovanni, la preparazione del debutto della sua opera e la storia di Da Ponte», dice Saura, l'autore di
Carmen Story. La storia del Don Giovanni attraverso la vita del suo librettista ricorda il meccanismo di
Shakespeare in Love. Ma le parole, con il maestro del gusto onirico e visionario, servono fino a un certo punto. E infatti si spiega mostrando i suoi bozzetti, come un regista teatrale. Il film, interamente girato negli studi, racconta dunque due storie parallele attraverso due momenti della vita di Da Ponte: eccolo giovinetto a Venezia e più tardi a Vienna, dove conosce Mozart. Saura evita Dresda, Londra, gli anni a New York e le altre fughe dell'abate con una vocazione, ma non per l'abito talare. «Raccontare tutta la sua vita? Non basterebbero tre film». Saura è circondato da premi Oscar come il direttore della fotografia Vittorio Storaro o acconciatori che lo sfiorarono con la nomination come Aldo Signoretti e Vittorio Sodano candidati per Apocalypto, che raccontano immalinconiti che qui «siamo al decadentismo delle ultime parrucche, nell'800 scompaiono del tutto. Mozart le adorava, ne aveva di verdi e azzurre».
Storaro ha fotografato Venezia deserta, all'alba, per riprodurla su pannelli dalla tonalità lunare, in contrasto alla sua Vienna dorata. Per il regista «la luce cambia il film, è un dono teatrale». I protagonisti sono giovani e tutte scommesse: Lorenzo Balducci è Lorenzo Da Ponte, Lino Guanciale è Mozart, mentre Tobias Moretti (il primo Commissario Rex) è Casanova che arriva fino alla tarda età. Antonio Salieri è Ennio Fantastichini, prima protesse e poi alla corte austriaca fece licenziare Da Ponte, ormai la bolla del borioso-invidioso è marcata sulla sua pelle, ma questo è un altro film e Saura ci riporta sulla sua carreggiata, mostrandoci il meraviglioso teatrino di Schönbrunn che ha fatto ricostruire, dove si finge la «prima» del Don Giovanni che invece nella realtà prese la strada di Praga. Don Giovanni arriva «in uno spazio misterioso» dove il Commendatore, prima d'essere trafitto, «è avvolto in un sudario». Il film termina col finale dell'opera, l'Inferno dove precipita Don Giovanni è evocato dalle parche, le dee che stabilivano il destino degli uomini indossano maschere veneziane tra guizzi di fuoco e lava del vulcano.
Il Da Ponte di Balducci: «Non sapevo nulla di lui, sono partito da zero, è furbo, cinico, le prodezze sessuali non gli hanno impedito di essere profondo nelle lettere. Saura è di poche parole, mi esorta a essere sfrontato».
«Ci sono libri e le sue memorie, su Da Ponte non so bene cos'è vero e cos'è inventato - dice Saura divertito - ma non ne sono preoccupato. Lo stesso si può dire di Mozart, avrò letto venti biografie su di lui e ognuna è diversa. Il mio film però è rispettoso con la storia di Mozart». Che rapporto hanno i due protagonisti nel film? «Amichevole. Nessuno dei due è un santo, quando a Mozart muore il padre Leopold, Da Ponte per distrarlo lo porta in un bordello ».
Repubblica 2.8.08
Immanuel Kant. La terza via. È nell'arte
di Giancarlo Bosetti
Un libro di Alessandro Ferrara rilegge la "Critica del giudizio" Proponendo una soluzione fra fondamentalismo e relativismo
In mancanza di un fondamento, chi ci impedisce di diventare una società di pazzi?
Sviluppare quella sapienza che consiste nel venire a patti con la pratica
Ritorna il Kant della terza critica, quella del giudizio. Un libro di Alessandro Ferrara, che appare in questi giorni in italiano a poche settimane dalla pubblicazione in versione inglese, presso la Columbia University Press - La forza dell´esempio, Feltrinelli (pagg. 262, euro 22) - tenta una via di uscita originale dall´impasse filosofica del nostro tempo, quella che blocca un po´ tutte le scuole al bivio tra fondazionismo e relativismo, tra metafisica e nichilismo, tra universalismo e pluralismo. E come si immagina dal sottotitolo, Il paradigma del giudizio, questa via di uscita si ispira a una ardita lettura della terza delle tre celebri critiche, quella che segue, alla Critica della ragione pura (che contiene la dottrina trascendentale della conoscenza) e alla Critica della ragione pratica (che contiene la dottrina morale). La Critica del Giudizio si presenta come un trattato di estetica, nel senso tradizionale di teoria dell´arte, anche se già nel suo autore essa aveva l´ambizione di riconciliare l´ambito della natura e della fisica con quello della libertà umana, introducendo nell´indagine sul bello e il sublime, il paradigma dell´"esempio" e il principio di finalità; ma qui Ferrara ne propone una lettura e uso assai più estesi.
Non è una novità che il grande filosofo tedesco sia accreditato di una sorta di "terza via", la novità è che Ferrara ne cerchi la chiave più preziosa non nella epistemologia e non nell´etica, ma nelle pagine sul "giudizio riflettente", il giudizio estetico.
Il confronto filosofico internazionale e interculturale è esposto nei nostri tempi in misura crescente alla frantumazione "provinciale": ogni contesto la sua teoria, ogni contrada le sue categorie e i suoi principi. Le sirene postmoderniste alzano il loro canto: decostruzionismo, ermeneutica, culturalismo, trionfo della differenza e con essa - ammoniscono, e non per caso, i due ultimi pontefici romani - del relativismo. Si capisce che il mercato delle idee sia favorevole per l´offerta di chi presume di disporre ancora - in regime di quasi monopolio - di una Verità di fede e di un Logos accreditato di portata generale.
Tra i filosofi, che non hanno in dote simili certezze, la svolta antimetafisica - detta anche "linguistica" - che ha sepolto, ad opera di Wittgenstein e seguaci, i fondamenti di ogni possibile "pensiero forte" - crea condizioni di gioco molto più difficili. Se non si può disporre di alcun fondamento su cui appoggiare le nostre idee al di fuori degli scambi di discorsi che possiamo farci l´un l´altro, se tutto quello che possiamo fare è dire frasi dentro contesti determinati, locali e datati, se non abbiamo chiodi cui appendere qualche dover essere, che cosa ci può garantire che non finiremo per arrenderci alle più stravaganti e arbitrarie abitudini di una qualsiasi comunità di pazzi, come nei film di Night Shyamalan (The village o Sesto senso) dove non si capisce più chi è il fantasma e chi è "reale"?
Quale pensiero ci garantisce che i decantati - e a tutti gli effetti meritevoli di esserlo! - principi generali dei diritti umani, della libertà, della democrazia, delle garanzie costituzionali siano qualcosa di più che discutibili usanze locali? Che risposta filosofica è in grado di dare la filosofia politica alla osservazione di chi li descrive come un "pacchetto illuministico" di origine locale, inventato tra Parigi e Londra e perfezionato a Philadelphia, ma non utilizzabile a Pechino, a Mosca, nel Darfur o a Ryad? Chi lo stabilisce che in assoluto è sbagliato costringere una donna a portare il burqa? O infliggere a un ladro la condanna del taglio della mano? Quale genere di suprema Ragione può decretare in questi casi?
La risposta di Ferrara consiste nella "forza dell´esempio", che funziona come il "giudizio riflettente" della terza critica: a differenza del "giudizio determinante" esso si aggira tra particolare e particolare, passa da caso a caso, perché il bello non si impone con la forza di una legge della fisica o di un imperativo morale, ma non è neppure inafferrabile. La critica d´arte non consiste in una serie di teoremi, ma nella capacità di discorrere di tante singole situazioni, e sa individuare qualche spiegazione di quel che è "piacevole" o non lo è. Essa esige la maturazione di quel genere di sapienza che Aristotele chiamava phronesis e che consiste nella capacità di venire a patti con la pratica. Il giudizio - avvertiva Hannah Arendt, un´altra fonte che ha guidato Ferrara nell´aprirsi la strada verso la sua filosofia del giudizio e dell´esempio - non si basa soltanto sulla coerenza rispetto a un principio, ma richiede anche capacità di distinguere, immaginazione, distacco, simpatia, imparzialità e integrità ed è la "più politica" delle attitudini umane.
Se sosteniamo, "per esempio", la causa della parità di genere, della uguale dignità e degli uguali diritti tra uomini e donne, non sarà la forza geometrica del principio a trionfare in forza di una sua superiorità logica o morale. Se mai questo principio si affermerà tra i clan somali o nei villaggi indiani e pakistani, imponendo la fine dei matrimoni imposti, o se mai scomparirà la potestà del marito sulla moglie nei paesi arabi dove sopravvive, questo avverrà grazie alla affermazione, nei conflitti politici e nelle infinite battaglie che saranno necessarie, degli esempi più convincenti. È più verosimile, oltre che auspicabile, che la potestà del marito sulla moglie scompaia nei paesi del Magreb piuttosto che non ritorni nelle costituzioni europee. Il che non dipende da un principio celeste, provvidenziale, essenziale o basato su categorie innate dell´intelletto. Sembra basarsi su un sensus communis che attraversa culture, epoche e linguaggi diversi, proprio come il giudizio estetico secondo Kant.
In verità gli allievi della scuola filosofica italiana che hanno faticato sulle pagine di Luigi Scaravelli e Emilio Garroni (anche se Ferrara non li menziona) avevano già imparato qualche decennio fa che la Critica del giudizio si muove verso una idea assai attuale della conoscenza, verso leggi empiriche, secondo un principio dell´unità del molteplice. Il Kant della terza critica, tra contraddizioni e ripensamenti (e propenso a fertili divagazioni) cercava un tertium che gli consentisse di trovare le basi per una composizione mite e accorta di quel problema che oggi noi chiamiamo "della differenza" di tempo e cultura. E lo trovava nella "forza dell´esempio". Che Ferrara isola molto bene e cerca di coniugare aderendo ai problemi posti dalle tensioni del mondo di oggi e dalle relazioni tra le culture. Lo fa in sintonia con uno spostamento generale della filosofia contemporanea: dalle ambizioni di una validità generale extrastorica verso un mondo che è sempre storico, condizionato, datato, attraversato da diversità. Se Gadamer ha insegnato a tutti che la nostra comprensione e valutazione degli eventi si costruisce a partire dai pregiudizi, Rawls ha corretto la dimensione astratta della sua iniziale teoria della giustizia per avvicinarla al vissuto delle tradizioni culturali, Bernard Williams ha posto la filosofia morale, inevitabilmente incompleta, a contatto con le concrete vicende della politica, Davidson e Hilary Putnam hanno formulato una dottrina del realismo "dal volto umano", capace di resistere alle obiezioni antimetafisiche, più mite, parziale e condizionata.
Tutto inutile? Sembra di sentire sullo sfondo la risata di Richard Rorty, il grande neopragmatista americano scomparso due anni fa: tempo perso cercare ragioni per i problemi del mondo con la filosofia, c´è una unica indiscutibile priorità, quella della democrazia sulla filosofia. Prendiamone atto, punto e basta. Alla filosofia dobbiamo rinunciare e chiudere bottega. Cosa che Rorty fece. Ma possiamo noi seguirlo in questa fine di esercizio? Il tentativo di Ferrara parla per coloro che vogliono continuare onestamente a provarci.
il Riformista 2.8.08
Pechino 2008. Il capo di stato: «però non fate politica»
Hu Jintao "libera" il web, ma solo un po'
di Emanuele Giordana
«Abbiamo accolto con favore la notizia che il sito di Amnesty sia accessibile dal centro stampa olimpico e probabilmente da altri computer a Pechino. Tuttavia, bloccare e sbloccare arbitrariamente determinati siti non basta a soddisfare l'obbligo di rispettare gli standard internazionali in materia di libertà d'espressione e d'informazione»: così, Roseanne Rife, vicedirettrice del programma Asia/Pacifico di Amnesty International dopo che la buona novella si affaccia nei notiziari. Pechino ha deciso di rimuovere la censura imposta ad alcuni siti internet e così sono tornati accessibili, quantomeno dal centro stampa dedicato agli inviati stranieri, i website di Bbc, Wikipedia, Human Rights Watch o dell'emittente americana Radio Free Asia e, appunto, di Amnesty. Inoltre, il comitato organizzatore dei Giochi ha garantito facilitazioni per l'accesso al web giudicato troppo lento. Ma fuori dal media centre restano comunque sbarrati molti siti "sensibili", anche se le testimonianze da Pechino dicono che alcuni dei website sarebbero parzialmente accessibili anche da altre parti della capitale. Politica della macchia di leopardo dunque, che non promette che una timida apertura con limitazioni parziali e sempre suscettibili di novità censorie. E non dev'essere un caso che, mentre Pechino da una parte apre, dall'altra inviti a non strumentalizzare politicamente le date olimpiche. Scende in campo direttamente il presidente Hu Jintao che, in una delle sue rare conferenze stampa, ribadisce che politicizzare l'evento può soltanto minarne la portata. Accompagna le sue raccomandazioni con un invito al dialogo e fa dunque un po' specie che uno dei siti ancora sotto oscuramente sia proprio www.thechinadebate.org, un forum creato da Amnesty per promuovere il dibattito sulla situazione dei diritti umani in Cina.
Insomma, nella Cina preolimpiadi il nervosismo è latente. Aumentato anche dall'arrivo di una cattiva notizia, pur se fortunatamente senza danni collaterali: un terremoto di magnitudo 6.1 della scala Richter è stato registrato nella provincia cinese del Sichuan, alle 4,32 di ieri mattina (ora locale). Una scossa di assestamento con epicentro nell'area compresa tra le contee Pingwu e Beichuan e la città di Mianyang City. Un leggero movimento tellurico è stato registrato anche nel Chengdu, dicono i sismologi cinesi. Assestamenti che risvegliano comunque la paura innescata dal recente sisma che ha colpito duro la repubblica popolare e il cui ricordo è tra l'altro appena legato ai guai (un anno di "rieducazione") passati dall'insegnante di una scuola media di Guanghan che aveva messo in rete immagini scattate dopo il sisma di maggio. Quanto al web restano off limits le pagine del Falun Gong che il governo di Pechino considera una minaccia per la sicurezza nazionale. Decisione che a molti non è piaciuta. E del resto i critici non smettono di parlare. Tra i tanti, Daniel Cohn-Bendit, l'ex leader del maggio francese, ha lanciato un nuovo appello ai governi occidentali affinché boicottino la cerimonia di apertura dei Giochi. «Andare all'apertura dei Giochi olimpici è un errore e sarebbe stato importante dare un segnale politico forte, tanto più che i cinesi non hanno rispettato nessuno degli impegni assunti quando si decise che i Giochi olimpici si sarebbero svolti a Pechino». Tra sì e no, vado non vado e prove di mini democrazia via rete, l'appuntamento dell'8 agosto si dimostra comunque interessante. E, politicizzati o meno, i Giochi in Cina resteranno un buon precedente per scrutinare chi li ospita. Dimostrando che lo sport non può comunque nascondere le verità che non piacciono ai governi.
venerdì 1 agosto 2008
l’Unità 1.8.08
Europee. Oggi la bozza Calderoli al Consiglio dei ministri
È un testo di mediazione quello che arriverà oggi in Consiglio dei Ministri. Roberto Calderoli e Umberto Bossi hanno lavorato di lima, tenuto conto delle posizioni dei piccoli e delle opposizioni, e alla fine hanno preparato una bozza di riforma elettorale per lo scrutinio europeo che dovrebbe trovare un’accoglienza favorevole. Almeno per quanto riguarda la questione dello sbarramento, previsto al 4%. Perché invece su liste bloccate e preferenze, le posizioni sono ancora lontane. Soprattutto con Berlusconi che non ha mai nascosto la propria avversione per la scelta del candidato e la propensione, invece, per il porcellum.
Quello di oggi si preannuncia comunque come una discussione preliminare, visto che poi l’eventuale disegno di legge dovrebbe essere lasciato al dibattimento in Aula per trovare larghe intese e, soprattutto, per non irrigidire le differenze interne alla maggioranza.
La bozza Calderoli prevede la soglia al 4%, l’aumento fino a dieci delle circoscrizioni, il tetto a tre liste per le candidature multiple e una preferenza. Se lo sbarramento dovrebbe avere largo consenso, visto che si tratta di una mediazione tra il 5% proposto dal Pdl e il 3% del Pd, per la preferenza si preannuncia una maggioranza trasversale. Contro le liste bloccate sul modello della legge elettorale italiana si sono già pronunciati il Pd, l’Udc e buona parte di An.
Ma mentre sullo sbarramento alza la voce il piccolo Movimento delle autonomie che mette in guardia il premier, la vera grana riguarda la questione di genere. Il Pd, infatti, aveva presentato un proprio progetto di legge che prevedeva la doppia preferenza con l’obbligo di alternanza, un uomo una donna. «Cosa intende fare la ministra Mara Carfagna - ha chiesto la ministra ombra Vittoria Franco - per garantire la rappresentanza di genere?».
l’Unità 1.8.08
Il presidente romeno Basescu smentisce Berlusconi in diretta tv
«Non approviamo le misure sulla sicurezza»
di Maristella Iervasi
Bambini vestiti a festa ed emozionatissimi più degli adulti. Ma nell’unico tavolone all’ombra, neppure uno striscione di benvenuto. Neppure un caffè. Solo decine di bottigliette d’acqua congelata. È stato accolto così dai suoi concittadini, il presidente romeno Silvio Traian Basescu. La comunità romena e rom del campo di via Candoni, alla periferia ovest di Roma nel quartiere Magliana Vecchia (460 persone, la metà minori, che convivono insieme ad altri 200 bosniaci), era già pronta fin dalla sera prima. «È una giornata speciale, arriva per la prima volta nel campo il nostro presidente: lui sa cosa deve fare per noi - dicono in coro Michele, Ottaviano e Alessandro dai loro container -. Lui sa cosa chiedere a Berlusconi e Maroni. Lui sa che l’Italia ci discrimina. Lui sa che vogliono le impronte dei nostri bambini... Noi abbiamo fiducia in Basescu e lo ascolteremo, poi semmai faremo le nostre domande». E così è. Con i giornalisti e cineoperatori «in prigione» sotto lo stretto controllo dell’Interpol rumena, comincia la visita. Mentre il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, arriva sul filo del cerimoniale di Basescu evitando la figuraccia istituzionale.
Papi, 5 anni, ripete a squarciagola «Basescu, Basescu»: non parla l’italiano però lo comprende. Patrizia, di un anno più grande, ripete a mo’ di canzoncina quello che vorrebbe dire al presidente: «Vedi lassù quegli alberi anneriti? Hanno dato fuoco gli italiani», ma si emoziona e tace. Parla per tutti Bambalau, il coordinatore del campo di via Candoni: «Sappiamo presidente, che vuole collaborare con il governo italiano. Sui comportamenti della gente italiana non mi esprimo perchè mi vergogno - sottolinea -. Noi vogliamo l’integrazione e chiediamo lavoro. Se guadagnassimo tutti e bene potremmo anche tornare in Romania».
Basescu stringe mani e fa un breve sopralluogo nel campo. Tutto è ordinato e pulito. Entra nel container dove abita Cassandra, 11 anni, che ha messo in bella mostra un orsetto, un coniglio e qualche bambola. Poi ritorna al centro del campo e comincia il suo discorso: «So che avete qualche problema - dice ai suoi concittadini - e sono qui per dirvi che non vi abbandoneremo. Quel che vedo in questo campo mi incoraggia, la collaborazione con le autorità italiane può continuare. Quello che non siamo riusciti a risolvere a casa - ammette -, l’integrazione della minoranza Rom in Romania, sarà risolto insieme con Roma. Dobbiamo trovare le soluzioni per i posti di lavoro, il soggiorno. I bambini devono andare a scuola. Tutti. Capiamo gran parte delle misure sulla sicurezza prese dal governo italiano, ma non possiamo essere d’accordo a un trattamento che è al di là delle norme Ue. Voi siete comunitari, siete cittadini europei. Dovete comportarvi come tali e la scolarizzazione è essenziale: l’etnia rom non ha opportunità se non manda i figli a scuola». E sul rispetto delle leggi, avverte: «La Romania non farà scudo per quelli che trasgrediscono, non li proteggerà».
Nessun riferimento, dunque, alla pesante presa di posizione del Consiglio d’Europa sui nomadi, nessun accenno al «caso» impronte e discriminazioni. Poi un pranzo di lavoro con Silvio Berlusconi e una conferenza stampa. Risultato: Basescu fa in un primo momento il cerchiobottista e Berlusconi sfodera la strategia del sorriso e si vanta di chiamarsi Silvio, proprio come il presidente romeno. «Cittadini rumeni discriminati in Italia? Sono preoccupazioni irreali create da certi ambienti e che non ci appartengono», dice Basescu all’inizio. «Dal governo italiano semplici misure di sicurezza per proteggere i suoi cittadini ma non sono norme contro i cittadini romeni». Poi, più avanti, colpo di scena, smentisce in diretta tv Berlusconi e ribadisce l’opposto: «Il governo romeno non approva, ripeto non approva, parte o gran parte delle misure sulla sicurezza». E sulla schedatura dei bimbi rom, il capo di Stato romeno pronuncia frasi che vogliono suonare come un altolà: «Le impronte ai bambini - precisa il premier romeno - saranno prese con l’autorizzazione dei genitori, del tutore legale o alla presenza di un giudice nei casi in cui non esista un documento di identità».
Berlusconi fa il padrone di casa e, con imbarazzo, cerca di garantire: «Non c’è nessun trattamento di disparità tra i cittadini italiani e quelli romeni: godono degli stessi diritti europei. Sottoporre i bambini rom all’identificazione con le impronte digitali non è una misura restrittiva, serve per garantire ai bambini di andare a scuola, di andarci veramente». Quanto alle relazioni dell’Europa e alla sonora batosta del Consiglio d’Europa sulle misure per i nomadi, Berlusconi commenta: «Il parlamento europeo ha dato una risposta politica basata su una irrealtà. Una disinformazione assoluta». Prossimo appuntamento il 9 ottobre, con il vertice intergovernativo tra l’Italia e la Romania.
l’Unità 1.8.08
Editoria a rischio: sui giornali di partito si abbatte la scure
Via i contributi diretti: nel mirino ci sono 229 testate. Ma sono state mantenute le agevolazioni per i grandi gruppi
di Luca Sebastiani
Vita (Pd): iniziativa lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione
Le cifre
229 SONO LE TESTATE no profit, cooperative e di partito che hanno accesso ai contributi diretti.
12 SONO I QUOTIDIANI organi di partito.
13 TRA QUOTIDIANI E PERIODICI VARI, sono le teste legate a movimenti politici
170 SONO I MILIONI che mancano all’appello già nell’anno in corso
187 SONO i MILIONI che la manovra taglia per gli anni 2009 e 2010
SEMPLIFICAZIONE È con questa tranquillizzante dicitura che il governo ha sentenziato la condanna a morte di una parte del mondo editoriale italiano. E come spesso accade per i provvedimenti concepiti con disinvoltura dal ministro dell’Economia Robin Tremonti Hood, è ovviamente della parte più debole dell’editoria italiana che si parla. Quella cooperativa, politica. Quella cioè che non riuscendo a vivere della raccolta pubblicitaria, vive grazie ai contributi diretti dello Stato in virtù del principio che l’esistenza di una stampa libera, indipendente e pluralistica sia uno dei pilastri della democrazia.
Per essere concreti. Se alla fine la finanziaria estiva del governo verrà approvata con la stessa fretta con cui è stata partorita, giornali come il Manifesto, Liberazione, Europa, L’Unità o Il Salvagente, Il Foglio, Libero, Il Secolo, La Padania avranno di fronte a sè giorni bui. In termini di bilancio e posti di lavoro.
Il tutto è contenuto nell’articolo 44 del decreto legge 122, intitolato «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi all’editoria». A leggerlo, di riordini, pur reclamati da più parti, non se ne vede l’ombra. Come di semplificazioni del resto. A meno che per semplificazione non si voglia intendere il colpo di scure ceco e indifferenziato dei contributi diretti, quelli appunto di cui vive l’editoria cooperativa, non profit e di partito, 229 testate in tutto. Quella fetta d’informazione, cioè, la cui raccolta pubblicitaria arriva al 20 per cento dei ricavi quando va molto bene.
Il fabbisogno per il 2008 dell’editoria nel suo complesso è stata stimata intorno ai 589 milioni di euro, 190 per i contributi diretti e 399 per gli indiretti, agevolazioni fiscali, elettriche e satellitari. Quei contributi di cui godono principalmente le grandi testate come il Corriere della Sera, La Repubblica o Il Sole 24 ore. Quei quotidiani, cioè, che spesso hanno nei loro bilanci sostanziose raccolte pubblicitarie. Qualche volta superiori agli incassi delle vendite. La finanziaria del precedente governo aveva già previsto per il comparto uno stanziamento di 414 milioni, dunque già al di sotto del fabbisogno. Ma ora Tremonti ha fatto di meglio e ha sforbiciato da quella cifra 87 milioni nel 2009 e 100 nel 2010 solo sui contributi diretti «lasciando intonsi i 305 indiretti», come dice un preoccupato comunicato di Mediacoop.
Insomma, un attacco tale al diritto soggettivo ai contributi diretti, che anche la maggioranza ha mugugnato parecchio. All’inizio di luglio in Commissione Cultura alla Camera votò un emendamento con l’opposizione in cui si chiedeva di «escludere qualsiasi riduzione delle risorse destinate ai contributi diretti». Ma per ora non c’è stato niente da fare e ieri Alessio Butti, senatore del Pdl, ha confessato di non poter nascondere la sua «profonda delusione per i tagli apportati indiscriminatamente all'editoria». Così, ha detto, si «mettono seriamente nei guai decine di giornali venduti in edicola, che hanno migliaia di abbonati e occupano centinaia di giornalisti». Anche il senatore del Pd Vincenzo Vita durante la discussione ha definito quello che sta avvenendo come un «delitto perfetto». «Un’iniziativa - ha detto - lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione».
l’Unità 1.8.08
Oggi il governo taglia i fondi a tutti i giornali considerati politici
Radio Londra
di Furio Colombo
Ha ragione Il manifesto a definire “misteriosa” Radio Radicale. Come spiegare una radio simile in un Paese che ha subito (e subisce da tempo) un pauroso blocco delle informazioni, nel Paese della Rai visiva e della Rai parlata, in cui una questione testamento biologico te la spiega un vescovo, una di sospetta finanza viene affidata al presunto imputato, il presidente dell’azienda di un vasto spionaggio telefonico viene intervistato per scagionare se stesso, l’immigrazione si chiama “sicurezza”, l’estate nelle città deserte “emergenza”, con pattuglioni di lancieri e granatieri fra turisti storditi, l’immondizia a tonnellate scompare quando ti dicono che è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione e di prova, e la frase: «le impronte digitali fanno bene ai bambini» viene ripetuta come un fatto ovvio, che balza agli occhi, e le reti oscurano i raid nei campi nomadi (che però l’Europa, che ha altre radio e altre televisioni, vede bene), in un Paese così una radio che non apre le notizie con il Papa, ti racconta tutto delle sofferenze di Coscioni e di Welby (e del corpo di Welby abbandonato fuori dalla chiesa), fa parlare una parte e l’altra senza giro rituale e infinto di voci fisse, ti dà le dirette dei fatti veri, ti racconta la guerra in Iraq (la vera storia) e il tentativo di salvare la vita a Tareq Aziz, questa è senza dubbio una radio misteriosa. Diciamo: estranea alla prevalente cultura italiana.
Riceve, certo, contributi per esistere. Ma trasmette tutto da tutto rendendo trasparente un Paese opaco fatto di realtà sovrapposte e impenetrabili, un Paese con le finestre murate a cura di editori, partiti, caste, e interessi speciali.
Non è né gradevole né gentile, Radio Radicale, e non è neppure la cosa più bella del mondo. Personalmente, e professionalmente, mi manca una terza parte (tutte le notizie che segnano un giorno, ripetute più volte al giorno). Ma mi mancano perché penso al solo modello “perfetto” che conosco, la «National Public Radio» americana che quasi ogni giorno dispiace ai politici di potere non perché sia di sinistra (è appena un po’ liberal) ma perché non tace su nulla. Radio Radicale, per i miei gusti, è un poco di destra (è appena un po’ troppo “di mercato”) e come la PBS non nasconde nulla. Ma gli manca il grande notiziario.
Però come saprei di Israele e Medio Oriente e della Cambogia, di Cina e Tibet e Birmania, di sperdute e abbandonate minoranze nel mondo, senza Radio Radicale?
E come comincerebbe la giornata politica di molti italiani (va bene, parlo soprattutto di addetti ai lavori) senza «Stampa e regime», la celebre rassegna stampa mattutina di Radio Radicale?
Perché la questione è diversa da una normale decisione di un normale governo? Perché è presa dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo. Quale conflitto di interessi? Quello del proprietario di quasi tutto ciò che si vede e quasi tutto ciò che si legge, che abolisce - o tenta di abolire - anche la minima concorrenza.
La questione “sostenere o no la stampa di partito” specialmente in momenti difficili è grave e seria e degna di dibattito.
Il taglio di Berlusconi però finisce per apparire una museruola, una finestra murata in più.
Se fossi Radio Radicale - che viene preservata, credo, soprattutto grazie alle dirette dalla Camera, dal Senato e moltissimi eventi politici del Paese (a volte unica fonte di cose veramente dette) - inserirei subito nei programmi ore messe a disposizione dei giornali morenti e delle loro voci che potrebbero finire per sempre nel polpettone quotidiano Rai-Mediaset. In un mondo di regime (che - ti dicono a Radio Radicale - non comincia con Berlusconi, è più radicato e più antico) potrebbe essere un’idea di salvezza.
furiocolombo@unita.it
l’Unità 1.8.08
Eluana, l’ingerenza dei deputati
E la Procura: stop alla sentenza
di Anna Tarquini
Dopo 16 anni «non è stata accertata con sufficiente oggettività l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente di Eluana Englaro» e «non vi è certezza sul fatto che il paziente sia del tutto privo di consapevolezza». Con queste motivazioni la procura generale di Milano ha chiesto ufficialmente lo stop. Stop all’esecutività della sentenza dei giudici d’Appello che avevano autorizzato i tutori a staccare il sondino, e ricorso alla Cassazione perché dia un parere sulla sentenza milanese. Erano gli unici a poterlo fare, e lo hanno fatto poche ore dopo il sì della Camera al conflitto di attribuzione, cioè al ricorso alla Corte Costituzionale. Cosa accadrà è difficile dirlo ora. Potrebbe essere una corsa contro il tempo, potrebbe invece rivelarsi una ennesima sconfitta per la famiglia Englaro. L’avvocato degli Englaro ha commentato secco: «Motivazioni sconcertanti. Resisteremo».
Il ricorso del Pg è stato depositato ieri, ma non ancora la richiesta della sospensiva dell’esecutività della ordinanza. La Camera ci aveva messo appena mezz’ora a decidere che - sia la Cassazione, sia i giudici d’Appello - avevano scavalcato le prerogative del Parlamento con quella sentenza. Questo perché non essendoci una legge in Italia che disciplina il testamento biologico né tantomeno l’eutanasia - secondo il Pdl ma non solo - i giudici milanesi avevano creato un pericoloso precedente. Si sono riuniti alle 13.30 precise, alle 14.05 sul tabellone appariva l’esito del voto. Pochi interventi e tesi già note. Per il sì ha votato tutta la maggioranza di governo. Qualche astenuto, Italia dei Valori contraria.
Dopo lunga e travagliata discussione il Pd ha confermato la decisione di lasciare l’aula prima del voto. E questo non certo per ipotetici dissensi o condizioni poste dai teodem sulle questioni etiche. Semplicemente, come ha annunciato Zaccaria in aula, perché il Pd ritiene la richiesta di conflitto di attribuzione infondata. La Cassazione non si è sostituita al Parlamento, ha solo deciso - tra l’altro sulla base di una norma costituzionale, l’articolo 32 - che Eluana, in vita, si era espressa contro l’accanimento terapeutico.
La mediazione I cattolici del Pd hanno poi voluto chiarire: «Con una sofferta mediazione il Pd ha offerto un’importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione». La nota è firmata da Paola Binetti, Bobba, Carra, Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria e Andrea Sarubbi. «Depositeremo una nostra proposta di legge sul cosiddetto testamento biologico, per mettere in chiaro il nostro no deciso alla eutanasia».
Cosa accadrà? Solo il voto della Camera non avrebbe cambiato nulla per la famiglia Englaro. Non così il ricorso della Procura generale. «Questa è solo la politicizzazione del caso di Eluana Englaro. La sentenza c’è e non può essere né sospesa né annullata» aveva detto Franca Alessio, curatrice speciale della ragazza. «Per noi - ha invece spiegato l’avvocato Angiolini dopo il voto dell’aula -, la situazione oggi è uguale a ieri, e identica a tre settimane fa: la Corte d’Appello, come poi confermato dalla Cassazione, ha autorizzato il signor Englaro a porre fine alle sofferenze della figlia, ed è quello che farà quando lo riterrà opportuno, né prima né dopo».
La legge è chiara «Per interrompere una sentenza esecutiva come quella della Corte d’Appello ci vuole una richiesta esplicita di sospensione alla stessa Corte». Ora quella richiesta c’è e aveva visto bene il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi (Pdl), tra i firmatari della richiesta di ricorso alla Consulta, che poche ore prima aveva detto: «I tempi? Crediamo che saranno molto brevi proprio per l’importanza del caso».
Otto disegni di legge in Parlamento, dalla richiesta di regolamentare il testamento biologico alla legalizzazione dell’eutanasia. Quando un anno fa si era vicini a una sintesi possibile delle varie proposte, una sintesi di garanzia che preludeva alla discussione in Commissione Sanità prevista per maggio, intervenne la Cei con una nota secca. «Non riteniamo necessaria una legge specifica sul testamento biologico». Tutto si fermò. I casi Welby, Nuvoli, Englaro, tornarono nelle mani dei giudici. Ieri Antonello Soro, capogruppo del Pd alla Camera, ha scritto a Fini. Il vuoto legislativo attorno al «fine vita» va colmato al più presto. Serve che il «testamento biologico sia in tempi rapidi calendarizzato a Montecitorio.
l’Unità 1.8.08
Eluana, l’ultimo affronto
di Maurizio Mori*
Una cosa è certa: i coniugi Englaro non avrebbero mai immaginato di innescare un caso storico di proporzioni tanto grandi. Volevano rispetto e giustizia per la loro figlia, della cui volontà si sentono gelosi custodi. Mai avrebbero pensato di arrivare a sollevare addirittura un “conflitto d’attribuzione” tra poteri dello Stato, giungendo così a mettere in crisi i massimi vertici della vita sociale e giuridica del Paese. Invece è capitato. Ieri, a maggioranza, la Camera ha approvato la mozione del centro-destra che afferma che su certi temi fondamentali come quello di Eluana Englaro spetta al Parlamento dare una risposta attraverso specifiche leggi e non a Corti specifiche sia pure quella di Cassazione. Oggi, voto simile è scontato al Senato. Un bel successo, che merita una pausa di riflessione.
Dal punto di vista pratico, per la vicenda umana di Eluana, la decisione del Parlamento è pressoché irrilevante sia perché la soluzione del conflitto è demandata alla Corte Costituzionale la cui risposta non sarà immediata, sia perché non è detto che la risposta sarà quella attesa dalla maggioranza dei parlamentari. A ben vedere, quindi, quella della attuale maggioranza è solo una mossa propagandistica fatta per accontentare quei cattolici fautori dello strenuo vitalismo: è una mossa che rassicura i difensori della sacralità della vita, i quali sentono che ci si muove per loro “ai massimi livelli”! Ma è anche un po’ di fumo negli occhi, perché per ora non cambia nulla o comunque non si fa altro che rimandare la questione ad altra sede - senza così urtare la sensibilità di alcuno.
Colpisce, infatti, come non si siano elevate voci decise a netto sostegno della decisione dei giudici. Non so se ciò sia dipeso da condizionamenti mediatici (la stampa, salvo sporadiche eccezioni, è orientata in direzioni ben precise), ma poco rilievo è stato dato ad eventuali elogi dei giudici che nel caso hanno difeso la libertà dei cittadini - come vuole la Costituzione e gran parte dell’opinione pubblica. Qui c’è un altro punto da chiarire: vari sondaggi negli ultimi giorni hanno confermato che circa l’80% dei cittadini sostiene la decisione della Corte di Milano e la posizione del padre di Eluana, Beppino Englaro. Ma anche questa notizia è passata sotto silenzio. Anzi, a leggere i giornali sembra proprio l’opposto, e che l’iniziativa lanciata di cattolici e dai vitalisti della “bottiglia d’acqua per Eluana” sia andata alla grande, invece di essere stata un grande fiasco con pochissimi sostenitori. Lo stesso capita coi neurologi, che in gran parte stanno col Gruppo di studio di bioetica e cure palliative della Società Italiana di Neurologia, che ha fatto sapere di avere studiato il caso Englaro già anni fa e di apprezzare la sentenza della Corte di Milano.
Colpisce come le forze a favore dell’innovazione non abbiano dato voce alle esigenze di modernizzazione bioetica che premono e sono forti nel Paese. L’Italia è un Paese avanzato e non può continuare a vivere in base a criteri vitalisti dettati dalla sacralità della vita. Ci sono certi processi storici che non si possono imbrigliare con decisioni parlamentari, tanto più quando esse sono “di facciata” come quelle prese col conflitto d’attribuzione. Non sono un costituzionalista e comunque è difficile prevedere quale sarà la soluzione della Corte Costituzionale al riguardo. Ma devo dire di essere istintivamente sorpreso (e un po’ spaventato) da affermazioni del tipo: «Decidendo della morte di Eluana la Cassazione si è arrogata un potere del Parlamento». Si lascia così intendere che sarebbe il Parlamento ad avere il potere di decisione sulla vita e sulla morte dei cittadini! Discorsi di questo tipo mi sembrano assurdi, perché dimenticano che anche il Parlamento ha dei limiti di fronte ai quali fermarsi: i diritti civili dei cittadini. La vita e la morte dei cittadini non appartengono al Parlamento né a nessun altro se non ai titolari medesimi. E se è così, allora il conflitto d’attribuzione è ben poca cosa. Come poca cosa è il ricorso sospensivo della Procura di Milano, annunciato ieri sera, che allunga le sofferenze degli Englaro.
Le varie difficoltà e i ritardi frapposti col tempo verranno visti per quello che sono: opposizioni frutto di nostalgici della sacralità della vita che vivono un po’ fuori del tempo, in un passato ormai chiuso che tuttavia lascia in molti il profumo di momenti che furono.
* Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, Professore di Bioetica Università di Torino
Corriere della Sera 1.8.08
Nel Pd. La vittoria di teodem e rutelliani «E ora la legge anti-eutanasia»
di M.Antonietta Calabrò
ROMA — «Noi abbiamo tenuto duro: avevamo detto a chiare lettere che se il Pd avesse votato contro il conflitto, noi avremmo votato a favore». Paola Binetti, capofila dei teodem, (Bobba, Carra), cioè dei cattolici nel Partito democratico, e con loro i rutelliani (Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria, Sarubbi) ieri mostravano grande soddisfazione. «Proprio a motivo del nostro atteggiamento — continua Binetti — già martedì scorso a Palazzo Madama era emerso nel nostro gruppo l'orientamento di non partecipare al voto». Della loro posizione si era fatto interprete e garante l'ex presidente del Senato, Franco Marini, e così, nel Pd, si è arrivati alla scelta del «non voto», nonostante il capogruppo alla Camera Soro abbia ribadito in Aula che sollevare il conflitto è sbagliato e che «non ce la si può prendere con i giudici ».
La linea dei teodem insomma è risultata vincente, mentre è rimasta nell'angolo quella della cattolica «adulta» e prodiana Bindi, l'ex ministro della Famiglia, che nell'ufficio di presidenza di Mon-tecitorio, mercoledì, si era apertamente dichiarata contraria a che ci si rivolgesse alla Corte Costituzionale. Anche se poi la Bindi, disciplinatamente, ieri in Aula, si è astenuta. «Oggi il Pd con una sofferta mediazione ha offerto una importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione », hanno commentato i rutelliani. Ma hanno anche voluto subito mettere in evidenza che la nuova legge da tutti richiesta non potrà in ogni caso essere il lasciapassare per forme più o meno larvate di eutanasia, «inclusa la sospensione della nutrizione e della idratazione, che in nessun caso possono essere assimilate a qualsivoglia forma di accanimento terapeutico». «Il vuoto legislativo attorno al fine vita va colmato al più presto», ha scritto Soro al presidente della Camera Fini. Ma proprio per questo già ieri i teodem hanno depositato un loro progetto di legge alternativo a quello del collega di partito Ignazio Marino. Nel ddl della Binetti «ci sono altri due no altrettanto forti: no all'abbandono terapeutico e no all'accanimento terapeutico ». Viceversa «ci saranno anche tre sì chiari e decisi»: «alle cure palliative», «alla garanzia che la volontà del paziente sarà rispettata nei fatti e nelle intenzioni», «alla possibilità per il medico di fare obiezione di coscienza».
Quanto ad Eluana, per i parlamentari rutelliani del Pd «la sua vita appesa ad un sondino è la vera immagine della precarietà e non può che suscitare un profondo senso di smarrimento e un altrettanto profondo desiderio di tutelarla». Per questo, «nonostante tutta la comprensione e la compassione con cui partecipiamo alla vicenda della famiglia Englaro, vogliamo che Eluana viva, riaffermando che nessuno può assumersi la tragica responsabilità di togliere la vita ad un'altra persona ».
Repubblica 1.8.08
La fuga del Pd
di Miriam Mafai
Era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata. A volte la prudenza rischia di apparire indifferenza
Dunque la Camera ha votato. E ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale contro la decisione della Corte di Cassazione che aveva finalmente consentito alla richiesta del padre di Eluana Englaro di sospendere l'alimentazione e l´idratazione forzata della figlia in stato vegetativo permanente da ormai sedici anni.
La Camera ha votato e il pg di Milano ha fatto ricorso contro la sentenza, dunque la povera Eluana dovrà ancora restare attaccata a quel sondino, invecchiare così nel buio profondo di una morte non ancora ufficialmente certificata.
Da più di dieci anni giacciono di fronte alla nostre assemblee elettive proposte di legge intitolate dal cosiddetto "testamento biologico" grazie al quale ognuno di noi avrebbe il diritto di decidere della fine della sua vita, quando e come e perché staccare quel sondino e quelle macchine che possono tenerti immobilizzato, per anni, in quello spazio di morte che non è più la morte naturale di una volta, ma l´orrore di una zona intermedia in cui è una macchina che pompa il sangue, ti alimenta artificialmente per un tempo che può durare per anni. Per Eluana sono passati già sedici anni.
L´orrore di questa condizione inumana non conta nulla di fronte al voto dei nostri parlamentari. Non conta nulla nemmeno la sentenza della Cassazione che finalmente aveva acceduto alla richiesta del padre di Eluana.
Non conta nulla nemmeno il fatto che le nostre assemblee elettive, non siano riuscite nel corso degli anni passati a esaminare ed approvare una delle molte proposte di legge sul "testamento biologico" che metterebbero ognuno di noi al riparo da questa violenza esercitata sui nostri corpi alla fine delle nostra vita.
Ma quello che più mi ha colpito nella seduta di ieri della Camera dei deputati, di fronte a quel voto, è stata il silenzio dei parlamentari del Partito Democratico.
Il loro rifiuto di assumere una posizione e di esprimersi con un sì o con un no. Il loro ripiegare su un´astensione che appare una fuga dalle responsabilità.
Il caso Englaro è di fronte alla pubblica opinione e alle assemblee legislative da quasi dieci anni. Non è certamente colpa del Partito Democratico se una legge equilibrata sul testamento biologico non è stata ancora discussa e approvata. Basterebbe ricordare a questo proposito l´instancabile azione svolta da uno scienziato come Ignazio Marino, eletto senatore nelle file del Pd.
Questa battaglia continuerà, penso, al Senato, dove è stata recentemente presentata una proposta di legge sottoscritta da cento senatori del Pd, dell´Italia dei Valori e del Pdl.
Ma ieri, alla Camera, il Partito Democratico ha preferito non prendere parte alla votazione. Non mi convince la spiegazione che ne è stata fornita in aula. Sappiamo tutti che convivono nel Pd sentimenti e parlamentari laici e cattolici. Sappiamo tutti che una mediazione tra queste diverse culture richiede attenzione, intelligenza e prudenza. Ma ci sono casi e momenti in cui la prudenza rischia di apparire indifferenza o pavidità.
Attorno al caso di Eluana Englaro, alla sua tragedia e a quella del padre, attorno a un caso drammatico che investe la coscienza di tutti noi, era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata dei deputati del Partito Democratico. Non c´è stata. È una brutta giornata, questa, per chi crede nel Partito Democratico e nella laicità del nostro Stato.
il Riformista 1.8.08
Lo Stato va in crisi per Eluana
UN'ACCUSA GRAVE CHE MINA L'EQUILIBRIO ISTITUZIONALE
di Mario Ricciardi
C on il voto favorevole della Camera si mette in moto il procedimento che potrebbe portare la Corte Costituzionale a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato relativamente alle sentenze sul caso Englaro. Secondo i parlamentari del centro-destra, che chiedono il ricorso a questo strumento di tutela, i giudici hanno violato il confine tra interpretazione e produzione del diritto, arrogandosi di fatto il potere di fare le leggi. Un'accusa di straordinaria gravità che aprirebbe una crisi senza precedenti nei rapporti - per niente sereni - tra magistratura e parlamento. Tuttavia, ci sono almeno due ragioni di perplessità sulla pretesa avanzata con il voto della Camera. In primo luogo, c'è un dubbio di natura concettuale. Secondo i parlamentari che hanno votato a favore, la Corte di Cassazione avrebbe «travalicato i limiti della funzione ad essa affidata dall'ordinamento, esercitando di fatto un potere legislativo in una materia non disciplinata dalla legge e ponendo a fondamento della sua decisione presupposti non ricavabili dall'ordinamento vigente, neppure mediante l'applicazione dei criteri ermeneutici». L'allusione è ai due principi che la Cassazione ha proposto come guida per le future decisioni in materia, che hanno orientato la successiva pronuncia della Corte di Appello di Milano che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione di Eluana Englaro. Come si ricorderà, la Corte di Cassazione aveva stabilito che tale sospensione è lecita quando «a) secondo un rigoroso apprezzamento clinico la condizione vegetativa sia irreversibile e non vi sia possibilità di recupero della coscienza; b) la richiesta sia espressiva, in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti, tratti dalle precedenti dichiarazioni del malato ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, della sua identità e del suo modo di concepire la dignità della persona». Si tratta di standard formulati in modo generale il cui scopo è suggerire una cornice interpretativa, alla luce del diritto vigente, per le corti di merito che dovessero trovarsi in futuro a decidere su casi simili. Un modo di orientare gli indirizzi della giurisdizione che la Cassazione esercita abitualmente, e che risponde a una ragionevole esigenza di uniformità nell'applicazione del diritto. Suggerire, non ordinare, perché in un ordinamento in cui i precedenti - anche quelli delle corti superiori - non sono in senso stretto fonte del diritto non è immaginabile che la Cassazione abbia inteso produrre norme da applicare immediatamente, senza ulteriore valutazione da parte dei giudici di merito. Ovviamente la sentenza della Cassazione sul caso Englaro è criticabile, come tutte le sentenze, e non si può escludere che essa sia in parte il frutto di un ragionamento fallace. Tuttavia, un'interpretazione poco convincente del diritto da parte di una Corte non è un attacco alle prerogative del parlamento. Gli effetti legali della sentenza rimangono infatti strettamente nell'ambito della questione che le è stata sottoposta, che è quella della legittimità di una sentenza di merito. La Cassazione non ha legiferato surrettiziamente, i principi che ha formulato sono aperti a revisione da parte di sentenze future, che potrebbero modificarli radicalmente, ad esempio specificandone i contenuti alla luce di considerazioni ulteriori. Dal canto suo, il parlamento rimane nella pienezza dei poteri e può legiferare come e quando ritiene opportuno sull'interruzione dell'alimentazione di una persona in stato di coma vegetativo permanente, anche se c'è stata una sentenza della Corte di Cassazione. A questa perplessità concettuale sull'iniziativa del parlamento, se ne accompagna una che riguarda il "galateo" istituzionale. Ricorrere a uno strumento concepito per situazioni eccezionali per impedire l'esecutività di una sentenza che ripugna - a torto o a ragione - a una parte dell'elettorato, è una leggerezza grave, che potrebbe avere conseguenze serie per un equilibrio tra poteri costituzionali che è fragile da tempo. Sarebbe davvero triste se la vicenda di Eluana Englaro diventasse il pretesto per l'ennesimo sfregio ai principi dello stato di diritto.
il Riformista 1.8.08
Per restare unito il pd se ne sta zitto
Ora la Procura chiede di fermare la sentenza
di Alessandro Calvi
Corte Costituzionale e Corte di Cassazione. Entrambe potrebbero occuparsi molto presto, direttamente o indirettamente, del caso di Eluana Englaro. Si tratta della ragazza da oltre 16 anni in stato di coma vegetativo permanente sulla quale di recente si è pronunciata, sulla base di una sentenza della Cassazione, la corte di appello di Milano, autorizzando la sospensione dell'alimentazione forzata. Ebbene, proprio contro quella sentenza della Cassazione si è mossa ieri la Camera che ha dato il suo via libera al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo che la Corte Costituzionale stabilisca se la Cassazione abbia interferito o meno con le prerogative del legislatore. Lo stesso dovrebbe fare oggi il Senato. Se il Parlamento va al frontale con la Cassazione, la procura generale di Milano ha deciso di impugnare la sentenza della corte di appello, ricorrendo proprio in Cassazione. Insomma, un intreccio quasi inestricabile in cui rischia di finire stritolato Beppino Englaro, il papà di Eluana, che ieri, per bocca del legale di famiglia, aveva fatto sapere di voler andare avanti, dando esecuzione alla sentenza della corte di appello di Milano. Ora, però, l'iniziativa della procura generale potrebbe portare in linea teorica alla sospensione della esecutività di quella sentenza, effetto che invece l'iniziativa parlamentare non poteva avere. Dunque, Beppino Englaro rischia, in un attimo, di vedersi sfuggire dalle mani ciò per cui aveva combattuto, in nome della figlia, per tanti anni ovvero, come ha spesso detto lui stesso, la possibilità di «liberarla». E comunque la pressione sulle sue spalle sta divenendo davvero forte. Quella della magistratura milanese, certo, ma anche quella della politica. Ad aprire la strada alla possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione tra Parlamento e Cassazione era stata una iniziativa del Pdl al Senato. Alla fine, però, complice il dibattito sulla manovra economica che si è preso la precedenza a Palazzo Madama, è arrivata prima la Camera che ha dato un via libera scontato ma anche sofferto. Che infatti Pd e Pdl debbano fare i conti con qualche smagliatura non è un segreto. A favore si è espresso il Pdl, seppure con qualche importante dissenso come quello di Benedetto Della Vedova - ex radicale come Quagliariello con il quale si è giocato quasi un derby. A favore anche Lega e Udc. Contro, invece, l'Idv. E contro sarebbero stati anche i radicali se non fossero stati impegnati a occupare le stanze della commissione di vigilanza sulla Rai. «Niente Aventino», era la richiesta al Pd. Invece, alla fine, Aventino è stato perché il Pd ha preferito non votare. La ragione l'ha spiegata ieri su queste pagine il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti, sottolineando che il Pd non avrebbe partecipato al voto per non legittimare una «operazione politica cinica» e l'uso «strumentale di un dramma umano». E così la giornata di ieri è terminata con un rimbalzo di notizie tra Parlamento e tribunali, tra Roma e Milano. E con il via libera a portare la decisione della Cassazione all'attenzione della Consulta. Soddisfatto, naturalmente, il Pdl. E soddisfatti anche i teodem del Pd per la «manifestazione di unità» data dal partito «non partecipando al voto». È una soddisfazione che porta con sé l'annuncio di una nuova proposta di legge sul testamento biologico che darà qualche grattacapo ai laici del partito. E, anche per questo, quella dei teodem è una soddisfazione che suona quasi come una beffa per il resto del Pd, costretto - anche per evitare di rendere pubbliche le divisioni al proprio interno - a ripiegare sulla strategia del silenzio, se non fosse per una lettera inviata da Antonello Soro a Gianfranco Fini per chiedere una sessione parlamentare dedicata al fine vita. Oggi si replica in Senato. Non sono previste novità di rilievo se non un ordine del giorno del Pd che, nei contenuti, ricalca la lettera di Soro a Fini. Qualche mal di pancia potrebbe venire a galla nel centrodestra - anche qui ricalcando lo schema già andato in scena alla Camera - ma da quelle parti nessuno sembra agitarsi più di tanto. Il Pd, invece, non voterà, proprio come a Montecitorio. E ieri Donatella Poretti ha confermato lo marcamento radicale anche al Senato. Insomma, si replica, con un Pd che ieri, se non ci fossero stati i radicali, per il timore di apparire diviso sarebbe rimasto in silenzio, trincerato dietro una posizione ufficiale che è quella di non legittimare l'operazione del Pdl. Si tratta di una posizione comprensibile e che fa perno sulla lettera di Soro a Fini e sull'ordine del giorno portato oggi in Senato per dimostrare che non è vero che il partito abbia perso la voce su temi così importanti. Ma è anche una posizione che, proprio nel chiedere che il Parlamento si attivi sul fine vita e nel negare che il non voto sia dovuto alle divisioni interne, non spiega come mai per ben due anni nella scorsa legislatura il Parlamento non sia stato in grado di farla quella legge. E allora il centrosinistra in Parlamento aveva la maggioranza.
il Riformista 1.8.08
Non ha partecipato al voto
Dietro l'assenza del Pd, forse un'apertura
di Gaetano Quagliariello
Ci sono vicende che riguardano il privatissimo dolore delle persone ma a causa delle loro conseguenze hanno una grande rilevanza pubblica e un'innegabile ricaduta sulla convivenza civile. Il caso di Eluana Englaro ne è un esempio emblematico. Posto di fronte a queste situazioni, chi è investito della rappresentanza del popolo sovrano ha due strade davanti a sé. Può rispettare profondamente il dramma umano, senza per questo omettere di intervenire sulle conseguenze pubbliche che esso implica, esercitando così fino in fondo la propria responsabilità. Oppure si può trincerare dietro un rispetto formale e andare avanti, anche a costo di abdicare al proprio ruolo. Leggendo quanto ha scritto ieri su queste pagine, mi sembra evidente che Vannino Chiti appartenga alla seconda scuola di pensiero. Non mi stupisce particolarmente. La scelta si comprende alla luce della storia politica e della tradizione culturale dalle quali Chiti proviene. Quel che invece trovo stupefacente è che chi manifesta questo tipo di approccio possa accusare di cinismo quanti hanno sempre distinto con rigore la dimensione privata del dramma umano di Eluana Englaro e le scelte dei singoli dalla dimensione pubblica che gli sviluppi giudiziari della vicenda hanno evidentemente e prepotentemente assunto. Mi riferisco alla sentenza della Corte di Cassazione. In gioco non ci sono le convinzioni politiche o il credo religioso, e non c'è nemmeno l'opinione che ciascuno può nutrire sull'eutanasia, sulla vita e sulla morte o sulle dichiarazioni anticipate di volontà. In gioco c'è il fatto che sono stati ampiamente superati, su un tema delicatissimo, i normali confini della discrezionalità giudiziaria e della potestà interpretativa che certo spetta ai giudici. La sentenza della Cassazione, infatti, non si è limitata - come avrebbe dovuto - a rispondere all'istanza di un cittadino rifacendosi, in assenza di una specifica legge di riferimento, alle norme e ai principi dell'ordinamento vigente e alle migliori pratiche mediche. Ha fatto molto di più: ha stabilito che la volontà del paziente in stato di incoscienza possa anche essere ricavata dal suo stile di vita. Ed è intervenuta in maniera assolutamente apodittica e assertiva sul punto sul quale il Parlamento si divide: se, cioè, alimentazione e idratazione artificiali debbano o meno essere considerate trattamenti sanitari. Ne risulta una sorta di ribaltamento dell'onore della prova: sviluppando in concreto il ragionamento della Cassazione, non sarebbe più il medico in scienza e coscienza a dover tenere conto di eventuali dichiarazioni pregresse del paziente non più in grado di esprimersi; al medico, in assenza di un cosiddetto consenso informato, sarebbe di fatto vietato alimentare, idratare e curare il malato! È una sentenza abnorme, ancor più perché discostandosi dall'ordinamento vigente lede le prerogative parlamentari, cosa che al vicepresidente del Senato non dovrebbe sfuggire. Quanto alla "sfida" di porre alcuni paletti legislativi ai problemi relativi alla fine della vita, non sfuggirà al senatore Chiti che la scelta di elevare un conflitto di attribuzione per riappropriarsi degli spazi che la Costituzione assegna al legislatore è il necessario presupposto di un'assunzione di responsabilità che ci deve portare in tempi brevi a legiferare, affrontando il problema delle dichiarazioni anticipate di volontà nel più ampio contesto del "fine vita" per comprendere anche aspetti come l'accanimento terapeutico, le cure palliative e l'assistenza ai malati terminali. Tutto ciò per evitare due rischi contrapposti ma ugualmente preoccupanti: che la sentenza della Cassazione venga intesa come riferimento ineludibile per la giurisprudenza e traccia per il legislatore; o che venga considerata una sentenza come le altre, destinata ad essere smentita o confermata da successivi pronunciamenti in un far west in cui i vari casi vengono risolti non in base al diritto ma in base alle propensioni ideologiche e ai convincimenti filosofici di chi si trova a giudicare. Di fronte a questo percorso non ci convincono le argomentazioni del senatore Chiti sul comportamento del Partito democratico. Se si è radicalmente contrari a una decisione, infatti, si vota coerentemente contro. Nella scelta del Pd di non partecipare al voto di oggi preferiamo vedere un'apertura, sebbene critica, alle ragioni di un'iniziativa che sarebbe giusto non valutare solo col criterio del successo o dell'insuccesso di fronte alla Corte Costituzionale, ma come viatico per una possibile collaborazione su un tema che non può lasciare nessuno indifferente.
l’Unità 1.8.08
Cammett, la fortuna di Gramsci in America
di Maria Luisa Righi
LA SCOMPARSA Addio al massimo studioso Usa del pensatore sardo. Interprete e divulgatore eccezionale delle «Lettere» e dei «Quaderni», fu artefice degli studi gramsciani in tutto il mondo
John Cammett è scomparso mercoledì scorso nella sua casa di New York. Nato nel 1927 era uno dei maggiori studiosi di Antonio Gramsci ed era stato un pioniere degli studi gramsciani nel mondo anglosassone. Quando pubblicò il suo primo articolo su Gramsci, cinquant’anni fa, dovette firmarlo con uno pseudonimo (Fred Hallett) per salvaguardare l’avvio della sua carriera accademica dagli strascichi del maccartismo. Il suo interesse per Gramsci era nato a Roma. Come raccontò lui stesso, agli inizi degli anni cinquanta, era stato licenziato per la sua attività sindacale nella fabbrica automobilistica di Detroit, dove aveva scelto di impiegarsi per svolgere lavoro politico. Aveva quindi ripreso gli studi sul Rinascimento italiano ed era venuto a Roma per approfondire le sue ricerche. Passando dalle Botteghe Oscure, rimase impressionato dall’imponenza della sede del partito comunista, situata oltre tutto in pieno centro e proprio alle spalle della Dc. «Negli Stati Uniti, - si disse - i comunisti sono pressoché clandestini, e qui in Italia riescono ad avere una sede così prestigiosa! Questo Pci deve avere qualcosa di particolare. Così mi misi a leggere gli scritti di Togliatti e ben presto incontrai Gramsci». Quando tornò negli Stati Uniti, chiese di cambiare la sua tesi di laurea, per affrontare il tema «Antonio Gramsci e il movimento dell’Ordine nuovo», grazie anche a un professore, come lo definiva lui, «veramente liberale», Shepard B. Clough, che lo incoraggiò «a perseguire una linea di ricerca che a quei tempi non era certo di moda».
La tesi discussa nel 1959 gli procurò, nel 1960, anche il premio per il miglior inedito dell’anno da parte della Society for Italian Historical Studies, istituzione di cui fu anche segretario. Grazie a una borsa di studio, Cammett tornò in Italia nel 1964. Era un anno cruciale per gli studi gramsciani: nei suoi ultimi anni di vita, Togliatti stesso aveva incoraggiato una «rivoluzione storiografica», favorendo la ricerca e la pubblicazione di nuova documentazione sulla storia del partito, e proprio nel 1964, uscirono l’antologia di Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo, 2000 pagine di Gramsci (comprensiva di molti inediti, tra cui la famosa lettera del ‘26 al Cc del partito comunista russo), il rapporto di Athos Lisa del ’33 (apparso su Rinascita a cura di Franco Ferri), e si stava completando la nuova edizione delle Lettere dal carcere, che reintegrava i passi omessi nel 1947 e comprendeva 119 nuove lettere, (uscita l’anno successivo per Einaudi, a cura di Elsa Fubini e Sergio Caprioglio. Cammett frequentando assiduamente l’Istituto Gramsci poté accedere alla documentazione che veniva via via scoperta e ordinata, e ciò lo portò a «riscrivere per intero il manoscritto originale». Nel 1967, finalmente vide la luce il suo Antonio Gramsci and the Origins of Italian Communism, per i tipi della Stanford University Press. La ricerca si segnalava, non solo per essere il primo lavoro di ampio respiro sulla biografia del dirigente comunista in lingua inglese, ma anche per aver introdotto «non pochi elementi nuovi nel dibattito gramsciano», seguendo «con puntualità critica quella linea continua fra pensiero e azione» che caratterizzava l’esperienza politica e ideologica di Gramsci - come scrisse Domenico Zucàro, introducendo la traduzione italiana: Antonio Gramsci e le origini del comunismo italiano, (Mursia, 1974). Oggi Cammett è universalmente noto nel mondo degli studi gramsciani per aver dato il via, negli anni ’80, alla Bibliografia gramsciana, comprendente tutti gli scritti di e soprattutto su Gramsci. Propose infatti alla Fondazione Gramsci di occuparsi egli stesso di una nuova bibliografia, potendosi avvalere anche delle nuove risorse messe a disposizione dall’informatica, sia per la creazione di una banca dati che per l’accesso ai cataloghi elettronici delle biblioteche. Ma fondamentale furono anche i rapporti epistolari che John riuscì a intrattenere con studiosi di tutto il mondo, che condividendo l’amore per Gramsci, si sobbarcarono il compito di stilare bibliografie nazionali. Proposta accolta da Giuseppe Vacca, divenuto nel frattempo direttore dell’Istituto. Il risultato fu una prima bozza relativa agli anni 1922-1987, presentata per la prima volta al pubblico al convegno internazionale Gramsci nel mondo (Formia, 25-28 ottobre 1989). Il convegno, cui parteciparono studiosi, editori e traduttori di Gramsci provenienti da vari paesi europei, dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dal mondo arabo, dalla Cina, dal Giappone, dal Sudafrica, fornì anche a Cammett l’occasione per trovare nuovi collaboratori per la bibliografia. La rete dei suoi corrispondenti già prefigurava quella International Gramsci Society, che Cammett propose di fondare proprio a Formia, insieme a Joseph A. Buttigieg e Frank Rosengarten, curatori delle edizioni statunitensi, rispettivamente, dei Quaderni e delle Lettere.
La mole di dati presentati contava solo di studi su Gramsci 6000 titoli, in 26 lingue, e destò grande meraviglia anche tra gli specialisti. L’elaborazione elettronica dei dati aveva consentito per la prima volta di compiere un’analisi quantitativa della fortuna di Gramsci per periodi, per tipologie di scritti, per lingue. La versione a stampa, relativa al periodo 1922-1988, uscita nel 1991, come «Annali della Fondazione Istituto Gramsci» contava già mille titoli in più e 28 lingue. Dopo quell’immane fatica, John era convinto di potersi limitare a pubblicare solo periodici aggiornamenti, ma non tenne conto della potenza della rete. Man mano che si facevano più numerose le banche dati, anche al di fuori dell’area statunitense, crescevano anche le informazioni su libri e saggi mai rilevati alle precedenti ricerche. Inoltre, dai primi anni Novanta, si registrò una ripresa significativa degli studi gramsciani, sia negli Stati Uniti, dopo l’avvio della traduzione dei Quaderni per la Columbia University Press, sia in Italia, stimolata dalle ricerche su Tatiana Schucht, dal recupero di nuova documentazione proveniente dagli archivi di Mosca, nonché dalla progettata Edizione nazionale degli scritti.
Così in pochi anni la mole di titoli cresceva a ritmi geometrici, e si dovette pubblicare un secondo volume, la Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, che raccoglieva 3428 nuovi titoli. Oggi, la Bibliografia gramsciana è un’opera aperta consultabile on line sul sito della Fondazione Istituto Gramsci (www.fondazionegramsci.org). Conta oramai oltre 17 mila titoli, in 40 lingue l’afrikaans, il bengalese, l’estone, il macedone, il Malayalam, l’occitano, l’albanese), e si pone come un riferimento imprescindibile per gli studiosi di Gramsci, che dobbiamo alla tenacia, alla passione e all’entusiasmo di un grande studioso. Grazie John.
l’Unità 1.8.08
Quando la maternità diventa un boomerang
di Adele Cambria
Le leggi che, in Europa, tutelano la maternità (non così negli Stati Uniti) sono un boomerang per il successo professionale delle donne, come ha dichiarato, creando scandalo, Nicole Brewer, responsabile della Commissione per le pari opportunità della Gran Bretagna? Forse la mia “antica” testimonianza al riguardo, potrà contribuire al discorso. E dunque: la prima gravidanza, nel remoto 1959, non mi creò nessun problema sul luogo di lavoro. Anzi, diventai giornalista professionista nella redazione del quotidiano il Giorno, ideato, fondato e diretto, a Milano, da Gaetano Baldacci, mentre ero incinta di quattro mesi e tutti lo sapevano. Semmai il problema fu che mi obbligarono, all’inizio del settimo mese, a smettere di lavorare, anche se stavo benissimo; ma la legge di tutela della maternità, mi spiegarono, lo esigeva. Così, un po’ malinconica, col mio pancione, trascorsi luglio e agosto sulla Riviera Ligure, a Nervi, guardando con invidia le mie coetanee che ballavano sulla già mitica «Rotonda sul mare», o andando a sentire i Platter’s in concerto («Only You»), ed arrabbiandomi un po’ perché non potevo scriverne. Ero, lo ammetto, molto attaccata al mio ruolo di cronista di costume - ma piangevo quando mi chiamavano “cronista mondana” - e le due o tre estati precedenti le avevo passate facendo chilometri sulle spiagge più alla moda o più popolari d’Italia, alla ricerca de «La Bella del Giorno», un concorso promozionale bandito dal mio quotidiano, in tutti i sensi modernizzatore rispetto alla seriosità dei quotidiani politici nazionali.
Nessun problema, dunque, per la prima gravidanza, i problemi semmai vennero dopo la nascita del bambino: non ebbi fortuna con le bambinaie, (che potevo permettermi), e la mia furia emancipatoria mi aveva ricondotto al giornale dopo 40 giorni. Non ero affatto una precaria, il posto di lavoro era garantito dalla legge a tutela della maternità, avrei potuto restare a casa anche un anno, ma una firma “giovane” e “femminile” (già allora ragionavo in questi termini) non sarebbe sparita per sempre? (Sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1963 il bellissimo libro di Natalia Ginzsburg, «Le piccole virtù», in cui lei racconta che, mescolando il semolino col pomodoro per preparare la pappa ai figli, piangeva pensando che non avrebbe scritto mai più . Ma lei era una scrittrice, ed io una cronista!).
La soluzione - e per tutta la vita ne avrei avuto rimorso - fu quella di “deportare” il bambino da Milano a Reggio Calabria, dove mia madre l’avrebbe accudito per un anno. Intanto mi ero dimessa da il Giorno per solidarietà con Gaetano Baldacci, fatto fuori dall’accoppiata Segni/Malagodi, e mi ero trasferita a Roma, a Paese Sera. Era un giornale “povero”. «Noi non possiamo pagarla come nei giornali borghesi», mi aveva annunciato l’editore Terenzi, ed io: «Non importa, ma vorrei fare la cronista asessuata!» (Per dire che volevo uscire dalla gabbia dorata della cronaca mondana). Perciò, quando scoprii di aspettare un secondo figlio, sentii, ad intuito, che era meglio non dirlo, almeno nei primi mesi. Così, accudita dall’autista de L’Ora di Palermo, spaventatissimo dalle mie nausee, feci la traversata della Sicilia in macchina fino a Testa dell’Acqua, per intervistare un ergastolano liberato dopo trent’anni con l’ottima ragione che suo fratello - per il cui assassinio era stato condannato all’ergastolo - era vivo.
Furono due anni felici, quelli a Paese Sera, ebbi il secondo figlio senza che nessuno mi dicesse che ero obbligata a prendere il congedo preventivo di maternità, e tornai al giornale anche questa volta dopo 40 giorni. Ma fui invitata a dimettermi... Le ragioni c’erano tutte: il 27 ottobre 1962 era caduto, per un incidente tuttora misterioso, l’aereo di Enrico Mattei, e il Presidente dell’Eni era l’unico manager che desse la pubblicità anche a un quotidiano di sinistra, e, negli stessi giorni, il Paese Sera di Roma era stato “raddoppiato” da un analogo quotidiano del pomeriggio a Milano. Il mio direttore, Fausto Coen, mi disse che sarebbero stati costretti a fare 80 licenziamenti: «Lei ha avuto un bambino da poco - mi suggerì - potrà goderselo per un po’, ed è così brava che qualunque giornale borghese la assumerà...». Non gli dissi - non osai - che preferivo comunque stare a Paese Sera, e lui aggiunse la stoccata finale: «Io non posso licenziarla perché lei ha appena avuto un bambino ma, se non si dimette, saremo costretti a licenziare un padre di famiglia...».
Mi dimisi, ma senza risentimenti per il mio bravissimo Direttore, non era colpa sua, era colpa dell’aereo, era colpa di un mondo - cominciavo a capirlo - in cui l’emancipazione della donna consisteva, nel migliore dei casi, soltanto in una emarginazione collettivamente taciuta.
I giornali borghesi almeno erano più espliciti... Ne ebbi la prova qualche mese dopo, quando Alba De Cespedes mi introdusse come collaboratrice a la Stampa di Torino, dove lei, la grande scrittrice che aveva fatto la Resistenza, dirigeva «La pagina della donna». Non avevo un contratto ma lavoravo moltissimo, pubblicando anche 25, 26 articoli al mese, in tutte le pagine del quotidiano torinese (escluse quelle politiche e quelle sportive). Ero invitata anche, una volta al mese, alle riunioni col mitico Direttore, Giulio De Benedetti; ed ero anche l’unica, oltre a lui, a stare seduta, in quanto donna. Tutti gli altri, anche il povero Casalegno e lo storico Paolo Serini, in piedi. Un giorno - probabilmente perché Michele Tito, il capo della redazione romana, gli aveva trasmesso le mie richieste di regolarizzazione - Giulio De Benedetti mi si rivolse direttamente con queste parole: «Signora Cambria, lei ci tiene all’indipendenza del giornale su cui scrive?». «Certo che ci tengo!», risposi. «Allora deve capire: lei è giovane, è sposata, ha già due bambini... E se ne fa un altro, sarebbe a carico dell’azienda, che per questa ragione perderebbe un po’ della sua indipendenza...».
l’Unità 1.8.08
Prove tecniche di unione a sinistra
Parte la costituente: obiettivo, costruire un partito che cerca alleanze con il Pd per le prossime amministrative
Un appello per un percorso costituente della sinistra italiana: è stato presentato ieri a Firenze da cittadini appartenenti al mondo della politica (Sd e Pdci), del sindacato, della cultura, delle professioni, dell’associazionismo.
I promotori dell’appello chiedono di costruire un soggetto politico che unisca le forze della sinistra, che si allei col Pd fin dalle prossime amministrative e che renda partecipi i cittadini. Come si legge nel documento, «pur avendo posizioni critiche rispetto ad alcune delle scelte nelle varie giunte, è indispensabile mantenere alto il livello di confronto in primo luogo con il Pd, con una grande attenzione al mantenimento di un'alleanza nell'interesse della città».
Ma un altro punto qualificante è «rendere necessario che i cittadini, da subito, siano chiamati ad essere protagonisti delle scelte che porteranno alle elezioni amministrative e che i partiti della sinistra favoriscano questo percorso».
Lavoro, giovani, ambiente, diritti i temi di punta del documento, in cui non manca una «rielaborazione del lutto» sull’esperienza della Sinistra arcobaleno: «Quell’esperienza si è chiusa rimanendo a metà strada tra una federazione ed un accordo elettorale. Essa non può essere richiamata per liquidare l'ipotesi della costituente come fallimentare per tornare ad arroccarsi ognuno nella propria identità, magari più divisi di prima. La scomparsa della sinistra è possibile se tutti insieme non riusciremo a disegnare una prospettiva di speranza».
In cantiere fin da settembre una serie di iniziative per promuovere questo percorso costituente: politicamente, Sd parlerà con l’ala minoritaria e antidilibertiana del Pdci e con i vendoliani di Rifondazione comunista, in leggera minoranza nel partito. Ma in prima fila ci saranno anche settori della società civile.
Per ora in Toscana l’appello è stato sottoscritto, tra gli altri, da Antonio La Penna, docente della Scuola Normale di Pisa, Giorgio Bonsanti, docente universitario, Mario Ancillotti, musicista. Ma ci sono anche Mauro Faticanti, segretario Provinciale Fiom, Marco Montemagni, consigliere regionale Pdci, Alessia Petraglia, capogruppo Sd al Consiglio regionale, Anna Soldani, capogruppo Sd al Comune di Firenze. Non mancano operai, artisti, pensionati, esponenti dell’Arci e delle cooperative. Tommaso Galgani
Corriere della Sera 1.8.08
L'America e il mondo multipolare
Usa, fine dell'egemonia
di Francis Fukuyama
L 'opinionista del Newsweek, Fareed Zakaria, ha definito il mondo del futuro «un mondo post-americano».
Ho la forte impressione che le condizioni dell'economia globale stiano cambiando in modo drammatico. I presupposti sui quali era fondato il mondo della Guerra fredda, e questo lungo periodo di egemonia americana da allora, non basteranno più a guidare l'America nella realtà emergente.
Il primo, e più palese, cambiamento che gli Usa devono affrontare ha a che fare con l'evolversi di un mondo multipolare. Gli Stati Uniti restano la potenza dominante del pianeta, anche se il resto del mondo si affretta ad accorciare le distanze. Lo spostamento del potere in termini di forza economica è impressionante. Russia, Cina, India e gli Stati del Golfo Persico sono tutti in forte crescita, mentre l'America sprofonda nella recessione. Appare quindi evidente come il resto del mondo si sia sganciato dall'economia americana. La prova più eclatante del progressivo spostamento del potere sta, da una parte, nell'indebitamento degli Usa e, dall'altra, nelle riserve accumulate da molti Paesi nel resto del mondo. La Repubblica popolare cinese può contare su una riserva di 1,5 trilioni di dollari; la Russia, su 550 miliardi; la Corea del Sud, su 260 miliardi. E' inevitabile che affronteremo un mondo nel quale le scelte americane saranno sempre più limitate e vincolate.
L'evoluzione di un mondo economico multipolare è stata ampiamente studiata. Ciò che è cambiato nell'attuale assetto internazionale è che il mondo non è più dominato da Stati forti, ma da Stati deboli, talvolta addirittura fallimentari, dove i soliti strumenti del potere — in particolare, la forza militare — non funzionano più come una volta. Com'è nato un mondo di Stati deboli? La sua creazione è stata determinata dal coinvolgimento, nello sviluppo economico, di nuovi attori e gruppi sociali che precedentemente erano stati esclusi dal potere, come gli sciiti in Libano. E si estende anche al continente americano.
Un mondo di Stati deboli ha numerose ripercussioni per la potenza americana. Consideriamo questo fatto assai sconcertante: gli Stati Uniti spendono per la difesa quasi quanto tutto il resto del mondo messo assieme. Eppure sono trascorsi cinque anni e più dall'occupazione dell'Iraq, e fino a oggi non si è riusciti a pacificare completamente quel Paese. Il motivo va ricercato nel cambiamento del potere stesso. Stiamo cercando di utilizzare oggi, in un mondo di Stati deboli, il medesimo strumento — la forza militare — che abbiamo utilizzato nel mondo del secolo ventesimo, fatto di grandi potenze e Stati centralizzati. Non è più pensabile ricorrere al potere «duro» per creare istituzioni legittime sulle quali fondare una nazione.
Molte altre cose stanno accadendo nella politica internazionale, in reazione al predominio americano degli ultimi due decenni. Altri Paesi si stanno mobilitando contro gli Stati Uniti. Sono nate alleanze, come il Consiglio di cooperazione di Shanghai, con l'obiettivo esplicito di estromettere gli Stati Uniti dall' Asia dopo l'intervento militare in questa regione, successivamente all'11 settembre. L'America non è più in grado di chiamare a raccolta i suoi alleati democratici come avveniva in passato, e si è visto chiaramente in Iraq.
In breve, davanti ai nostri occhi c'è oggi un mondo che richiede abilità molto diverse. Se è giusto che l'America conservi la capacità di ricorrere, all'occorrenza, al potere «duro», non deve però dimenticare che esistono molti altri canali per proiettare quei valori e quelle istituzioni che assicureranno il perdurare della sua leadership nel mondo. Gli sforzi del governo Clinton nei Balcani, in Somalia e ad Haiti per contribuire alla creazione di nuove nazioni sono stati criticati come impegni da «assistente sociale». I detrattori sostengono che i veri uomini e i veri professionisti di politica estera non si abbassano a questi interventi, né si curano del potere «morbido », preferendo ricorrere al duro impatto della forza militare. Ma in realtà è bene che oggi la politica estera americana faccia leva sull'intervento sociale. Gli oppositori del potere americano nel mondo — i Fratelli musulmani, Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, Mahmoud Ahmadinejad in Iran, i leader populisti in Sud America — sono riusciti a raggiungere il potere perché offrono servizi sociali direttamente alle fasce più povere della popolazione.
Oggi le esigenze del ruolo di leadership per l'America appaiono pertanto assai diverse. E sollevano la questione: «L'America è davvero pronta ad affrontare un mondo nel quale non è più in grado di affermare la propria egemonia»?
Non credo che il declino americano sia inevitabile. Gli Stati Uniti possiedono enormi ricchezze di tecnologia, competitività e imprenditorialità; possono vantare un mercato del lavoro flessibile e istituzioni finanziarie fondamentalmente salde. I principali problemi attuali degli Stati Uniti sono quelli interni.
Esistono tre specifiche aree di debolezza alle quali gli Stati Uniti dovranno porre rimedio se vorranno superare gli scogli appena menzionati. Si tratta in primo luogo del calo di efficienza nel settore pubblico; secondo, di una certa pigrizia da parte degli americani quando si tratta di capire il mondo da una prospettiva che non sia quella degli Stati Uniti; terzo, di un sistema politico polarizzato che è diventato incapace persino di discutere le possibili soluzioni a questi problemi.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un numero assai deprimente di insuccessi politici dovuti all'incapacità dei funzionari pubblici nel programmare e attuare le politiche varate dal governo. Il caso più noto riguarda la mancata pianificazione dell'occupazione dell'Iraq e l'incapacità di affrontare la successiva, e imprevista, guerra civile. Negli ultimi anni sono state avviate due grandi riorganizzazioni del governo federale a Washington: la creazione del ministero della sicurezza nazionale e la riorganizzazione dei servizi segreti. Sorpresa: oggi gli americani dimostrano minori capacità in entrambe queste aree rispetto a prima della ristrutturazione.
Il secondo problema riguarda la pigrizia mentale americana per quel che attiene al mondo esterno. Dopo il lancio dello Sputnik, sul finire degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti risposero alla sfida sovietica con massicci investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, che furono segno di grande accortezza e riaffermarono la leadership americana. Dopo l'11 settembre, l'America avrebbe potuto reagire in modo analogo, lanciando grandi investimenti per capire meglio quelle parti del mondo assai complesse, e fino ad allora trascurate, come il Medio Oriente. E' un vero scandalo che nella nuova e mostruosa ambasciata americana a Bagdad solo pochissime persone parlino correntemente l'arabo. Il terzo punto concerne la situazione di stallo che mina il sistema politico americano. La polarizzazione ha fatto sparire ogni dibattito serio su come risolvere queste sfide di lungo termine. La Destra non osa parlare di nuove tasse per finanziare i servizi pubblici essenziali. La Sinistra non osa abbordare la questione della privatizzazione della previdenza sociale né dell'innalzamento dell'età pensionabile. Pertanto la cultura politica che si è venuta a creare, come risultato di queste politiche, si rivela incapace di prendere le decisioni necessarie.
Ho delineato alcune linee guida che consentiranno all'America di affrontare il futuro, ma nessuno potrà mai beneficiare di un' America chiusa su se stessa, incapace di attuare importanti politiche e troppo divisa per prendere decisioni cruciali. Tale atteggiamento rischia di danneggiare non solo gli americani, ma anche il resto del mondo.
© THE AMERICAN INTEREST, 2008 Distribuito da Global Viewpoint/Tribune Media Services, Inc. Traduzione di Rita Baldassarre
Corriere della Sera 1.8.08
Polemiche Negli inutili occhi residuali delle specie che vivono sottoterra un chiaro esempio di come funziona il meccanismo evolutivo
La salamandra salva Darwin
I rettili senza vista degli abissi: una smentita vivente del creazionismo
di Christopher Hitchens
Credenze illusorie. La fiducia nel progresso lineare o in un «disegno intelligente» impedisce di comprendere i tanti arretramenti della natura
Capita molto di rado che si abbia occasione di pensare qualcosa di nuovo su un soggetto familiare, figuriamoci poi concepire un'idea originale su un tema dibattuto, e così qualche sera fa, quando ho avuto una tale illuminazione, il mio primo istinto è stato quello di dubitare del mio primo istinto. Per dirla in breve, stavo guardando la fantastica serie televisiva
Planet Earth («Pianeta Terra»), che vanta riprese fotografiche di altissimo livello, e si parlava delle forme di vita esistenti nel sottosuolo. Le grotte e i fiumi sotterranei rappresentano forse l'ultima frontiera inesplorata e la portata stessa delle scoperte, in particolare in Messico e in Indonesia, appare stupefacente. Si sono viste varie creature che abitano questi abissi, nel buio più totale, e sotto l'obiettivo della telecamera ho notato che queste creature — specie le salamandre — possiedono quella che chiamerei una fisionomia tipica. In altre parole, come tutti gli animali sono dotate di musi, bocca e occhi disposti nel medesimo ordine. Ma gli occhi di queste creature sono evidenziati solamente da piccoli affossamenti, o rientranze. Mentre mi sforzavo di capire il significato di questa osservazione, la voce autorevole di David Attenborough spiegava quanti milioni di anni ci sono voluti perché questi abitanti del sottosuolo perdessero l'uso degli occhi di cui avevano un tempo goduto.
Se seguite anche voi l'incessante dibattito tra i sostenitori della teoria darwiniana della selezione naturale e i partigiani del creazionismo, o del «disegno intelligente », capirete immediatamente a che cosa voglia alludere. Il creazionista (definiamolo per quello che è e priviamolo del fastidioso attributo di intelligente) parla invariabilmente dell'occhio con toni sommessi. Come ha fatto, si chiede, un organo talmente complesso ad aver percorso il lungo e accidentato cammino dell'evoluzione per raggiungere la sua attuale e magnifica versatilità? Il problema era stato enunciato correttamente da Darwin stesso, nel paragrafo «Organi di estrema perfezione e complessità» della sua opera L'origine della specie:
«Supporre che l'occhio, con la sua impareggiabile capacità di regolare la messa a fuoco a distanze diverse, di consentire l'accesso di varie gradazioni di luminosità e di correggere le alterazioni sferiche e cromatiche, si sia formato grazie alla selezione naturale mi sembra, non ho timore di confessarlo, del tutto assurdo». I suoi difensori, tra cui Michael Shermer nel suo eccellente Perché Darwin è importante, si rifanno ai progressi scientifici post-darwiniani. Non si affidano a quella che potremmo chiamare «la cieca fatalità»: «Secondo quanto presuppone l'evoluzione, gli organismi moderni dovrebbero evidenziare una varietà di strutture morfologiche, dalla più semplice alla più complessa, che rispecchino un percorso evolutivo progressivo piuttosto che un atto di creazione istantanea. L'occhio umano, per esempio, è il risultato di un lungo e complicato cammino che risale a centinaia di milioni di anni fa. All'inizio forse si trattava di una semplice struttura dotata di qualche cellula fotosensibile, che forniva all'organismo le informazioni necessarie su importanti fonti di luminosità».
Non andare oltre, intima Ann Coulter nel suo ridicolo libro Senza Dio. «La domanda interessante non è: come ha fatto un occhio primitivo a trasformarsi in un occhio complesso? La domanda cruciale è piuttosto: da dove sono arrivate queste "cellule fotosensibili"?» Le salamandre di Planet Earth sembrano fornire a questo semplice profano una risposta sconvolgente a tale domanda. Gli esseri umani sono quasi programmati a pensare in termini di progresso e di curve graduali, ma sempre ascendenti, anche quando si trovano davanti all'evidenza che il passato serba tracce di grandi estinzioni di specie, tanto quanto di grandi nuovi sviluppi. Pertanto persino Shermer allude inconsciamente a un «percorso» evolutivo che punta verso il futuro. Ma che cosa si può dire delle creature che hanno fatto dietrofront, che hanno imboccato il senso opposto, passando da una vista complessa a una vista primitiva, fino a perdere del tutto l'uso degli occhi?
Se qualcuno trarrà beneficio da questa indagine, non saranno certamente la Coulter e i suoi seguaci al Discovery Institute dei creazionisti. Al massimo possono citare la Bibbia: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto». Mentre la probabilità che la cecità regressiva delle salamandre delle caverne sia un altro aspetto dell'evoluzione per selezione naturale sembra, a rifletterci, talmente palese da sfiorare la certezza matematica. Ho scritto al professor Richard Dawkins per chiedergli se mi fossi imbattuto nel germe di una nuova teoria, e ho ricevuto la seguente risposta: «Gli occhi vestigiali, per esempio, sono la prova certa che queste salamandre che vivono in ambienti sotterranei devono aver avuto antenati assai diversi da loro, in questo caso, dotati di occhi. Anche questa è evoluzione. Perché mai Dio avrebbe creato una salamandra con occhi vestigiali? Se avesse voluto creare salamandre cieche, perché non crearle prive di occhi? Perché dotarle invece di apparati oculari residuali che non servono a niente e che sembrano per l'appunto ereditati da antenati che vedevano? Forse la sua tesi ha sfumature diverse da questa, ma non penso di averla mai incontrata finora nelle pubblicazioni scientifiche».
Consiglio la lettura del capitolo sugli occhi e la loro ricca e varia genesi nel libro di Dawkins Alla conquista del Monte Improbabile (Mondadori); inoltre, del capitolo intitolato «La storia del pesce cieco delle caverne», nella sua raccolta epica Il racconto dell'Antenato (Mondadori). In quanto a me, non sono in grado di aggiungere nulla sulla formazione di cellule fotosensibili, strutture oculari primitive e cristallini, ma sono certo dell'utilità dialettica di affrontare gli argomenti convenzionali all'inverso, per così dire. Per esempio, alla vecchia domanda teista, «Perché esiste qualcosa, quando potrebbe non esistere nulla?», siamo oggi in grado di controbattere citando le scoperte del professor Lawrence Krauss e altri, riguardo la futura distruzione termica dell'universo, lo «spostamento verso il rosso» evidenziato dal telescopio spaziale Hubble che mostra l'effettivo aumento nella velocità di espansione dell'universo, e la futura collisione della nostra galassia con Andromeda, che già occhieggia nel cielo notturno. Occorre pertanto riformulare la domanda: «Perché il nostro breve "qualcosa" sarà ben presto rimpiazzato dal nulla?» Solo quando saremo riusciti a scrollarci di dosso la nostra innata fiducia nel progresso lineare e a prendere atto delle innumerevoli regressioni passate e future, solo allora potremo afferrare la crassa idiozia di quanti credono ciecamente alla divina provvidenza e al cosiddetto disegno divino.
© Christopher Hitchens, distribuito da The New York Syndicate (Traduzione di Rita Baldassarre)
Repubblica 1.8.08
La vecchia polemica che ha diviso Bertinotti e Ferrero
La sinistra alla ricerca del salotto perfetto
di Michele Serra
Gli strascichi del congresso di Rifondazione riaccendono la vecchia polemica sui "salotti", che i Bertinotti sono accusati di frequentare con troppa assiduità, e i Ferrero invece diserterebbero (preferiscono i tinelli? Le verande? Le soffitte? Le sale d´aspetto? I bovindo, vedi Paolo Conte?). Bisognerebbe che ognuno si mettesse la mano sulla coscienza. Nei salotti (delle zie, degli amici, di chiunque possieda "un alloggio", come dicono gli annunci immobiliari) ci si siede più o meno tutti.
Non essendo cosa consona, prima o dopo la cena, accalcarsi in piedi nel corridoio, o rinchiudersi nel cesso più di un paio di minuti.
E dunque sarebbe ora di stabilire, una volta per tutte, entro quali limiti un salotto sia una normale camera con divano, e quando invece diventi quel luogo di infamia e di scialo borghese assolutamente da evitare se si vuole essere un compagno che non sbaglia.
Intanto: quale metratura? Le tende di broccato, valgono una penalità? Il tavolino di cristallo? Lo schermo ultrapiatto, di quanti pollici, visto che anche la casalinga di Voghera e il delegato Fiom, con grande sacrifizio, ormai ne possiedono uno grande come un cinemascope? E il rinfresco, e le bibite, da quale soglia di lussuria in poi divengono un´offesa alla sobrietà militante? Malissimo il caviale, è ovvio, ma le uova di lompo? E tra i long drink, si può tracannare un Manhattan con fettina di leim infilzata sul bicchiere, o è meglio attenersi al bianchino da tranviere?
In mancanza di attente analisi, e tipologie opportunamente calibrate, è evidente che si brancola nel buio, e si rischia di finire diritti nella colonna infame dei salottieri di sinistra, ovviamente radical-chic non essendosi ancora trovato un sinonimo decente di questo generico epiteto, abusatissimo (il tema "descrivi un radical-chic" è oramai classico per ogni apprendista giornalista, un po´ come nei tempi andati, alle elementari, "una giornata che non dimenticherò mai").
Quando poi, finalmente, saranno censiti tutti i "salotti di sinistra", magari con apposita targhetta che avverta l´incauto ospite e lo metta in guardia fino dal pianerottolo, meglio ancora dall´androne con ficus di plastica davanti all´ascensore, rimarrà però irrisolto l´altro corno del dilemma. E i salotti di destra? Non esistono più? E se esistono, come mai non è infame frequentarli, e anzi ci si ingozza volentieri di gianduiotti, nei salotti di destra, senza che la coscienza rimorda?
E saranno ancora, i salotti di destra, in qualche modo apparentabili a quelli della mia infanzia, quando signore e signori molto compiti, molto educati, si disponevano secondo il decoro sociale dell´epoca, le signore da una parte a discutere di messinpiega e di quella poveretta di Soraya, i signori dall´altro lato che più o meno a bassa voce si raccontavano barzellette grasse (le stesse di Berlusconi adesso) e a voce più alta lamentavano l´imminente arrivo dei comunisti? Oppure saranno slittati, quei vecchi salotti della vecchia borghesia, verso la becera deriva dei tempi nuovi, con non solo i divani rifatti, ma anche le facce delle madame, e le porte aperte anche a certi brillanti giovanotti, e ragazze leggere, che una volta non avrebbero neppure potuto avvicinarsi ai centri storici, altro che ai salotti...
Infine, è molto più semplice e vantaggioso, a pensarci bene, essere di destra: si possono frequentare salotti anche lussuosissimi, anche sibariti, anche con donne scosciate, e nessuno il giorno dopo, a un congresso di partito, avrà mai niente da ridire. Perché se esistono i radical-chic, non esistono, almeno come categoria conosciuta, i reazionar-chic, e dunque fortunati i politici e i papaveri e i pavoni della destra di potere che possono tranquillamente stravaccarsi anche su tre o quattro divani a sera, con il rischio massimo di essere chiamati "dandy" anche se sputano i noccioletti delle olive nei vasi da fiori. Poi ci sarebbero i salotti di centro, ma per ora sfuggono a classificazioni riconoscibili e a giudizi.
il Riformista 1.8.08
Il marxismo nel salotto Angiolillo
di Mambo
Il Riformista con l'intervista di Alessandro De Angelis a Lella Bertinotti ha aperto un dibattito che sfiora i momenti più celebri degli scontri teorici nel movimento operaio. La signora Bertinotti, che con una certa classe non ha mai reagito in questi anni a quanti rappresentavano lei e suo marito, ma soprattutto lei, come prigioniera dei salotti romani, ha rivelato che uno di questi, a casa De Benedetti, era frequentato da Paolo Ferrero e la sua compagna. Niente di male. Una stoccatina da parte di una signora con uso di mondo contro un moralista della domenica. Invece no. La compagna di Ferrero si è adirata e ha rilasciato a Gianna Fregonara del "Corriere" una dichiarazione che rischia di farci scavare a fondo nel marxismo e nei suoi lati oscuri. Dice la signora che nei salotti ci si può stare a condizione che, una volta tornati a casa, la coppia si interroghi «sulla redistribuzione della ricchezza». Capito? Ti fai una birra dalla Angiolillo e poi te la prendi con le ingiustizie del mondo. Ma c'è un risvolto preoccupante nelle parole della signora. Che vuol dire interrogarsi sulla redistribuzione dopo una cena a casa dei ricchi? Un malintenzionato penserebbe, leggendo la frase letteralmente, che tornati a casa i due facciano un resoconto delle ricchezze che hanno visto. Non sarebbero andati a una cena, ma avrebbero fatto un sopralluogo. Oddio, vuoi vedere che si può andare nei salotti solo se si programma un esproprio proletario?
Repubblica 1.8.08
Un suo libro sul rapporto tra il filosofo tedesco e il cristianesimo
Jaspers di fronte al dio di Nietzsche
L´autore di "Così parlò Zaratustra" svela il movimento con cui il cristianesimo distrugge se stesso aprendo un vuoto che nessuno saprà come riempire
di Sergio Givone
Tramonta l´idealismo tedesco ed entra in scena Nietzsche: sarà un´apparizione grandiosa. Ma non è la dottrina dell´eterno ritorno o l´idea del superuomo a spiegare il caso-Nietzsche. I concetti che caratterizzano il suo pensiero sono per lo più iperboli filosofiche. Possono voler dire tutto, ma in realtà non dicono quasi niente. Fra non poche ambiguità e contraddizioni l´opera di Nietzsche porta alla luce ben altro: ossia il movimento attraverso cui il cristianesimo distrugge se stesso e apre un vuoto che nessuno saprà come riempire.
È quanto sostiene Karl Jaspers in un magnifico saggio scritto poco prima della guerra, ma pubblicato soltanto dopo, Nietzsche e il cristianesimo, ora tradotto e prefato da Giuseppe Dolei per Mariotti (pagg. 141, euro 14). Nietzsche, dice Jaspers, ci mette in guardia: il cristianesimo è la nostra provenienza e il nostro destino. Per superarlo bisogna farsi carico di ciò che ne resta e di ciò che ne ha rappresentato lo sviluppo storico.
Non serve contrapporre al cristianesimo una prospettiva di segno contrario. E affermare, per esempio: la verità è una sola, quella della scienza, dunque la fede non ha più ragion d´essere.
Uno stanco ritornello. Quando i contenuti della fede vengono ridotti a favole e a menzogne dei preti si ottiene soltanto di scacciare la superstizione con una nuova forma di superstizione. Invece l´autentico anticristianesimo vuole annientare il cristianesimo, non semplicemente «scrollarselo di dosso».
Alla scuola del grande ateismo moderno (da Spinoza a Feuerbach su su fino a Ivan Karamazov, «fratello di sangue») Nietzsche ha imparato che la battaglia contro il cristianesimo dev´essere condotta con armi cristiane. Solo chi è intellettualmente onesto può permettersi di dichiarare che la fede non è più credibile. Ma è stato il cristianesimo ad instillare nei cuori quel particolare tipo di morale che consiste nel volere la verità a tutti i costi.
La verità incondizionata, assoluta, non una parvenza di verità, e tanto meno una verità buona a consolare ma non a convincere. In un´ottica cristiana Dio non esita a mandare al diavolo i suoi teologi, così premurosi e falsi, e a informarli che solo Giobbe ha avuto il coraggio di dire la verità su di lui.
Per un verso Nietzsche usa i toni più duri e sprezzanti: «A chi oggi mi risulta ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano: c´è un solo modo di essere onesti in proposito: un no assoluto». Per l´altro parla di una tensione spirituale la cui origine è cristiana: «Anche noi che oggi indaghiamo, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il fuoco dall´incendio scatenato da una fede millenaria». Con Goethe Nietzsche ripete: solo Dio contro Dio, ci vuole Dio per far fuori Dio. La negazione e la soppressione del cristianesimo sono cosa del cristianesimo. Quel cristianesimo che costringe l´uomo ad aprire gli occhi sulla morte di Dio.
Che cosa rimane alla fine di questa tragedia più grande di qualsiasi tragedia del passato, anche se si tratta piuttosto di un naufragio, di un inabissarsi di ogni speranza e di ogni senso fin qui tenuti per certi? La risposta di Nietzsche è netta, inequivocabile: non resta più niente. O se si preferisce, resta il grande niente, resta il grande vuoto. Della cui vastità non abbiamo che una pallida idea, come dimostrano coloro, e sono i più, che vi si sono tranquillamente adattati, mentre altri, maggiormente consapevoli, continuano a porre domande.
Naturalmente è possibile tentar di colmare questa specie di sperdimento mentale o di vertigine con i detriti che il fiume della storia ha trascinato con sé. Tra di essi c´è per l´appunto la dottrina dell´eterno ritorno e l´idea del superuomo. Ma c´è anche la sostituzione del dio cristiano con Dioniso. Per non parlare del vagheggiamento d´un certo eroismo sublime, che dice sì alla vita così com´è, col suo carico di gioia e di sofferenza e indifferente al bene e al male. Cui segue però da parte di Nietzsche la confessione: «Sono l´opposto d´una natura eroica», immediatamente affiancata dal riconoscimento d´una certa affinità con Gesù, il mite predicatore delle beatitudini. Fino all´identificazione con la più improbabile delle divinità: Dioniso crocifisso.
Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sembra che Nietzsche si diverta a fare le prove generali del fantastico spettacolo in allestimento per quando il mondo si sarà liberato dal cristianesimo. Per sé egli riserva la parte della stella danzante nel caos. Ma ci crede davvero? Non è lui il primo a sapere che la stella da cui viene un´ultima luce sul mondo è una stella ormai spenta? Qui Jaspers chiude con un avvertimento. Ed è che Nietzsche lancia «un grido micidiale» a coloro che si lasciano sedurre da lui e pretendono di portare avanti il suo pensiero, magari professandosi cristiani: «A questi uomini di oggi non voglio essere luce, da loro non voglio essere chiamato luce. Costoro, li voglio accecare: lampo della mia sapienza! Cavagli gli occhi!»
Repubblica 1.8.08
Goethe e Eckermann
Quelle conversazioni intessute d’armonia
di Pietro Citati
Sono uscite in una nuova edizione le memorie dei colloqui tra il grande scrittore tedesco negli ultimi anni di vita e il suo segretario, ricordi illuminati dall´infallibile forza della fedeltà
Ai salotti preferiva il piccolo studio dove poteva discorrere con la sua "stella polare
Quando il maestro morì si sentì in esilio. Ma poi lo sognò che diceva "Non sono morto"
Aveva trasformato la stanza in un piccolo zoo, con falchi, upupe, sparvieri, martore
Johann Peter Eckermann arrivò a Weimar nel giugno del l823, dopo aver percorso a piedi le strade polverose ed assolate che da Hannover conducevano nella Turingia. Pochi giorni dopo, venne invitato al Frauenplan, dove Goethe abitava. Salì l´ampia scala neoclassica, si aggirò tra i saloni illuminati, coperti di quadri e di stampe, ammirando i grandi busti di Giunone e di Antinoo e la copia delle Nozze Aldobrandini. Per la prima volta nella sua vita il modesto, poverissimo letterato sedeva accanto ai principi di questa terra: scrittori famosi, signore eleganti e pianiste alla moda che, come lui, raccoglievano nei loro taccuini le parole sublimi o insignificanti lasciate cadere dal nume di Weimar.
Ma Eckermann non amava gli splendori dei ricevimenti ufficiali; e preferiva raggiungere il piccolo studio presso il giardino, dove poteva discorrere da solo con la sua " infallibile stella polare". Sedeva vicino a Goethe in "tranquilla, amorevole conversazione". Con le ginocchia sfiorava le ginocchia di Goethe: i suoi occhi non si saziavano di guardare "quel volto robusto, bruno, pieno di rughe": le sue orecchie ascoltavano parole lente e posate, simili a quelle di un monarca carico d´anni; e si sentiva indicibilmente felice "come chi, dopo molte fatiche e lungo sperare, vede finalmente soddisfatti i suoi desideri più cari". Così, trascorsero quasi nove anni, durante i quali Eckermann rinunziò a vivere la propria esistenza. Candido, sensibile, infinitamente ricettivo, dotato di un´intelligenza calma e raccolta , si lasciò possedere da quell´immensa forza, che si agitava vicino a lui. La accolse nel suo spirito con una fedeltà devota e amorosa: ne assorbì le ultime, incomprensibili complessità; e persino il Faust II gli rivelò dei segreti che rimasero nascosti ad interpreti tanto più acuti e presuntuosi di lui (Johann Peter Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, a cura di Enrico Ganni, traduzione Alda Vigliani, prefazione Hans-Ulrich Treichel, Einaudi, pagg. 708, euro 85).
Quando Goethe morì, Eckermann rimase a Weimar. Continuò la sua solita vita. Catalogava le collezioni di Goethe: ordinava e preparava per la stampa, insieme a Riemer, i libri e gli scritti ancora inediti. Dava lezione di inglese al principe Carlo Alessandro: qualche volta era invitato a corte dal figlio di Carlo Augusto. Ma a Weimar, dopo che Goethe l´aveva lasciato, si sentiva in esilio. Tutta la forza, la gioia, l´amore e i desideri avevano abbandonato il suo spirito; e l´esistenza pesava su di lui come un incubo. Quasi solo, tristemente chiuso in sé stesso, si abbandonava alle proprie passioni infantili. Passeggiava tra le campagne e tra i boschi insieme a dei giovani amici: tirava con l´arco: studiava le mude delle capinere, dei merli gialli e dei rigogoli, gli strani costumi dei cuculi, il canto molle, malinconico, simile al suono del flauto, di certe allodole solitarie. Aveva trasformato sua stanza in un piccolo zoo, dove si aggiravano liberamente i giovani falchi, le upupe, gli sparvieri, un cane da caccia e una martora .
Passarono dei lunghi, intollerabili mesi, nei quali nessun ricordo aveva la forza di germogliare e di fiorire dentro di lui. Dopo giorni di abbandono e desolazione, Goethe gli apparve in sogno. Portava un cappotto scuro e aveva il volto fresco e colorito di chi vive all´aria aperta. "La gente pensa" gli disse Eckermann sorridendo "che Lei sia morto. Ma io ho sempre detto che non è vero; e ora con grandissima gioia vedo che avevo ragione. Non è vero, che Lei non è morto?" "Che sciocchi" rispondeva Goethe guardandolo ironicamente "morto? Perché mai dovrei essere morto? Sono stato in viaggio: ho veduto molti uomini e molti paesi. L´anno scorso ero in Svezia".
Consolato da questi sogni, durante il giorno Eckermann riusciva a scendere indisturbato nelle profondità della memoria. Il passato riaffiorava con i colori più freschi: vedeva di nuovo Goethe come se fosse vivo; e ascoltava il caro suono della sua voce . "In una giornata di sole, sedeva in carrozza accanto a me, con indosso la finanziera marrone e il berretto di panna azzurro, il mantello grigio chiaro posato sulle ginocchia. La carnagione abbronzata spirava salute, come l´aria fresca. Le sue parole intelligenti risuonavano all´intorno, coprendo il rumore delle ruote. Oppure mi rivedevo nel suo studio la sera, alla luce fievole della candela, lui seduto di fronte a me al tavolo, nella sua vestaglia di flanella bianca, la dolcezza d´animo di chi ha alle spalle una giornata ben trascorsa. Parlavamo di argomenti importanti ed elevati, e lui mi rivelava quanto di più nobile c´era nella sua natura; il mio spirito si infiammava al contatto con il suo. Tra noi regnava la più profonda armonia; mi porgeva la mano al di sopra del tavolo e io la stringevo. Poi magari afferravo il bicchiere colmo che mi stava davanti e bevevo alla sua salute senza dire una parola, mentre il mio sguardo riposava nei suoi occhi al di sopra del vino".
In quegli anni, quante altre persone cercarono di rievocare Goethe vivente! Grandi uomini di stato conservatori e oscuri studenti nazionalisti: geologi, filologi classici, storici, attori, violinisti, archeologi, astronomi, tenori e giuristi hegeliani: pittrici leziose e dame pettegole: gentiluomini russi ed inglesi: giornalisti francesi, ebrei di Boemia: Heine e Grillparzer, Mendelssohn e i fratelli Grimm, Schopenhauer, Alessandro Poerio e Mickiewicz – messaggeri di tutte le parti del mondo erano giunti a Weimar: avevano parlato con Goethe per qualche ora; e adesso risfogliavano i loro taccuini rielaborando antiche impressioni. Molti non avevano compreso nulla: qualcuno ricamava fantasticamente le parole di Goethe: qualche altro, che si era avvicinato "col batticuore e la testa cinta di nebbia", ricordava soltanto dei gesti senza importanza. Ma tutte queste testimonianze sono egualmente preziose. Il vecchio Goethe deve essere conosciuto così, attraverso mille echi e riflessi quasi anonimi, come se la sua forza preferisse manifestarsi e irradiarsi sopra tutti gli esseri umani.
il Riformista 1.8.08
Latorre: «Per ora inconciliabili con Ferrero»
«Lo dico da tempo, Vendola con noi»
di Alessandro De Angelis
«Ferrero ci dimostri dove vuole portare il partito». E ancora: «Le posizioni per ora sono inconciliabili». Nicola Latorre, vicecapogruppo dei senatori Pd, risponde al segretario di Rifondazione che su questo giornale aveva lanciato un appello a D'Alema: «Parliamo». Senatore Latorre, cosa cambia, per voi, con la linea Ferrero? «Ho grande stima per Ferrero, ma la sua linea è un rifugiarsi in vecchi accampamenti, saccheggiati dalla storia, in cui non c'è più nulla. Nel paese esiste un'area a sinistra della sinistra riformista che non è un residuo del vecchio Pci, ma nella quale confluiscono culture che si inscrivono nel filone massimalista storicamente presente nella società italiana. Il tema della sua rappresentanza politica rimane». Ferrero le dice: «parliamo». «Lo voglio dire in modo esplicito: il problema non è parlare con D'Alema. Ma è il rapporto tra Rifondazione e tutto il Pd, a partire dal suo segretario. Ferrero dice parliamo? E parliamo... Ma chi deve dimostrare dove vuole portare il suo partito è proprio Ferrero». Niente alleanze, dunque? «Io sono convinto che la scelta fatta alle elezioni dal Pd era inevitabile. E Veltroni ha fatto bene a non allearsi con Rifondazione. È stato un passaggio tattico inevitabile. Tuttavia ritenevo, e ritengo, che non bisogna dare a questo passaggio tattico un valore strategico. Nelle attuali condizioni considero sempre più complicata un'ipotesi di accordo politico e di governo nazionale con Rifondazione. Le posizioni sono inconciliabili». Su quali punti? «Vedo che si tende ad assumere il conflitto sociale come una ideologia. Da qui ne deriva una incompatibilità tra i due termini: sinistra e governo. Su politica estera e politica economica poi, dentro Rifondazione, tornano vecchie parole d'ordine proprio nel momento in cui, su questi temi, si aprono nuovi scenari». Quali? «Negli Stati Uniti pure i repubblicani rompono con il decennio Bush. E l'auspicabile successo di Obama può aprire una nuova fase nei rapporti transatlantici. Nella politica economica si sta facendo strada, in Europa, un'idea meno acritica della globalizzazione e di come si governa politicamente. Di fronte a questo Rifondazione ripropone vecchi slogan». E le giunte? «Trasferire le logiche nazionali su questo livello sarebbe un grave errore. Naturalmente anche a livello locale le alleanze vanno verificate sulla base delle convergenze programmatiche». Per il Pd, si apre uno spazio a sinistra? «C'è il rischio che si consolidi una sorta di bipolarismo imperfetto in cui uno dei due poli diventa una minoranza strutturale. Questo deve spingere noi del Pd a dedicarci di più a dare al nuovo partito un profilo politico e culturale, accelerando la costruzione della nuova sinistra nel paese. Voglio dire che partendo dal nostro profilo riformista dobbiamo essere in grado di dare risposte rilanciando alcuni valori: l'uguaglianza, intesa come pari opportunità, la solidarietà, il ragionare non come io ma come noi. Si tratta di valori che devono trovare slancio nella nuova sinistra che stiamo costruendo». Sta invitando Vendola nel Pd? «Guardi, in un'intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno , in tempi non sospetti dissi che vedevo bene Vendola nel Pd. Se lo ripetessi ora potrei essere frainteso. E non vorrei esserlo». Sulle riforme è nato il patto della spigola D'Alema-Fini? «Le colazioni sono un tratto caratteristico della vicenda politica italiana, sin dagli albori della Repubblica. Al netto di questo, c'è un dato oggettivo: la transizione del nostro sistema politico si chiude solo facendo le riforme. Il presidente Fini per la sua alta carica istituzionali, e l'onorevole D'Alema non fanno patti. I patti spettano ai partiti. Ma sono senz'altro personalità che possono dare impulso al corso delle riforme». Da dove si parte? «Sul federalismo abbiamo una nostra proposta, messa a punto dai presidenti delle regioni e da Chiamparino. Sulle riforme costituzionali ripartiamo dalla bozza Violante». E sulla legge elettorale? «Andremo al confronto tenendo conto che il nuovo bipolarismo italiano si va riassestando attorno a un numero più contenuto di partiti che non può essere costretto nei confini del bipartitismo. Se poi si consolida il Pd e decolla il progetto, ancora incerto, del Pdl, la bozza Bianco che si ispira al sistema tedesco diventa sempre di più la risposta adeguata». Veltroni è d'accordo? «Guardi che la proposta che facciamo non mette in discussione in alcun modo il bipolarismo e la possibilità di conoscere prima le alleanze. Anzi le dirò di più: è l'unico sistema che consente alle forze politiche di presentarsi con i loro programmi e il loro volto. In definitiva di correre liberi, come dice Veltroni». Che pensa della bozza Calderoli sulle europee? «Non vorrei affrontare la discussione come se fossimo al mercato del pesce: noi volevamo la soglia del tre, Berlusconi del cinque, e, alla fine lui ha proposto il quattro». Affrontiamola diversamente. «Il punto è che il voto per il parlamento europeo non serve ad esprimere un governo, ma la rappresentanza. È ad essa che bisogna dare dignità. E allora non possiamo non dire che abbiamo bisogno, tutti, di dare valore alle istituzioni europee e di recuperare attorno ad esse consenso, come ci ha mostrato il recente voto irlandese. Quindi giudico come completamente sbagliato piegare questa riflessione a logiche di politica interna». Quindi? «Non voglio dare numeri, ma per noi la soglia deve essere bassa. Ripeto: bassa. E quella del quattro per cento indicata da Calderoli è alta. Per il resto la proposta di Calderoli è accettabile, compreso l'aumento delle circoscrizioni». Il Pd si è diviso sul referendum di Di Pietro sul lodo Alfano. «La linea su Di Pietro è assolutamente condivisa nel partito e ho molto apprezzato le dichiarazioni di Veltroni di oggi (ieri per chi legge, ndr ) sul referendum. Proprio nel momento in cui difendiamo la centralità del parlamento, non possiamo seppellirla utilizzando lo strumento referendario».
giovedì 31 luglio 2008
l’Unità 31.7.08
Tremonti, giacobino alla rovescia
di Michele Ciliberto
All’interno del governo sono presenti linee molto diverse perfino contraddittorie tra loro. Quella di Tremonti, ad esempio destinata a cozzare prima o poi
con quella della Lega. E non solo
Il governo Berlusconi, in queste settimane, sta dando una prova di ostinazione della quale occorre prendere atto. Sarebbe però sbagliato, a mio giudizio, sottovalutare la compresenza nel governo di linee molto diverse l’una dall’altra, potenzialmente contraddittorie e perfino dissolvitrici dell’attuale assetto governativo. Vale la pena, in questa prospettiva, di commentare brevemente l’intervista di Giulio Tremonti apparsa su Libero, domenica 27 luglio.
Si tratta, infatti, di un testo importante, perché esprime in forma piena e articolata il punto di vista dell’attuale ministro dell’Economia.
Ciò a cui occorre mettere mano - questo è il centro del ragionamento di Tremonti - è una riforma radicale dello Stato: «Lo Stato - dice il ministro - deve tornare a fare solo l’essenziale. Deve ritirarsi nel suo perimetro di competenze storiche». Ed è precisamente in questo quadro strategico che si pone la manovra finanziaria in corso di approvazione alle Camere. «In una fase in tutto e per tutto non ordinaria», essa si pone l’obiettivo di «rilanciare l’economia e di rifare lo Stato», in modi e forme radicali: «non c’è mai stato come questa volta - insiste Tremonti - un cambiamento tanto radicale, su una pluralità di fronti e concentrato in così breve tempo».
Non è il caso,in questa sede, di verificare se quello che dice il ministro corrisponda a verità: conta sottolineare la nettezza e il vigore del suo ragionamento. Quello che Tremonti ha in mente è una riforma organica dello Stato e dell’amministrazione pubblica italiana che si pone in antitesi diretta con quella che è stata la politica dell’Italia nell’“epoca democristiana” (uso io questo termine, per comodità): rigore economico, controllo della spesa, lotta al clientelismo, polemica frontale contro «tutte le ipotesi “deficiste”, tutti gli inviti ad accendere maggiore spesa pubblica finanziata con coperture fittizie o, peggio, inesistenti».
La lotta contro i “deficisti” (un lemma nuovo, se non m’inganno) - e le conseguenze delle loro politiche economiche (da ultimo l’estendersi delle pensioni di invalidità al Sud come al Nord) - è un leitmotiv di tutta l’intervista; né è difficile capire con chi se la prende il ministro. In termini schematici: se la prende con il compromesso tra “capitale” e “lavoro” realizzato in Italia,sul piano politico, dalla Democrazia Dristiana da un lato, dal Partito comunista dall’altro (procedo anche qui in modo sommario). Per Tremonti, è necessario mutare totalmente strada, puntando su nuove politiche europee e nazionali e su nuovi strumenti economici a cominciare da quel «gigante finora addormentato», che è la Cassa depositi e prestiti. Ma, in primo luogo, bisogna lavorare a una nuova definizione della figura e del ruolo dello Stato, il quale deve essere il vero dominus della vita economica del Paese, dell’uso delle risorse,delle politiche di spesa: «Occorre decidere al centro - dice Tremonti - per andare sul grande,non dalla periferia perdendosi nel piccolo come sinora è avvenuto». Stabilite le linee generali, poi è opportuno «sentire la voce delle Regioni come di tutti coloro che operano nel settore delle infrastutture» e questo sarà, appunto, fatto, dopo aver concentrato tutti i Fondi europei di sviluppo presso il Cipe. È un ragionamento complesso, quello svolto da Tremonti ma i nuclei centrali appaiono netti: neo-centralismo, federalismo, privatizzazioni, conservatorismo compassionevole...
Sarebbe sbagliato non riconoscerlo: si tratta di un disegno di «modernizzazione, già sperimentato per altro in europa, da altre forze di destra», imperniato però in primo luogo - ed è questo il punto da sottolineare - su un neo-centralismo dello Stato, al quale vengono affidate le funzioni di direzione economica fondamentali, mentre le politiche sul territorio sono assegnate, nei gangli centrali, alle Regioni, rilanciando il federalismo, il quale ha il compito di «raddrizzare la pianta storta dello Stato, caricato di troppe cose da fare e di troppi debiti». Per come viene presentato - va sottolineato anche questo - è un disegno di modernizzazione essenzialmente dall’alto, di tipo “giacobino” (come del resto dimostra, in modo esemplare, proprio la vicenda della manovra finanziaria). Nè, di per sé, è un fatto sorprendente: il “giacobinismo”, in modi ovviamente diversi, è un tratto tipico degli intellettuali italiani di matrice laica, permanentemente protesi a “riformare” ab imis fundamentis società e Stato. E Giulio Tremonti, come si sa, “nasce” come intellettuale, quale professore di Diritto tributario all’Università di Pavia né, pur essendo sceso in politica, ha mai rinunziato alla sua attività di saggista, di professore...
I “giacobini” però - e Tremonti lo sa bene - senza “consenso” sono destinati al fallimento. Nella sua intervista discorre perciò a più riprese di “spirito repubblicano”, cioè della necessità di coinvolgere larghe forze politiche e sociali nel suo progetto, arrivando addirittura a sostenere che chi non dialoga con il governo «va contro l’Italia». Sono battute un po’ eccessive, ma non vanno ascritte, a mio giudizio, solo al genere letterario dell’intervista. Tremonti sa bene da dove gli viene il “consenso”, ma per diretta esperienza è altrettanto consapevole che Berlusconi è, al tempo stesso, la forza e la debolezza del suo disegno di modernizzazione. In effetti, è grazie al Popolo della libertà che Tremonti è riuscito a varare una manovra economica assai dura su una “pluralità di fronti”, spossessando di fatto tutti gli altri ministri e senza prestare ascolto a nessuna voce di protesta, qualunque fosse la sua autorevolezza. Ma, come dimostra tutta la sua vicenda imprenditoriale e politica, Berlusconi è figlio diretto della storia che Tremonti vorrebbe chiudere una volta per sempre; e, se mira a qualcosa, pensa a ricostituire un moderno partito “interclassista” che estenda ed rafforzi con nuove forme di “consenso” l’interclassismo di matrice democratico-cristiana. Per Berlusconi, il “consenso” politico e sociale delle corporazioni che fanno capo al suo partito è il primum obiettivo della sua azione di governo,decifrabile come una forma di “dispotismo dolce” mediaticamente imposto, il contrario preciso del “giacobinismo”; né è difficile prevedere le tensioni,e anche le contraddizioni, che si apriranno nel governo, quando le misure di Tremonti cominceranno a toccare pezzi del blocco sociale che si raccoglie intorno al Popolo della libertà, nel quale sono confluiti - sulla base di interessi corporativi precisi - forze e ceti che facevano capo alla Dc e allo stesso Partito Socialista. A quel livello, le politiche compassionevoli di Tremonti - compresa la social card - non serviranno a niente; si riveleranno per quello che sono:un espediente buono solo per chi - a differenza dei “deficisti” - non è in grado di far sentire la sua voce. Le tensioni non si apriranno però solo su questo terreno: nonostante le tante dichiarazioni di accordo e di empatia, il neo-centralismo di Tremonti è destinato a cozzare anche con le politiche della Lega, la quale ha una idea del federalismo - e della funzione dello stato centrale - assai diversa da quella del ministro dell’Economia. È difficile che la Lega continui ad accettare che i fondi europei siano concentrati nel Cipe o che le stesse Regioni si rassegnino ad essere convocate dal ministro, con gesto napoleonico, quando gli sembrerà più opportuno. Anche qui, al fondo ci sono due concezioni strategiche assai diverse. Non sono invece rilevanti,a mio giudizio, i contrasti - posto che ci siano - con Alleanza Nazionale, che non è più, ormai, un attore politico autonomo, effettivo.
Su tutto questo le opposizioni al governo avranno, penso, ampia materia di intervento. Ma il discorso è più complesso, e va fatto con chiarezza. Tremonti dà risposte conservatrici a una serie di problemi reali, con cui le forze riformatrici devono confrontarsi, senza complessi, come hanno già cominciato a fare col governo Prodi. L’esigenza di una riforma dello Stato e dell’amministrazione pubblica è centrale; ed altrettanto decisiva è la battaglia per un diverso uso delle risorse, per definire nuovi criteri di spesa e di intervento pubblico, in dura contrapposizione con le politiche di tipo clientelare che hanno afflitto - e rovinato - il nostro Paese (con tutto quello che ciò comporta sul piano dei rapporti con il sindacato). Il federalismo è una esigenza reale e va soddisfatta, senza, naturalmente, cadere in forme di neocentralismo dello stato. Il primato del merito - nel pieno riconoscimento del dettato costituzionale - è decisivo in una moderna democrazia, e deve essere la bandiera delle forze che vogliono riformare l’Italia. Valorizzare il merito non significa, certo, privilegiare la strada della privatizzazione, come si fa nel decreto del 25 giugno: l’università pubblica va salvaguardata come principio di libertà e di eguaglianza. Ma proprio per questo occorre anche sapere intervenire drasticamente nei guasti che cattive politiche di governo e perverse pratiche accademiche hanno introdotto in questo ganglio centrale della vita scientifica e civile del Paese. Se si ha a cuore il futuro dell’università pubblica, è necessario battersi per una sua riforma radicale, mettendo fine alle degenerazione di questi ultimi decenni. Altrimenti si fa una battaglia, pur importante, ma di retroguardia.
Ma questo è solo un esempio; a me preme, anzitutto, sottolineare che quello che abbiamo di fronte è un percorso assai più mobile e dinamico di quanto si potrebbe pensare. Sta al Partito Democratico usare le possibilità che la situazione gli offre: tanto più lo farà quanto più svilupperà un’azione limpidamente riformatrice.
l’Unità 31.7.08
Cento matti in seconda classe
di Gabriella Gallozzi
Un paziente si chiede: perché cancellare la malattia mentale visto che dà lavoro a tanta gente? C’è chi fa la radiocronaca in diretta
IL DOCUMENTARIO Questo «Cimap!» di Giovanni Piperno va a Locarno. L’abbiamo visto ed è formidabile. Racconta la gita lunghissima di un gruppo numeroso tra pazienti e operatori che, in treno, vanno da Venezia a Pechino. E si ride di noi...
Altro che la «gita» in barca dei pazzerelli capitanati da Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cucolo. Qui è una cosa «seria». Vera «roba da matti». Che fa davvero sganasciare dalle risate. Del resto come definireste un viaggio in treno da Venezia a Pechino con 200 passeggeri tra malati mentali, psichiatri, familiari ed operatori... E, per ingannare il tempo, corsi di uncinetto, astrologia, gioielli ed artigianato, pure yoga e buone dosi di pasticche.
A raccontarcelo, con grande ironia e straordinaria sensibilità, è Cimap! Cento matti italiani a Pechino, il nuovo documentario di Giovanni Piperno in «partenza» per il festival di Locarno (dal 6 al 16 agosto)dove è stato selezionato nella sezione «Ici & ailleurs», insieme a Sognavo le nuvole colorate di Mario Balsamo, di cui parliamo qui accanto.
Abituato a «maneggiare» temi sociali (l’ultimo è This is my sister, una produzione Amref sull’emergenza Aids in Africa) Giovanni Piperno, classe ‘64, non ha esitato, anche in questo caso, a seguire con la sua telecamera questo «viaggio da folli» organizzato lo scorso anno dall’associazione Anpis e dal movimento «Le parole ritrovate» che da sempre si occupano del disagio mentale all’interno del servizio sanitario pubblico. Evidentemente, alla base del viaggio, è l’intento di infrangere l’emarginazione che circonda la malattia mentale, raccontando anche come le associazioni stiano accanto alle famiglie. Ma, in realtà, quello che viene fuori da Cimap! è di più. È materia «umana pura», è commedia e dramma allo stesso tempo. È, consapevolezza, infine di come la «normalità» davvero sia un concetto relativo. Anzi relativissimo.
In questi 20 giorni di treno, toccando Ungheria, Ucraina, Russia e Mongolia conosciamo piano piano un gruppo di «protagonisti», non certo tutti e 200 i passeggeri. Andrea, per esempio, uno dei circa 100 «pazienti» del treno, ha un talento comico naturale da far invidia a qualsiasi teatrante. Lui sa spararle grosse davvero, ed è tutto lì. E, infatti, fa il «corrispondente», armato di cellulare, per una radio che segue via via il loro viaggio. Eccolo allora in Cina, davanti alla Grande muraglia, raccontare compito di «trovarsi davanti alla muraglia di Adriano che si estende per un chilometro ed ottocento metri». Oppure parlare di «tende piene di cavalieri» davanti allo sterminato paesaggio della Mongolia o, ancora, raccontare a qualche operatore della sua «carriera psichiatrica», come dice lui, «cominciata nell’80, gli anni di piombo». E metterci in mezzo pure «il ‘68 quando sparavo per le strade con mio padre e mio nonno» . Ed, aggiungere, perché no, anche un po’ di Ventennio, nonostante non abbia più di cinquant’anni: «a scuola mi vestivano da balilla», racconta.
E Vincenzo, poi, anche lui è un grande personaggio: capelloni neri e sigaretta sempre accesa, commenta sornione dietro alla sua barbona: «Questo viaggio è una follia», mentre si lamenta del suo psichiatra: «sono qui perché l’ho dovuto accompagnare... ma lui mi fa impazzire». «E poi - prosegue - perché abbattere la malattia mentale? Ci lavora tanta gente...». Immaginatevi i duetti tra lui ed Andrea: pura comicità. Intanto il finestrino del treno, come un televisore, rimanda paesaggi, fiumi, ponti, città. Ma il racconto è soprattutto dentro, così come «chiuso» in un interno fisico è il disagio mentale. Che non è certo tutta «commedia». C’è la madre di Jacopo, per esempio, che racconta di questo ragazzino completamente incapace di comunicare, muoversi ed esprimersi. Oppure Olga, «amica» di Andrea; di lei, ci dice la sua psichiatra che ha disturbi molto gravi e sente le voci. Eppure la vediamo sorridente, passeggiare sotto braccio e scambiarsi bacetti col suo compagno. Ma è quando parlano e si raccontano anche gli psichiatri, gli operatori che il confine del «nostro lume della ragione» si fa sempre più labile. C’è lo psichiatra di Vincenzo che si lamenta sonoramente: «parla sempre male di me», dice. E poi l’operatrice che si interroga sul perché non riesca a smettere di fumare: «che problemi ho in fondo? Ho un bel lavoro, una bella famiglia... Certo una storia d’amore finita male, ma chi non ne ha?». Insomma, alla fine del viaggio è difficile dire chi sia il paziente, chi lo psichiatra, chi l’operatore. Tutti insieme appassionatamente si sono scambiati la loro «normalità».
l’Unità 31.7.08
I buoni, i cattivi e l’audience
di Lidia Ravera
Leggo su la Repubblica che «fu AnnaMaria Franzoni a uccidere, con “razionale lucidità” il figlio Samuele di tre anni, la mattina del 30 gennaio 2002». Si tratta del responso della Cassazione a proposito del mai troppo chiosato “delitto di Cogne”. Il movente, come in un delitto “passionale”, non esisterebbe se non in un eccesso del sentimento, oppure sarebbe da ascriversi ad un micidiale istinto di repressione per un estemporaneo capriccio. I sedici anni di reclusione risultano, pertanto, confermati e la signora dovrà stare lontana dai teleschermi per un decennio, amenochè Bruno Vespa non ci conceda una seratina settimanale di diretta dalle patrie galere: «Dietro le sbarre», speciale di «Porta a porta», in onda tutti i venerdì, giornata dedicata, decenni fa, alla penitenza (non si mangiava carne) e oggi alla partenza per il weekend. Non ridete, non mi stupirei affatto. Nel nostro Paese non si nega una ribalta a un inquisito, a un condannato, anche per gravi reati. È lo show business: i buoni sono noiosi, i cattivi sì che ti alzano l’audience. Ma la Franzoni, si interrogano i milioni di italiani bersagliati dall’immagine dei suoi occhioni tristi e delle sue lacrime telegeniche, è cattiva o no? Se avesse davvero ucciso con “razionale lucidità” si dovrebbe rispondere: sì, è cattiva. Perché una donna adulta che spacca il cranio a un bambino di tre anni è cattiva. Ma siamo sicuri che fosse «lucida e razionale»? È capace di intendere e di volere, d’accordo, perché ha fatto sparire l’arma del delitto, ha proclamato la sua innocenza, ha accusato a vanvera, si è fatta propaganda in tivvù, ha sostituito il figlio morto con un nuovo figlio, partorendolo a tempo di record, neanche si trattasse di sostituire il gatto di casa. Ma si può “intendere” il male e “volerlo” momentaneamente, eppure non essere “razionali” e “lucidi”, bensì emotivi e confusi? La malattia mentale è un territorio misterioso e in continuo mutamento. Quali sono i parametri secondo i quali, oggi, si stabilisce che una persona è sana di mente o disturbata? Mi viene in mente una storia che ho studiato per un libro, «Il freddo dentro»: un altro delitto efferato , in cui l’assassina era legata alle sue vittime da rapporti di stretta parentela, il cosiddetto delitto di Novi Ligure (quante graziose cittadine marchiate per sempre perchè teatro di crimini efferati!) in cui una ragazzina, Erika de Nardo, uccise, con 120 coltellate complessive, sua madre e il suo fratellino. Anche in quel caso: nessun movente ragionevole, nessun pentimento, innocenti accusati, armi occultate, e una faccia tosta incredibile nel proclamare la propria purezza e perfino il proprio affetto per la mamma massacrata. Anche allora un verdetto di «capacità di intendere e di volere», di sana e robusta organizzazione mentale.
Ma davvero Erika e Annamaria sono “normali”? Certo... sono capaci di esprimersi correttamete, sono belle, sono pulite, sono eleganti, non sbavano, non cincischiano, non credono di essere Napoleone, non hanno le allucinazioni. Sono due perfette rappresentanti dei moderni ceti medi. Egocentriche, narcisiste, autoreferenziali, immature. Hanno ucciso per futili motivi. I loro non sono delitti passionali. Sono delitti inspiegabili, se non provando a indovinare, a intuire, il futuro verso cui stiamo marciando: una società incapace di empatia, dove ciascuno concede a sé stesso ogni eccesso, prima non si reprime, e , subito dopo, si perdona, mentendo o dimenticando. Forse bisognerebbe rivedere un po’ gli schemi su cui si basano le perizie psichiatriche, e inserire, nell’elenco, qualche malattia nuova. E, a proposito di novità, leggo sul Corriere della Sera: «Una spia nel taxi, arriva la telecamera» e scopro che «il Comune di Milano finanzia con un milione di euro i tassisti che mettono un apparecchio di registrazione in auto». Pare che lo facciano per il nostro bene. Ce n’è già a Firenze di videotaxi e presto ce ne saranno anche a Roma. E il diritto all’immagine? E se io non volessi che la mia faccia sia filmata e trasmessa, usata a mia insaputa per scopi che non posso controllare? Dicono che è per evitare i crimini. Per lo stesso motivo le nostre città saranno piantonate dall’esercito (grazie, sindaco Alemanno, per aver ridotto l’impatto visivo dell’occupazione, tenendo i soldati fermi davanti agli obbiettivi sensibili): dobbiamo stare sicuri. Non dobbiamo avere paura.
E se avessimo paura di tutto quello che si sta organizzando per la nostra sicurezza?
www.lidiaravera.it
l’Unità 31.7.08
Vladimir Luxuria. Dopo la sconfitta è sbagliato cercare rifugio nelle ideologie. Le identità forti hanno dubbi, si aprono alla società, dialogano con i movimenti
Il congresso di Rifondazione? Un brutto «compagnicidio». Così ha perso tutto il partito
di Simone Collini
Prc si spacca, i Verdi si fischiano, nel Pdci non si aspetta il voto finale. Meglio resettare e rifare il centrosinistra
«Una brutta lotta compagnicida». A Vladimir Luxuria non ha fatto una bella impressione il congresso di Rifondazione comunista. «Ero presente quando, dopo il discorso di Ferrero, una parte della platea ha intonato Bandiera rossa, come per far passare l’idea che c’è chi difende il comunismo e chi invece vuole annacquarlo». A Chianciano è andata come osservatrice esterna, visto che la tessera del Prc non l’ha mai presa: «La mia non è una storia di militanza nel partito. La candidatura è stata frutto della decisione di aprire a personalità esterne. Io mi considero un’espressione del movimento lesbo gay trans, e ho continuato a mantenere questa mia autonomia». Però dice: «Le storie dei partiti vanno calate nel contemporaneo, le ideologie non vanno viste come rifugio ma bisogna essere pronti alle contaminazioni, a mettersi in discussione. Le identità forti sono quelle capaci di avere dei dubbi, di assorbire i cambiamenti che avvengono nella società e anche di dialogare con i movimenti che lottano per la libertà».
Sperava in un esito diverso?
«Ho sperato fino alla fine che si evitasse la spaccatura. Alla fine a decidere è stata una manciata di voti. Per me non ha né vinto Ferrero né perso Vendola. Ha perso tutto un partito, che ha fatto quanto di peggio potesse fare dopo una batosta elettorale: una lotta compagnicida. E agli altri non va meglio. Mi sembra siamo in pieno divide et impera, stiamo attraversando davvero un deserto: il Prc con questo congresso di spaccatura, i Verdi con i fischi, il Pdci con una parte dei delegati che non è rimasta fino alla votazione finale. Per non parlare di come si stanno muovendo Pd e Di Pietro. Ci sarebbe da resettare tutto, per sperare di poter davvero riconsegnare l’Italia a un centrosinistra».
Come si può rilanciare la sinistra, secondo lei?
«Sicuramente non con un dialogo privilegiato tra comunisti, tenendo fuori le altre forze politiche e i movimenti. Io continuo a credere in un forte partito della sinistra unita, che abbia anche interessi ambientalisti e animalisti».
Ferrero pensa a un’immersione nel sociale, evitando operazioni politiciste. Che ne pensa?
«È giusto immergerci nel sociale. Ma non bisognava aspettare una batosta elettorale per farlo. Ognuno dovrebbe mantenere i rapporti col proprio elettorato e la propria storia. Io sono stata applaudita in tutti i Gay pride, non ho ricevuto fischi. Forse perché, io che provengo dal movimento lesbo gay trans, in questi due anni ho continuato a mantenere questo rapporto».
Cosa è mancato in questi congressi, secondo lei?
«La solidarietà, la coesione, il rimboccarci le maniche e invece di cercare i capri espiatori di lottare e coalizzarci. Credo fosse anche quello che si aspettava il nostro elettorato».
Ferrero ha detto: meno televisione e più popolo. È la ricetta giusta?
«La televisione è un grande strumento, come lo sono i comizi, le feste di partito. Io ho fatto e continuerò a fare tv, ma in questi giorni sono stata alla Festa di Liberazione a Osnago, in provincia di Lecco, al campeggio dei Giovani comunisti a Pineto, sabato sarò alla Festa di Liberazione di Chioggia, poi a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. Non mi sembrano incompatibili le due cose. Bisogna parlare alla gente che già ci vota e anche alla gente che o non vota o preferisce altri a noi».
È per questo che ha deciso di partecipare all’Isola dei famosi, scelta che ha creato anche dei malumori nell’elettorato Prc, per veicolare messaggi?
«Io spero di poter fare un’Isola dei famosi civile, nella quale cioè a prevalere non siano le risse e l’idea che per vincere bisogna essere lupo tra lupi, ma l’idea che si possa essere coesi e che si possa anche parlare di argomenti interessanti».
Non sarà facile, visti format e precedenti, non crede?
«Si devono rispettare coloro che vedono questa trasmissione. Io mi auguro di vincere questa sfida. Si può essere vittime di momenti trash anche in luoghi importanti. L’episodio con la Gardini (la deputata forzista l’attaccò perché aveva usato il bagno delle donne, ndr) è avvenuto dentro un Parlamento. Magari invece all’Isola dei famosi potremo dimostrare una convivenza con le donne più da sorellanza. È una sfida. Magari la perdo, magari avrò fame e andrò subito fuori di testa. Però più le sfide sono difficili e più mi stuzzicano».
Corriere della Sera 31.7.08
In difesa dell’Europa
di Massimo Franco
Un tempo si diceva che gli italiani erano europeisti ma non europei. Adesso, sembrerebbe che il nostro amore per il Vecchio Continente si stia progressivamente raffreddando; e che le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, alle quali si guardava come fonte di sostegno e perfino di identità, siano diventate distanti e ostili: il sospetto dichiarato del governo è che stiano congiurando contro il Bel Paese berlusconiano. Il risultato è una sorta di braccio di ferro permanente fra Roma e Ue. Si tratti di Parlamento, Commissione o Consiglio d'Europa, che pure non ha legami istituzionali con i primi due e si occupa di diritti umani, lo scontro è garantito.
Da quando il centrodestra è tornato al potere in Italia, sta calando una coltre di diffidenza reciproca alimentata dai primi provvedimenti in materia di immigrazione e di sicurezza. In passato, anche con la coalizione di Romano Prodi, i contrasti si consumavano in prevalenza sui temi economici. Ora si registrano su un piano più delicato e scivoloso perché mettono in discussione il livello di democrazia del nostro Paese. A volte, le critiche riflettono un buon tasso di pregiudizio. Vengono suggerite e gonfiate da alcuni settori della sinistra, che brandiscono l'antiberlusconismo come una bandiera della libertà. Ma liquidare il problema così sarebbe miope.
Anche perché le reazioni indignate del governo italiano alla reprimenda del Consiglio d'Europa sul trattamento riservato ai rom si sono indirizzate subito ai «burocrati di Bruxelles». Che si tratti della Corte europea dei diritti dell'uomo, della Commissione o del Parlamento, evidentemente basta la parola «Europa» a far scattare nella maggioranza una reazione che finisce per risultare pregiudiziale almeno quanto alcune delle critiche rivolte al governo di Roma. È come se l'Italia fosse convinta di essere diventata una sorta di capro espiatorio continentale.
Forse nelle file dell'opposizione qualcuno vede in questo pericoloso avvitamento una prospettiva da incoraggiare: la quarantena italiana sarebbe la conferma del «male» rappresentato dal Cavaliere. E chissà, magari un calcolo simile viene fatto anche in settori della maggioranza: si pensa che fomentare l'ostilità contro l'Europa serva a costruire un'identità conflittuale con un potere sovranazionale ritenuto incombente e impopolare. Ma di tensione in tensione, si perde la dimensione europea dei problemi. Si pratica un'autarchia legislativa che ha come unico referente e giudice il consenso elettorale.
Il risultato è che lo status di Paese «sorvegliato speciale» viene alimentato proprio dal modo sbrigativo col quale è rifiutato dal governo italiano. Pochi sembrano consapevoli che uno scontro del genere può delegittimare l'Europa; ma indebolisce soprattutto l'Italia, non riducendo ma dilatando la percezione di una nostra «anomalia». Per questo, conviene ancorarsi all'Ue nonostante le difficoltà vistose; e tentare di ricucire strappi politici e insieme culturali, figli di stereotipi inaccettabili ma anche di scelte discutibili che non si possono difendere solo con l'idea del complotto antiitaliano. Altrimenti, si risponde ad un'immagine falsata dell'Italia con luoghi comuni speculari.
Corriere della Sera 31.7.08
Duello dentro Rifondazione
Lella Bertinotti: pure Ferrero va nei salotti La compagna: io e lui non imitiamo i ricchi
ROMA — (g.fre.) Oltre ai modi di lotta al patriarcato e al capitalismo, il dopo Bertinotti porta dentro Rifondazione anche un altro quesito, non più lieve: si addice ad un leader comunista frequentare tv e salotti? Sottinteso: la sovraesposizione del leader in questi anni — le foto davanti a casa Angiolillo, i racconti dei frequentatori del salotto Verusio, i weekend a Cernobbio — ha fatto male al partito? Non a caso al congresso Ferrero ha annunciato: «Con me, più popolo e meno tv».
Lella Bertinotti, intervistata dal Riformista, risponde a nome dell'ex terza coppia dello Stato: «Basta con questa storia, certo ci sarà stata qualche cena in quelli che lei chiama salotti. Ma non eravamo gli unici». E cioè, nei salotti c'è stato anche l'ex ministro Paolo Ferrero: «A casa di Carlo De Benedetti c'era anche Ferrero con la sua compagna...». Salotti o non salotti? «Se per salotto si intende un posto dove si elaborano idee, perché no?», replica Angela Scarparo, la compagna di Ferrero, che anzi a sorpresa annuncia: «Mi piacerebbe metter su un salotto per parlare di letteratura». E quelli che già ci sono? «Il problema non è bere un bicchiere di vino con i ricchi. Anche Ned Ludd (l'operaio inglese da cui il luddismo) l'ha fatto. Paolo, il mio compagno, è una persona cortese e usciamo anche noi».
Insomma, nei salotti ci andiamo. «Il punto è come ci si sta: se poi si torna a casa e si pensa alla ridistribuzione della ricchezza, è un conto. Altro è se ci si apposta nel tinello per cercare di adeguarsi allo stile di vita dei ricchi». Un riferimento all'ex segretario?
«No, mi riferisco ai leader del Pd», si affretta a precisare la Scarparo.
Corriere della Sera 31.7.08
C'è il Papa in vacanza Spostata la rana crocifissa
di L. Ac.
BRESSANONE — La «rana crocifissa» è stata spostata dall'ingresso del Museo di arte moderna di Bolzano al terzo piano dell'edificio anche a seguito della presenza del papa a Bressanone. Il compromesso non soddisfa il presidente del consiglio regionale Franz Pahl che prosegue lo sciopero della fame. Una guerra, quella sulla scultura dell'artista tedesco Martin Kippenberger, che ha ripreso vigore dopo l'arrivo di Benedetto XVI. La decisione di spostare l'opera sarebbe stata accelerata dal vescovo di Bolzano e Bressanone, Wilhelm Egger. Negli ambienti della diocesi che ospita il papa c'è soddisfazione: «Nessuno contesta la libertà degli artisti, ma una cosa è fare spazio a ogni opzione e un'altra è mettere quella provocazione a emblema di una mostra», dice Josef Gelmi, direttore del Museo diocesano.
Repubblica 31.7.08
Bertinotti diventa docente a Perugia insegnerà politica all´Università
ROMA - Fausto Bertinotti si prepara a salire in cattedra. Lasciati ormai gli incarichi politici, l´ex presidente della Camera ha accettato l´invito dell´Università di Perugia a tenere un ciclo di lezioni alle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche. Le lezioni inizieranno a settembre e saranno ad ampio raggio, avendo solo come spunto la politica. L´approdo universitario rientra nell´ambito del lavoro politico di approfondimento, teorico e culturale che Bertinotti ha intrapreso dopo aver lasciato ogni incarico pubblico. Nei prossimi mesi l´ex leader di Rifondazione comunista darà vita anche a una Fondazione culturale.
Repubblica 31.7.08
Anoressica, interdetta a trent´anni
I giudici a Torino: patologia nervosa, sarà la sorella a farle da tutore
È arrivata a pesare ventotto chili l´intervento della giustizia chiesto dalla famiglia
di Lorenza Pleuteri
TORINO - È arrivata a pesare solo 28 chili, a spendere una fortuna nei supermercati per riempire frigoriferi e dispense di cibo lasciato andare a male, a tiranneggiare i familiari stremati. Adesso, a 33 anni, non può firmare un assegno, acquistare una casa, sottrarsi alle cure che per metà della sua vita ha ostinatamente contrastato. Una giovane donna torinese - dall´adolescenza malata di anoressia nervosa, patologia psichiatrica diagnosticata da un perito durante la causa chiusa ieri - è stata interdetta dai giudici civili della settima sezione del tribunale torinese su richiesta della famiglia, affiancata in una battaglia legale durata tre anni dagli avvocati Patrizia D´Antona e Marco Porcari. È stata ritenuta incapace di provvedere ai propri interessi, a stessa, come le persone con altre malattie mentali gravi. La sorella maggiore, nominata tutore definitivo, deciderà tutto o quasi al posto suo, concordando i percorsi terapeutici con specialisti pubblici e sanitari privati. «L´interdizione per altre malattie mentali - commenta il professor Ugo Fornari, docente di psicopatologia forense nel capoluogo piemontese e studioso di fama internazionale - è relativamente diffusa. Ma credo che questo sia il primo caso di applicazione di un provvedimento così estremo, a mio parere legittimo, legato alla anoressia nervosa». Un caso che potrebbe aprire la strada ad altre cause simili. O che potrebbe far discutere e dividere.
Nel fascicolo del procedimento c´è la storia di una ragazza alla deriva e di una famiglia costretta ad una scelta estrema, dopo 18 anni di peregrinazioni da un ospedale all´altro, trattamenti sanitari obbligatori, soluzioni che mettevano una pezza provvisoria, rifiuti, fughe. Nel 2005, dopo l´ennesima crisi, dopo l´ennesima dimissione da una casa di cura, i genitori e la sorella della giovane donna sempre più magra e sofferente hanno deciso di promuovere una causa. «Non sappiamo più che cosa inventarci per impedire che nostra figlia si faccia del male - hanno spiegato agli avvocati - Vogliamo solo che lei venga curata, assistita, che non possa autodistruggersi. Non possiamo vederla morire sotto i nostri occhi. Ma non siamo più in grado di tenerla in casa con noi». Il giudice cui è toccato il caso ha accolto il ricorso d´urgenza per l´interdizione, nominando tutore provvisorio la sorella della malata d´anoressia nervosa. Poi un perito ha scavato nella storia e nelle paure della donna, in due riprese, a distanza di sei mesi, concludendo che «non è in grado di fare fronte alle proprie esigenze, non ha una consapevolezza costante della malattia, non è sempre in grado di esprimere un consenso informato alle terapie mediche». Incapace di intendere, dunque. E messa sotto tutela definitiva, da ieri. «So che potrebbero sorgere delle perplessità, che qualcuno potrebbe dissentire - commenta ancora il professor Fornari - ma dobbiamo sgombrare il campo dagli equivoci. L´interdizione non è più come ai tempi dei manicomi, quando era un castigo di Dio e rappresentava l´emarginazione e la esclusione. Va esattamente nella direzione opposta, nell´esclusivo interesse della paziente. È non è un provvedimento irrevocabile, definitivo. Capisco anche la famiglia. Andare da un giudice, per loro, deve essere stata l´ultima possibilità».
Repubblica 31.7.08
Eluana e la legge che non c’è
di Ignazio Marino
In questi giorni il Parlamento discute di un ipotetico conflitto tra il potere legislativo e quello giudiziario. Si discute cioè se la Corte di Cassazione abbia travalicato il proprio ruolo invadendo il campo del Parlamento in merito alla drammatica vicenda di Eluana Englaro.
Non essendo un esperto di diritto costituzionale non mi permetto di entrare nel merito, ma penso di non essere smentito affermando che il ruolo del legislatore non è solo quello di affrontare le questioni in punta di diritto, il Parlamento dovrebbe occuparsi dei problemi reali delle persone e, se vengono individuate delle carenze nell´ordinamento giuridico, dovrebbe colmarle.
La legge che manca, e che crea tante discussioni, è quella sul testamento biologico. Una legge grazie alla quale ognuno, se lo vuole, possa indicare quali terapie intende accettare e quali rifiutare se un giorno si trovasse nelle condizioni di non poter più esprimere le proprie volontà.
Il tema non è una novità legata a Eluana Englaro, in Parlamento se ne discute da almeno dieci anni. Ci sono state molte proposte, audizioni, dibattiti e convegni ma non si è mai arrivati ad una legge, alla fine è sempre prevalso un atteggiamento lontano dalla sofferenza delle persone. Io penso che invece di concentrarsi sui conflitti tra poteri, ci si dovrebbe interrogare su Eluana e sulle migliaia di persone che vivono in situazioni simili.
Chi ha potuto osservare una persona in stato vegetativo permanente sa che le cure non si limitano a fornire l´acqua e il pane, come è stato detto.
La nutrizione e l´idratazione artificiale avvengono attraverso un sondino che introduce nello stomaco elettroliti, microelementi, proteine, farmaci e altre sostanze. Inoltre, un corpo in quelle condizioni deve essere mantenuto libero da infezioni, dal rischio di embolie polmonari, da decubiti, da alterazioni metaboliche che possono causare la morte. Per non parlare della manipolazione da parte di mani estranee che devono lavare, massaggiare, spostare e anche svuotare l´intestino una o due volte la settimana.
Le tecniche che si utilizzano oggi solo poche decine di anni fa non esistevano e le persone in queste condizioni si spegnevano naturalmente. Chi di noi vorrebbe essere sottoposto a tutte queste terapie per anni senza avere alcuna percezione del mondo e senza una ragionevole speranza di recuperare l´integrità intellettiva? Io non lo vorrei, lo confesso.
Ma se qualcuno invece lo volesse, può essere sicuro che la sua volontà sia rispettata? La risposta è no, perché ogni giorno nelle rianimazioni si pone il dilemma se interrompere o meno alcune delle terapie che, grazie ai progressi della medicina, permettono di mantenere in vita esseri umani altrimenti destinati alla fine naturale. E chi prende la decisione se interrompere o meno le terapie? Decide il medico di guardia che non conosce l´intimità del paziente, conosce le sue condizioni cliniche e decide esclusivamente in base a queste. Sono gli stessi rianimatori che spiegano che nel 62 per cento dei casi applicano la cosiddetta desistenza terapeutica, ovvero sospendono tutte le terapie e avviano così il paziente verso la fine naturale della sua esistenza.
La loro scelta è fatta in scienza e coscienza, eppure non possono documentarla in cartella clinica e la decisione non tiene conto del punto di vista del paziente, il quale non può lasciare delle indicazioni scritte attraverso il testamento biologico.
Ed ecco perché i cittadini, oltre al Presidente della Repubblica e alla magistratura, chiedono con insistenza che il Parlamento legiferi sulla materia per raggiungere una legge che permetta di non demandare decisioni tanto definitive al giudizio altrui.
Mi auguro che finalmente si riuscirà a fare questa legge. Ci sono riusciti gli Stati Uniti nel 1976, anche lì dopo una sentenza della magistratura e una decisione della Corte Federale. Ci sono riusciti in Francia, in Danimarca, in Germania, in Belgio, in Svezia, in Australia, anche in Spagna recentemente.
In Senato già diverse proposte di legge, una di queste è stata sottoscritta da cento senatori del Pd, dell´Italia dei Valori e del Pdl. E´ una proposta che affronta i problemi della fine della vita nel loro complesso perché tratta non solo di testamento biologico ma anche di cure palliative e delle terapie del dolore.
L´obiettivo è di offrire ai malati inguaribili e alle loro famiglie sollievo e sostegno durante le fasi che accompagnano i momenti terminali della vita. Ma per realizzare questo progetto è necessario avviare un programma assistenziale di cure palliative, rafforzare la rete degli hospice e semplificare la prescrizione dei farmaci per il dolore. Sono anche questi gli argomenti che definiscono il grado di civiltà di un paese, il rispetto dei diritti e, dal momento che riguardano tutti nessuno escluso, dovrebbero essere trattati con la dovuta celerità.
(l´autore è chirurgo e senatore del partito democratico)
Repubblica 31.7.08
Fermarsi a pensare riavvia il cervello ecco tutti i segreti per la pausa ideale
di Michele Bocci
Il candidato alla presidenza Usa Obama ha ammesso di mettere in agenda l’appuntamento con la riflessione Secondo gli esperti l´esplorazione della propria mente aiuta a non ingolfarla con gli affanni quotidiani
Per i filosofi la meditazione è l´ascetica metropolitana da esercitare anche nei luoghi del quotidiano
Isolarsi per dedicarsi ai propri pensieri, a casa e al lavoro, ci salva dallo stress "Ed è ciò che ci rende umani"
C´è voluto uno degli strumenti principe della comunicazione globale, per giunta puntato sul personaggio oggi maggiormente esposto nei media, per rilanciare il valore della solitudine, del quarto d´ora di pausa da dedicare tutti i giorni a se stessi per pensare e ricaricarsi. Il lungo microfono dell´emittente americana Abc che sabato scorso ha rubato una conversazione privata tra il candidato premier americano Barack Obama e il capo dei conservatori inglesi David Cameron ha rivelato al pianeta che anche gli uomini politici più impegnati ambiscono a tenere ogni giorno uno spazio bianco nell´agenda. Per smettere di lavorare e riflettere.
Quella mezz´ora di solitudine assoluta può rivelarsi una risorsa straordinaria per chiunque, non solo per i leader politici, ma bisogna saperla vivere al meglio. Come? Intanto spegnendo tv, computer e telefonino e magari facendo una bella passeggiata. Per dedicarsi esclusivamente a pensare. «Io la chiamo ascetica metropolitana. Perché si può esercitare anche nei luoghi del nostro quotidiano, nelle nostre città», spiega Duccio Demetrio, professore di filosofia dell´educazione a Milano Bicocca, tra l´altro autore di due libri intitolati "La vita schiva" e "Filosofia del camminare". «Ritagliarsi spazi per pensare - prosegue Demetrio - fa anche bene da un punto di vista neurologico, perché aiuta la mente a non fare cortocircuito, a non ingolfarsi di vita affannata, quotidiana. E fa bene perché ci decentriamo dalle occupazioni più consuete per esplorare altre possibilità della mente e del pensiero, assicurandoci una ricarica di energia vitale».
La Bbc, in un servizio, ha indicato cosa fare e cosa evitare per permettersi ogni giorno una pausa di riflessione. Il rapporto con il lavoro è la prima cosa su cui intervenire e il pranzo il momento clou dei comportamenti autolesionisti. La maggior parte delle persone saltano la pausa di mezzogiorno, qualcuno la comprime in dieci minuti piazzandosi con un panino in mano davanti al computer. «Dobbiamo fare in modo che i lavoratori escano all´ora di pranzo - dice David Hunter, della Lifelong learning Uk, un grande centro inglese di consulenza per operatori del settore dell´istruzione - Se lasci la tua scrivania per andare a farti un giro in strada, torni con la mente più fresca e meglio disposto al lavoro». Non è importante mangiare fuori, al ristorante, si può anche consumare il pranzo velocemente, ciò che conta è appunto farsi una passeggiata. «Va bene anche andare al parco a guardare i passeri - dice ancora Demetrio - Sedersi al tavolo di un bar, magari scrivere una pagina del proprio diario, su carta ovviamente. Non bisogna fare niente di eccezionale. L´importante è essere soli». Secondo Giorgio Maria Bressa, docente di psicobiologia del comportamento umano a Viterbo, non è tanto importante essere soli e nel silenzio quanto essere capaci di ritagliarsi spazi a propria dimensione. «Anche durante la riunione di un cda - dice - Sapersi isolare per pensare ha a che fare con il controllo dell´ansia. Chi ha un rapporto ansioso con il tempo non riesce a staccare. Già nel primo, agognato, giorno di ferie lo vedrete mettere mano al cellulare per controllare se è acceso».
Riguardo ai luoghi e alle situazioni migliori per pensare, Tony Buzan, cognitivista che ha inventato le mappe mentali, forme di rappresentazione grafica del pensiero, spiega di aver chiesto a molte persone dove fossero quando hanno avuto grandi idee. «Al di là dell´età, della razza e dell´educazione hanno tutti indicato le stesse cose: nella doccia, sempre in bagno ma a farsi la barba, nella natura a passeggiare, a letto prima di addormentarsi o appena svegli, in viaggio, in un momento d´ascolto di musica classica». Tom Hodgkinson, fondatore della rivista inglese Idler, che da quindici anni esplora modi alternativi di vivere e lavorare, mette invece in guardia sui comportamenti da evitare. «La tendenza delle grandi aziende - spiega - è quella di tenerci sempre impegnati. E quando non abbiamo nulla da fare ci distraiamo con una quantità infinita di media, come la tv, le e-mail e internet in generale». E così si finisce per non staccare mai, per non riflettere. «È necessario invece capire - prosegue Hodgkinson - che pensare è importante. È ciò che ci rende umani».
Repubblica 31.7.08
A una settimana dalle Olimpiadi, un libro di Renata Pisu sulla metropoli simbolo della globalizzazione
La fine di un mondo. Storia Millenaria di Pechino
La città si è lasciata fare importando di volta in volta modelli urbanistici del socialismo reale negli anni Cinquanta Di Tokyo, Osaka, Los Angeles e Atlanta dagli anni Ottanta ai nostri giorni
PECHINO è stata definita il più grande palcoscenico del mondo, per gli avvenimenti politici che vi sono stati messi in scena: dalla Rivoluzione culturale maoista (1966-76) al movimento di Piazza Tienanmen. Con quale dei suoi tanti volti Pechino accoglierà i visitatori che fra pochi giorni affluiranno per le Olimpiadi? E per cominciare, quanti saranno davvero i turisti stranieri in arrivo per i Giochi: un milione, o soltanto la metà per via delle improvvise restrizioni ai visti d´ingresso imposte dal governo? Già queste incertezze danno la misura di quanto Pechino possa essere imprevedibile, a seconda di quale delle sue «anime» sia destinata a prevalere: la capitale cosmopolita, metropoli-simbolo della globalizzazione; oppure la capitale nazionalista, che negli ultimi mesi (dopo la rivolta del Tibet e le polemiche con l´Occidente) ha visto serpeggiare umori sciovinisti, perfino xenofobi. Questi cambiamenti repentini, Pechino li ha già vissuti tante volte nella sua storia millenaria.
Marco Polo la conobbe in una delle fasi di apertura verso il mondo esterno (sotto la dinastia mongola dei Kubilai Khan), che furono le più feconde; si alternarono a epoche di superbo ripiegamento isolazionista, spesso foriere di decadenza per la Terra di Mezzo.
Gli occidentali in genere s´innamorano a prima vista di Shanghai, che sembra una New York asiatica. Invece la prima reazione del visitatore europeo a Pechino è un misto di delusione («così poche tracce del passato»), orrore (per la bruttezza del 90% delle sue costruzioni moderne), e infine sgomento: per le dimensioni assurde di una megalopoli che ormai punta verso i 20 milioni di abitanti e occupa un territorio largo quanto il Belgio.
Pechino non è una seduttrice da amore a prima vista. Però è una città più autenticamente cinese di Shanghai: è impossibile capire questo paese senza vivere nella sua capitale, centro del potere politico.
Renata Pisu ci ha vissuto a lungo, quando era studentessa all´università Beida, e da allora non ha mai smesso di frequentare questa città. Nel suo ultimo libro, Mille anni a Pechino (Sperling & Kupfer, pagg. 250, euro 17), la Pisu attinge al suo album di ricordi personali, e alla sua notevole erudizione, per offrire ai lettori un´introduzione alla storia della città, un itinerario di viaggio attraverso le sue vicissitudini, e una chiave d´interpretazione della sua anima odierna.
I capitoli dedicati alla storia antica sono preziosi perché il visitatore trova effettivamente pochi resti visibili delle epoche più remote, e anche i musei locali deluderanno chi si aspetti un Louvre o una National Gallery. La colpa di questa distruzione del passato non è solo delle Guardie Rosse né tantomeno della più recente modernizzazione urbanistica. La Pisu ricorda quanto scrisse il sinologo belga Simon Leys: «La Rivoluzione culturale potrebbe facilmente apparire come l´ultima manifestazione di un antichissimo fenomeno, il ripetersi di ondate di violenta iconoclastìa nella storia del paese». L´altra faccia di questo fenomeno è la capacità di mimesi di Pechino, la sua flessibilità nell´assorbire le influenze degli invasori esterni. Che nel XX e XXI secolo non sono i mongoli o i mancesi: siamo noi. Infatti la storia della Cina dalla metà dell´Ottocento in poi è segnata dal trauma delle disfatte subìte nel confronto con l´Occidente (e col Giappone, la nazione asiatica più veloce nell´adeguarsi al progresso tecnico-economico dell´Occidente). Le élite cinesi hanno cercato disperatamente di adeguarsi: il repubblicano Sun Yat-sen guardava all´Europa e all´America, Mao Zedong al comunismo russo, Deng Xiaoping un po´ al Giappone e un po´ all´America; tutti cercavano all´esterno un modello per la modernizzazione.
Pechino si è lasciata fare, importando di volta in volta modelli urbanistici del socialismo sovietico negli anni Cinquanta, di Tokyo e Osaka e Los Angeles e Atlanta dagli anni Ottanta ai nostri giorni. Per misurare gli strappi che ha dovuto accettare questa città rispetto alla sua identità e alle sue tradizioni, è utile ricordare che per un millennio Pechino si sviluppò solo orizzontalmente. Nessun edificio poteva superare l´altezza della Città Proibita e anche le case signorili erano a un solo piano. La Pisu ricorda ciò che scriveva il gesuita Jean-Denis Attiret nel XVII secolo: «Volete sapere cosa ne dicono quando vedono delle stampe che rappresentano i nostri edifici? I grandi corpi di case li spaventano. Considerano le nostre case quali vie scavate in mezzo a orride montagne e le nostre case quali rupi a perdita d´occhio con pertugi, come fossero abitacoli d´orsi e di altre belve feroci. I nostri piani ammucchiati destano la loro meraviglia, e non capiscono come ci possiamo arrischiare di romperci il capo cento volte al giorno salendo a un quarto o a un quinto piano».
Oggi Pechino ha spregiudicatamente verticalizzato la propria concezione dello spazio. Per la facilità con cui spuntano dalle viscere della terra e raggiungono in pochi mesi la stratosfera sembra che i grattacieli siano nati qui. La Pisu ricorda i costi umani che questa modernizzazione accelerata ha imposto. Gli anziani espulsi dai vecchi quartieri «non hanno punti di riferimento, luoghi di incontro: li scorgi che si danno convegno sotto le arcate delle circonvallazioni aeree, tra un massiccio pilone e l´altro, e ballano. Sì, d´inverno anziane coppie mettono su un po´ di musica, dei lisci perlopiù, e volteggiano tra il fragore e le esalazioni mefitiche del traffico». È un´immagine che si può interpretare in tanti modi.
È la malinconica fine di un mondo. Oppure è la rivincita dell´anima eterna di Pechino, che sopravvive a ogni cambiamento di pelle di questa città, riaffiora indomabile e irriducibile, s´infila a occupare tutti gli interstizi, si riprende alla chetichella il territorio che volevano rubarle.
Liberazione 30.7.08
Intervista all'ex ministro degli esteri, ex premier, ex leader Ds D'Alema: «Sinistra radicale, addio senza rancore...»
di Piero Sansonetti
Massimo D'Alema mi accoglie sulla porta del suo studio, a piazza Farnese (sede di Italiani Europei) allegro e scherzoso. Ma non mi sembra ottimista. Ci conosciamo da un po' più di trent'anni e quindi niente diplomazie. Scherza. E canticchia alcuni versi di uno strano inno con parole incomprensibili. Strabuzzo gli occhi, e lui mi spiega che è l'inno del «pionere» in lingua russa. Lo conosce solo lui. Neanche Cossutta, perché non è mai stato tra i pionieri. I pionieri erano i ragazzini comunisti under 14, dopo i 14 anni si passava alla Fgci. D'Alema era un leader dei pionieri ai tempi di Togliatti. Mi prende in giro per la svolta iper-comunista sancita dal Prc al congresso di Chianciano.
Non ti è piaciuto questo congresso?
Lo ho seguito con interesse. Come avevo seguito la discussione prima del congresso. Al di là della crisi politica ed elettorale di Rifondazione comunista, io so che in Italia esiste un'area di sinistra radicale che ha una sua funzione, uno spazio, che è importante. Non credo che questa area sia la continuazione della tradizione del Pci. Il cuore vero della tradizione del Pci, secondo me, è trasmigrato nel partito democratico.Del partito comunista, l'unico filone che regge ancora è quello riformista. Oltre questa tradizione è sempre esistita una sinistra che possiamo definire «massimalista», nella quale hanno confluito diverse aree di pensiero politico, e il destino di questa sinistra massimalista è tutt'altro che irrilevante ai fini dell'equilibrio politico del paese e della forza del sistema democratico. Perciò, dopo la sconfitta elettorale di aprile, mi chiedevo se sarebbe maturata una svolta in avanti, un modo di declinare in forme moderne il massimalismo italiano. Era una cosa molto importante. Aspettavo una risposta dal congresso del Prc. Diversa da quella che è arrivata.
Cos'è che ti preoccupa?
Io speravo che si potesse arrivare a una coalizione di forze diverse, in grado di costruire una sinistra di tipo rosso-verde. Una sinistra cioè che non smarrisse il tema della questione sociale, però si aggregasse attorno anche ad altre istanze: ambientaliste, pacifiste, femministe... la sensazione è che invece ci sia un arroccamento che ricorda più certi gruppi della sinistra extraparlamentare di una volta, di matrice un po' stalinista.
Dai un giudizio così duro su Paolo Ferrero?
No, non su di lui. Ferrero è una persona assolutamente ragionevole. Non dico certo che lui sia un estremista. L'ho conosciuto bene durante l'esperienza di governo: qualche volta avrebbe potuto essere più combattivo. Però mi sembra che nel partito che è stato chiamato a dirigere si delinei un arroccamento identitario. Persino dal punto di vista simbolico: che segnale è la decisione di abbandonare il tema classico dell'unità della sinistra?
E' la fine di una stagione?
Si è chiusa l'era di Bertinotti. Era stata una stagione in cui l'idea di costruire una forza radicale di sinistra aveva un riferimento soltanto simbolico al comunismo. Non era dentro la storia del comunismo e dei comunismi. Bertinotti immaginava una forza di sinistra critica, che però non rinunciasse a misurarsi col tema del governo e della trasformazione. Non si può negare che avesse una sua forte originalità. Oggi il Prc ha deciso di porre fine a questa era, in modo drastico, in nome di qualcosa che a me pare un puro ritorno indietro. Non getta le basi di una possibile convergenza con altri segmenti della sinistra. A me sembrava che solo dalla convergenza dei vari pezzi della sinistra radicale (verdi, sinistra Ds eccetera) potesse nascere una prospettiva nuova.
Una ripetizione dell'Arcobaleno?
L'arcobaleno è fallito clamorosamente alle urne. Però io immaginavo che dal congresso di Rifondazione potesse emergere una proposta unitaria meno aborracciata, una costituente basata su riflessioni politiche più approfondite, su elementi culturali, su analisi e programmi politici...Però non è successo. E quello che è successo è abbastanza preoccupante. Anche perché potrebbe avere conseguenze sul piano dei governi locali. Tra meno di un anno si vota in migliaia di comuni e in moltissime province.
Non credi che la sconfitta della sinistra radicale, e quindi anche le sue reazioni alla sconfitta - le scelte di queste ore - siano in parte dovute all'atteggiamento settario del partito democratico, alla dichiarazione di autosufficienza, alla decisione di rifiutare una alleanza elettorale ad aprile?
Io credo che la sconfitta della sinistra radicale sia dovuta fondamentalmente al modo nel quale ha vissuto l'esperienza di governo. Il rapporto tra sinistra e Pd si è consumato nell'esperienza di governo. La difficoltà di tenuta da parte del Prc è stata evidentissima. E io credo che siano state evidentissime anche le rincorse estremiste tra Rifondazione e Diliberto, sia sulla politica estera che sulle questioni sociali. Penso ad esempio all'assalto di Rifondazione all'accordo sindacale del 23 luglio di un anno fa...
Ma quello era un accordo che non poteva essere digerito..
Non è vero. Era un buon accordo. Era stato approvato da un referendum sindacale con l'85 per cento di consensi. Rifondazione lo ha contestato in quel modo così aspro avendo attenzione più al dibattito interno alla Cgil che non al rapporto con la società italiana. Io avrei capito contestazioni di Rifondazione alla linea del governo, anche molto dure, su altre questioni. Su alcune scelte di politica economica che avevano una impronta tecnocratica, per esempio sulla prima finanziaria, quella da 30 miliardi, che forse era eccessiva...
Sulla politica estera Rifondazione è stata molto leale.
Obtorto collo. Diceva: «Voto per disciplina», ma poi sommergeva di critiche la politica estera. In Parlamento molti vostri deputati e senatori dicevano cose orribili della politica estera. Tanto che io mi chiedevo: ma in che modo il gruppo dirigente di Rifondazione ha scelto i suoi parlamentari? Adesso ho capito che in realtà Rifondazione rappresentava settori politici e di società molto più estremisti di quello che io pensassi. E mi spiego la rottura. E capisco che non era possibile nessun'altra scelta che la fine della collaborazione.
Secondo te dal congresso del Prc sono venuti solo segnali negativi?
Trovo utile la volontà di dar voce ad una questione sociale che si propone in termini sempre più drammatici. Credo che sia una strada che dovremmo percorrere anche noi del Pd. Che su quel terreno, sia noi che voi dovremmo contendere lo spazio alla destra. Questa è l'unica luce che vedo spuntare da Chianciano. Il tema che viene posto è vero, è un tema classico e sacrosanto di tutta la sinistra: l'uguaglianza o perlomeno la lotta alle crescenti e intollerabili diseguaglianze sociali. Ed è un tema che interessa anche noi, che deve interessarci. E comunque penso che se il Prc si mette a svolgere questo compito, se fa un buon lavoro, contribuisce all'equilibrio democratico del paese.
La sinistra radicale è in crisi. Ma Il Pd non è in ottime condizioni di salute, né in grado di indicare grandi prospettive. La destra sta trionfando?
Non mi pare. I rapporti di forza fondamentali sono quelli consolidati. La mia paura è che torni una specie di bipartitismo imperfetto. Con una forza riformista che non trova più la via del governo. Come era negli anni '80, con la Dc che comandava e il Pci che restava fuori. Alle elezioni di aprile il Pd ha subito una sconfitta consistente, raccogliendo 3 milioni e mezzo di voti meno della destra. Il rischio che vedo è che il Pd diventi una minoranza strutturale.
In questo quadro non diventa decisiva la possibilità di alleanza con la sinistra radicale?
Il problema è costruire un nuovo centrosinistra, imperniato sul Pd, che ha un ruolo fondamentale ma non esclusivo. Dopo il congresso di Rifondazione, mi sembra difficile che da quella parte possa venire un contributo a questo progetto. In fondo si sta superando quella anomalia italiana che consisteva nel fatto che in Italia - e solo in Italia - c'era una sinistra radicale interessata a misurarsi con l'ipotesi di partecipare al governo. Ora non è più così. In Italia, come in Europa, c'è una sinistra riformista, che sfida i conservatori per governare, e una sinistra radicale all'opposizione comunque. E' così, da tempo, in Spagna, in Portogallo, in Germania: ovunque. L'Italia costituiva una originalità, che ora è stata cancellata.
Questo vuol dire anche fine della collaborazione nei Comuni e nelle regioni?
Spero di no. Bisogna sempre evitare che meccanismi di politica nazionale si riflettano automaticamente sulle realtà locali.
Si va verso le elezioni europee. C'è il rischio di una riforma della legge elettorale con uno sbarramento così alto da impedire l'accesso al Parlamento della sinistra?
Io credo che uno sbarramento al 3 per cento sia necessario, per evitare un eccesso di frammentazione. L'importante è che lo sbarramento non sia troppo alto, e soprattutto che avvenga su base nazionale e non in ogni circoscrizione elettorale. Cioè che non sia cancellato il recupero dei resti. Altrimenti uno sbarramento del 3 per cento può diventare in realtà del 7 o dell'8. E questo non sarebbe democratico.
il Riformista 31.7.08
Ferrero a D'Alema: «Parliamo»
«D'Alema più realista di Vendola»
«Tremonti fa un'analisi corretta della globalizzazione»
di Alessandro De Angelis
«Voglio dire a Nichi che l'egemonia della destra la vedo eccome». E ancora: «Con questo Pd niente alleanze, non col Pd in generale». Il neosegretario di Rifondazione Paolo Ferrero, in una conversazione col Riformista , manda un messaggio a D'Alema: «A D'Alema dico: non interessa al Pd se riportiamo a votare i nostri?».
Ferrero, Vendola l'accusa di non aver capito la destra.
«È una tesi completamente priva di fondamento. L'egemonia della destra la vedo eccome. E ha due elementi di forza enormi».
Quali?
«Il primo è che Berlusconi ha vinto proponendo un suo immaginario. Per dirla in breve: chi è ricco ha ragione, chi è povero ha torto; o il fatto che i problemi sociali vengano vissuti come problemi individuali e non collettivi. Il secondo è che ha vinto sul terreno concreto: Tremonti è l'unico che fa un'analisi corretta della globalizzazione».
Si spieghi meglio.
«Il movimento no global di qualche anno fa era entrato in sintonia con il senso comune. Poi è andata in crisi la globalizzazione. E dentro questa crisi sono aumentate l'insicurezza e la paura del futuro. Tremonti si è messo in sintonia con questa paura della società e la destra ha vinto. La sua idea, però, è che la coperta è corta e non può coprire tutti. Quindi alcuni non possono essere garantiti: i cinesi, i rom, gli immigrati. È un modello reazionario».
E voi?
«Il centrosinistra su questo ha balbettato. Veltroni ha scimmiottato il kennedismo degli anni Sessanta proponendo, in una società dominata dalla paura, una sorta di mito della "nuova frontiera"».
Invece?
«Invece la vera battaglia per l'egemonia dobbiamo farla veramente con la destra. Vendola e Giordano mi accusano di voler fare l'opposizione più al governo ombra che al Pd. È una sciocchezza».
Quindi niente alleanze col Pd?
«Finché il Pd tiene questa linea politica alleanze organiche per il governo del paese no. Ma non col Pd in sé. Questo Pd non assomiglia nemmeno lontanamente a una socialdemocrazia che vuole le riforme».
E cioè da dove ripartite?
«Il nodo è sociale. Se è vera l'analisi che ho fatto sulla vittoria della destra, noi dobbiamo ripartire dal conflitto. Se lo schema Tremonti ci impone il conflitto tra ultimi e penultimi, noi dobbiamo riappropriarci del conflitto del basso contro l'alto per ricostruire una comunità. E dal punto di vista simbolico dobbiamo ripartire dal comunismo come giustizia sociale e libertà. Dire "siamo tutti uguali" non è anticaglia».
E il Pd?
«Guardi Bersani e D'Alema sono più realisti di Nichi su questo punto».
D'Alema ieri su Liberazione ha parlato di una Rifondazione più isolata e più arretrata.
«Capisco che l'esito di Chianciano scompiglia il suo schema. Tuttavia c'è un punto in cui D'Alema dice: "Trovo utile la volontà di dar voce a una questione sociale che si pone in termini sempre più drammatici". E aggiunge che è l'unica luce che vede spuntare da Chianciano. Io dico: è una grande luce».
Vuole dialogare con D'Alema?
«Diciamo così: sembrava che alla crisi della società si potessero dare risposte solo partendo dal piano istituzionale. Badi che io sono d'accordo con D'Alema che il riordino istituzionale sia necessario e sono anche d'accordo sul modello tedesco da lui sostenuto. Ciò detto il punto decisivo è un altro».
Quale?
«Il problema della sinistra è tornare nella società. Lo voglio dire anche a D'Alema. Il risultato elettorale mostra come la destra non ha aumentato il suo bacino elettorale, invece soprattutto i nostri sono rimasti a casa. Credo che sia un problema anche della sinistra moderata far tornare a votare qualche milione di persone. O no?».
E le giunte?
«È un'invenzione che usciremo dalle giunte. Vedremo caso per caso. In Abruzzo abbiamo chiesto al Pd di rinnovare le sue liste ed escludere gli inquisiti. In Calabria, dopo che siamo usciti dalla giunta anche sulla questione morale, credo che sia sbagliato rientrare. Guardi che la questione morale è importante».
La combatterete con Di Pietro che, però, tanto di sinistra non è.
«È vero che il dipietrismo ha elementi di destra. Ma non possiamo regalare a lui il tema della questione morale. Sarebbe una follia. È un nostro tema. Basta rileggere Berlinguer o le denunce che faceva il Pci su tanti scandali».
Quindi sosterrete i suoi referendum sul lodo Alfano?
«Se c'è un referendum è giusto sostenerlo. Poi credo che non sia giusto farli solo sul lodo Alfano. Andrebbero abrogate la legge 30, la Fini-Giovanardi. Ma non è che se Di Pietro dice una cosa giusta noi diciamo di no perché è Di Pietro. Il punto è un altro e lo voglio dire a Nichi: noi dobbiamo mettere in campo una Rifondazione in grado di riempire le piazze sulla questione morale».
Lei è sostenuto da una maggioranza dove qualcuno si definisce trotzkista, altri leninisti. Siete un po' extraparlamentari?
«Che siamo fuori dal Parlamento è un dato di fatto, ma noi in Parlamento ci vogliamo tornare. Non sono un estremista. Per un comunista la politica è provare a modificare i rapporti di forza nella società. Anche D'Alema riconosce che in tutta Europa la sinistra radicale è all'opposizione».
Sì, ma la vede come la fine di una anomalia positiva.
«Mettiamola così. La Linke non è fatta di estremisti ma di gente come Lafontaine che è stata al governo e che ora non vede condizioni per un accordo con l'Spd. Io pure sono stato al governo e non vedo le condizioni di un accordo col Pd, con questi rapporti di forza e con questa linea del Pd. Ci ho provato, ma ho visto che Montezemolo e le gerarchie ecclesiastiche contavano più di me, e non solo più di me».
Alle europee andrete con Diliberto?
«Andremo col nostro simbolo. E faremo i diavoli a quattro se mettono lo sbarramento, anche al tre per cento, o se tolgono le preferenze».
Si è sentito con Bertinotti?
«Sì, l'ho chiamato io e ci siamo dati appuntamento a settembre. Sto anche chiamando tutti i segretari delle forze politiche di sinistra e di centrosinistra per incontrarli. Guardi, le do una notizia: mi hanno chiamato anche dal centrodestra».
Anche il Cavaliere?
«No. Lui no».
il Riformista 31.7.08
Lettera al nuovo segretario del Prc
Caro Ferrero, tanti auguri per l'incarico
Non possiamo stare senza comunisti
C'è bisogno di un partito che si rifaccia a Togliatti e Berlinguer
di Francesco Cossiga
Caro Ferrero, mi congratulo con te per la tua elezione a segretario di Rifondazione Comunista e ti auguro, e mi auguro!, che tu riesca nel disegno tuo e di altri tuoi compagni di ricostituire una sinistra che renda attuale la tradizione, le idealità, l'esperienza e la passione politiche del Partito comunista italiano in fedeltà all'ideologia marxista-leninista. Vi sarà certamente chi, ma sicuramente non tu, si meraviglierà per questa mia lettera e soprattutto per questi miei auguri, che io non solo formulo a te, ché potrebbe anche essere un semplice atto di cortesia, ma come cittadino della comune Repubblica e come democratico, io formulo a me stesso.
Come più volte ho detto e scritto, io credo che non vi sia e non si possa "fare politica", e quindi governare democraticamente uno Stato che è stato pensato e vuole essere democratico, senza partiti e senza un chiaro riferimento culturale a quelle che in Europa sono state e sono le grandi culture politiche: quella conservatrice democratica, penso al partito conservatore di Winston Churchill, e al conservatorismo antifascista e "resistenziale" di Charles De Gaulle, quella liberale, quella cristiano-democratica, quella socialdemocratica e laburista, e infine quella comunista, e per quanto riguarda il nostro Paese, nella specificità del pensiero gramsciano e dell'iniziativa politica, il partito nuovo di Palmiro Togliatti e il partito nazionale e europeo di Enrico Berlinguer, forza determinante della Resistenza, della costruzione dello Stato democratico e della sua difesa da tentazioni golpiste, anche isolando le sue sparute frange estremiste velleitariamente "rivoluzionarie", e combattendo duramente la sovversione di sinistra e l'eversione di destra.
In una stagione politica e di pensiero, o meglio, salvo qualche eccezione, di "non pensiero": tra un Partito democratico - per il quale io ho peraltro votato pur non comprendendo in realtà per che cosa mai votassi - strano coacervo di "profughi democristiani", di cattolici integralisti, di socialisti allo sbando e di "comunisti non comunisti", che si rifanno al pensiero kennedyano-clintoniano-obamaniano - e il Popolo delle Libertà, in cui convivono ex democristiani, socialisti, liberali e "missini convertiti", io credo che ci sia bisogno di un partito che si rifaccia al comunismo di Togliatti e Berlinguer e anche di un partito "nuovo" di carattere cattolico e liberale riformista.
Ho stima per Nichi Vendola, un cattolico progressista che si richiama a quel "populismo sociale pugliese" che accomunava Di Vittorio e Tatarella. Da anni sono amico di Fausto Bertinotti che stimo, ma non ho mai compreso la sua "deriva" ambientalista e pacifista e di rifiuto teorico della violenza, come se con il pacifismo e senza violenza ci sarebbe mai potuta essere la Rivoluzione americana, la Rivoluzione francese e la Rivoluzione d'Ottobre, la Guerra Patriottica da Ovest ad Est e la Resistenza contro il nazi-fascismo, perfino da parte di militari, laici e sacerdoti cattolici e protestanti tedeschi!
Ho deplorato che un iniquo sistema elettorale abbia tenuto fuori del Parlamento la così detta "sinistra radicale" e ho considerato ciò anche pericoloso, in quanto solo una sinistra comunista può essere punto di riferimento istituzionale e "metabolizzare" in senso democratico il "movimentismo" che esiste, volgendolo alla "politica" e distogliendolo da un'utopica "violenza rivoluzionaria", e rifare del sindacato, oggi quasi solo lobby impiegatizia e di pensionati, oltre che di così detti quadri, un soggetto politico-culturale che tuteli i lavoratori ma faccia anche avanzare la democrazia nel nostro Paese. E spero che tu riesca a costituire un polo unico di comunisti democratici.
Spero parimenti e mi auguro che l'amico Massimo D'Alema riesca a portare il Partito democratico, compresa la sua componente della ex sinistra sociale e i cattolici democratici di derivazione sia comunista cattolica che "dossettiana" nel movimento socialdemocratico e quindi nell'Internazionale Socialista e nel Partito socialista europeo: l'era della Democrazia cristiana di De Gasperi, di Moro, di Fanfani e di Andreotti è definitivamente tramontata con la fine della Guerra Fredda e con il Concilio Vaticano II. Questo io affermo e auguro a te e ai tuoi compagni, da cattolico-liberale e quindi "liberal-riformista".
il Riformista 30.7.08
Lella Bertinotti difende il marito: «Sono preoccupata per il futuro del partito»
«A Fausto undici minuti di applausi. E basta con la storia del cachemire»
«Anche Ferrero frequenta i salotti»
di Alessandro De Angelis
«Non mi risulta che Ferrero abbia mai rinunciato a una apparizione televisiva». La signora Lella, moglie di Fausto Bertinotti, non ha tanta voglia di parlare di politica. Ma, ora che non è più la first lady di Rifondazione, in una conversazione col Riformista qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie. E l'accusa di Ferrero («Meno televisione, più popolo») la rispedisce al mittente.
Signora Bertinotti, come ha vissuto il congresso di Rifondazione?
«Bene. Io vedo la parte commuovente. Undici minuti di applausi a Fausto sono stati davvero tanti».
È ancora lui il leader?
«Questo non spetta a me dirlo. Ma quell'applauso non è stato fatto a nessuno. È il giusto riconoscimento a chi ha saputo tenere unito il partito per tanti anni. E a Chianciano si è visto quanto è difficile l'unità di un partito con tante anime come il nostro. Ma la cosa che mi ha colpito di più è l'affetto di tanti compagni delle province».
Che vi hanno detto?
«In tanti hanno detto a Fausto "grazie per quello che hai fatto per noi", "ti vogliamo bene", e "grazie per quello che ci hai insegnato"».
Non Ferrero.
«Lei ha scritto articoli cattivissimi. Non è mica vero che Fausto e Paolo non si sono salutati. Si sono anche abbracciati».
Dopo due giorni di congresso, per dare un segnare. Poi Ferrero vi ha accusato: «Meno tv e più popolo».
«Mi risulta che tutte le volte che lo hanno invitato è andato. C'è mai stato un invito in tv che ha rifiutato?».
E i salotti?
«Ora che posso parlare liberamente le dico che non ci sono mai stati. Basta con questa storia. Siamo stati per anni etichettati come snob. Certo ci sarà stata qualche cena in quelli che lei chiama salotti. Ma non eravamo gli unici».
Cioè?
«A casa di Carlo De Benedetti c'era anche Ferrero con la sua compagna. Per il resto io e Fausto abbiamo fatto una vita con gli amici e i compagni di sempre. Anche a casa Angiolillo, per dirne un'altra, siamo andati due volte in ventitré anni. Adesso mi chiederà dei cachemire?».
Visto che ha tirato in ballo l'argomento.
«Non ci sono mai stati tutti questi cachemire. Il primo lo comprammo a via Sagno a 25 mila lire. Un altro ce lo ha regalato una magliaia amica di Ramon Mantovani e ce lo portò lo stesso Ramon».
Lei si sente comunista?
«Certo che sono comunista. Lo sono sempre stata e lo sarò sempre».
Che effetto le ha fatto vedere che una parte dei militanti cantava Bandiera rossa per screditare l'altra?
«È una canzone bellissima. La canto anche io. È patrimonio di tutti».
Dopo il congresso lei e Fausto siete amareggiati?
«Amareggiati? Guardi che noi siamo grandi combattenti. Abbiamo una vita piena e bella comunque. Abbiamo sentito attorno il calore di tanti compagni».
Torniamo alle emozioni.
«Sì. Vale anche per Fausto. Lui si emoziona sempre. Ed è giusto così. Chi non si emoziona ci fa paura. Poi il suo era l'ultimo discorso da leader. Anche Nichi è stato bravo. Il merito di Fausto è di aver tirato su dei ragazzi per bene e bravi. Li ha visti?».
Io ho visto un congresso un po' avvelenato.
«Diciamo che è stato un congresso pirandelliano. Qualcuno ha giocato ad avere tre parti in una. Alla fine ci ha rimesso solo Franco Giordano che dopo la sconfitta ha rassegnato le dimissioni. Gli altri che erano al governo è come se non ci fossero stati».
Che farà ora Fausto?
«Leggerà di più, continuerà a studiare restando, come sempre, a disposizione della causa. Avrà anche un insegnamento all'università e si occuperà della rivista e della Fondazione che sta mettendo su».
E lei?
«Farò quello che ho sempre fatto. La militante di base, la nonna. Finalmente, andrò a teatro senza essere accusata di snobismo. E avrò un marito, che per anni ho prestato al partito. Quando lui era segretario di Rifondazione, infatti, uscivo con una mia amica che è divorziata e una che è vedova. Ma alla sera mi dicevo: io un marito ce l'ho».
Che accadrà a Rifondazione?
«Sono molto preoccupata per il futuro. È un partito diviso a metà. Non voglio e non posso dare consigli. Spero solo che Rifondazione continuerà ad esistere».
il Riformista 30.7.08
Parla Vendola: «Sì al dialogo col Pd. Di Pietro? È di destra»
Vendola: «Chiediamoci perché oggi Cipputi vota Lega e se è in crisi si rifugia nella cocaina e non nel sindacato. Di Pietro esprime valori di destra»
«la politica è interlocuzione, non capisco il feticismo delle formule magiche»
«Col Pd voglio parlare. Ferrero? Un extraparlamentare»
di Alessandro De Angelis
«Ha ragione Bersani, su molti punti a partire dalla questione dell'ideologia». E ancora: «Certo che voglio dialogare col Pd». Nichi Vendola si è concesso, dopo la sconfitta a Chianciano, un giorno di tregua («Dovevo riconciliarmi con i verbi fondamentali della vita», dice). Ieri, in una conversazione col Riformista è tornato a parlare di politica, a partire dall'intervista di Bersani su questo giornale.
Vendola, su quali punti è d'accordo con Bersani?
«Sulla crisi delle ideologie. Non c'è costruzione possibile del consenso e dell'egemonia, se non si ha una narrazione del mondo, una weltanschauung. Questo punto è importante perché l'analisi della sconfitta è dirimente per la strategia. Ferrero non vede l'egemonia della destra, il suo immaginario, il suo linguaggio. Si limita a enfatizzare il tradimento e la subalternità della sinistra moderata ma non analizza come sono mutati i rapporti di forza in Italia e nel mondo».
Quindi serve una ideologia.
«Sì. L'ideologia non è l'ideologismo, il richiamo a cimeli da museo. Al berlusconismo devi contrapporre una critica della globalizzazione. Questo significa, ad esempio, cogliere le mutazioni antropologiche in fabbrica dove Cipputi non c'è più, e se c'è vota Lega. Per non parlare di quando, per solitudine, si rifugia più nella cocaina che nel sindacato. Dico questo perché il lavoro senza classe non è una categoria politologia, è la crisi di una forma di comunità».
È questa la sfida per la sinistra?
«Sì, e non si risolve col proselitismo verbale. L'unità dei comunisti di cui parla Ferrero è un percorso all'indietro. È un'idea nostalgica, liturgica, da accademici della chiacchiera: la realtà deve adattarsi a una dottrina e non il contrario».
Lei ha annunciato una corrente: Rifondazione per la sinistra.
«Rappresentiamo una storia importante che intende comunicare con l'esterno. Siamo la metà del partito. È faticoso racchiudere questo flusso di energie e di storie nel recinto del correntismo. Faremo un lavoro nel partito e nella società rifiutando di gestire insieme la linea avventurista di Ferrero».
Col Pd parlerete?
«Col Pd si deve parlare: con Bersani, con Veltroni. La politica è fatta di interlocuzione, di valutazione lucida e laica delle alleanze da fare. Non capisco il feticismo delle formule magiche. Dire "mai al governo" è una formula simmetrica a quella di tanti pseudoriformisti che dicono "mai all'opposizione". Come se sia l'una che l'altra fossero scelte di fede e non politiche».
La parola alleanze per lei non è un tabù.
«Lo dico a chi esibisce carati di comunismo: da Marx in poi, per non parlare di Gramsci, Togliatti, Berlinguer, c'è una sterminata letteratura su alleanze, compromesso. L'idea ferreriana di un sociale come lavacro dove ripulire le scorie del mondo è una fuga dalla politica».
Ferrero ha logiche extraparlamentari?
«Essere extraparlamentari è un dato di fatto, visto che non siamo in Parlamento. Ma assorbire l'identità extraparlamentare è un altro fatto. Come se le istituzioni fossero terreno di degrado e non di lotta. Al congresso ci hanno pure chiamato "gli istituzionali", categoria nella quale non compariva chi ha fatto il ministro».
E Di Pietro? Il neosegretario considera giusto appoggiare i suoi referendum sul Lodo Alfano.
«Sono molto turbato da questa forma di subalternità al dipietrismo. Noi abbiamo la necessità di essere impegnati in una battaglia contro forme di razzismo e capire, pure attraverso un'indagine nel nostro partito, perché alcuni stereotipi sono entrati anche in noi. Noi dobbiamo avere il senso dell'egemonia nostra e non essere calamitati in quella di Di Pietro. L'attivismo referendario invece porta acqua ad altri mulini».
Di Pietro, per lei, è di destra?
«Certo che il dipietrismo esprime una cultura e dei valori di destra. Manca la connessione tra crisi democratica e crisi sociale. E se noi ci collocassimo nella sua battaglia non riusciremmo ad evidenziare il profilo feroce e di classe di chi ci governa. Per noi è difficile una battaglia a difesa della nostra civiltà giuridica, a difesa dei rom, dei clandestini, delle libertà personali se si abbandona la bandiera del garantismo».
Si spieghi meglio.
«Il garantismo è parte della battaglia sociale di fronte al securitarismo e alla fabbrica delle paure della destra. Per questo è sempre irrinunciabile nella costruzione della sinistra. Non lo si può riscoprire solo quando vanno in galera i ragazzi della rete dei disobbedienti».
Lavorerà per un nuovo centrosinistra?
«Per me l'impegno fondamentale è la ricostruzione della sinistra di alternativa nella società e nella politica. Poi sul fallimento dell'Unione serve un'analisi puntuale. Quello schema è morto, si è frantumato per due ragioni».
Le elenchi.
«La prima è la divisione del lavoro tra i riformisti che governano, e i radicali che fanno testimonianza. Ognuno parlando al proprio bacino elettorale. La seconda riguarda la politica economica che è stata cieca e non ha visto la crisi del lavoro e le nuove povertà. Ma neppure lo sgretolamento del ceto medio».
E il nuovo centrosinistra?
«Si parte dalla critica alla destra e dalla capacita di tessere reti nella società e alleanze politiche, per dirla con un lessico togliattiano. Come si può esorcizzare il confronto col Pd? È chiaro: noi dobbiamo avere la nostra linea del Piave. Se il Pd ha atteggiamenti che si arruffianano le culture razziste, allora litighiamo col Pd, rompiamo. Ma il tema alleanze non è un sofisma».
Vale anche per la vostra presenza nelle giunte in Calabria, a Milano e in Liguria su cui, nel suo partito, si litiga?
«È un peccato che la Calabria diventi la metafora dei rendiconti intestini di Rifondazione. Non c'è una parte del partito più affezionata dell'altra al tema della questione morale. Deve prevalere l'affidamento del partito al territorio, e una discussione non viziata da schemi strumentali. I compagni calabresi faranno la loro scelta se rientrare o meno in giunta. In Abruzzo abbiamo fatto denunce sulla sanità privata ma il Prc, guidato da un ferreriano di ferro, non decise di uscire dalla giunta. Lo stesso vale per la Liguria o a proposito delle ultime dichiarazioni di Penati che non sono certo un documento di civiltà. Si deve discutere laicamente».
il Riformista 30.7.08
Ma Veltroni dice: «Occupiamoci di noi»
di Tommaso Labate
«Invece di parlare tanto di Rifondazione comunista, da oggi in poi occupiamoci di noi stessi». Basterebbe da sola questa frase, pronunciata dal segretario durante la riunione del coordinamento ristretto del Pd, per capire quando Walter Veltroni sia infastidito dal dibattito che si è aperto nel partito dopo le assise del Prc.
Ai piani alti del Nazareno, per la precisione nell'ala popolare, c'è anche chi ha messo in guardia il segretario affidandogli una maliziosa lettura sull'attivismo dei dalemiani. Della serie: «Walter, e se il loro obiettivo fosse quello di traghettare Vendola e i suoi da noi prima delle Europee?».
Non è dato sapere quanto Veltroni creda all'ennesima versione delle teoria del complotto dalemiano. Ma è certo che il segretario non ha gradito quelli che i suoi fedelissimi - prendendo a esempio l'intervista rilasciata ieri da Pier Luigi Bersani al Riformista - considerano «messaggi in bottiglia». Da qui, l'«occupiamoci di noi stessi», rivolto soprattutto all'ex ministro dello Sviluppo economico. «Lo so - ha scandito Veltroni - che c'è il problema delle giunte regionali, così come so benissimo che vanno costruite delle alleanze per le prossime amministrative. Nessuno ha mai detto che dobbiamo andare da soli. Adesso però dobbiamo occuparci soprattutto del Pd, senza dimenticare che le assise di Rifondazione hanno dimostrato che abbiamo imboccato la strada giusta».
Sulla linea di Veltroni, seppur con qualche distinguo, si è attestato anche Goffredo Bettini. Pier Luigi Bersani, invece, ha tenuto il punto: «Dobbiamo mantenere alta l'attenzione a quel che succede a sinistra. Trascurare quello che accade dopo il congresso di Rifondazione sarebbe un grave errore».
Prima che si passasse oltre, sia Paolo Gentiloni sia Enrico Letta hanno messo a verbale la loro contrarietà all'ipotesi di continuare a cercare un canale di dialogo col Prc. Non a caso, tanto l'ex ministro delle Comunicazioni quanto l'ex sottosegretario di Palazzo Chigi sono i due esponenti del partito che nelle ultime settimane hanno insistito di più sulla necessità di un'alleanza hic et nunc con Pier Ferdinando Casini (il quale ha più volte ribadito il suo «mai con Rifondazione comunista»).
La pratica Prc non è stata l'unica esaminata ieri dal coordinamento ristretto del Nazareno. All'ordine del giorno c'erano anche il caso della Calabria, dove i circoli del Pd non esistono e la situazione - come ha detto Marco Minniti - «rischia di peggiorare se non la affrontiamo come si deve»; e la tattica parlamentare da mettere a punto sul voto del Senato a proposito di Eluana Englaro. Oltre a quella che rappresenterà, almeno così si scommette nei corridoi del quartier generale, «la prossima patata bollente da gestire»: la presidenza della commissione di Vigilanza sulla Rai.
La candidatura di Leoluca Orlando, su cui c'è un veto di tutti i partiti della maggioranza, rimarrà in pista ancora per poco. La novità dell'esecutivo di ieri - stando a quel che riferisce un partecipante - è rappresentata da fatto che «il Pd continuerà a sostenere la sua corsa soltanto se l'ex sindaco di Palermo prenderà nettamente le distanze da Di Pietro». Dal canto suo, il leader dell'Italia dei valori, parlando con l'Agi, ha smentito passi indietro: «Noi diamo atto alle altre forze di opposizione per la coerenza con cui stanno difendendo la candidatura di un esponente dell'Idv alla presidenza della commissione: anche perché se oggi l'atteggiamento della maggioranza è questo con noi, domani potrebbe esserlo con il Pd o con l'Udc».
Per quella poltrona le nomination (vere e presunte) si sprecano: da Nicola Latorre (candidatura caldeggiata non solo dai dalemiani, ma anche da Bettini) a Paolo Gentiloni, da Giovanna Melandri a Giorgio Merlo (è una delle "carte" uscite dal mazzo dei popolari), fino a Emma Bonino (il copyright dell'idea è di Peppino Caldarola, che ne scrive in prima pagina su questo giornale). Come se ne esce?
Tra gli stessi veltroniani c'è chi sospetta che il segretario abbia già in tasca un «piano B». E un nome: quello di Beppe Giulietti, deputato del gruppo dell'Italia dei valori e storico portavoce dell'associazione Articolo 21 . Nella maliziosa ricostruzione che fanno fonti del Nazareno vengono messi insieme la presa di distanza di Giulietti da Di Pietro dopo i fatti di piazza Navona e la sua decisione di rimanere comunque (al contrario dell'onorevole Touadi) all'interno del gruppo parlamentare italvalorista. Se il sospetto si rivelasse fondato, lanciando Giulietti Veltroni manterrebbe "tecnicamente" fede alla promessa di lasciare all'Italia dei valori la presidenza della commissione.
La voce gira già da alcuni giorni ma si è amplificata ieri pomeriggio, quando una delegazione di Articolo 21 ha varcato il portone del Nazareno per annunciare a Veltroni il sostegno dell'associazione alla manifestazione del Pd convocata per il 25 ottobre a piazza San Giovanni. Durante l'incontro, a cui ha partecipato anche Paolo Gentiloni, si è parlato anche di Rai. Il segretario del Pd ha riproposto per viale Mazzini «una fondazione e la figura di un amministratore unico, un manager che la commissione di Vigilanza scelga con maggioranza qualificata». Giulietti ha replicato applaudendo alla «giusta proposta di Veltroni contro i soliti noti».
Duemila costituenti per cominciare
Non aspettiamo che siano i partiti ora esclusi dal Parlamento a far partire un effettivo processo costituente di quella nuova forza politica combattiva e seria a cui aspiriamo.
Siamo interessati e disponibili a impegnarci in prima persona con una quota di tempo e di risorse.
Sentiamo il forte bisogno di una nuova formazione politica che raccolga l'ispirazione e la collocazione di quello che è stato il tentativo della Sinistra Arcobaleno, ma senza quelle caratteristiche di verticistica lottizzazione che ne hanno rovinato la nascita.
Una forza che raccolga per quanto è possibile la sinistra diffusa delle battaglie e delle buone pratiche per l'ambiente, i diritti, il lavoro, la giustizia e l'inclusione sociale, la pace, la legalità costituzionale democratica, la questione morale.
Lo sforzo principale sarà quello di costruire le condizioni di una buona politica, di candidature caratterizzate da effettivo impegno e spirito di servizio, di un rapporto democratico ed efficace tra militanti e dirigenti, tra eletti ed elettori.
Pensiamo e chiediamo che i partiti che avevano dato vita alla Sinistra Arcobaleno mettano a disposizione ciò che resta delle loro risorse, esperienze e reti per un processo costituente che dev'essere abbastanza rapido: in modo da andare di pari passo alla battaglia di opposizione al governo Berlusconi e in modo da preparare per tempo gli appuntamenti elettorali dell'anno prossimo ai quali non si può validamente andare divisi coi vecchi simboli.
Ma in ogni caso facciamo partire un censimento delle disponibilità e una prenotazione delle iscrizioni.
Alla costruzione di una forza politica il cui nome, programma fondamentale e statuto andranno definiti entro l'autunno attraverso consultazioni on line ed assemblee regionali ci sentiamo di impegnare
a) una attenzione di mediamente almeno qualche minuto al giorno di informazione tramite lettura di notizie e risposte rapide in Internet o posta elettronica
b) una disponibilità di mediamente almeno 4- 5 ore al mese di partecipazione a riunioni o iniziative che comportino presenza fisica di contatto coi cittadini
c) il versamento di un contributo pari ad almeno il 3 per mille del reddito annuale e comunque di almeno 30 euro l'anno (15 per under 25, 20 per under 30)
Facciamo circolare questa dichiarazione collettiva e consideriamo che gli impegni sottoscritti e l'iniziativa costituente scattano pienamente nel momento in cui avremo raggiunto le duemila adesioni nazionali, con almeno cento adesioni per regione in almeno dieci regioni italiane. Duemila si intendono al netto dei "politici" ( tipo consiglieri regionali e provinciali, dirigenti nazionali etc). Mandateci i vostri dati a duemilacostituenti@gmail.com
Ovviamente sono valide e gradite iniziative parallele, basate sullo stesso principio di sottoscrizioni di impegni. Il lancio anche pubblicitario della raccolta avverrà il 3 settembre.
Vanda Bonardo, Diego Novelli, Alba Di Carlo, Luciano Pregnolato, Massimo Bongiovanni (Torino), Ilaria Bonaccorsi, Massimo Serafini (Roma), Paolo Hutter (To- Mi), Gigliola Cordiviola, Isa Mariani (Ravenna), Virginio Bordoni (San Giuliano Mi), Paolo Oddi, Irene Pavlidi (Milano), Velio Coviello (Chambery -To), Franco Astengo
SINISTRA: L'OPPOSIZIONE È NELLE NOSTRE MANI
La sinistra deve fare la sua parte nella costruzione dell’opposizione contro il governo Berlusconi. Se la sinistra venisse meno a questo suo elementare compito non vi sarebbe nessuna efficace azione di contrasto alle politiche della destra oggi al comando del paese.
Nel Seminario di Firenze dello scorso 5 luglio “Di chi è la politica? Le diverse forme e modi dell’agire politico” è stata esplorata, da tante e tanti, la questione complessa del rinnovamento delle modalità e dei meccanismi di azione della politica, indispensabile alla ricostituzione di una sinistra unita e plurale nel nostro paese. Si è assunto l’impegno di pubblicare i contributi alla discussione il più presto possibile.
Ma altrettanto vitale è innescare in questo momento drammatico nuove capacità di coordinamento e di lotta, attivando processi di mobilitazione e dando il nostro contributo a quelli che sorgono spontaneamente, rafforzando la loro unitarietà. In pochi mesi di attività il governo Berlusconi sta erodendo gravemente alcuni dei pilastri fondamentali della democrazia: le schedature e le impronte ai rom adulti e bambini e l’introduzione del reato di immigrazione clandestina alimentano direttamente un’ondata di razzismo e di xenofobia. L’uso dell’esercito in compiti di ordine pubblico e antisommossa rende esplicite le pulsioni autoritarie del governo. Vengono definitivamente meno l’universalità dei diritti, il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il carattere personale della responsabilità giuridica, l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel mordere della crisi economica che allarga la forbice fra inflazione e retribuzioni il Decreto legge 112 (“manovra finanziaria”) aggrava le condizioni materiali di vita delle persone e lede ulteriormente i diritti del lavoro, mentre fasce crescenti di popolazione sono colpite da pesanti difficoltà economiche che alimentano un senso di rabbia ma anche di isolamento. Si approfondisce la precarietà e l’insicurezza nel lavoro e si attaccano i diritti sindacali. L’ambiente è minacciato dal ritorno di un nucleare pericoloso quanto impotente, i beni pubblici – l’università statale, i servizi sanitari, la scuola pubblica, la tutela dei beni culturali del territorio e del paesaggio – sono minacciati a morte. Si tolgono risorse ai Comuni spingendoli a tagliare i servizi sociali, a privatizzare le municipalizzate ed alienare il patrimonio pubblico senza più alcun controllo urbanistico da parte delle regioni.
Di fronte a tutto questo la sinistra è frantumata e silenziosa, consumata da faide interne. Più si prolunga il silenzio e più l’effetto è devastante e la disgregazione si fa inarrestabile.
Per contrastare questa deriva noi proponiamo l’avvio fin da ora, nel corso dell’estate, di un percorso di estesa attivazione delle forze e delle coscienze, che miri alla ripresa su basi nuove dell’opposizione al governo Berlusconi e al berlusconismo.
Il primo passaggio necessario è proprio costituito dall’opposizione diffusa alla manovra finanziaria (DL 112), con l’impegno a farne scaturire dopo l’estate una grande mobilitazione unitaria della sinistra in tutte le sue varie componenti e sfaccettature.
Crediamo che una simile mobilitazione sia anche il miglior strumento per riprendere il cammino reale del processo costituente dal basso di una sinistra nuova, unita e plurale, che sperimenti un lavoro capillare, decentrato e democratico, in modo che la fiducia di persone provenienti da tradizioni e esperienze diverse cresca insieme con il lavoro comune in un sistema di "autonomie confederate" come forme di associazione e coordinamento, anche ambiziose, fra soggetti differenti, dando voce e casa alle sue tante espressioni diverse tuttora attive sul territorio nazionale – associazioni, partiti, movimenti, singoli individui – che non si rassegnano a sentirsi “esuli in patria” e che ancora (ma per quanto?) rappresentano le forze vive di un’altra Italia.
Anna Picciolini, Massimo Torelli, Andrea Alzetta, Andrea Bagni, Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elio Bonfanti, Paolo Cacciari, Maria Grazia Campus, Giuseppe Chiarante, Stefano Ciccone, Paolo Ciofi, Piero Di Siena, Antonello Falomi, Pietro Folena, Paul Ginsborg, Chiara Giunti, Siliano Mollitti,Andrea Montagni, Fabrizio Nizi, Niccolò Pecorini, Ciro Pesacane, Marina Pivetta, Bianca Pomeranzi, Tiziano Rinaldini, Ersilia Salvato, Mario Sai, Bia Sarasini, Anita Sonego, Aldo Tortorella
mercoledì 30 luglio 2008
l’Unità 30.7.08
«L’Italia viola i diritti umani degli immigrati»
Il Consiglio d’Europa boccia le misure del governo: raid violenti contro i rom, nel Paese rischio xenofobia
di Paolo Soldini
UN ALTRO CEFFONE che il gabinetto Berlusconi, con il suo ineffabile titolare dell'Interno, si vede arrivare dall'Europa, dopo le perentorie richieste di «spiegazioni» della Commissione Ue e la durissima bocciatura del Parlamento europeo, alla quale si so-
no associati anche una novantina di deputati del Ppe. Il Consiglio d'Europa non è una istituzione dell'Unione (ancorché il nostro presidente del Consiglio lo confonda spesso e volentieri con il Consiglio europeo, che invece lo è). Fu creato nel ‘49, per promuovere la democrazia e i diritti dell'uomo, ha sede a Strasburgo, ne fanno parte tutti gli stati europei eccetto la Bielorussia per evidenti deficit di democrazia; anche quelli che, come la Svizzera, la Norvegia, l'Islanda, la Turchia e i Balcani occidentali non fanno parte dell'Unione. Ha uno strumento giuridico di grande prestigio, la Corte europea dei Diritti dell'Uomo e una autorità politica e morale che nessuno mette in discussione. A parte il nostro Roberto Maroni, il quale ieri si è detto «indignato» per le «falsità» propalate nel rapporto, inconsapevole della circostanza che se riservasse la propria indignazione alle falsità che ha cercato lui di propinarci per settimane in fatto di schedature di bimbi rom, nomadi e «sicurezza» farebbe un bel regalo a noi tutti e a se medesimo.
Il ceffone, oltretutto, il governo Berlusconi se l'è proprio andato a cercare. Risulta infatti che il draft (la brutta copia) del suo rapporto, frutto di un viaggio in Italia compiuto il 19 e il 20 giugno e delle relazioni di numerosi osservatori, il commissario Hammarberg lo abbia consegnato al Rappresentante permanente italiano presso il Consiglio, ambasciatore Pietro Lonardo, già il 1° luglio, nella speranza che in un mese gli interlocutori romani trovassero il modo di correggere almeno le magagne più evidenti. Manco per idea. Il governo italiano si è limitato a fornire 18 paginette di «commenti» in cui, a mezze verità e a bugie intere, respinge tutte le critiche. Ma che razzismo, xenofobia, abusi o violenze della polizia: il governo di Roma si è mosso sempre nel massimo rispetto del diritto internazionale e delle direttive europee. Pure, per dirne una, quando ha messo su un aereo e scaricato in patria un tunisino che si sapeva sarebbe stato torturato (infatti lo stanno torturando). Pure, per dirne un'altra, quando ha fatto abbattere le baracche di molti campi nomadi senza minimamente curarsi della sorte dei loro abitanti, bimbi e neonati compresi. Pure quando uomini politici di governo, giornali, tv hanno incitato apertamente a «cacciare i rom che sono tutti potenzialmente criminali» e quando polizia e carabinieri hanno fatto ben poco per prevenire gli incendi dei campi a Ponticelli e nulla per perseguirne i responsabili (oppure per quei roghi c'è qualcuno in galera e non ce lo hanno detto?).
Hammarberg è uno svedese mite, con un degnissimo curriculum nel campo della difesa dei diritti umani in varie parti del pianeta. Ma alcune delle cose che ha visto in Italia, e quelle che gli hanno riferito i suoi collaboratori, gli son parse davvero fuori dai criteri del mondo civile. Sono «estremamente preoccupato», ha detto, per gli atti di violenza compiuti «senza che vi fosse una effettiva protezione da parte delle forze dell'ordine, che a loro volta hanno condotto raid violenti contro gli insediamenti». Sulla parola “raid”, che ha suscitato le proteste di Maroni, il portavoce di Hammarberg in serata ha specificato: «Non c’è nessun insulto verso la polizia, il commissario non afferma che la polizia abbia compiuto raid con delle molotov o contro i rom, il rapporto fa riferimento a una serie di episodi di sgombero forzato di alcuni campi, rispetto ai quali il commissario è preoccupato».
«L'approvazione, diretta o indiretta, di questi atti da parte di certe forze politiche, singoli politici e alcuni media - ha aggiunto Hammarberg nel rapporto- è inquietante», perché evoca «l'evidente rischio di far collegare il senso di insicurezza a un gruppo specifico della popolazione e di indurre nell'opinione pubblica l'identificazione tra criminali e stranieri». Un governo responsabile dovrebbe far di tutto per evitare questo rischio e invece le misure prese recentemente come l'aggravante per clandestinità, aberrante per il diritto internazionale, l'intenzione di rendere la stessa clandestinità reato e in generale le misure del pacchetto sicurezza incoraggiano ulteriormente «la violenza e l'incitazione all'odio contro gli stranieri». Bastano questi pochi cenni di un rapporto che è molto lungo e articolato per sottolineare il clamoroso senso politico del documento. Ma anche sul piano pratico, le accuse di Hammarberg avranno conseguenze rilevanti. La relazione servirà come base giuridica per una pioggia di denunce che arriveranno alla Corte, dove l'Italia deve prepararsi a conquistare un altro record negativo dopo quello, già detenuto, delle condanne per la lentezza della giustizia. Sempre più isolati, sempre più tristemente diversi dal resto d'Europa. Ancora grazie, ministro Maroni.
l’Unità 30.7.08
Maroni in difesa: sui nostri poliziotti solo falsità
Poi via libera allo spot dell’esercito nelle città
di Maristella Iervasi
Maroni affonda se stesso. Arriva in Parlamento per relazionare - costretto dall’opposizione - sull’estensione dello stato d’emergenza per l’immigrazione da 3 Regioni a tutto il territorio nazionale. Una giornataccia per il ministro leghista dell’Interno: cominciata con la «batosta» del Consiglio d’Europa sulle misure dell’Italia per nomadi e le violenze della polizia nei campi Rom, e finita - nei fatti - con la certificazione alla Camera del fallimento delle politiche migratorie e della stessa Bossi-Fini. E a poco è servito il via libera definitivo in mattinata per i 3mila militari - in mimetica quelli chiamati a vigilare su siti sensibili e centri di accoglienza per immigrati; in divisa d'ordinanza, ma senza mitra, quelli che pattuglieranno le strade assieme a poliziotti e carabinieri - che da lunedì saranno nelle città. Il provvedimento è stato bocciato come ennesimo spot tanto dall’opposizione quanto dai sindacati.
Una seduta annunciata «calda» quella a Montecitorio. «Fascista, fascista» è stato il grido del centrosinistra al ministro, mentre dalla maggioranza si infervorava e dai banchi leghisti «volavano» insulti pesanti, in particolare contro il deputato ed ex direttore de l’Unità, Furio Colombo, «colpevole» di essere un «paladino» dei Rom.
Ma andiamo con ordine. Alle 15 è di scena il diritto-dovere dell’opposizione di ascoltare il governo per chiarire le ragioni della scelta sullo stato d’emergenza. Che Maroni spiega così: «Nel primo semestre 2008 le persone sbarcate in Sicilia, Calabria, Puglia e Sardegna sono state 10.611, mentre erano 5.380 nello stesso periodo del 2007. Appare evidente la situazione di eccezionale pressione migratoria, tale da estendere su tutto il territorio nazionale lo stato di emergenza che il governo Prodi aveva dichiarato per sole tre Regioni. Se questo trend sarà confermato - ha ipotizzato il ministro - si arriverà a circa 30 mila arrivi entro la fine dell’anno». Vale a dire: nonostante la faccia feroce di Maroni e Co., gli sbarchi quasi triplicano. Poi la difesa dalle accuse del Consiglio d’Europa sui rom: «Respingo con indignazione - ha detto Maroni -. Raid violenti della polizia? È una falsità clamorosa, la polizia non ha mai fatto simili azioni. Il commissario europeo presenti al riguardo casi concreti e documentati, se ci riesce...». La claque leghista non cessa di tacere.
Poi la parola passa a Marco Minniti, ministro ombra dell’Interno: «Altro che proroga dello stato d’emergenza! La verità è che stata decisa l’estensione del provvedimento perchè negli anni passati il tanto vituperato governo Prodi aveva ridotto il fenomeno mentre ora gli sbarchi si prevede che saranno triplicati. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se questo lo avesse detto un governo di centrosinistra». Minniti invita dunque il ministro «a fermare» la sua politica che «sta generando solo paura nel paese» senza risolvere il problema. Perchè - sottolinea il deputato piddì - «non basta la faccia cattiva e una dichiarazione roboante dell’onorevole Cota a fermare chi ha fatto chilometri nel deserto. Ci state isolando dall’Europa, il Parlamento europeo ci censura, il Consiglio d’Europa ci critica, ma noi andiamo avanti con un riflesso autistico: come se tutto quello che viene fatto fosse sempre giusto. Ma senza Europa - ha ammonito Minniti - non si va da nessuna parte. Voi non conoscete il principio dell’equilibrio tra integrazione e sicurezza: per questo mandate un messaggio sbagliato».
Non va per il sottile Massimo Donati, capogruppo dell’Idv: «Ministro, Gentilini l’avrebbe impalato al pennone più alto del municipio. Vada a Treviso a spiegare che non avete fatto niente sul tema dell’immigrazione. Parlate con lingua biforcuta ma se lei fosse andato a Treviso a giustificare questo provvedimento con le parole che ha detto oggi a noi...». Tranchant anche Livia Turco, capogruppo del Pd in commissione Affari sociali: «Maroni non è riuscito a spiegare nè le ragioni dello stato di emergenza, nè come intende portare avanti gli accordi bilaterali per limitare gli arrivi migratori. Non sa cosa fare con gli 800mila immigrati che hanno fatto domanda di lavoro e rischiano di finire in clandestinità. Maroni - conclude - autocertifica il fallimento della Bossi-Fini e delle politiche del suo governo».
l’Unità 30.7.08
Napoli, i disperati-ribelli della Cattedrale:
«Ci sono frange politiche che soffiano sul razzismo»
di Enrico Fierro
Davanti all'albergo una bimba dalla pelle bianca come il latte e i capelli biondi come il grano maturo, fa i capricci: non vuole andare con la mamma. Bionda pure lei e dalla pelle candida. Vuole restare con papi, un papà dalla pelle nera come il carbone. Che si chiama Mark, viene dal Burkina Faso è un immigrato regolare e tira su quella sua famiglia embrione di una spontanea e naturale multirazzialità spaccandosi le mani e la schiena nei cantieri dell'edilizia. Mark è uno dei cento e passa immigrati sfollati del «T1», il palazzo di Pianura andato alle fiamme venerdì scorso, insomma, è uno di quelli che dopo tre notti passate all'addiaccio hanno deciso di «occupare» pacificamente la Cattedrale. L'albergo è una delle «sistemazioni» provvisorie trovate dal Comune. Siamo in via Giuseppe Pica, zona Mercato, a «Napoli Ferrovia», per capirci. Qui - come nel bel romanzo di Ermanno Rea - razze e destini si mescolano da decenni. L'area pullula di bancarelle abusivissime di senegalesi che vendono griffe false, cinesine dagli stranissimi capelli color rame (dice che è la moda del momento nella comunità) che vendono di tutto, banchetti di una Napoli truffaldina che fu col gioco delle tre tavolette (incredibile! C'è ancora chi abbocca). Nei vicoli depositi, gestiti da italiani, per la vendita all'ingrosso di falsi, un supermarket che vende solo cibi russi, un altro destinato agli stomaci forti dei cinesi, due night, uno russo e uno africano, di fronte la macelleria araba, vari venditori di kebab, un centro religioso e una infinità di phone-center. Li hanno sistemati in questa parte della città, i ribelli della Cattedrale.
Davanti al vecchio albergo, Mark parla arabo con gli altri sfollati, inglese con alcuni suoi connazionali, napoletano con il proprietario. Sono arrivati in 65, lunedì notte, in tutta fretta, alcuni hanno smarrito i loro documenti. «Qua le cose le dobbiamo fare in regola - dice uno dei gestori dell'albergo - per noi queste famiglie possono stare tutto il tempo che vogliono, ma con i documenti. Noi lavoriamo molto col ministero dell'Interno, ospitiamo i poliziotti che vengono da fuori». E infatti nella piccola hall un gruppo di agenti (divisa dei reparti Mobili) sfoglia i quotidiani con le foto e le notizie degli «scontri» davanti alla cattedrale. Uno strano destino ha voluto che immigrati e poliziotti finissero sotto lo stesso tetto. Mark ride quando glielo facciamo notare. L'albergo fornisce anche i pasti per gli altri sfollati ospitati altrove. «Pasta con la zucca, formaggio e verdura per secondo, frutta e acqua minerale». Il proprietario dell'albergo ci illustra il menu e ci invita a visitare la cucina. È pulita, non si sentono cattivi odori, il cuoco è all'opera anche per preparare il pranzo per gli ospiti dell'albergo. «Poliziotti e immigrati mangeranno la stessa cosa, dottò leggete il menu: pennette con la panna, costolette di maiale, ma solo per gli italiani perché gli altri non la mangiano per motivi religiosi, carote e frutta». Il clima è disteso e allora c'è il tempo per farsi raccontare cosa è successo davvero venerdì in quel palazzo di Pianura dove gli immigrati pagavano regolari affitti agli italiani. Il dubbio è che qualcuno abbia appiccato il fuoco. No, non è un episodio di razzismo, ma l'opera «di uno che non stava bene con la testa», è la versione degli sfollati. E poi ci parlano della gente del posto, della loro meraviglia quando dal palazzo sono spuntati decine e decine di africani. «Non ci vedevano mai - dice ridendo Mark - perché uscivamo all'alba per lavorare e tornavamo la sera tardi». E ci dicono delle famiglie bianche che nel vedere i bambini dormire per strada si sono ribellate, sono scese giù in strada a portare latte e biscotti e chi ha potuto ha offerto il proprio letto a quelle «creature» infreddolite e spaventate. «Napoli non è razzista - dice sicuro di sé Jamal Qaddorah, della Cgil - la gente semplice di questa città pratica da anni l'integrazione sociale. Il problema viene da quelle forze politiche che soffiano sul fuoco dell'intolleranza». È accaduto l'altra sera nel quartiere Montesanto, dove era stata individuata una scuola abbandonata per ospitare gli sfollati. Hanno fatto le barricate, minacciato scontri, qualcuno ha lanciato anche bottiglie molotov. È accaduto davanti alla Cattedrale. Gli immigrati ti raccontano di un funzionario responsabile dei reparti Mobili «piuttosto eccitato», che agitava un megafono e ripeteva in continuazione che quella non era una manifestazione autorizzata, che ha ordinato la carica mentre dall'interno della chiesa agenti della Digos trattavano e mediavano. I sindacati denunceranno questo atteggiamento, dicono che anche Guglielmo Epifani si sia fatto sentire dal ministro Maroni. Ma ora qualcuno soffia sul fuoco a Scampia. È bastato che si diffondesse la voce che gli immigrati potevano essere ospitati in una struttura del Comune per scatenare la protesta. I soliti motorini, le solite urla, la solita indignazione organizzata. Gli sfollati di Pianura, però, non andranno nel quartiere delle Vele, il Comune sta sistemando una sua struttura nella zona di Poggioreale. Perché a Napoli gli immigrati non sono ospiti. «Ieri li ho incontrati - ha detto il sindaco Rosa Russo Iervolino - e gli ho detto, voi siete dei cittadini del mondo e in quanto tali questa che è la casa dei cittadini italiani è anche casa vostra. Vi chiediamo scusa per le intolleranze che sono state dimostrate nei vostri confronti».
l’Unità 30.7.08
Il Paese dove gli ultimi sono sempre più ultimi
di di Roberto Cotroneo
I SALARI che non aumentano da 15 anni. Un paese incattivito e senza valori, governato da persone che non rispettano le regole - Berlusconi innanzitutto, ma anche Bossi - né i valori comuni su cui la Repubblica ha posto le sue fondamenta. Ma la furbizia e la ricchezza. È così che si rischia di diventare razzisti e ignoranti
La norma sul precariato è contro gli ultimi, quelli che un lavoro non riescono a trovarlo, quelli che non possono comprarsi una casa, che non hanno accesso ai mutui, che non possono progettare nulla, che non hanno la possibilità di pensare a un futuro che non sia un futuro a termine, come i loro contratti di lavoro, come i loro salari miserandi, come le loro vite sospese, in un vuoto che non possono riempire.
Le impronte digitali per i Rom, inclusi i bambini, è qualcosa di terrificante. Messo a punto senza vergogna per un paese che non ha protestato abbastanza, perché non è mai abbastanza protestare su una schedatura di adulti e bambini solo perché di etnia diversa. E che ci rende, davanti all'Europa, un paese allo stesso tempo ridicolo e inquietante. E con gli immigrati siamo allo stato di emergenza. Il ministro Maroni, che si annuncia come il peggior ministro dell'Interno di questo dopoguerra, parla di emergenza, e di stato di allerta. Ma la situazione è sempre la stessa, e questo è solo un modo per tenere buono un paese che è diventato razzista, cattivo e per nulla solidale. Un paese di pochi privilegiati, e di molti che devono subire discriminazioni sempre più forti.
Intanto ieri si è rovesciato un altro gommone a sud di Lampedusa, sembrano sei i morti, e pochi giorni fa sono morti anche due bambini. Ma tutto scivola nell'indifferenza, e ci stiamo preparando, come un paese sudamericano, come un Venezuela qualunque, a sopportare l'esercito nelle città per garantire l'ordine pubblico. A vedere i militari per strada, come li vedi a Caracas. Peccato che Caracas è la città più violenta del mondo. Ma ora la vigilanza e l'emergenza sull'immigrazione diventa un caso nazionale. Mille soldati sono destinati a controllare i centri immigrati. Metteranno il filo spinato? Faranno le ronde? Che ordini avranno? E perché questa decisione? Non sarà una bella sensazione vedere i militari per strada.
Ma cosa possiamo pretendere di più da questa classe dirigente? Andiamo avanti perché l'albero della vergogna si infittisce sempre di più. Il consiglio d'Europa ce lo ha detto chiaro. E una fredda nota di agenzia dice testualmente: «Il Commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, si dice "estremamente preoccupato" per il pacchetto sicurezza e la dichiarazione dello stato d'emergenza per l'afflusso di cittadini extracomunitari da parte del Governo italiano. È quanto si legge in un comunicato diffuso sul sito del Commissario per i diritti dell'uomo».
Il ministro leghista Maroni si indigna. Si dichiara sdegnato. Ma intanto dobbiamo incassare lo sdegno della civile Europa. E non è finita. Ieri si è consumata la sceneggiata tragica delle pensioni. Prima vogliono tagliare le pensioni sociali, poi si correggono e dicono che no, che la norma riguarda solo gli extracomunitari. E non le casalinghe e quelli che hanno meno di dieci anni di contributi. Che non si preoccupassero. Verrà corretta, che poi saranno gli estracomunitari a pagare, che cosa ce ne importa. Noi gli prendiamo le impronte digitali, schediamo i bambini, li controlliamo con l'esercito, incassiamo l'imbarazzo e il disprezzo della civile Europa, e abbiamo ancora il coraggio di protestare. Come hanno fatto gli immigrati africani nel duomo di Napoli. Una protesta dentro una chiesa, che da sempre è sempre stato un luogo di accoglienza, ma che in questo caso, ha generato l'immediata reazione dell'esercito in tenuta antisommossa. Per contrastare immigrati che dentro una chiesa chiedevano una casa.
Un paese che vuole che gli ultimi siano gli ultimi, sempre e comunque: questo siamo diventati? Sarebbe facile dire che è tutta demagogia, che è un modo del governo per fare una propaganda banale soprattutto sull'ordine pubblico, in vista del disastro sociale ed economico che ci attende in autunno. Sarebbe facile dire che la rabbia di avere dei salari che non aumentano - di fatto - da quindici anni, contro un costo della vita e un aumento dei prezzi che non ha paragoni nel resto d'Europa, può essere ingenuamente contenuta con misure roboanti, e prive di concretezza. Ma questa è una interpretazione sbagliata.
Non è questo il punto. Una parte di questo paese, quella che si riconosce nel centro destra, quella che vota Lega Nord, quella che gravita attorno ad Alleanza Nazionale, quella che vede in Berlusconi il modello di riferimento umano e politico, oltre che imprenditoriale, è cambiata. Cambiata in peggio. È in caduta libera. Senza più vincoli etici, religiosi e culturali. Immorale e ignorante. È un paese che emargina, è un paese che non ha più gli strumenti culturali per capire quello che gli succede attorno, è un paese che non sa adattarsi alla complessità. È un paese rimbecillito da valori inutili, che vede nei modelli di riferimento che lo governano, dei modelli positivi: machismo, intolleranza, razzismo, culto della ricchezza, l'idea che vincono i più ricchi, i più furbi, i più disinvolti, senza rispettare le regole. Perché sono governati da persone che non rispettano le regole. Berlusconi per primo. Bossi per secondo, e tutti gli altri a seguire. Gente che non rispetta i valori comuni su cui è stato fondato questo paese. Veri eversori dello spirito della Costituzione e della convivenza civile.
Il razzismo era qualcosa che eravamo riusciti a non sentire sulla nostra pelle neppure, ed è tutto dire, quando furono varate le leggi razziali del 1938. In tutte le case italiane, ognuno di noi conserva un racconto, una memoria, di un parente, di un vicino, di qualcuno che si oppose, che aiutò, e soprattutto di un paese che non capiva. Eppure accadde quello che accade. Le impronte digitali ai bambini non sono una manovra diversiva per accettare sacrifici per questo autunno; precarizzare i giovani non è un modo per mantenere i privilegi di quelli che precari non sono; abolire o ridimensionare le pensioni sociali non è un modo per distrarre il ceto medio da quello che gli sarà chiesto tra qualche mese; e mandare i militari nei centri per immigrati non è una furba trovata per dire a quelli che non arrivano alla fine del mese: vedete, vi diamo la sicurezza. Sono il risultato di qualcosa che è cambiato nella testa della gente, sono il frutto di un paese irriconoscibile, di gente cattiva, ignorante, egoista, spietata. I totalitarismi iniziano sempre da dettagli marginali, da piccoli segni che nessuno voleva vedere. E non siamo immuni da nulla. L'opposizione della sinistra sarà certamente vigorosa, ma non basta la politica se manca una cultura comune, una cultura che faccia uscire questo paese da una secca di pochezza e di ignoranza. L'ignoranza di gente come Bossi che vuole professori del nord, nelle scuole del nord, per i bambini del nord, l'ignoranza che in una città come Roma, appena arrivata una giunta di centro destra, ha già spento le luci sul patrimonio culturale di questa città. Cancellando un lavoro di anni, che ha trasformato Roma nella città più importante, sotto l'aspetto culturale, d'Europa. L'ignoranza di inventarsi anziché le notti bianche, le notti futuriste. L'ignoranza di pensare che la crescita di un paese non possa che essere economica, e non per tutti, ma sempre per i più furbi e i più ricchi. Siamo caduti in basso e gli ultimi non saranno i primi dalle nostre parti, ma rimarranno ultimi, ultimissimi. Per una classe di governo che ora dovrebbe vergognarsi.
www.robertocotroneo.net
l’Unità 30.7.08
«Rifondazione per la sinistra» non perde tempo, fissa l’agenda per settembre
Riunione a Roma con Giordano. Vendola: «La sconfitta del congresso mi dà più libertà di movimento e meno vincoli»
di Simone Collini
NICHI VENDOLA l’aveva detto dal palco di Chianciano: «Do appuntamento a tutti i compagni della mozione due nell’area politico-culturale Rifondazione per la sinistra». Non si è perso tempo. Nella sala Libertini di viale del Policlinico, sede del Prc, ieri si sono riuniti Franco Giordano, Gennaro Migliore e tutti gli altri sostenitori della costituente di sinistra usciti sconfitti dal congresso di Rifondazione comunista. Si è deciso di dar vita immediatamente all’operazione, fissando per il 27 settembre un’assemblea nazionale alla quale saranno invitate forze politiche (non solo quelle confluite nell’Arcobaleno) associazioni e singole personalità. L’appuntamento verrà preparato con assemblee su tutto il territorio perché la strategia dell’«autonomia» messa a punto da Vendola prevede una battaglia interna al partito per mantenere saldo il fronte (e anzi, attraverso nuovi tesseramenti, «rovesciare gli equilibri») e una campagna esterna tesa a lanciare la costituente con modalità diverse da quelle sperimentate con l’Arcobaleno. E se quello che è mancato allora è stato un approccio anche culturale e di formazione, un ruolo di primo piano su questo terreno lo giocherà la fondazione a cui darà vita in autunno Fausto Bertinotti. Ieri l’ex presidente della Camera ha discusso con gli altri redattori del prossimo numero di “Alternative per il socialismo”: si è concordato sul fatto che nella rivista questa stagione dei congressi non debba occupare che un minimo spazio.
In questa situazione, il mantenimento del tesoriere da parte dei bertinottiani può essere d’aiuto. E il fatto di aver perso il congresso con il 47,3% anziché averlo vinto con il 50% più uno, inizia a pensare Vendola, può addirittura essere un vantaggio. «La sconfitta del congresso in realtà mi dà più forza, più libertà di movimento e meno vincoli», rifletteva ieri il governatore pugliese nel suo ufficio sul lungomare di Bari. I sostenitori della sua mozione entreranno neli organismi dirigenti ma non nella segreteria, e pazienza se veramente Paolo Ferrero continuerà a proporre la gestione unitaria facendo anche tenere una sedia vuota nell’organismo di gestione politica.
Dopo una giornata dedicata alla riflessione, Vendola dice che «Ferrero ha costruito la più brutta vittoria della sua vita, io la più bella sconfitta della mia vita»: «Noi volevamo il partito della ricerca, dell’innovazione, non degli slogan e delle catacombe». Vendola, che pensa di ricandidarsi alle regionali del 2010, dice anche di sentirsi «il leader di questo partito»: «Poi ci sono quelli che non riempiono il pianerottolo di casa». La sconfitta brucia, ma dietro lo sfogo c’è lo sguardo sul futuro. Anche perché Vendola sa che Ferrero è sorretto da una maggioranza fatta di quattro minoranze messe assieme, che è a rischio sia che si parli del simbolo con cui andare alle europee (l’area Pegolo-Giannini, 7,7%, vuole correre insieme al Pdci) che della permanenza o meno nelle giunte locali (i trotzkisti, 3,2%, vogliono rompere ovunque). E sa anche che Ferrero avrà difficoltà a farsi ascoltare nei territori dove a guidare il partito sono segretari a lui contrari. Come già si è visto ieri: dopo che è stata letta una lettera in cui Ferrero chiedeva un incontro prima di assumere decisioni, il comitato politico del Prc della Calabria ha approvato un documento con cui conferma l’ingresso nella giunta Loiero. Cioè quello che Ferrero non voleva. Ma il potere decisionale, da statuto, è nelle mani dei segretari regionali.
l’Unità 30.7.08
Procreazione. Firenze rinvia la legge 40 alla Consulta
Procreazione, ora la palla - o la «patata bollente», che dir si voglia - passa alla Corte Costituzionale. Con l'ordinanza emessa dal giudice civile di Firenze Isabella Mariani, infatti, la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita incassa una sonora bocciatura e viene rinviata alla Consulta per un giudizio di costituzionalità proprio su quelli che sono i suoi punti più controversi, ovvero il cuore della legge stessa: primo tra tutti, il limite di tre embrioni producibili e l'obbligatorietà di impianto, senza possibilità di revoca del consenso da parte della donna, una volta che l'ovulo è stato fecondato. Ad essere «contestato» è inoltre il protocollo unico di trattamento cui il medico deve uniformarsi per tutte le pazienti, senza poter considerare la specificità di ogni singolo caso. Tanto che il giudice ritiene si crei un «grave nocumento alla salute della donna».
Spetterà ora alla Corte, sulla base del ricorso presentato da una coppia milanese con problemi di sterilità, come spiega l'avvocato Gianni Baldini, loro legale di fiducia, decidere se le parti più importanti della legge sono o meno in contrasto con la Carta Costituzionale. Quattro i punti «bocciati» dall'ordinanza: il limite dei tre embrioni producibili, l'obbligo del loro impianto contemporaneo in utero, il divieto di crioconservazione degli embrioni e l'irrevocabilità del consenso della paziente.
«Se l'orientamento della Suprema Corte si manterrà coerente con tutte le pronunce precedenti - ha commentato il legale - il conto alla rovescia per la legge potrebbe essere più che una semplice speranza». Nel ricorso, ha inoltre spiegato Baldini, «si chiede anche alla Corte una pronuncia che faccia chiarezza circa la totale ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto dell'embrione in particolari casi, poichè, la sua previsione da parte delle linee guida emanate dall'ex ministro Livia Turco, lascia comunque delle zone d'ombra».
l’Unità 30.7.08
La Cassazione: «La Franzoni uccise con razionale lucidità»
Cogne, depositate le motivazioni della sentenza: da escludere che sia stato un estraneo, forse un capriccio di Samuele il movente
di Luigina Venturelli
FINALE Nessun altro aveva il tempo di uccidere il piccolo Samuele. Nessuno se non la madre Annamaria Franzoni, che nel mattino del 30 gennaio 2002 uccise
il figlio di 3 anni con «razionale lucidità». Per questo la Cassazione ha respinto il ricorso della donna, chiudendo così definitivamente il sipario sull’omicidio di Cogne.
Ieri, infatti, i giudici hanno depositato la sentenza dello scorso 21 maggio, con cui confermarono la condanna a sedici anni di reclusione, insieme ad oltre cinquanta pagine di motivazioni per spiegare il movente, gli indizi di colpevolezza, l’arma mancante e l’assenza di «vizio di mente» con cui fu compiuto il delitto a più alta copertura mediatica della cronaca nera italiana.
Sarebbe stato un semplice capriccio del bambino a spingere la Franzoni ad uccidere: anche se non è stato possibile per la Suprema Corte individuare con «certezza» la «causale od occasione che originò il gesto criminoso», si suppone che la donna abbia agito in preda ad uno «stato passionale» momentaneo. Secondo i giudici, la madre era, senza motivi concreti, preoccupata «per la normalità ed il regolare sviluppo di Samuele, tanto da avere manifestato il presagio di una sua possibile morte prematura».
Subito dopo il fatto, Annamaria ha «nascosto» le prove: ha eliminato, pulendola, l’arma del delitto, ha riportato gli zoccoli al piano superiore «con l’avvertenza di non lasciare tracce di calpestio lungo il percorso» e ha nascosto la maglia del pigiama sotto il piumone. Poi, durante la telefonata al 118, non ha descritto appropriatamente le condizioni del figlio.
Da cui la conclusione della Cassazione: non si tratta di gesti da routine quotidiana, quindi sono il «sintomo di non interrotto contatto con la realtà e inalterata coscienza di sè e delle proprie azioni».
Viceversa, per un estraneo sarebbe stato impossibile entrare nella casa di Cogne e uccidere Samuele: troppo breve il lasso di tempo in cui Annamaria uscì dalla casa per accompagnare Davide allo scuolabus. Esclusa anche la responsabilità del marito, non resta che un’«unica realistica e necessitata alternativa residuale», ovvero «la responsabilità della sola persona presente in casa nelle fasi antecedenti la chiamata dei soccorsi».
Inoltre l’arma del delitto (probabilmente un oggetto tagliente con manico) non è mai stata ritrovata, né la famiglia Lorenzi ha mai denunciato la scomparsa di alcun oggetto: circostanze che hanno indotto i giudici «a considerare ancor più implausibile l’ipotesi della responsabilità di un estraneo».
Una lunga serie di motivazioni che hanno convinto la Suprema Corte a non concedere sconti ad Annamaria Franzoni. Anche se il legale della donna, Paolo Chicco, ha annunciato che non lascerà «nulla di intentato per fare sì che la verità storica prevalga sulla verità processuale», la Cassazione ha messo la parola fine sulla triste vicenda di Cogne. Non senza un’annotazione per il circo mediatico che si è scatenato intorno ad essa: la sentenza conferma che l’attenzione al caso della Franzoni da parte di tv e giornali non ha danneggiato la donna.
Anzi, avrebbe aiutato a rendere le indagini ancora più approfondite: «Il segnalato interesse mediatico in larga parte ricercato, propiziato e utilizzato dalla stessa interessata, ha dato inusitato impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti, favorendo il massimo approfondimento di ogni aspetto del giudizio».
l’Unità 30.7.08
All’armi siam trans-fascisti!
di Bruno Gravagnuolo
Transfascismo Che sta per trasformismo e post-fascismo. Superamento dialettico dei due termini nel tertium datur di Alemanno. Che mette insieme Almirante e la Resistenza, Ezra Pound e il ‘68. Era precisa e tagliente la denuncia dello storico Giovanni De Luna, nell’intervista su l’Unità di giovedì scorso. Ma loro, i «post-trans», zitti e muti sul Secolo. E nemmeno un Lanna a controbattere. A replicare con uno straccio di argomento. Che so, magari con la solita solfa delle ideologie del ‘900 da superare, degli steccati da abbattere. Solfa in voga anche a sinistra. Niente! Segno che a loro sta bene così. Talché è assodato. Quelli di An sono ormai una forza di complemento: vampirizzati dal Cavaliere. Mossi dall’illusione di surrogarlo e «riempirlo», all’ombra del semipresidenzialismo. Ma finiranno loro svuotati, metabolizzati. Dall’unico vero post-fascista e anti-antifascista di questa Italia arci-italiana di destra. Indovinate chi?
Il disneyano Zakaria Lamenta un’«Italia Disneyland», il politologo Fareed Zakarias, già direttore di Foreign Affairs. Ma sul Corsera di ieri, sgomitola una valanga di sciocchezze. Tipo: «Poteri esecutivi al premier come in Inghilterra». Balle, il premier inglese si regge sulla sua maggioranza e non ha poteri esecutivi. Poi: «Guerra in Iraq non negativa». Comico, basti pensare alla carneficina in atto, ad Al Quaida e alla crescita dell’integralismo, Iran incluso. Infine: «Iran innocuo, anche Nasser voleva cancellare Israele». Già, e per questo ci fu la guerra dei sei giorni! Ma come fa uno studioso tanto accreditato a dire tali e tante sciocchezze? Il disneyano è lui...
Tutti addosso a l’Unità Con Macaluso in testa, che si straccia le vesti e si sente offeso a livello personale. E perché? Perché ha osato lanciare una supplica, sì una «supplica»!, a Napolitano a farsi interprete delle preoccupazioni di chi sente la Costituzione sotto tiro. Un piccolo grido, educato, rispettoso... ha scatenato l’ira e l’indignazione dei tanti «Conte Zio» della repubblica. Con titoloni e commenti allarmati. Già, l’ordine regni Varsavia, dopo la spartizione della Polonia. E non un grido si levi e nemmeno un sussurro...
l’Unità 30.7.08
Sinistra: il popolo c’è, i partiti no
di Giuseppe Tamburrano
Visto a distanza di giorni, il congresso di Rifondazione rivela più nettamente le macerie, il contorno del disastro. Che è, dopo il terremoto elettorale, la seconda scossa, quella più grave, quella che distrugge le fondamenta sulle quale si poteva sperare di ricostruire.
Vi sono stati, in quel congresso, una serie di paradossi che illustrano il dramma. Ne cito alcuni. Il più “pittoresco”: gli inni “sacri” - Bandiera rossa e Bella ciao - intonati da metà del congresso quasi a dileggio dell’altra metà. Il più importante discorso, pronunciato da leader “carismatico” è stato accolto con dieci minuti di applausi: torna, acclamato, Bertinotti? No, se ne va: con una scarica di fucileria, a salve. Chi vince? Colui che si è opposto alla linea della maggioranza e conseguentemente prevale, essendo stata l’alternativa? No: il vincitore ha rappresentato e sostenuto al governo la politica sconfitta alle elezioni. E - quel che è ancora più incredibile - prevale non già con una proposta che rappresenti, nella sostanza, il ritorno alle posizioni di sinistra “vera”, appannate dalla collaborazione nel governo Prodi, ma con una piattaforma che esce dall'orbita tradizionale della sinistra per avvicinarsi a quella della protesta giustizialista di Di Pietro, che con la sinistra, moderata o estremista, non ha niente a che fare.
La minoranza - quasi la metà dei delegati - resta nel partito. A che fare? Il dissenso con la maggioranza non è né tattico né strategico, è ideologico: ciò vuol dire l’incomunicabilità e una coabitazione paralizzante e dunque probabilmente transitoria.
Gli altri partiti a sinistra del Pd sono dei fantasmi: i socialisti, la sinistra democratica, i comunisti italiani, i verdi. È dunque difficile immaginare che questa sinistra - già così divisa nel suo interno - possa recuperare gli oltre 2.500.000 voti persi il 13-14 aprile.
Quella sconfitta elettorale non è stata un'eclisse ma - lo vediamo oggi - un tramonto.
Dove andranno gli elettori già persi e quelli che non risponderanno all’appello nelle prossime elezioni europee? Si riveleranno non già voti in “libera uscita” passati provvisoriamente al Pd come voti utili contro Berlusconi e pronti a tornare a casa. È probabile che conteremo altre defezioni verso Di Pietro, verso l’astensione e quant’altro.
Considerazioni queste che ci portano al Pd. Nessuno si illuda che la crisi di Rifondazione possa giovare a questo partito. Il quale ha dichiarato di essere riformista, ma non di sinistra. Dunque non ha “titoli” verso l’universo di Rifondazione: del resto l’ala di Rifondazione più disponibile potenzialmente ha escluso - sia Bertinotti che Vendola - ogni dialogo con Veltroni.
Non vi sarà dunque uno stimolo da sinistra verso il Pd. E non vi sarà una sinistra con cui dialogare come aveva immaginato D’Alema. Vi sarà una variegata opposizione populista che cercherà di incalzare il Pd sul tema dell’antiberlusconismo.
La crisi della sinistra ha un effetto centrifugo nel Pd. Poiché il dialogo con quella parte non è possibile, si rafforza la tendenza a dialogare verso il centro: al Convegno di Todi vanno insieme Rutelli e Casini.
E per finire, la crisi della sinistra radicale creerà certamente problemi seri nelle giunte locali.
La conclusione più amara è che l’Italia, una volta il Paese caratterizzato da una sinistra - socialisti e comunisti più o meno uniti - molto forte, oggi è il Paese in cui non vi è più né la sinistra tout court. Ed è contemporaneamente il Paese europeo nel quale i problemi sociali - i salari, le pensioni, il lavoro, il reddito delle famiglie - sono i più acuti. Vi è il popolo di sinistra, non partiti che ne rappresentano le esigenze traducendole in un progetto di riforma.
Pennellata finale: sparisce la sinistra non perché il suo antagonista storico, il capitalismo, trionfa, ma nel momento in cui mercatismo e globalizzazione sono in grande difficoltà.
Vi era una volta il socialismo, grande movimento politico, sociale, culturale che voleva cambiare il mondo e che fu protagonista della storia. Poi si divise su come costruire il nuovo mondo tra riformisti e massimalisti-comunisti. E poi non seppe aggiornarsi: e declinò. Oggi un mondo più giusto è una grande esigenza globale, e forse non è più utopia grazie soprattutto alla tecnica. Ma non ci sono i partiti, i movimenti, gli intellettuali.
Socialismo riformista e socialismo massimalista sono morti. Evviva il socialismo.
martedì 29 luglio 2008
l'Unità 29.7.08
Claudio Fava. Il leader di Sinistra democratica dopo il congresso Prc: nessuno può stare da solo a meno che non sia per vanità
«Bandiera Rossa? È come fare la guardia al proprio museo»
di Eduardo Di Blasi
I simboli e i canti della nuova maggioranza di Chianciano: «Sono solamente una fuga dalla politica»
«Da parte nostra deve esserci la volontà di riorganizzare la sinistra
Il nuovo progetto deve partire subito o è già finito»
Il Congresso di Rifondazione, spiega il portavoce di Sd Claudio Fava, ha fatto chiarezza. Non tanto per la vittoria di Paolo Ferrero quanto perché, dall’altro lato «prende ancora più forza e più urgenza la necessità di organizzare a sinistra un incontro tra storie, culture, sensibilità, linguaggi, che hanno scelto la sinistra non come museo ma come luogo di trasformazione del presente, laboratorio politico». Parla alla minoranza di Nichi Vendola, ma non solo. «Bandiera Rossa non è una scelta politica, è una fuga dalla politica. Da questa parte può e deve esserci l’idea di un sinistra che riorganizza profondamente sè stessa».
I congressi di luglio hanno visto tutti i partiti stringersi attorno alla propria idea forza...
«L’idea forza di un partito è tale quando produce anche effetti sul piano elettorale. Con il voto di aprile gli elettori ci dicono che non si sentono rappresentati da partiti ridotti a segmenti brevi, minuti, autoreferenziali, e che vogliono una sinistra che sia capace di rappresentarli spostando in avanti il ragionamento sulle identità. Credo che il congresso di Rifondazione, in questo senso, aiuti ad una maggiore verità nel dibattito politico. Tra chi sceglie Bandiera Rossa e chi sceglie di riorganizzare la sinistra in un campo molto più vasto e inclusivo».
Il tempo che avete a disposizione non sembra molto.
«O questo progetto parte subito, o questo laboratorio comincia a riempirsi di contenuti, oppure ricadiamo nel politicismo, nel tatticismo, nell’analisi delle convenienze. Noi siamo stati seppelliti dalle nostre contabilità elettorali e dai nostri tatticismi. E dovremo sentire un po’ più il cuore della nostra comunità che ci dice “mai più ciascuno a guardia del proprio museo”. Tutto questo va fatto subito».
Un’occasione?
«Io penso all’Abruzzo come un primo appuntamento non solo elettorale ma anche politico. La giunta in Abruzzo è scivolata rumorosamente sulla sovrapposizione tra ceto politico e potere locale. Su un tema tragico e fondamentale come la Sanità, che da diritto pubblico diventa profitto privato, è scivolata manifestando l’assoluta assenza di un’etica civile nella politica. E quindi non si tratta solo di scegliere il primo appuntamento elettorale».
Il problema abruzzese tiene dentro anche il timore di riconsegnare la Regione al centrodestra. Di Pietro è intenzionato ad andare da solo...
«Nessuno può stare in campo da solo. A meno che non scelga di stare in campo soltanto per vanità personale. Il centrosinistra può riorganizzarsi in Abruzzo, ma deve riorganizzarsi a partire da un azzeramento di tutte le gerarchie pregresse. Il centrosinistra in Abruzzo, più che altrove, non può avere padroni di casa e ospiti. Questo vale per il Pd come per Di Pietro».
Uno dei temi della sinistra che ha vinto il congresso del Prc è quello di spostare il “conflitto”...
«Il limite di questo gruppo dirigente del Prc è che assume il conflitto come parola onnivora, singolare, capace di rinchiudere dentro di sè una realtà sempre più complessa. Noi parliamo di “conflitti”. Questo è un tempo in cui la politica si deve fare carico di questa complessità e deve assumersi la rappresentanza di tutti i conflitti, non solo del conflitto più ortodosso, più tradizionale, che è il conflitto di classe. Questa è una lettura semplicistica, consolatoria, ma inadeguata a leggere il Paese reale».
L’obiettivo di Sd era quello di tenere insieme la Sinistra, a distanza di un anno e più dall’ultimo congresso dei Ds a che punto è la notte?
«Il punto più cupo è stato il 14 aprile. Da quel voto abbiamo ricevuto una lezione che ci chiede di riorganizzare la sinistra su di un piano di verità, di innovazione, di critica del presente e del passato, di capacità di rischio, di fantasia politica, di inclusività. Alla fine di quest’anno possiamo dire che sappiamo cosa non dobbiamo fare».
l'Unità 29.7.08
Restare o lasciare? Il rebus dei governi locali
Il nuovo segretario di Rifondazione: nella giunta calabrese non si entri. Il segretario regionale (vendoliano) lo farà
di Simone Collini
LE CONTRADDIZIONI in seno al popolo di Rifondazione comunista vengono già alla luce. Le prime si chiamano: giunte locali. Nel senso: la fine della «collaborazione organica con il Pd» decisa al congresso che ha eletto Paolo Ferrero segretario avrà ripercussioni sulle amministrazioni comunali, provinciali e regionali guidate da alleanze di centrosinistra? Il fatto che abbia vinto «chi ha avuto le posizioni più estreme, più lontane da una cultura riformista», come dice Walter Veltroni, non necessariamente significa che il Prc uscirà da tutte le giunte locali in cui è presente. È vero che Nicola Latorre sostiene che dopo Chianciano si pone «un problema serio rispetto alle esperienze di governo locale». Ma l’idea di rompere ovunque col Pd non attraversa minimamente la testa di Ferrero. E infatti, quando la voce inizia a circolare, il neosegretario smentisce: «Si tratta solo di uno dei tanti, ennesimi, veleni che hanno tentato di non far concludere in modo legittimo, sereno e positivo il congresso». Piuttosto, Ferrero avrà il suo bel daffare nel far rispettare le decisioni prese a livello nazionale in territori dove le segreterie locali sono saldamente nelle mani dei vendoliani (vedi il caso Calabria). E non meno difficile, per Ferrero, sarà dover gestire una maggioranza in cui convivono assessori insieme a consiglieri che fino all’altro ieri ne avevano chiesto le dimissioni (vedi il caso della provincia di Milano). Difficoltà con cui il nuovo segretario dovrà fare i conti, prima ancora che ragionare sulle alleanze per le amministrative della prossima primavera. Avendo tra l’altro contro, in ogni caso, una minoranza che ha il 47%.
Il nodo della giunta regionale calabrese è venuto alla luce appena spenti i riflettori del Palamontepaschi. Ferrero non ha fatto in tempo a dire che rientrare nel governo guidato da Loiero «è una cosa pessima politicamente e moralmente» che il segretario Pino Scarpelli ha mandato a dire che gli organismi dirigenti locali sono pronti a far entrare un assessore in quota Prc. La decisione, ufficialmente, verrà presa al Comitato politico regionale che si riunisce oggi, ma intanto Scarpelli, che al congresso ha sostenuto la mozione Vendola, lancia un messaggio: «È cambiata la giunta, la visione politica e il modo di fare squadra. Inoltre abbiamo posto al centro del dibattito l’approvazione del bilancio delle politiche socio-sanitarie, ricevendo l’assicurazione che la nostra base è quella che la giunta vuole approvare. Se c’è questo ritorno politico per i calabresi non può essere l’esito del congresso ad inficiare il nostro percorso».
Il fatto è, dice con una certa ironia Marco Ferrando, che «non si può chiedere l’autocritica degli altri». Il segretario del Partito comunista dei lavoratori, che il congresso di Chianciano se l’è seguito tutto e che le dinamiche del Prc le conosce bene (è uscito dal partito nel 2006 dopo aver guidato per anni la principale minoranza trotzkista), punta il dito contro «gli assessori legati a Ferrero nella giunta para-leghista di Penati a Milano, nella giunta abruzzese travolta dagli scandali, nella giunta liberista toscana, nella giunta di Burlando in Liguria». E domanda: «È questa la svolta?». Ferrando non cita a caso. L’assessore all’Istruzione della provincia di Milano, Sandro Barzaghi, ha con Ferrero un legame che dura da vent’anni, da quando erano insieme, nella stessa corrente, in Democrazia proletaria. La componente trotzkista che fa capo al milanese Claudio Bellotti, Falce e martello, ne ha più volte chiesto le dimissioni per far uscire il Prc da una giunta considerata condannabile sul piano delle politiche sulla sicurazza e sull’immigrazione. Ora i due stanno nella stessa maggioranza. Non è l’unico caso.
Nella mozione con cui Bellotti è andato al congresso, e che con il suo 3,2% è determinante per tenere in piedi la linea Ferrero, si chiede di «rompere quelle alleanze locali che tuttora vedono il nostro partito coinvolto in amministrazioni regionali e comunali responsabili di privatizzazioni, liberalizzazioni, precarizzazione». Questioni che riguardano Milano come la giunta regionale ligure (dove è assessore all’Ambiente Franco Zunino, ferreriano) e in quella toscana, dove il Prc è rientrato grazie a un’operazione in cui ha avuto un ruolo di primo piano la ferreriana Roberta Fantozzi e che ha portato alla nomina di assessore alla Casa Eugenio Baronti, ex Democrazia proletaria. Lascerà la Regione? È quello che da mesi gli chiedono i cosiddetti «autoconvocati», esponenti Prc che a Chianciano sono arrivati sostenendo la mozione Pegolo-Giannini (7,7%). È quello che non vogliono gli aderenti a Essere comunisti, che in Toscana hanno un peso considerevole e che a livello nazionale hanno consentito alla mozione Ferrero-Grassi di incassare il 40%. Il nuovo segretario dice che sulle giunte si valuterà «caso per caso». In ogni caso non sarà facile.
l'Unità 29.7.08
La coabitazione dei vendoliani e le «tentazioni» del Pd
Se la porta di Rifondazione si chiude, e ieri Veltroni ha mandato un messaggio chiaro al nuovo segretario del Prc, per il Pd si aprono tuttavia nuovi scenari a sinistra. Se la vittoria di Ferrero segna la fine di un possibile riavvicinamento tra ex alleati, rende «il quadro più chiaro» e non esclude possibili rimescolamenti secondo un possibile effetto-domino che ruota intorno a due punti cardine: che farà ora Sd? E, soprattutto, Nichi Vendola? Se la vittoria dell’ex ministro non fa gioire i piani alti del Nazareno, alcune fonti vicine al segretaro Pd spiegano che non tutto è perduto. Difficile - è il ragionamento - che nel Prc regga a lungo la coabitazione tra il «radicalismo» ferreriano e la linea più governativa di Vendola. E allora bisogna attendere gli sviluppi. Ma già qualche segnale arriva. Oggi a Roma ci sarà la prima riunione dell’area dei vendoliani «Rifondazione per la sinistra», a cui parteciperà anche Franco Giordano. Insomma, la riorganizzazione è iniziata. E il fatto che i bertinottiani possono mantenere la tesoreria (l’offerta di Ferrero è stata accettata perché il tesoriere non fa parte della segreteria) non è di poca cosa.
Il Pd non teme terremoti nelle giunte locali. Al Nazareno si spiega infatti che non sono pervenuti segnali di possibili «frantumazioni» delle alleanze locali con il Prc a seguito dell'elezione di Ferrero. Ma certo, il problema si porrà per il futuro: e qui la linea di Veltroni e del partito resta quella di sempre. Cioè, alleanze solo su base porgrammatica, ma senza pregiudiziali nei confronti di nessuno. E, dunque, si vedrà caso per caso. Il primo banco di prova sarà l’Abruzzo, chiamato in novembre a sostituire il dimissionario Ottaviano Del Turco.
Insomma, di fronte alla vittoria della linea «no al dialogo con il Pd», Veltroni non poteva restare zitto e far finta di nulla, senza prendere una posizione chiara nei confronti della scelta fatta da Rifondazione che certo «preoccupa» i vertici del Nazareno. Non era un mistero, fa osservare una fonte vicina al leader Pd, che «preferivamo vincesse Vendola. Prendiamo atto che così non è stato e che si è consumata una scelta che porta il Prc lontano anni luce dal Pd». E se non esiste più l’interlocutore Prc, il Pd torna a guardare a Sd, ai Verdi e ai socialisti. Ma sempre senza rinnegare la vocazione maggioritaria. L'elezione di Ferrero «chiarisce» il quadro anche per Sd: avanti con il progetto della Costituente della sinistra. Senza sbattere la porta al Pd, che però deve ben guardarsi dal fare alleanze con l'Udc «e abbandonare la deriva centrista». Sd non nasconde di riporre speranze in Vendola, in attesa delle sue future mosse. Anche se, non negano nella Sinistra democratica, ora «la strada della Costituente della sinistra si fa più in salita». Ma già sabato prossimo, alla festa di Sd vicino Napoli, si inizierà a delineare meglio il nuovo quadro: si confronteranno in un faccia a faccia proprio Fava, Vendola e Francescato.
l'Unità 29.7.08
Liberazione.Non l’editoriale, ma un’intervista a Ferrero. Parità di spazio per Vendola
Al governatore rimane la tesoreria
Oggi prima riunione di «Rifondazione per la sinistra«
Oggi Liberazione apre con un’intervista a Ferrero. Ma all’incirca lo stesso spazio il giornale del Prc lo dedica a Vendola. E l’editoriale di Piero Sansonetti non sarà sul congresso di Chianciano. Non volete schierarvi? «Il giornale mi pare sufficientemente schierato», risponde sorridendo il direttore. Che già nelle scorse settimane era finito nel mirino della nuova maggioranza. «Non chiederemo la testa di Sansonetti», dicono ora gli uomini di Ferrero. «Figuriamoci se vogliamo offrire argomenti per farci accusare di stalinismo». Sarà, ma già alla vigilia del congresso Claudio Grassi, mostrandosi possibilista sull’incarico di segretario a Vendola, aveva fatto notare che sono tanti i possibili contrappesi: «I membri della segreteria, il giornale...». Oggi non c’è una gestione unitaria di cui tener conto. E al di là del fatto che Liberazione non sia uscita ieri («costava troppo l’edizione straordinaria», spiega Sansonetti) a Ferrero non è piaciuto troppo essere intervistato insieme a Vendola.
Corriere della Sera 29.7.08
Veltroni-Ferrero, scoppia il caso delle giunte locali
Il leader del Partito democratico: in ogni realtà locale si deciderà sulla base del programma
di M. Gu.
ROMA — La vittoria di Paolo Ferrero al congresso di Chianciano ha suggellato la rottura e adesso Pd e Rifondazione, come due sposi sull'orlo dei divorzio, sono alla restituzione dei regali. Che fare nelle giunte di comuni, province e regioni? Uscire o restare? Il nuovo segretario di Rifondazione valuterà «caso per caso». E ieri— al termine della presentazione con Anna Serafini di una proposta di legge per istituire un Garante nazionale per l'infanzia e l'adolescenza — è toccato a Walter Veltroni aprire una riflessione sulle alleanze.
«In ogni realtà locale si deciderà sulla base del programma», ha detto il segretario dopo aver inviato a Ferrero gelidi auguri di buon lavoro: «Ha vinto chi ha avuto le posizioni più estreme, più lontane da una cultura riformista». La speranza di ricostruire un centrosinistra largo, che Massimo D'Alema aveva coltivato in sintonia con Nichi Vendola, è morta e sepolta. Eppure Veltroni non intende tuffarsi tra le braccia di Casini: «No, noi pensiamo a noi stessi... La cosa peggiore che possiamo fare è metterci dentro al gioco dell'oca delle alleanze. Si sceglierà in base ai contenuti e nessuno mi farà passare i prossimi mesi a dire un giorno Udc e un giorno Idv».
Goffredo Bettini respinge gli «estremismi inconcludenti» di Ferrero e Di Pietro e invita ad attendere il momento giusto per uscire dalla solitudine come «stato di necessità». Ai dirigenti del Pd il braccio destro di Veltroni chiede di smantellare le «correnti ossificate» e ai magistrati chiede di fare il proprio dovere. «Ma il rinnovamento non deve essere affidato alle procure — avverte, mettendo in guardia dall'uso "politico e selvaggio" della giustizia —. Una riforma della vita pubblica o la fa la politica o non la fa nessuno ».
Corriere della Sera 29.7.08
Pietrangeli, Asor Rosa e Armeni con lui. Maselli: no, meglio il nuovo leader
Prc, gli intellettuali restano con Nichi
di Fabrizio Roncone
Citto Maselli. Il regista dice di Fausto Bertinotti: «Sono sgomento per le sue volgari recriminazioni. Una mancanza di stile assoluta»
ROMA — L'idea era questa: andare a sentire gli intellettuali di area rifondarola. Farci due chiacchiere subito, a caldo, dandogli appena una notte per ripensare meglio al tragico congresso di Chianciano. L'idea era buona, purtroppo però qui ormai non si prende più di sorpresa alcun compagno. Per capirci: Paolo Pietrangeli, regista e soprattutto leggendario cantautore, icona di intere generazioni gruppettare con la sua «Contessa» — ( Compagni dai campi e dalle officine/ prendete la falce e portate il martello/ scendete giù in piazza e picchiate con quello/ scendete giù in piazza e affossate il sistema...) — ebbene Pietrangeli domenica pomeriggio, capita l'antifona, in attesa che Ferrero fosse proclamato vincitore, già se ne stava seduto a gambe larghe e pipa storta tra i denti. Cupo. Grigio. Amareggiato.
E non è, ecco, che il giorno dopo il suo umore sia granché mutato. «L'esperienza politica di Rifondazione, così come ce l'eravamo immaginata, subisce una frenata che, temo, sarà definitiva». Quindi? «Non credo ci sarà una scissione. Però la discussione che seguirà, beh, sarà a dir poco aspra». Lei, Pietrangeli, sta con Ferrero o con... «Sto con Vendola. Per ragioni politiche, e d'affetto».
C'è da dire che i comunisti, anche i più colti, anche i più scaltri e avvertiti, nei momenti più tosti, sanno essere all'altezza dello loro fama di militanti: possono essere delusi, ma non mollano.
Prendete la Ritanna Armeni, giornalista e intellettuale di stretta osservanza bertinottiana. Sentite cosa dice: «La verità è che, a Chianciano, i vincenti hanno vinto male, e i perdenti hanno perso bene». Quindi? «Quindi c'è, io credo, ancora partita». Si spieghi. «Quello che s'è stretto attorno a Ferrero è un gruppo di dirigenti rispettabile, ma con un limite enorme: ciascuno sta lì con le sue idee, e spesso sono idee molto distanti... Intorno a Nichi Vendola, invece, ha perso, e di misura, un vero, credibile gruppo dirigente ». Lei pensa che... «Penso che i Giordano, i Migliore, e persino certi giovani come Nicola Fratoianni possano avere una prospettiva». Quindi, per lei, l'esperienza di Rifondazione non volge al termine? «No. Il partito è diviso in due. Perché mai dovremmo pensare a una scissione?».
Potremmo pensarci perché, ad esempio, è un destino che ipotizza il professor Alberto Asor Rosa. «Ormai ci troviamo innanzi a due partiti diversi, con prospettive diverse: io credo che all'orizzonte si stagli una inevitabile divisione». Rifondazione muore? «Decede l'esperienza politica di Rifondazione ». E Ferrero? «Le dirò: sabato mattina ero al congresso, per ascoltare Bertinotti. Ebbene sono rimasto colpito dalla generale atmosfera di odio... Detto questo, recriminare sulle modalità della vittoria di Ferrero è comico: esse sono state determinate dal gioco democratico, con le minoranze che si sono coalizzate cercando di teorizzare la possibile sopravvivenza di un'idea di comunismo nel ventunesimo secolo...». Lei è scettico. «Io provo simpatia per Vendola. Per la sua ragionevolezza politica, minata purtroppo, in sede congressuale, dalla veemente sponsorizzazione di Bertinotti, il principale responsabile dell'ultima, terrificante sconfitta elettorale».
A proposito dell'ex líder máximo.
«Sono sgomento per le sue volgari recriminazioni. Una mancanza di stile assoluta». Chi è che parla? Tenetevi: è il regista Citto Maselli. Mille serate in salotto con Bertinotti e sua moglie Lella e ora compagno di mozione del valdese Paolo Ferrero. Che, dicono, non ami però troppo il cachemire.
Repubblica 29.7.08
Il day after di Rifondazione Veltroni: "Vince l´estremismo"
Il leader Pd: era giusto correre da soli. Delusa Sd
Bettini: è irrealistico chiederci ora se unirci all´Udc o a Ferrero
di Goffredo De Marchis
ROMA - Dal congresso di Rifondazione esce una conferma. «Auguri a Ferrero, ma oggi si capisce meglio la bontà della scelta di andare liberi, della vocazione maggioritaria del Pd», commenta Walter Veltroni. Dopo settimane di discussione sulle alleanze che bisognava fare prima del voto e sul dialogo a sinistra da instaurare dopo la sconfitta, settimane in cui la "solitudine" del Pd è stata criticata in molte sedi, il segretario del Partito democratico si toglie qualche piccola soddisfazione. «Al congresso di Prc ha vinto chi ha le posizioni più estreme, più lontane da una cultura riformista». Quindi più distanti dal Pd. «Le posizioni dialoganti sono state sconfitte», insiste Veltroni. Che adesso può rilanciare in pieno la sua linea sui rapporti con le altre forze del centrosinistra e con l´opposizione in generale: «L´unica strada sono le alleanze programmatiche». E sui programmi un partito del 33 per cento, com´è ovvio, ha molte più carte da giocare nell´imporre la sua linea e le sue leadership agli eventuali alleati.
Ecco perché l´esito sorprendente del confronto dentro Rifondazione, l´insuccesso di Nichi Vendola non può e non deve spostare subito lo sguardo sulla possibile alleanza con l´Udc di Pier Ferdinando Casini. «Non farò mai questo gioco dell´oca, non voglio passare i prossimi mesi a dire un giorno Udc e l´altro Italia dei Valori. Noi pensiamo a noi stessi, non agli altri. Nei territori e a livello nazionale si deciderà in base ai progetti di governo», avverte Veltroni. Per il quale a questo punto diventa più semplice anche la questione della legge elettorale per le Europee. Il piano del Pd prevedeva una soglia di sbarramento al 3 per cento, una "cifra" di cortesia e di attenzione verso il mondo della sinistra radicale che avrebbe faticato ad andare oltre. Ma il Polo propone il 5 e Roberto Calderoli ha proposto la via di mezzo al 4 per cento. Questo potrebbe diventare il punto d´intesa alla ripresa dei lavori parlamentari, in ottobre. Ma il Pd non può dimenticare la mappa delle tantissime giunte in cui governa con Prc. Uno strappo di Ferrero a livello locale può costare caro ai democratici.
Il Pd non vuole chiudersi, semmai punta a giocare la partita di posizioni di forza. Non sarà sempre facile. Per esempio, in Abruzzo dopo l´arresto di Ottaviano Del Turco e le sue dimissioni, si torna a votare in novembre. A Pescara ieri è andato Casini per dire che ora nella regione l´»Udc è centrale», «punta a raddoppiare i consensi» e che il «centrosinistra ha governato male». Dice il leader dell´Udc: «Ora avvieremo un lavoro molto serio per capire con quale alleanza l´Abruzzo esce dal pantano». Il Pd da giorni sta seguendo la pista di un´intesa con i centristi in Abruzzo. In quella regione Prc non ha molti consensi, ma è anche vero che i democratici sono alleati con Di Pietro. Insomma, ci vuole cautela. Goffredo Bettini, che ieri ha presentato con Nicola Zingaretti "Democratici in rete", associazione vicina alle posizioni veltroniane, frena: «Nessuno vuole andare da solo. Ma noi vogliamo rinnovare la politica in tutto il campo democratico. Perciò è irrealistico - dice il coordinatore del Pd - e addirittura accademico porci oggi la domanda se ci uniamo all´Udc o a Rifondazione».
La vittoria di Ferrero ha spiazzato anche gli altri partiti della sinistra, tutti fuori dal Parlamento. Con Vendola potevano sperare in una Costituente e in una corsa uniti alle Europee. Così il potere di attrazione del Partito democratico nei confronti dei Verdi e Sinistra democratica potrebbe crescere. Ma con la Rifondazione uscita da Chianciano è quasi impossibile dialogare. Spiega Claudio Fava, coordinatore di Sd: «Ci sembra di aver fatto un passo indietro e non per Ferrero come persona, ma per il ritorno ad un partito minoritario dalla bandiera rossa. Noi non siamo per una sinistra che si arrocca, ma che sia pronta a rinnovarsi». Oggi quella galassia, più di ieri, è costretta a guardare a Veltroni: «Chiediamo al Pd di fare una scelta e cioè se vuole spostarsi ancora più al centro, aprendo all´Udc di Cuffaro, o scegliere la sinistra».
Repubblica 29.7.08
Alla provincia di Milano la crisi col Pd è vicina e così a Parma e a Reggio Emilia. E alle amministrative si ridiscute tutto
Alleanze a rischio nelle giunte locali in Abruzzo il Prc punta su Di Pietro
In primavera saranno chiamati alle urne 4200 comuni e due terzi delle province
Il partito ha assessori nelle 13 regioni guidate dal centrosinistra esclusa la Calabria
di Luciano Nigro
ROMA - In Abruzzo, dove si voterà in autunno e dove comanda Maurizio Acerbo, primo firmatario della mozione Ferrero, Rifondazione comunista si prepara a correre «da sola» alle elezioni regionali, nel senso che non lo farà con il Pd. Anzi, quasi certamente si sperimenterà qui, sulla "questione morale", la prima alleanza tra dipietristi e comunisti. A Milano è ormai questione di ore: in settembre la falce e martello si appresta a staccare la spina alla giunta e questo porterà il presidente pd Filippo Penati dritto dritto alle urne. A Parma il congresso ha già votato per l´uscita dal governo provinciale, l´assessore però resiste e non è da escludere che alla fine sarà lui ad abbandonare il partito. A Reggio Emilia, del resto, sta già succedendo: l´assessore ai lavori pubblici Carla Colzi, intende lasciare Ferrero dopo che le redini del gruppo consiliare sono state tolte a un suo compagno vendoliano e affidate alla maggioranza.
La scossa di Chianciano e la vittoria di quella che Walter Veltroni non esita a definire la componente «più estremista e lontana da noi» aprono crepe in diverse parti d´Italia dove il Prc, nonostante tutto, governa da anni con il centrosinistra. L´interrogativo non è solo se le giunte reggeranno all´urto della componente più radicale di Rifondazione: «E´ falso che vogliamo rompere in tutti i governi locali – minimizza Ferrero mentre in Italia ci si chiede quante amministrazioni salteranno nei prossimi mesi - noi valuteremo caso per caso». La domanda è se ci saranno le condizioni per un´alleanza e se Veltroni vorrà ancora farlo con "questo" Prc in primavera, quando saranno chiamati alle urne 4200 comuni e due terzi delle province italiane. Questione non piccola perché il Prc oggi governa quasi ovunque con il Pd.
Proprio così, i casi di rottura sono stati finora eccezioni, non la norma. In tanti ricordano gli scontri sulla sicurezza del sindaco Sergio Cofferati con i comunisti bolognesi, passati all´opposizione (ma solo in Comune) mentre il loro assessore e un presidente di quartiere hanno abbandonato il partito. Qualcuno rammenterà analoghe rotture a Venezia con Massimo Cacciari e a Firenze con Leonardo Domenici. Ma, appunto, si tratta di casi. Il Prc è al governo in quasi tutte le giunte di centrosinistra. Da Torino a Genova, da Milano alla via Emilia, fino a Bari, Reggio Calabria e Napoli dove, nonostante le richieste ripetute di una parte del Prc di uscire dai governi locali dopo lo scandalo della «monnezza», i suoi uomini sono rimasti in Comune, in Provincia e in Regione. Il Prc ha assessori in tutte le 13 Regioni guidate dal centrosinistra. Tutte tranne la Calabria: qui è in maggioranza, ma il partito, schierato con Vendola, vuole riprendere il posto in giunta. Ferrero si oppone. Al congresso ha chiesto i compagni calabresi di non rientrare al governo con Agazio Loriero. Ma proprio oggi il comitato politico regionale è chiamato dal segretario calabrese Pino Scarpelli a dare il semaforo verde e ad aprire un nuovo conflitto con Roma.
Repubblica 29.7.08
"Per Comuni e Regioni valuteremo caso per caso"
Non è all´ordine del giorno la rimozione di Sansonetti, ma ruolo e linea politica di Liberazione devono essere ridiscussi
di Umberto Rosso
ROMA - Segretario Ferrero, si sente un estremista, come l´accusa Veltroni?
«È una critica sbagliata. Rifiuto l´immagine di una Rifondazione settaria e che si arrocca. Il punto è un nodo drammatico da sciogliere, che del resto anche il Pd ha di fronte: la grande crescita del disagio sociale. Secondo noi, o la sinistra rilancia un conflitto di classe oppure si scatena la guerra fra i poveri. È estremismo questo?».
Vendola e i bertinottiani ci credono poco: Ferrero, dicono, fa opposizione non al governo ma al governo-ombra del Pd.
«Sciocchezze. I nostri avversari sono le destre, Berlusconi, la Confindustria».
Al Pd però porte chiuse.
«Rivendichiamo l´autonomia. Che vuol dire anche smetterla di lamentarsi per quel che fa o non fa Veltroni. Non è che per cinque anni si può fare opposizione con questa litania. In poche parole, Rifondazione deve prendere l´iniziativa. E l´unità della sinistra va costruita nel fare, a partire dall´opposizione sociale. Rovesciando il processo della Sinistra arcobaleno, che era solo aggregazione di ceto politico».
Però lanciate la verifica degli accordi di centrosinistra nelle giunte locali.
«Verifica è una parola che non mi piace, politologia. Parliamo di una maggiore attenzione a quel che succede negli enti locali».
Insomma, volete rompere o no?
«Altra balla messa in giro. Nel nostro documento politico non si dice questo ma che è finita la stagione per cui, meccanicamente, si traducono le intese nazionali a livello locale».
Questo per il futuro. E per le giunte in carica?
«Mettiamola così: si deve vedere che una giunta di centrodestra è diversa da una di centrosinistra con noi dentro».
E si vede?
«In qualche caso sì, in qualche caso no. Che so, sull´immigrazione si vede a Torino con Chiamparino ma non a Firenze con Dominici, dove infatti non ci siamo. A Milano c´è un´approfondita discussione in corso. In Calabria, con tutti gli inquisiti che siedono in consiglio comunale, sono contrario al rientro. E se potessi tornare indietro, oggi non direi più di sì a scatola chiusa per Roma a Rutelli».
Lo sa che, anche per questo, l´accusano di trasformismo? L´ex ministro di Prodi che predica il fuggi fuggi dal governo.
«Rispedisco al mittente. Ho fatto mea culpa, ho riconosciuto pubblicamente l´errore. Abbiamo sbagliato a stare nel governo Prodi, non lo rifarei. Trasformista è chi invece non ammette mai le responsabilità. In questo caso, aggiungo, non solo del governo ma di tutta la maggioranza. I Dico li abbiamo presentati, ma finirono insabbiati in Parlamento. E la tassazione delle rendite finanziarie, fatta da Visco, marcì alle Camere».
Mai più perciò una sinistra di governo?
«La scelta vale nel contesto attuale, dati i rapporti di forza e la linea del Pd. E mi sorprende lo scandalo per questa presunta strada estremista imboccata dal congresso. Guardate che per Rifondazione la stranezza è l´altra, entrare al governo, non certo tenersene fuori: è stato così per 17 anni».
Bertinotti è sconcertato: il virus del dipietrismo si fa largo nel Prc.
«Accuse sopra le righe. A Piazza Navona c´erano anche Fava, i Verdi, Diliberto, e tanta gente. Mancavano solo i bertinottiani».
Adesso, segretario, cadranno teste nel partito?
«Il mio primo atto è stata la riconferma del tesoriere, bertinottiano. Proporrò una gestione unitaria, un congresso serve a definire la linea ma il partito è di tutti».
Anche «Liberazione» sarà di tutti, il direttore Piero Sansonetti resta?
«Una «Liberazione» di tutti io proprio me la auguro, perché finora il giornale è stato molto sbilanciato. Rimuovere il direttore? Altra leggenda metropolitana. Non è all´ordine del giorno, non mi pongo il problema. Sono, invece, per discutere del ruolo del giornale e della sua linea politica».
Ma come si fa a guidare un partito con otto voti di scarto, con una maggioranza che Vendola bolla come un cartello informe?
«Nichi proprio sbaglia. Le quattro mozioni hanno trovato l´intesa su una linea politica precisa. E di questa sarò il garante, non sono più il candidato della prima mozione ma del progetto uscito da Chianciano. Dico di più. Se fosse stata un´accozzaglia, non mi sarei presentato. E Vendola avrebbe avuto il buon diritto di guidare il partito».
Alle elezioni insieme a Diliberto?
«Ha deciso il congresso, ci presentiamo con il nostro simbolo e gli eletti andranno esclusivamente al gruppo della Gue. Niente adesioni dei nostri parlamentari a partiti del socialismo europeo. Chianciano ha deciso così, ma le aperture ad altre forze e diversi soggetti comunisti saranno le più ampie possibili».
il Il Riformista 29.7.08
Cosa resta del bertinottismo
di Peppino Caldarola
Come in un film western alternativo, nella guerra di Rifondazione hanno vinto i cattivi. A Bertinotti sarà venuta in mente, nelle ore finali del congresso di Rifondazione, la citazione di Paolo di Tarso che aveva fatto intervenendo al Cc del Pci dopo la Bolognina (vado a memoria): «Siamo in questo mondo ma non siamo di questo mondo». Nella frattura fra il leader e il suo partito, infatti, non c'è solo la politica, c'è ben più. C'è una rottura morale e quasi antropologica. I commenti di Vendola e Giordano, lo stupore della mite Graziella Mascia appartengono allo stesso genere di considerazione.
L'accusa ai vincitori è bruciante: plebeismo. Hanno aperto gli occhi e si sono trovati di fronte a un'immagine mostruosa. Bertinotti aveva tentato, con il ritorno a Marx, di evocare una radice comune, ma in comune le due anime di Rifondazione hanno poco. Cerchiamo di capire perché e di capire, alla luce di quel che è accaduto, che cos'è stato il bertinottismo e dove può andare.
Quegli altri, i vincitori, non vanno da nessuna parte. Da Lenin a Di Pietro. Rifondazione nasce dalla scissione del Pci morente. La guida la destra del partito, la destra burocratica e filosovietica non quella migliorista, che aveva in Armando Cossutta il suo mentore. Negli anni successivi il partito neo-comunista si costruisce per aggregazione di anime diverse che restano diverse. C'è un'area che viene dal Pci ma che del Pci criticava il riformismo (all'epoca parola dannata). C'è un area che viene da ciò che resta dei più parolai gruppi extra-parlamentari, tipo Avanguardia operaia. A questa componente a mano a mano si aggiungono estremismi di ogni tipo, al confine o appena dentro l'Autonomia e i Centri sociali. Infine ci sono i sindacalisti. Prima il timido Garavini, poi l'esplosivo Bertinotti, militante del Pci mai comunista.
Il partito che nasce e che abbiamo conosciuto in questi anni non c'entra nulla col Pci. Tanto meno quello scissionista di Diliberto. Non fosse altro che per quell'obiettivo del comunismo che il Pci aveva lasciato sempre sullo sfondo fino a cancellarlo negli ultimi anni di vita.
Via via che la crisi della sinistra lascia orfani, apolidi e transfughi, Rifondazione si struttura come un Lego impazzito e sghembo. Un intellettuale alla guida di una organizzazione che va per conto suo. L'intellettuale che guida il partito ha un uso di mondo che il "suo" mondo non apprezza, ma che non può denunciare perché senza Bertinotti Rifondazione non esiste. Il "patto scellerato" fra il vertice e la base assicura una convivenza lunga. Bertinotti e i suoi ragazzi hanno la rappresentanza esterna, il partito interno coltiva i suoi miti alternativi. Non poteva durare a lungo. Anzi è durato troppo.
Le strade hanno cominciato a divaricarsi quando l'imprenditore Bertinotti ha deciso di mettere a reddito il suo capitale. Comunismo? Non esageriamo. Dittatura del proletariato? Non scherziamo, ora serve democrazia e non violenza. Nell'ultimo periodo il pensiero di Bertinotti si era fatto più intrigante. Oltre il comunsmo, c'era il socialismo e nel socialismo c'era il lombardismo delle riforme di struttura, il massimo di socialismo di governo. Bertinotti approda qui e lascia intendere di aver voglia di proseguire. I suoi lo seguono, Rifondazione raggiunge l'apice: la presidenza della Camera, la guida della regione Puglia, un ministro. Quest'ultimo fa il furbetto e un po' governa un po' strizza l'occhio a chi sta fuori. Anche a lui si deve la fine di Prodi. A lui si deve la fine di Bertinotti. Ora è pronto per Di Pietro.
La fine del bertinottismo è la conclusione di una avventura senza popolo. Un fenomeno elitario, che il corpaccione comunista ha utilizzato senza accettarlo fino ad espellerlo nel momento della sconfitta. Una sconfitta elettorale che per i vincitori del congresso, sono strani questi nuovi comunisti!, è arrivata come manna dal cielo.
Il futuro si presenta carico di nubi. Bertinotti sparirà dall'iconografia comunista e saranno i socialisti a recuperare il suo contributo analitico e forse una parte della sua eredità. Vendola e Giordano fra pochi mesi dovranno scegliere fra una morte lenta o la morte nel Pd. I vincitori del congresso scompariranno. Un'altra storia della sinistra sta finendo. Forse il muro di Berlino sta cadendo del tutto solo ora. Chissà perché Veltroni e i veltroniani sono così contenti. Ha vinto solo Berlusconi. Il problema è capire che fine farà questa sinistra che non vuole governare, che ama Di Pietro, i cui elettori stanno andando verso la Lega. Ovvero il problema è che fine faremo noi quando queste schegge impazzite si fermeranno, probabilmente nel posto peggiore.
Peppino Caldarola
il Riformista 29.7.08
Rifondazione. Agitato anche il post-congresso
Vendola vara subito la corrente
Parte la guerra delle giunte locali
di Alessandro De Angelis
Che dentro Rifondazione ormai convivano due fazioni, non è una novità. Ma che già si comportino come due partiti, questo sì, eccome. I vendoliani, nel day after della sconfitta, preparano la loro guerra di posizione. La corrente, annunciata al congresso dal governatore della Puglia, prenderà forma a settembre. E assomiglia a un vero e proprio partito. Oggi si riunirà un gruppo ristretto con Giordano, Migliore, i colonnelli bertinottiani per mettere a punto la road map. Se ne parlerà anche nel pomeriggio alla riunione di redazione della rivista bertinottiana Alternative per il socialismo . Parola d'ordine: «autonomia politica e comunicativa». Per intendersi: modello Red. Il sito della mozione sarà trasformato a breve nel sito della corrente, in attesa di capire cosa accadrà di Liberazione . Dove, secondo voci di corridoio, la direzione di Sansonetti rischia grosso. Fonti a lui vicine lo descrivono sereno: «Non è facile far fuori un direttore. Il giornale ha un suo consiglio di amministrazione, è quello che decide. Noi proviamo a resistere». Ma i nervi sono a fior di pelle: sembra che il neosegretario non abbia gradito affatto la scelta di Sansonetti di intervistare sul numero in edicola oggi sia lui che Vendola. Pare che Ferrero abbia negato la disponibilità, per poi accettare solo dopo una chiamata chiarificatrice del direttore.
L'area programmatica - guai a parlare di corrente - di Vendola&Co se non è un partito, poco ci manca. Il ragionamento che fanno a freddo gli uomini di Nichi suona più o meno così: abbiamo perso ma governiamo la metà del partito. Di più: se avessimo vinto con una scelta al ribasso sulla nostra proposta saremmo stati in un pantano. Quindi: mani libere. La Red bertinottiana si chiamerà "Rifondazione per la sinistra" e, di fatto, si muoverà autonomamente rispetto a Ferrero. Dentro il partito per evitare di perdere pezzi. E, soprattutto, fuori per non restare isolati. L'ex segretario Franco Giordano non usa mezzi termini: «Quella corte dei miracoli che ha preso in mano il partito è più preoccupata di fare opposizione al governo ombra che a Berlusconi. Noi vogliamo invece fare opposizione a Berlusconi e parlare a quella sinistra diffusa che non si riconosce in nessun partito». In agenda il dialogo con Sd, verdi e comunisti che ci stanno. E col Pd, cui Vendola vuole mostrare un volto credibile. Anche per mantenere un canale con i dalemiani e non dare l'alibi per sganciarsi a Veltroni. Che ieri, su Rifondazione, ci è andato giù duro: «Hanno vinto le posizioni più estreme». E ha rimandato sine die la questione delle alleanze.
Come se non bastasse, i vendoliani non hanno alcuna intenzione di uscire dalle giunte locali. Anzi, in Calabria - dove il partito è uscito in nome della "questione morale" - dicono: «Ci sono le condizioni per rientrare. E visto che si decide a livello regionale rientriamo». Di tutt'altro avviso Russo Spena: «Non basta la decisione del comitato calabrese. È una questione nazionale» afferma. L'ex capogruppo al Senato però getta acqua sul fuoco: «Non vogliamo aprire crisi ovunque. Come sempre abbiamo fatto verificheremo l'azione delle giunte rispetto ai nostri programmi». Oltre alla Calabria, zoccolo duro di Vendola, l'insoddisfazione cresce sulla giunta Penati e in Toscana, dove però gli assessori sono targati Ferrero. Ma la prossima battaglia all'arma bianca è sull'Aspromonte, dove il partito rischia una spaccatura. L'ennesima.
il Riformista 29.7.08
«L'Unità cambia e nessuno ci informa»
di
Tommaso Labate
«Sinceramente non capisco perché l' Unità di Antonio Padellaro sia considerato un giornale che non va bene al punto da richiedere un cambio di direzione. A me nessuno, né dentro né fuori il Pd, ha mai detto cose del tipo "Dovremmo modificare un po' il quotidiano", oppure "Andiamo a prendere un caffè e affrontiamo il tema del rinnovamento dell'Unità ". Niente: a nessuno è venuto in mente di avvisarci dei cambiamenti in vista. Eppure penso che anche a Padellaro avrebbe fatto piacere una discussione del genere...».
Parlando con il Riformista , Furio Colombo affronta per la prima volta il tema dell'imminente cambio della guardia alla guida dell'Unità. Antonio Padellaro lascia, Concita De Gregorio arriva.
L'ex direttore del quotidiano fondato da Gramsci, prima di esprimersi, fa una sola premessa: «Dirò quello che penso senza problemi. Spero soltanto che quest'intervista non esca con un titolo tipo "Colombo: adesso basta, me ne vado"...».
Andiamo con ordine. Colombo, secondo lei all' Unità serviva un cambio di direzione?
«Non confondiamo i ruoli. La risposta a questa domanda spetta al nuovo azionista di maggioranza, non a me».
Cambiamo domanda allora. Lei è contento dei cambiamenti in vista all' Unità?
«Chi lavora con così tanta passione a un quotidiano ha l'impressione che quel giornale sia buono. Parlo di me ma penso anche a Marco Travaglio, Moni Ovadia, Maurizio Chierici, Rosetta Loy... Per carità, nei giornali c'è sempre qualcosa da cambiare. Ma questo non vuol dire che dobbiamo buttare via tutto quello che c'è. Altrimenti l'avremmo già fatto noi, non crede?»
La sua sembra una difesa a spada tratta di Padellaro.
«Anni fa, quando i rapporti con la precedente proprietà erano molto tesi, la mia battaglia non era finalizzata a difendere me stesso ma a garantire Padellaro come mio successore. La nostra stima nei confronti di Antonio è immutata».
Forse dopo qualche anno serviva un ricambio, non trova?
«Riceviamo un sacco di e-mail di gradimento e le vendite vanno molto bene».
Resta il fatto che si cambierà.
«Io non voglio parlare di questo. Sarebbe come stare al capezzale di qualcuno che non è ancora morto».
Come si spiega però le proteste della redazione dopo l'intervista di Concita De Gregorio a Prima comunicazione ?
«Erano un atto dovuto. Comunque io credo che la De Gregorio sia stata usata. Non credo fosse sua intenzione dire quelle cose del giornale. È una brava giornalista, caduta nella trappola di chi voleva parlare male dell'Unità . Prima comunicazione è un giornale di pubblicitari. E i pubblicitari rappresentano le grandi braccia di Berlusconi e del berlusconismo. Non a caso sono anni che quel giornale attacca gratuitamente l'Unità ».
Sembra indignato, Colombo. O sbaglio?
«Più che indignato resto a bocca aperta quando sento e leggo che alcuni ex direttori dell'Unità danno dei giudizi tremendi su Padellaro e sul sottoscritto. Ma di che cosa parlano? Alcuni di loro obbedivano ciecamente al partito mentre a noi è toccato far resuscitare un giornale morto. Lo sa che cos'era l'Unità quando siamo arrivati? Stanze deserte e piene di cartacce. Noi l'abbiamo fatto rinascere, quel giornale, con pazienza e umiltà».
Si riferisce alle opinioni di molti ex direttori (raccolte dal Corsera ) sulle critiche che Padellaro ha rivolto al Quirinale?
«Mi stupisce che tutti si siano messi in corsa per dare torto a Padellaro. C'è Reichlin, che comunque scrive ancora per l'Unità ... Non credo poi che Petruccioli volesse essere severo con noi, d'altronde non lo è nemmeno con l'azienda che guida. E poi Caldarola, che è stato poco affettuoso. Poco male, quando noi difendiamo i diritti civili lo facciamo anche perché Caldarola possa dire la sua come meglio crede».
Arriviamo al dunque: lei rimarrà all' Unità anche dopo il cambio della direzione?
«Ancora non è avvenuto nulla per cui non ho alcuna ragione di fare annunci. Io per ora mi trovo bene con Travaglio, Ovadia, Chierici, Loy e molti altri ancora... Attraverserò quel ponte quando ci saremo arrivati. Non mi pare giusto dare giudizi sull'Unità "di Concita De Gregorio" visto che non so come sarà. Comunque sia, l'ho letta e apprezzata per i suoi articoli su Repubblica . Mi sembra un'ottima giornalista. Non la conoscevo di persona finché non l'ho vista alla presentazione di un libro, tempo fa...».
Ma lei come ha saputo dell'ipotesi di cambiare direttore al quotidiano?
«Tempo fa Veltroni ha detto al Corriere della sera che sarebbe stata una buona idea avere un direttore donna. Giustissimo, in teoria. Ma quando Berlusconi ha ripetuto che "in teoria" il dottor Letta sarebbe stato un ottimo presidente della Repubblica, noi abbiamo risposto che un capo dello Stato c'era già, Giorgio Napolitano. La stessa cosa vale, anche se in piccolo, anche per l'Unità . Che un direttore ce l'aveva già, Antonio Padellaro».
Che vuol dire, onorevole? Nessuno l'aveva avvertita in anticipo dei grandi cambiamenti?
«Spesso, purtroppo, il Pd ha una curiosa vocazione verticale. Quello che succede all'ultimo piano non viene fatto sapere a chi sta al piano terra. Ripeto: a me nessuno, né dentro né fuori il Pd, aveva mai detto cose del tipo "Dovremmo modificare un po' il quotidiano", oppure "Andiamo a prendere un caffè e affrontiamo il tema del rinnovamento dell'Unità ". Niente. Poi ho scoperto che c'era addirittura da cambiare il direttore. Quando i vecchi Ds erano irritati nei confronti del giornale che dirigevo, pensavo che ci fosse qualcosa in loro che io, che non sono mai stato dei Ds, non capivo. Il Pd però lo conosco. Eppure...».
Scusi, non potrebbe essere stata una scelta autonoma del nuovo editore?
«Prendiamo per buona questa sua ipotesi. Ma anche qui c'è un problema. Io so che Soru è un imprenditore di successo ed è il governatore della Sardegna. Immagino che, quando prende le sue decisioni, si confronti con i suoi collaboratori. Altrimenti non avrebbe avuto tanto successo, no? Eppure questa volta non l'ha fatto. Per lo meno, io non ne sapevo niente».
In ogni caso cambiare direttore è una scelta legittima di ogni editore, non trova?
«Certo che lo è. Solo che sarebbe stato bello parlarne tutti insieme. Credo che anche Padellaro avrebbe trovato divertente un dibattito del genere. Ecco perché in tutta questa storia ci metto un elemento di nostalgia. La nostalgia di cui parlava Monica Vitti nell'Eclissi : la speranza di qualcosa che non è accaduto».
il Riformista 29.7.08
Il dibattito su Luxuria all'isola dei famosi, la rinascita di Democrazia proletaria
Vladimir dalla Ventura
Caro direttore, sinceramente poco mi appassiona la partecipazione di Luxuria all'«Isola dei famosi» e neppure capisco, se non per un fatto di solidarietà, le dichiarazioni dell'amico Aurelio Mancuso nel decretare che Arcigay sarà a fianco di Luxuria in «un reality brillante e impegnativo». Immagino e spero che Arcigay abbia ben e più altro da fare per la comunità glbt, fermo restando l'affetto loro e mio per Vladimir. Per questo e altro fa male quel che ha scritto sul Riformista di ieri Luca Mastrantonio. Fa male a chi da anni si batte per una nuova civiltà italiana di accoglienza sui diritti omosessuali; fa male alla comprensione dei tanti che non comprendono, se non per meri scopi commerciali, la partecipazione di Luxuria al reality della Ventura. Fa male Luxuria a spiegarci dei perché e dei per come ha deciso di andare in Honduras a favore di qualcuno o qualcosa che non trarrà favori dalla sua e altrui partecipazione. Sbagliato tirare in ballo la politica. Sbagliato tirare in ballo il movimento omosessuale o transgender per quel che è una pura rappresentazione catodica e un programma che ha il solo scopo del successo e dell'attrazione degli sponsor. L'esperienza parlamentare a marchio glbt è stato un disastro, è inutile girarci intorno, sempre escludendo la magnifica opera parlamentare di Franco Grillini. E gli altri? Le altre? Oggi, Paola Concia, sola, ha il gravoso compito di rappresentarci e dio e lei sanno quanta difficoltà esiste in questa rappresentanza e con questo Parlamento. È incredibile il silenzio calato sui diritti omosessuali, sulle battaglie che oramai viaggiano in ordine sparso e a targhe alterne tra le tante generose volontà dei tanti movimenti glbt. Tutto è diventato difficile e pesante, senza più l'ipotesi di poter cambiare in meglio la cultura e la democrazia di questo Paese. E se il cambiamento culturale, come afferma Mancuso, passa anche da un reality come «L'Isola», ben venga, ma dubito che si tratti di cultura, al massimo si dà un taglio al tabagismo o si risolvono problemi di adipe. Forse, nostro malgrado, Mastrantonio ha ragione: siamo tutti dei piccoli berluscones senza la faccia tosta di sdoganarci come tali. Sempre più spesso il successo o la visibilità mal si coniuga con gli interessi generali delle persone. E il rischio da un po' di tempo incombe anche sugli omosessuali. Luxuria ha deciso di proseguire la strada che più le appartiene, quella della visibilità radiotelevisiva; ha tutto il diritto a farlo, ci mancherebbe. Certo, mi sembra eccessivo far passare la politica e i movimenti omosessuali, il Parlamento e tutto il resto per la cruna dell'ago dei naufraghi. Piacerebbe, e tanto, che la partecipazione di Luxuria possa «aiutarci concretamente a vincere le nostre battaglie di promozione della dignità e dei diritti delle persone glbt», come scrive Mancuso. Mi si conceda il diritto di dubitarne, almeno di un miracolo. E a credere ai miracoli, non si fa peccato.
Mario Cirrito e-mail
E se tornasse Dp?
Caro direttore, forse Fausto Bertinotti e i suoi sono stati travolti da troppe (anche felici) ambiguità, da troppe contraddizioni. E forse con Paolo Ferrero rinasce per certi versi Democrazia proletaria. Del resto anni fa a Chieti, in occasione di un incontro sul '68, Giovanni Russo Spena evocava lo spirito della Prima Internazionale, aspettando un novello Marx. Peccato che i telegiornali, intenti a mostrare la spaccatura del partito, non abbiano presentato una breve biografia del nuovo segretario di Rifondazione.
Danilo Di Matteo Chieti
Il Foglio 28.7.08
Pugno chiuso, pugno vuoto
Il Prc dall’antagonismo ministeriale alla mussoliniana nostalgia del futuro
La maggiore formazione della sinistra “antagonista” italiana ha adeguato la sua linea politica e il suo gruppo dirigente alla condizione extraparlamentare nella quale si trova per effetto della scelta degli elettori. E’ abbastanza naturale che siano i dirigenti che hanno iniziato da lì, cioè dal movimentismo contestatore degli anni Settanta, quelli che si trovano più a loro agio nella nuova condizione, rispetto a quelli che vengono da grandi organizzazioni “istituzionali” come il Pci o la Cgil. D’altra parte sono stati questi ultimi a guidare Rifondazione nella rovinosa utopia di un antagonismo sociale capace di determinare, spostandolo progressivamente a sinistra, l’asse di un governo a forte connotazione tecnocratica. La rigenerazione identitaria vagheggiata da Paolo Ferrero, che saluta i suoi sostenitori col pugno chiuso, infatti, non è più utopistica della visione di uno sciopero generale politico palingenetico, fatta balenare nel discorso di Fausto Bertinotti. Vagheggiare il ritorno a un passato identificato sommariamante attraverso una simbologia obsoleta, peraltro, non è più irrealistico che dipingere un futuro altrettanto se non ancora più improbabile. In ogni caso l’equivoco dell’antagonismo ministeriale, manifestamente fallito, non si poteva facilmente sostituire con quello dell’antagonismo regionale e comunale. Può darsi che l’ala di Rifondazione che è stata sconfitta di misura al congresso da una coalizione maggioritaria piuttosto composita riesca a riconquistare il controllo del partito oppure che la coabitazione tra le due componenti non regga nel tempo. Quel che pare ormai irreversibile è la rottura del già esilissimo filo di continuità che legava Rifondazione alle esperienze della sinistra istituzionale. Del partito brezneviano che nacque dalla rottura del Pci non c’è più traccia, anche ovviamente perché manca il referente sovietico, di quello pansindacalista bertinottiano nemmeno. Restano gli epigoni di Democrazia proletaria, eredi designati di tutte le sconfitte.
Il Foglio 29.7.08
Dopo la sconfitta al Congresso di Rifondazione comunista. Ritratto del governatore della Puglia
Tutta colpa del Nichinismo
Poeta, politico, gay, comunista e cattolico. Un casino? No, Vendola
di Stefano Di Michele
Dal Foglio del 2 luglio 2005:
“C’era una volta una piccola bocca che ripeteva la filastrocca di una gattina color albicocca che miagolava in una bicocca dove viveva una fata un po’ tocca che raccontava la storia bislacca di una bambina che sta sulla rocca e che ripete la mia filastrocca nata un po’ allocca e cresciuta barocca…”.
"Sono un fifone nato”, ripete Nichi. “Da bambino ero buono e pieno di paure: pauroso di tutto”. E dunque bene si capisce il parapiglia, quella notte di vent’anni fa, in quella casa a pianterreno, zona Talenti, periferia est della capitale. Qui vivevano insieme Vendola, appunto, e Franco Giordano, attuale capogruppo di Rifondazione comunista a Montecitorio. Anni un po’ scombinati, senza capo né coda, dell’antica Fgci che si preparava a uscire di scena. Nichi e Franco si conoscono da una vita, nati persino lo stesso giorno, il 26 agosto. Franco un anno prima. Quando a 18 anni Giordano era segretario della Fgci di Bari, Vendola guidava i giovani comunisti (quelli che c’erano) nella natia Terlizzi. La casa di Talenti, poi, era una casa che funzionava con i suoi ritmi e i suoi tempi, mica roba di ordinario accasamento. “Una specie di comunità – ricorda Giordano – non sapevi chi veniva la sera, te ne accorgevi solo la mattina dopo”. E qui si verifica il fatto che bene racconta delle paure vendoliane. Sera d’estate. Giordano dorme nella sua stanza con la porta finestra aperta. Nell’altra, Vendola legge. Di colpo, nel cuore della notte, il futuro capogruppo si sveglia con una strana sensazione. “Intorno e sopra al mio letto, in tutta la camera, c’erano forse trenta gatti. Comincio a urlare: Nichi! Nichi!”. Che si affaccia sulla porta, vede l’amico con gli occhi sbarrati e la folla di felini e rientra di corsa, chiudendosi dentro a chiave per maggior sicurezza. L’unico conforto che Giordano ebbe, nel momento del panico, fu Nichi che dietro la porta sbarrata consigliava: “Franco, abbaia! Franco, abbaia!”. E Franco, fissando i mici, abbaiava: “Bau! Bau!”. I quali mici, fissando Franco, per niente spaventati e piuttosto perplessi, non mostravano intenzione di voler abbandonare il campo. Se ne uscirono con comodo, a loro piacere e a insindacabile convenienza. Franco corse verso la porta: “Nichi, se ne sono andati!”. Ma Nichi, rivoluzionario però prudente, non si decideva ad aprire. “Restò chiuso a chiave per ore, per paura che qualche gatto passasse di là”, rievoca Giordano.
Ma Nichi è pure coraggioso. Come quella volta, ed è un quarto di secolo fa, che dal palco del congresso della Fgci annunciò pubblicamente: “Compagni, sono omosessuale!”. Stupore prima, ovazione poi, da parte delle giovani avanguardie rivoluzionarie. “E in sala c’è anche il mio fidanzato!”. Ohhh, e nuova ovazione. Nichi scende in trionfo dal palco, e la prima persona che incontra lì sotto è proprio il suo amico Franco Giordano. Corre ad abbracciarlo, lo stringe forte, lo bacia (sulle guance). I fotografi sono scatenati. In mezzo al parapiglia, Franco sorride e si macera nel dubbio: “Oddio, adesso che penseranno, che sono io il fidanzato di Nichi? Mica per pregiudizio, ovviamente, ma la mia storia è un’altra”. Fu comunque infine compiutamente accertato che il compagno Giordano di Vendola era amico, amico intimo, ma certo non fidanzato. Non erano tempi, anche a sinistra, in cui dichiararsi omosessuale. Non erano, i comunisti, meno bacchettoni dei democristiani. Non avevano, molti, forse meno pregiudizi dei fascisti. Ha ricordato Vendola, nel bel libro intervista con Cosimo Rossi, “Nikita”, che “dentro Botteghe Oscure, tolta la palese intolleranza di Giancarlo Pajetta, non ho incrociato che curiosità o grande affetto e grande solidarietà”, ma è pur vero che molto scompiglio sollevò nel partito un’incauta intervista del giovane figiciotto, che segnalava la possibile valenza rivoluzionaria del, diciamolo come si dice, pompino. Alessandro Natta, allora segretario del Pci, quasi rischiò un mancamento. Pietro Folena e il solito Giordano parecchio ci misero a “calmare le acque”, mentre in pieno Comitato politico nazionale Marisa Rodano intimò ai possibili omosessuali vaganti nel suo orizzonte: “Se uno di questi mettesse le mani su uno dei miei nipotini gli darei subito una sberla”. O quella volta a Mosca, quando sempre Folena e Giordano erano pronti a denunciare al mondo che le autorità sovietiche avevano “fermato il compagno Vendola in quanto omosessuale”, e invece Vendola, ricorda qualcuno sorridendo, era forse solo stato preso da momentanea passione “per un compagno olandese della delegazione”. Ma pure, a Nichi piace più dire che è omosessuale piuttosto che gay, “non amo dare un’immagine variopinta, pirotecnica. Dichiararsi non è pettegolezzo, è carne, fatica, sangue, dolore, emarginazione, offese, violenza”. Senza esagerare. Gli chiesero: se dovesse rinascere, rinascerebbe Pasolini? E lui, saggiamente: “No, perché non vorrei morire ammazzato al lido di Ostia”. Ha scritto Francesco Merlo: “Vendola è il primo masaniello delicato e persino un poco effeminato della storia d’Italia… Persino la sua omosessualità è rassicurante perché mai scandalosa né provocatoria, non è un luogo di vizio e di morbosità ma di dolcezze romantiche e di solidarietà leale”.
“L’omosessualità è un pezzo del mio scisma dalle due chiese. E’ stato il mio scisma dalla chiesa comunista e dalla chiesa cattolica. Perché le due chiese hanno avuto in comune il registro della doppia verità… La doppiezza è stata per me un muro di gomma. Un luogo proibito. Per ragioni che non so spiegare e che, forse, hanno bisogno di essere spiegate dal mio psicanalista o dal mio psichiatra. Non so” (Vendola in “Nikita”, intervista a Cosimo Rossi).
E qui entrano in campo le componenti essenziali di quello che possiamo chiamare il Nichinismo, quella strana creatura che ha conquistato il levante, un po’ Nichi e un po’ comunismo, un po’ visione bracciantile e un po’ orecchino, un po’ prete e un po’ gay, un po’ lacrime e un po’ versi alati, la grande famiglia e pure il fidanzato. I più vendoliani, i cultori più entusiasti, dicono che lì in terra di Bari il centrodestra cominciò a perdere e il Nichinismo cominciò ad affermarsi quando il corteo del Gay Pride attraversò i vicoli della città vecchia nel 2001, con Nichi alla testa, e le vecchie popolane lanciavano petali di fiori dalle finestre “come quando passa il Santo”, e invece passavano checche e froci e transessuali, profano tanto e sacro forse niente, pur se nell’epica del Nichinismo quel profano quasi sacro si fa. E figurarsi che Fini aveva invitato i baresi a sbarrare le porte, e qualche anno dopo il cauto e garbato Alfredo Mantovano addirittura gridava nei comizi che le mamme di Puglia dovevano scegliere se volevano un figlio come Fitto o un figlio come Vendola, e forse diceva tra un democristiano e un comunista, e magari pensava tra un figo eterosessuale e un ricchione con l’orecchino. Perché era il senso, l’ovvio, quasi il naturale e certo l’opportuno politicamente. E in fondo, pur se espresso con toni più politicamente corretti, questo rimuginavano dentro di loro alcuni del centrosinistra quando Vendola vinse le primarie. Per poi, come annotò Francesco Merlo su Repubblica, scoprire che “gli apparati del centrosinistra sono molto più indietro delle mamme pugliesi”. Nichi le due chiese, di cui pure lamenta la doppiezza, le ha frequentate entrambe, entrambe amate, e poi entrambe cercate (o ricercate) quando sembravano sfuggire. Quando era ancora bambino da scuola elementare, Pietro Ingrao andò a comiziare a Terlizzi, e lì passò la mano sul capo del giovane Nikita: “Preparati a diventare un buon comunista”. E come una chiesa, così simile alla Chiesa di cui parleremo più avanti, Vendola vedeva e oggi rammenta il Pci. Tutto dall’altra parte si rimanda, e lì si specchiava. Entra per la prima volta a Botteghe Oscure, “persino con più trepidazione della prima volta che ho messo piede a San Pietro”, e “vidi da vicino non una nomenclatura, ma un conclave”. E i riti, i movimenti, la scenografia possono raccontare tanto una cosa quanto l’altra: “Vedevo la solennità dell’incedere di Nilde Iotti, le irritazioni di Luciano Lama, il silenzio pensoso di Paolo Bufalini, l’iracondia ballerina di Alessandro Natta, la riflessività petrosa e scavata di Pietro Ingrao, l’intelligenza scattante di Gerardo Chiaromonte… Un monastero in cui scorreva il sangue, non per una battuta a Porta a porta, scrivendo un libro intero che era la risposta a un altro libro intero; in cui un libro di storia del paesaggio agrario era un momento della durissima lotta politica”. Così era, così doveva restare. “Nel partito sono stato trasgressivo e dissidente, volevo cambiare tutto, ma senza ucciderlo”.
Prima delle Federazione giovanile comunista, Nichi aveva frequentato la parrocchia. Ha raccontato a Cosimo Rossi: “Sono stato nella Chiesa, nell’Azione cattolica, ho fatto il chierichetto. Ma l’associazionismo cattolico era troppo segnato dal machismo sportivo per me. Non mi piaceva quasi nulla: il ping pong, il calcio, il calcetto… Della vita associativa cattolica proprio non mi piaceva lo spirito di competizione che c’era, mi pareva che fosse sempre una gara”. Componente essenziale del Nichinismo è in ogni modo il rito, la cerimonia, certe movenze che all’infinito si ripetono, come certi personaggi dell’immaginario che lo sostiene. “Mi piaceva fare il chierichetto, questo sì. Servire la messa era una cosa che mi dava una discreta soddisfazione. Era quella fase della mia giovane esistenza in cui pensavo di poter ispirare la vita a san Domenico Savio”. Questo san Domenico è morto giovanetto, e la mirabile santità della sua esistenza ispirava Nichi, e magari più lo ispirava la sottile seduzione del suo sguardo. “Forse ero un po’ innamorato, non lo so. Mi piaceva l’immagine di quel giovane santo di cui oggi non ricordo più niente se non quel volto efebico a cui volevo ispirarmi”. Dice persino Nichi: “Sono un estremista religioso, prima che un estremista politico”. Perché poi “c’è un problema di identità culturale: il mio ambiente che è un ambiente cattolico, una culla cattolica. Diciamo che è proprio un indicatore di un alfabeto sociale”.
Se sul telefonino Vendola ha la solita e abusata e noiosa icona del Che, ogni estimatore del Nichinismo sa che il barbuto comandante non serve a niente. E infatti Nichi, nella sua camera di Terlizzi – dove da presidente della Puglia torna la sera a dormire, e a volte mamma Tonia fa trovare i cavatelli con i ceci, con “piccole olive salate, che spezzano il dolce del cece” – c’è il ritratto di Giuseppe Di Vittorio, e infatti era dai tempi di Di Vittorio che qualcuno non parlava più di braccianti, mentre Nichi e il Nichinismo si nutrono emotivamente di ciò che di quel mondo resta, e dei personaggi che quel mondo ha generato. “Il comunismo io l’ho incontrato, e avevo i calzoni corti, tra i braccianti e i vecchi compagni di Terlizzi”. E quindi è tutto un popolarsi del sindacalista Ciccillo, di “Marietta ‘dalle pezze vecchie’ che fu una vera e propria pasionaria e capopopolo, di Fabiola, “che mi dava sempre un goccio di Martini”, e di don Peppino Matteucci, “che era stato garibaldino alla fine dell’Ottocento. Poi era diventato prete. Infine, si era spretato per fuggire con donna Teresa”, e del carrettiere “che si fermava con mio padre e mio zio: erano comunisti, gente semplice”. Quelli che lo conoscono, dicono che Nichi ha la lacrima facile, il ciglio bagnato, il singhiozzo poco trattenuto. “Si commuove davvero – garantisce Peppino Caldarola, deputato diessino di Bari – è uomo di forti commozioni. E insieme una versione abbastanza originale del populismo, con una capacità di dialogo senza precedenti”. Il Nichinismo richiede la memoria di queste facce, di piccoli eventi che ricompongono un mondo. E insieme, lo stesso Nichinismo è luogo dove il culto della famiglia è massimo, dove l’aggrovigliarsi e l’attorcigliarsi di nonni e zii, fratelli e cugini, nipoti e amici pare infinito, quaranta o cinquanta persone che vanno in vacanza, e affittano quattro o cinque appartamenti, “e il rito delle tombolate durava mezzo anno”. E infatti della famiglia Vendola parla quasi più che del comunismo. Persino quando confessò la sua omosessualità – e aveva pure portato qualche fidanzatina a casa, “il mio immaginario era costruito sul maschile, ma la mia curiosità innata mi portava a tuffarmi sul maschile” – persino allora dalla famiglia poteva venire il peggio, “è stata il terminale degli uomori fobici del tessuto comunitario”, ma poi anche il meglio (o qualcosa di meglio): “Ma è stata – come dire? – articolata nel suo sforzo. Il luogo più protettivo resta quello materno, che è quello più predisposto, anche per ragioni sacrificali, alla comprensione. Non fu una storia facile. Fu una storia molto complessa”. E la mamma di Nichi, del Nichinismo vera e propria icona, ora racconta tranquillamente ai giornali: “Noi non abbiamo mai fatto domande, non abbiamo mai pensato nulla. Siamo stati proprio scemi, perché il nostro ragazzo soffriva e aveva bisogno del nostro affetto”. E Nichi racconta che lui la famiglia l’ha sempre vissuta come un romanzo di Marquez o di Isabel Allende, come una grande epopea, “come una storia di storie, di voci. E la parola è sempre stato il tema fondamentale della mia educazione… Mio padre, ad esempio, ci ha sempre impedito di imparare il dialetto. Mio padre e mia madre parlavano in dialetto di nascosto dai figli”. E così, “sulla sfondo della mia infanzia c’è un mondo un po’ deamicisiano: una vita domestica abbastanza giocosa, abbastanza timorosa delle cose di strada, delle villanie”, c’è appunto il babbo comunista fervente e pure fervente religioso della Madonna di Sovereto.
Il Nichinismo ha memoria. Fa storia con le sue piccole memorie. Vendola era un bambino solitario, ha raccontato a Rossi, “soprattutto perché avevo maturato un forte senso di diversità dai miei coetanei per un fatto: non sopporto che torturino le lucertole. Ho un trauma assoluto quando vedo… che dico quando vedo, quando immagino che possano mettere una miccetta in bocca a una lucertola per farla esplodere”. E quella ferocia che spinge Nichi sul balcone, fa la sua tenda da indiano di Terlizzi con gli asciugamani del bagno. Questa faccenda degli animali Vendola racconta che se l’è portata dentro per tutta la vita. A tre anni, una notte lo portarono di corsa a Bari: vedeva tutte le cose intorno che si animavano e prendevano forme di animali. Poi successe di nuovo, tanti anni dopo, mentre attraversava in macchina un bosco: “Improvvisamente i colori intorno a me sono come sfumati, si sono ovattati completamente i rumori, e ho sentito la voce di mio padre di quarant’anni prima che diceva: Nikita, Nikita, Nikita… Stai tranquillo, Nikita, è papà. Le ombre di quelle foglie si sono animate esattamente come quando avevo tre anni: tutto ha cominciato ad animarsi, a prendere forma di animali…”.
Fu deputato per la prima volta nel ’92, l’onorevole Vendola. Il Nichinismo era molto là da venire. E i compagni di Rifondazione ricordano ancora la battuta che fece Lucio Magri: “Dopo la prima grande unificazione, quando gli operai di Torino hanno eletto loro deputato il meridionale Antonio Gramsci, ora siamo alla seconda grande unificazione, con i braccianti meridionali che eleggono loro rappresentante in Parlamento un omosessuale”. Ora, tanti anni dopo, il diessino Caldarola, che pure sulla sua candidatura non pochi dubbi aveva, scrive: “Magia di un nome. Se dici ‘Nichi’ in Puglia, tutti sanno di chi parli. La magia di un nome o di un soprannome fa storia a sé. Nessuno avrebbe scommesso una lira su Doroteo Arango Arambula se non avesse deciso di chiamarsi Pancho Villa”. E nientemeno il Secolo d’Italia, recensendo un suo libro di poesie, gli attribuisce “il leopardiano pensiero poetante”. Ma Caldarola ha ragione: il nome è (quasi) tutto. Senza nome non avremmo oggi il Nichinismo che sale dalla Puglia. E senza Nichi, forse Fitto ce l’avrebbe fatta (e sarebbe ancora il figliolo ideale per le mamme pugliesi).
Componente essenziale del Nichinismo è la religiosità. Non i passaggi in chiesa e la pratica da chierichetto. C’è che come niente, Nichi prende a parlare della croce, di Dio, della fede. Persino al congresso del partito, per quasi un’ora e mezzo, “ho potuto parlare del Dio che danza la vita e che è il Dio dei miei pensieri notturni”. E’ un altro confine che il Nichinismo ha spostato in avanti, questo della religione. Non che altri politici (di questi tempi, poi) mostrino un certo ritegno ad affrontare l’argomento, ma è una questione di accenti e di aggettivi che rendono il discorso di Vendola, del comunista Vendola, dell’omosessuale Vendola, diverso. Un fervore a volte predicatorio, intenso spesso. Gli amici dicono che è la sua anima di poeta, i dubbiosi che pure ci sono nella sinistra che lo circonda, preferiscono non approfondire. Fino a poco tempo fa, ancora sognava di studiare teologia, adesso ha preso a tuffarsi persino nelle pagine di don Giussani. Ha esagerato (ma senza ammettere di aver esagerato): “La miglior lettura per un comunista è la Bibbia”. Raramente riesce a trattenere una citazione dell’Ecclesiaste, “fuggi amore mio come la gazzella sul monte degli aromi”. In un’intervista ha quasi elevato a preghiera: “Il fascino e la follia della croce, cioè la verità del mistero dell’incarnazione, il figlio del Dio vivente, la sua sofferenza, la regalità capovolta, un re con una corona che è fatta di spine, un trono che è un legno incrociato, un trionfo che è un’agonia, una morte: trovo che tutto questo parli all’uomo moderno, che lo turbi, lo provochi”. Forse il Nichinismo avrebbe preso corpo persino senza il comunismo, persino con maschia eterosessualità, persino senza il poetare. Ma non senza don Tonino Bello. Fu del vescovo di Molfetta che Vendola si fece discepolo, che seguì nella Sarajevo sventrata dalla guerra. Lo costrinse a vincere molte sue paure. Sulla sua tomba è andato appena eletto governatore della Puglia. E quando parla di Bello, sempre Nichi si commuove. “Evocava magie celesti. Non so come facesse”. E in uno scritto indirizzato al vescovo scomparso: “In tutta sincerità, non ho ancora fatto pace con la tua morte”.
C’è un prima e un dopo. C’è Nichi Vendola e poi il Nichinismo. Quando guarda fuori dalla finestra del suo ufficio di governatore, sul lungomare Nazario Sauro, a volte ripensa alla casa romana, a Campo de’ Fiori, e un lungo giro che lo ha riportato a Terlizzi, a casa. E il governare non è sempre reso più facile dal poetare, e le durezze della quotidiana amministrazione in due mesi qualche segno hanno lasciato. Qualche antica amicizia che forse si è persa, rotture politiche, tensioni con i partiti. Ambizioni umane, troppo umane. Come gli assessorati. E la polemica sui centri per gli immigrati. E adesso la nomina di un no global alla guida dell’acquedotto pugliese, “mi considero soprattutto un militante dell’acqua”.
Se sopravviverà al sogno che ora deve farsi realtà, ai giorni straordinari in cui pure “lu Santu Lazzaru” si spendeva per Nichi in campagna elettorale, a quando l’orecchino fu da altri messo al lobo in segno di solidarietà (mentre prudentemente Casini mandava in dono un paio di gemelli a forma di falce e martello), e su Internet il nuovo governatore diventava “Niki Trek, The First Generation”, ecco, allora si vedrà se il Nichinismo ha un futuro. Ha preso la comunione da Ruini, ha salutato il Papa, “uno dei teologi più acuti, più raffinati e dal pensiero più potente”, poi del Papa si è lamentato per la sua posizione sulle unioni gay, “parole che ricordavano i canonisti seicenteschi ‘turpe at iniqua luxuria’. Che peccato”. Ma tutto questo, in fondo, poco importa. Mantenere il sogno, questo è il difficile. Se sarà solo governatorato quotidiano, vita breve avrà il Nichinismo.
Dicono quelli che lo incontrano a Bari, che a volte Nichi dà l’impressione di voler essere come altrove. Dicono che è un po’ affaticato: per la prima volta forse costretto a non valicare “un limite di imponderabile anarchia nei miei sentimenti e nel mio modo di relazionarmi”. Il Nichinismo, ovviamente, non può fare a meno di Nichi. E i nichinisti sono ancora su un terreno indefinito. Tutto può essere sorpresa, come quando con Giordano andò a salutare dei partigiani, e mentre stringevano la mano a un anziano, questa rimase nelle loro, di mani. “Restituiscila!”, urlava Nichi a Franco fissando l’arto artificiale. Ma mica l’imbarazzo si supera così facilmente. Ogni sorpresa è possibile, quindi. Come questa. Dice Caldarola: “Forse non gli fa piacere se lo dico, ma Nichi piace moltissimo alle donne pugliesi. Se lo mangiano con gli occhi. E poi mormorano: peccato…”.
Repubblica 29.7.08
Stress. La parola inglese più usata in Giappone
di Renata Pisu
Tra i termini stranieri è il più conosciuto dalla gente, lo utilizza abitualmente il 98,5% della popolazione Così, tra superlavoro e alto tasso di suicidi, un sondaggio rivela la vera anima della moderna società nipponica
L´obiettivo era sondare lo stato di salute della lingua Il risultato sta dando da riflettere
L´Agenzia per gli Affari culturale di Tokyo ha appena concluso un sondaggio per conoscere quale fosse la parola straniera più conosciuta in Giappone, e ha scoperto che è "stress". La conosce e la usa abitualmente il 98,5 per cento della popolazione.
Stupore e meraviglia dei ricercatori che erano partiti con l´intenzione di sondare lo stato di salute della lingua giapponese e che sono invece saltati subito alla conclusione della catastrofe sociale in quanto, secondo loro, l´elevata percentuale di persone che conoscono il significato di questo termine «è il riflesso dello stato in cui versa la società nipponica, in cui sempre più individui si sentono stressati». Ma non è una novità, hanno subito puntualizzato decine e decine di commentatori sociali, categoria di intellettuali tipica del Giappone che sulla stampa e in popolarissime rubriche televisive si dedica a sviscerare il tema che più appassiona il pubblico giapponese e cioè: «Chi siamo? Perché siamo diversi dagli altri? Cosa ha di speciale l´individuo nipponico?». E giù teorie, giù risposte, paragoni, apprezzamenti positivi sulla «Nostra Unicità» e, di tanto intanto, critiche più o meno larvate per un sistema che, secondo molti di questi esperti, sta ormai facendo acqua.
Infatti, quando quattro anni fa si scoprì che i circa trentamila suicidi all´anno tra i maschi adulti in età lavorativa (furono 31mila nel 2001) incidevano negativamente sul Pil, il Prodotto Interno Lordo, si svolsero inchieste e sondaggi per tentare di correre ai ripari e individuare quali potessero essere le cause che spingono una persona a dire "Non ce la faccio più". Ebbene, si giunse alla conclusione che la causa principale era, come sempre, lo stress, che in giapponese si pronuncia "suturesu".
Come decine e decine di parole anglosassoni ormai di uso quotidiano in giapponese, vengono pronunciate aggiungendo suoni vocalici all´alluvione di consonanti dell´inglese: "building", per esempio, diventa "biro"; "department" diventa "depato", "bread" è "bredu" e così via, al punto che si potrebbe sostenere una semplice conversazione in giappinglese senza conoscere il giapponese.
Ma questo non desta nessuna preoccupazione, i giapponesi non sono fanatici della purezza linguistica, il tasto che invece duole è sempre quello dello stress: stress da eccessivo lavoro fino a qualche anno fa, stress per la mancanza di lavoro e l´aumento della disoccupazione oggi. Ma il mito dell´efficienza condiziona persino chi non ha niente da fare, come i pre-pensionati e i precari, i quali non vogliono che la loro condizione sia nota. Così continuano a correre, a darsi da fare. Per finta, per apparire. Di recente un sociologo ha osservato: «In un posto folle come Tokyo, anche i barboni che dormono dentro gli scatoloni di cartone nei sottopassaggi della metropolitana sono stressati dal flusso incessante di passeggeri che si affrettano. Ma perché noi giapponesi corriamo sempre? Perché non ci concediamo ma il ritmo lento di una passeggiata?». Già, perché? C´è chi sostiene che il "male oscuro" che i giapponesi efficientisti fino al midollo insistono a chiamare "stress" in realtà sia una semplice-si fa per dire - depressione. Tipica delle società industriali ormai stramature.
Repubblica 29.7.08
Dai fondali del Mediterraneo il più grande bastimento greco
Il relitto era stato individuato da due sub nel 1988. Ora verrà restaurato in Gran Bretagna
Nell'insediamento archeologico di Bosco Littorio nascerà un museo della navigazione
di Luigi Bignami
È in buono stato di conservazione lo scafo di 2.550 anni fa recuperato ieri al largo di Gela, in Sicilia Si tratta di un esemplare raro, realizzato con una tecnica arcaica: i legni sono legati con corde vegetali
Gela. Era adagiata da 2.550 anni sui fondali argillosi di fronte a Gela. Oggi, grazie a una delicata operazione di recupero, è tornata alla luce in tutta la sua imponenza per raccontarci pagine di una storia antichissima. Si tratta di un´imbarcazione greca (tra le più grandi recuperate nel Mediterraneo) carica di mercanzie che circa 500 anni prima di Cristo era in procinto di approdare a Gela, un passaggio obbligato per tutto il commercio navale del Mediterraneo di allora, ma affondò a soli 800 metri dalla costa. Una tempesta la travolse e la affondò velocemente.
È rimasta lì per 25 secoli, poi nel 1988 due appassionati di subacquea, Gino Morteo e Gianni Occhipinti, la scoprirono e la segnalarono alla soprintendenza. Anni di lavoro in mare, con diverse operazioni di recupero, hanno finalmente permesso di portare in superficie la parte più imponente della barca, composta dalla ruota di poppa e dalla chiglia. Queste parti, nell´insieme lunghe 11 metri, con quelle già recuperate fanno immaginare che l´imbarcazione fosse lunga ventuno metri e larga otto. Era una nave da trasporto a propulsione mista, remi e vela. Insieme alla nave sono stati recuperati numerosi reperti archeologici, come vasi di provenienza ateniese e due rarissimi askoi con dipinti rossi. «Sulla base dei rinvenimenti ceramici - spiega la soprintendente ai beni culturali e ambientali di Caltanissetta, Rosalba Panvini - si potrebbe tentare di ricostruire alcune tappe del viaggio della nave, che dovette fare scalo nel porto di Atene e poi in uno del Peloponneso. Da lì, deve aver attraversato il Canale d´Otranto e puntato verso la Sicilia per approdare a Gela, dove non arrivò mai».
L´imbarcazione giaceva su un fondale di cinque metri di profondità ed è stata recuperata con l´impiego del pontone "Vincenzo Casentino" dell´Eni sul quale era stata posizionata una gru da 200 tonnellate. È stata la gru a sollevare dal mare una grande cesta metallica contenente il reperto, trasportato al porto di Gela e da qui all´emporio greco-arcaico di Bosco Littorio, dove il relitto è stato immerso in una grande vasca con acqua dolce per essere desalinizzato. Presto l´imbarcazione verrà trasportata e restaurata nel laboratorio Mary Rose Archaeological Services, nell´Hampshire inglese. Lì si trovano anche gli altri pezzi lignei recuperati nel 2003, nell´attesa di tornare a Gela dove si sta lavorando al progetto per creare il Museo della navigazione a Bosco Littorio. «Il lavoro, al di là dell´aspetto spettacolare, è di grande importanza dal punto di vista scientifico, mai una nave di 2.500 anni era stata ripescata in così buono stato», afferma Panvini. «Si tratta di un´operazione eccezionale - commenta Antonello Antinoro, assessore regionale ai Beni culturali - che deve spronarci a continuare. Presto recupereremo un´altra nave del genere che abbiamo da poco individuato».
L´imbarcazione appena riportata in superficie era del tipo "cucita", un metodo di costruzione molto antico. Era un´imbarcazione a scafo portante, costruita unendo tavole di fasciame con corde fatte passare attraverso fori e bloccate con spinotti di legno. Nell´area mediterranea gli esempi di "navi cucite" sono rari anche se diluiti nel tempo, con testimonianze che arrivano fino all´età medievale. Tra i più noti vi sono lo scafo della stessa epoca della nave di Gela, forse di origine etrusca, localizzato vicino all´isola del Giglio, in Toscana, e la nave greca del Bon Porté, sulla costa meridionale della Francia, assegnabile alla seconda metà del VI secolo avanti Cristo.
Repubblica 29.7.08
Werther e Bovary
Le ideologie dell'amore
di Antonio Gnoli
Dalle creature di Goethe e Flaubert sono nati due "ismi" tanto forti quanto estremi e paradossali
Nel suicidio Emma pone fine all´idea che si possa impunemente desiderare
Il wertherismo nelle sue pose romantiche divenne una moda un atteggiamento
Ma poi sarà vero che l´amore è quella passione un po´ folle e dissipativa che ci mette fuori dalle regole e crea una condizione speciale alla quale neppure il più incallito tra i cinici è disposto a rinunciare? L´argomento verrà affrontato durante il festival di Cervia dedicato al tema "Con il cuore e con la mente" che aprirà oggi e andrà avanti fino a domenica. Provate a sfogliare quei due romanzi che hanno fatto dell´amore il più estremo dei sentimenti. Più della paura. Più dell´odio. Più dell´arroganza. Ne I dolori del giovane Werther e in Madame Bovary - settant´anni circa separano i due capolavori - Goethe e Flaubert ci offrono una visione paradossale dell´amore. Creano involontariamente due modelli unici, e assistono, quasi sgomenti, alla loro attuazione. Starei per dire alla loro banalizzazione. Werther e Bovary diventano due "ismi" che poco hanno a che spartire con la politica e molto con la psicologia delle masse. Ecco. Se c´è una possibile incubazione della mentalità collettiva questa deve molto a Goethe e Flaubert.
La forza degli "ismi" , in genere, è nell´ideologia che li pervade, nel caso di wertherismo e bovarismo è nella loro impoliticità ante litteram: essi sovvertono un ordine senza tuttavia cambiarlo realmente. Fanno costume, tendenza, moda, ma non ethos. La loro forza non è tanto nei sentimenti che evocano ma nella persuasione retorica che trasforma il gesto in calco e imitazione. Quanti Werther ha messo al mondo Goethe? Il romanzo fu scritto in pochi mesi nel 1774. Quelle pagine volevano soddisfare una domanda che in fondo era già nell´aria: si può amare una donna, promessa a un altro, sapendo che la parola data, l´onore, la tradizione la condurranno fatalmente al matrimonio? È ciò che accadrà a Werther che si rifugia in una piccola cittadina di provincia e qui conosce Lotte, una giovane della quale si innamora perdutamente. La ragazza è promessa ad Albert, un ottuso e placido funzionario che finirà per sposare. Dunque l´amore anticonformista che Werther nutre per Lotte è destinato a infrangersi contro le leggi e la morale. È una sconfitta che spingerà il nostro eroe al suicidio.
Quel gesto mise in moto un´immensa retorica che dalle pagine goethiane dilagò nella vita. Il wertherismo, nelle sue pose romantiche, divenne un atteggiamento, un gesto, una moda. Il frack azzurrino, i pantaloni e il panciotto gialli che Werther indossa al cospetto della donna amata, diventano una sorta di uniforme del cuore. Quell´abito sgargiante e tenue a un tempo, non privo di bizzarria cromatica, si impose tra le giovani generazioni. Non solo in Germania, ma in tutta Europa, si creò improvvisamente un piccolo esercito del cuore: tamburini che svegliavano le passioni marciando al ritmo del sospiro, dell´esaltazione, della tragedia.
E quante Emme Bovary hanno invaso il campo dell´amore dopo il capolavoro flaubertiano? Lo scrittore non poteva immaginare che tra le pieghe di quel sublime feuilleton - apparso a puntate sulla Revue de Paris nel 1856 - si nascondesse un´eroina in grado di dettare uno stile e una psicologia. Ma quando all´incirca un secolo fa Jules de Gaultier coniò il termine bovarismo, immaginando con ciò stesso di illuminare una parte almeno dell´animo umano, sia maschile che femminile, il dado era tratto. La povera Emma resuscitava per reincarnarsi nelle palpitanti donne che offrivano il loro corpo alla trasgressione.
De Gaultier prese Bovary e ne fece un sostantivo universale. Ai suoi occhi bovarismo era una caduta dell´immaginario nelle rudezze del reale. Lo definì come «la facoltà concessa al soggetto di concepirsi diverso da ciò che è». Ma in quella proiezione desiderante vide soprattutto un disturbo della personalità, una caduta esistenziale, il fallimento che si nasconde dietro ogni segreta e abominevole ambizione.
A differenza di Werther, Emma è una donna ambiziosa. L´amore più che offrirlo, sembra pretenderlo. Emma Rouault si ciba di letture avventurose, di romanzi amorosi e sublimi, che ricordano vagamente l´atteggiamento di don Chisciotte davanti ai codici cavallereschi. Emma è una sognatrice che va in sposa a un medico la cui professione non rende meno scialba la sua intelligenza. Charles Bovary è bonario e ottuso, accomodante e innocuo. Per quanto la professione di medico lo sollevi al di sopra di gran parte di coloro che cura egli non ambisce alla differenza. Rappresenta una sorta di grado zero della scala sociale, senza il quale non potrebbe costituirsi il percorso di Emma. E´ solo perché Charles non ha inconscio che Emma può scatenare il proprio flusso onirico. È attratta dal bel mondo, dalla conversazione brillante e da quelle figure, che mutuate dalle sue letture, rappresentano modelli d´amore.
Dal punto di vista di Charles, Emma appare una donna realizzata. Ha una figlia, Berthe (che non ama particolarmente), vive un discreto benessere sociale e gode di un certo credito nel paesino di Yonville, i cui abitanti la considerano attraente, fortunata, colta, compassionevole. Sfugge ai più il motivo che la tormenta: la noia. È un sentimento sul quale crescono ambizione e sensualità. Due bellimbusti le attraversano la strada. Sono Rodolphe e Léon, con i quali, in tempi diversi, Emma stringe duetti d´amore. L´autentico che con slancio quasi mistico cerca in loro, si scontra con l´inautenticità che la clandestinità di un gesto, di un pensiero di una scelta impone. Emma è pur sempre un adultera esposta al fuoco del pettegolezzo. Come è diversa da Lotte che Goethe avvolge nell´ambiguità. Essa è a un tempo ordinatamente rassegnata al ruolo di moglie e oscuramente incline all´altro. Lotte è solo un´Emma non ancora dispiegata, non ancora cosciente della propria potenza dissipativa. A leggerne i furtivi comportamenti si intuisce che è l´accessorio che Werther pone al centro della scena per meglio esaltare se stesso. È un narcisismo mascherato da disperazione quello che prorompe dal cuore di Werther. Si direbbe che il suo slancio cerchi come punto di approdo non la semplice conquista di Lotte, ma uno spazio ultimo e definitivo che solo la morte può predisporre.
Il gesto temerario e insensato del suicidio riveste un significato strategico: si muore non già per protesta o per sconforto, ma per allontanarsi dal disordine del mondo. Quel luogo insopportabile, improvvisamente si spoglia dei caratteri caotici e aggressivi. Viene meno il soggetto perturbante. Un ordine, per quanto infelice, è ristabilito. Come lo si realizza? Werther intuisce che la posta in gioco non è la vita, ma ciò che la vita mette in moto nel momento in cui la si sacrifica. La decisione di suicidarsi non è presa nel segreto del cuore. Destina un´ultima lettera nella quale spiega a Lotte gli effetti di quel gesto. Si immola nel nome di un amore impossibile e nel farlo pone le premesse per legare a sé in modo definitivo quell´apparente oggetto del desiderio che la morte renderà invisibile.
Lo slancio febbrile, la sofferenza acuta, la solitudine profonda, il corteo di passioni romantiche che lo guidano verso la fine cercata non lo conducono dunque a un semplice nulla nel quale lasciarsi inghiottire, ma a un luogo - un Aldilà - dove potersi rincontrare con Lotte. Quell´Aldilà non richiama alcuna tentazione teologica, è il fantasma che un narcisista di talento proietta fuori di sé. È come se Werther dicesse a Lotte: c´è un piano (quello del luogo comune) sul quale non ci incontreremo mai; ce ne è un altro dove il cuore è sovrano, lì «noi saremo! Noi ci rivedremo». Con ogni evidenza si tratta di un differimento. Per trionfare in futuro Werther deve perdere nell´immediato. Affinché insomma la macchina retorica del wertherismo dia i frutti sperati, occorre che il protagonista (e prototipo) si congiunga con il dato drammatico, si sacrifichi realmente. Le pistole che con una scusa chiede in prestito ad Albert e con le quali si suicida (armi toccate da Lotte e dunque feticizzate e purificate) sono lo strumento per far coincidere Assoluto e Amore.
Anche Emma, è noto, ricorrerà al suicidio. Gesto preceduto dalla rovina: la reputazione che scema, i debiti che la travolgono, gli amori che fuggono. È un crescendo di emotività che mette a dura prova i suoi già fragili nervi. Ma davvero essa soffre di questa condizione che l´abbassa e l´umilia? A cosa le servirebbe un´onorabilità senza prospettive, un riconoscimento senza identità? Nella quiete di Yonville, Emma si vive come una figura opaca, intristita dalle attenzioni di Charles. Il medico è un uomo senza desideri, interamente appagato nella placida convergenza di cecità e candore. Egli ama, è vero, ma come si amerebbe una reliquia. La devozione per Emma ha qualcosa di superstizioso. Tanto Charles è l´uomo giusto nel posto sbagliato, quanto Rodolphe e Léon sono gli uomini sbagliati nel posto giusto. Ma che importa? Solo nella compromissione, nel dilatare della vergogna Emma ritrova l´ardore del rischio, la felicità di un gesto che insieme la spinge alla rovina e al trionfo. Ma gli amanti non parlano lo stesso linguaggio dell´eroina flaubertiana: sono pavidi, deboli, ipocriti, narcisisti. Sono infinitamente meno interessanti di Charles. Ma Emma li ha scelti per la loro immensa distanza da Charles. Li ha scelti perché un amore non ha mai nulla da donare veramente. Un amore, Emma ne è oscuramente consapevole, minaccia le regole stesse del desiderio.
La sola legge alla quale il desiderio può rispondere è il desiderio stesso. Se Emma si desse dei limiti finirebbe col negare ciò che la tiene in vita e che la spinge a rompere con Yonville. Lo spazio dell´amore nel quale si trova a suo agio non è anche lo spazio dell´altro. Quello di Rodolphe, di Léon e di Charles, per intenderci. Essi sono veri e propri fraintendimenti amorosi, e per questo corrispondono a una condizione più alta che la Bovary non può dichiarare: nell´amore si è sempre soli. Consegnato a questa segreta condanna lo spazio dell´amore non ha nulla di reale, è solo una metafora di tutto quanto Emma ha già vissuto attraverso i libri.
Per la nevrotica Madame Bovary - afflitta dalla noia e dal pianto, dal furore e dalla malinconia, la morte è un territorio che più che l´espiazione rappresenta l´estremo rilancio di ciò che essa è stata: la fragile e perdente scommessa che l´amore trionfi sulle convenzioni. Nel suicidarsi Emma pone fine all´idea che un soggetto possa impunemente desiderare. La lenta dissolvenza - tra i dolori causati dall´arsenico che si procura in casa del farmacista Homais - non restaura un ordine che in realtà non è mai stato minacciato né infranto. Colloca semplicemente questa eroina del nulla nel punto più esterno della storia, il solo a partire dal quale il racconto diviene possibile.
Repubblica 29.7.08
Villaggio blog. Le nuove forme del dialogo
Una camera con vista sul mondo
di Marino Niola
È molto più che un sistema di comunicazione Rivela nuovi spazi collettivi in una società che li ha ridotti
Un po´ circolo, un po´ palcoscenico, un po´ piazza, un po´ sezione di partito
Non dà vita a una comunità senza luogo. È l´idea di luogo che ne esce trasformata
«Dovessi spiegarti che cos´è il mio blog ti direi che è un luogo, riscaldato d´inverno ed areato d´estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L´insieme dei blog che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso». Parola di blogger.
È evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi, costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati - ma prima ancora creati - e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.
Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete - il termine è la contrazione di web e di log che significa appunto diario ma anche traccia - sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni. Qualcuno li considera un po´ come la versione immateriale dello Speaker´s Corner, letteralmente angolo dell´oratore, di Hyde Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta di legno a mo´ di palco e predicare sul mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico, una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle condivisioni, dai luoghi tradizionali - territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni - agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente.
Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po´ circolo, un po´ palcoscenico, un po´ salotto, un po´ sezione di partito, un po´ piazza, un po´ caffè. I diari in rete rappresentano modi diversi di sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica, residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.
Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito d´oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, di mostrarci con estrema lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo. Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili, convenzionali. E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in questione il fondamento primo, ovvero l´idea di confine naturale, in favore di quella di confine digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della classe d´età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.
Comunità senza luogo? Niente affatto. È la vecchia nozione di luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del luogo e della persona. Un´idea che ha l´immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno materializzate, ma non per questo scompaiono.
La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella spaziale se è vero che oggi l´iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono luoghi all´ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di collegamenti tra bande larghe di umanità. È questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell´essere: dal to be al to google e, sopratutto, al to blog.
Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. È la terra promessa degli homeless digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffè. Altro che fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura d´uomo in un download.
Frequentare i blog serve, fra l´altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della digitalizzazione della realtà e sull´apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura, tramonto dell´italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a riconoscere l´intelligenza del presente.
A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l´estetizzazione della comunicazione hanno spesso un ruolo fondamentale. «Qui sul blog è tutta un´altra cosa. Scrivo in modo molto diverso da come scriverei su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro, e i pensieri pubblicati sono molto più profondi». Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell´autorità. Dove ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d´interlocuzione. È la nuova utopia della libertà e dell´eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne e ossa.
lunedì 28 luglio 2008
l’Unità 28.7.08
Nessuna Rifondazione
di Gianfranco Pasquino
L’esperimento della Sinistra Arcobaleno, affrettato dalla scadenza elettorale e nato in stato di necessità, senza una guida visibile e convincente, privo di un progetto, non poteva avere successo. La inaspettata, ma meritata, scomparsa dal Parlamento degli esponenti di quello che fu soltanto un cartello elettorale è stata decretata, non dal terremoto provocato dal «voto utile».
Ma dalla decisione degli elettori che era davvero inutile votare coloro che non avevano (non hanno) ancora deciso quali debbono essere i loro comportamenti politici, quanta lotta e quando, quanto governo e quando, per quale sinistra, per quali prospettive. Nessuno, infatti, può negare alla sinistra il diritto di manifestare in piazza e di formulare politiche alternative. Ma, quando si è al governo, il dissenso non si esprime con Ministri e segretari di partito che vanno in corteo e le politiche alternative si formulano, eventualmente, nelle sedi governative e parlamentari. Certamente anche per la schizofrenia dei comportamenti e della dichiarazioni dei loro dirigenti, compreso l’allora Presidente della Camera dei Deputati, più della metà dell’elettorato congiunto dei partiti che diedero vita alla Sinistra Arcobaleno li abbandonò al momento del voto del 13 aprile 2008. Appare improbabile che, al termine della stagione dei loro piccoli congressi, quell’elettorato abbia ascoltato messaggi convincenti e stia preparandosi a tornare. Senza nessun barlume di innovazione, i Verdi e i Comunisti Italiani hanno sostanzialmente optato per la continuità delle loro organizzazioni e persino della loro leadership (magari qualche volta qualche dirigente si dimettesse assumendosi la responsabilità delle sconfitte elettorali e non cercasse di imporre il suo successore).
Alla luce dell’esito di un congresso combattuto fra opzioni e posizioni alquanto differenti e distanti, Rifondazione comunista che, in quanto struttura più radicata e più solida, potrebbe (ri)prendere la guida di un processo di rinnovamento della sinistra radicale, antagonista, alternativa (a che cosa?) o comunque preferisca definirsi, sembra non riuscire a guardare avanti, a offrire ad uno sparso elettorato di sinistra qualcosa di politicamente nuovo. Salvare l’identità, peraltro, non meglio definita (ancora puramente e duramente "comunista"? a giudicare dal canto di "Bandiera rossa" la risposta è certamente affermativa) può servire nel migliore dei casi a garantire qualche carica elettiva locale e, a seconda di dove verrà collocata la soglia di sbarramento, anche europea. Ma questo è il passato quando le cariche elettive erano essenziali per il radicamento del partito. Non si è intravista nessuna elaborazione di un futuro politico possibile, nessuna effettiva "rifondazione" di un pensiero nuovo, di una strategia di sinistra originale, neppure nell’emotivo discorso di Bertinotti. Dunque, la maggioranza, per quanto risicata, di Rifondazione ritiene che il governo di destra durerà cinque anni e che la guerra contro le politiche di destra potrà, anzi, dovrà essere condotta in maniera orgogliosamente identitaria. È una brutta notizia anche per il Partito Democratico poiché le alleanze necessarie per continuare a governare a livello locale senza regali per la destra diventeranno inevitabilmente più difficili e conflittuali. Non potranno sicuramente essere costruite intorno a stanche ripetitive rituali riaffermazioni di identità invece che facendo preciso riferimento a programmi da stilare e a politiche da attuare. Forse, la notizia non è del tutto brutta per i Verdi e per i Comunisti Italiani che, avendo messo in piazza la loro indisponibilità e, più probabilmente, incapacità di cambiare/cambiarsi, non correranno il rischio di essere sfidati nella organizzazione di qualcosa di diverso e di migliore della Sinistra Arcobaleno. Ma, che cosa può essere diverso e migliore se nessuno dei tre partitini ha osato indicare un futuro appetibile e percorribile? A ciascuno la sua identità e la sua nicchia, anche se è facile prevedere che i voti continueranno ad essere pochini.
Soprattutto, però, la notizia è pessima per tutti quegli elettori che ritengono che le loro opinioni e le loro preferenze non sono rappresentabili dal Partito Democratico, ma che avrebbero maggiore peso e potrebbero esercitare qualche influenza grazie ad un’organizzazione di sinistra capace di pensare e di agire nell’ottica dell’ elaborazione di un programma di governo, anche con necessarie radicalità sui valori e sui diritti, e della conseguente assunzione di responsabilità che comincia proprio, nella migliore tradizione della sinistra e del comunismo italiano, dal modo di fare opposizione. Rifondazione comunista ha perso l’occasione. Non ha saputo compiere questo passo. Non è neppure un passo indietro: è uno stallo triste. Troppo passato, nessuna Rifondazione.
l’Unità 28.7.08
Eletto Ferrero ma Rifondazione è come due partiti
di Simone Collini
Vince Ferrero, Rifondazione si «sdoppia»
Il segretario eletto con l’appoggio delle altre mozioni. Tensione e cori. Vendola accusa: ma no a scissioni
Bertinotti preoccupato per la «regressione culturale» e il messaggio ai delegati di Grassi attraverso Bandiera rossa
A Chianciano era arrivato un partito spaccato in due, da Chianciano ripartono due partiti in uno. Il congresso del Prc si chiude con Paolo Ferrero eletto segretario grazie ai voti delle quattro minoranze, con Nichi Vendola «sconfitto ma sereno» che annuncia la nascita di «Rifondazione per la sinistra», con Fausto Bertinotti che si dice «preoccupato dalla regressione culturale e politica» del partito che ha guidato per tanti anni e «impressionato dalla violenza verbale» di alcuni interventi.
Per non parlare dei cori a pugni chiusi cantati per «dare un avvertimento» ai delegati (area Grassi) che hanno mostrato incertezze nel sostenere la linea del muro contro muro.
Il nubifragio che si abbatte sulla cittadina termale è la perfetta cornice per l'epilogo
di questi quattro giorni contrassegnati da aspre divisioni, fischi e reciproche contestazioni. Ferrero ottiene l'incarico dal Comitato politico nazionale con 142 sì contro 134 no (4 bianche e un astenuto), dopo che Vendola ritira la sua candidatura perché a ottenere la maggioranza era stato in mattinata il documento politico dei suoi avversari. Ma ora l'ex ministro dovrà gestire una maggioranza in cui convivono i trotzkisti della quarta mozione con i comunisti unitari della terza, sostenitori della Sinistra europea e suoi oppositori, difensori della svolta sulla nonviolenza e critici della rottura con lo stalinismo, componenti che vogliono uscire da tutte le giunte locali e altre favorevoli a decidere caso per caso.
In più il neosegretario, eletto con un solo voto in più di quelli necessari a raggiungere il quorum, dovrà fare i conti con una minoranza, quella che fa capo a Vendola, che ha il 47% e che intende lavorare alla costituente della sinistra attraverso un'area politico-culturale autonoma che, annuncia il governatore della Puglia, organizzerà manifestazioni, si doterà di «strumenti di lotta politica e d'informazione», si impegnerà nei tesseramenti «per portare a un capovolgimento» della situazione interna al partito. Niente scissione, insomma. Ma di fatto da ieri, a sentire le parole di Vendola, ad ascoltarlo dire che né lui né altri bertinottiani entreranno negli organismi dirigenti («escludo qualunque livello di compromissione nella gestione politica del partito»), c'è un partito nel partito. Traditori? Piuttosto, accusa Vendola dal palco, questo congresso ha decretato «la fine della storia del Prc per come l'abbiamo conosciuto». Il governatore pugliese definisce la nuova maggioranza «un guazzabuglio di culture minoritarie» tutt'altro che immune dalla sindrome del «leaderismo». Poi, riferendosi alla campagna congressuale e al dibattito di questi giorni parla di «arretramento culturale», denuncia il «plebeismo», se la prende con il «dileggio andato oltre il limite della decenza». «È come se un pezzo di leghismo fosse entrato nel nostro partito», si sfoga attaccando chi lo ha accusato di aver gonfiato i tesseramenti per vincere e sfidando «i compagni del nord»: «Venite al sud a vedere come si combatte l'illegalità, come si sfida la mafia a viso aperto». Applausi e fischi. Stessa scena quando annuncia che voterà no alla candidatura di Ferrero. Poi, mentre i sostenitori dell'ex ministro festeggiano l'elezione del nuovo segretario col pugno alzato e cantando Bandiera Rossa, Bella Ciao e l'Internazionale, è già sulla macchina che lo riporta in Puglia.
Che sarebbe finita così si intuisce di primo mattino, dopo che la notte non ha fatto il miracolo di far convergere le diverse anime del Prc su un documento unitario. All'ora di pranzo vengono messi ai voti i due ordini del giorno. Quello della mozione Vendola parte dal «bisogno di opposizione al governo Berlusconi» e arriva alla necessità di lavorare alla «ricostruzione e rigenerazione della sinistra»: prenderà 304 voti. Quello messo a punto dalle altre quattro mozioni parte dalla fine della «collaborazione organica con il Pd» e arriva alla necessità di rilanciare il Prc attraverso «una svolta a sinistra» e una «ripresa dell'iniziativa sociale e politica»: prenderà 342 voti. I sostenitori della mozione Ferrero-Grassi e delle altre tre di minoranza chiedono che non si voti per alzata di delega ma con chiamata nominale. Hanno la maggioranza, la loro richiesta passa. Bertinotti scuote la testa. Si alza dalla sedia, va verso Vendola, lo abbraccia: «Hai fatto benissimo». «Andiamo avanti». «Bravo».
Inizia la chiama dei 650 delegati, uno per uno dalla lettera A. Rina Gagliardi spiega ai meno avvezzi il perché di questa operazione che porterà via almeno due ore: «Vogliono controllare come vota ogni delegato». Iniziano a chiamare i cognomi che iniziano con la lettera B. Bertinotti sale sul palco, annuncia al microfono che vota per il documento della mozione Vendola, poi aggiunge: «Rassicurando ai compagni che avrei votato così anche dal posto». Non tutti comprendono cosa voglia dire. Il senso invece non sfugge al delegato con cui si ferma a parlare per un po'. Quello punta il dito contro la «regressione culturale» che ha letto nell'intervento del giorno prima di Ferrero. Bertinotti dice che l'attenzione va puntata «anche sulla regressione della reazione» seguita a quell'intervento, cioè i sostenitori di Ferrero scattati in piedi col pugno chiuso a cantare Bandiera Rossa. Operazione preparata, secondo l'ex presidente della Camera, per lanciare un messaggio ai delegati vicini a Claudio Grassi, l'ago della bilancia che alla vigilia del congresso aveva definito «un delirio» puntare alla maggioranza unendo tutte e quattro le minoranze e che però suo malgrado ha permesso la realizzazione di questo «delirio». «C'è da essere preoccupati per l'incolumità fisica», dice con un sorriso Bertinotti. Una boutade. Poi, dopo aver votato i documenti politici, se ne va dal congresso senza più tornare.
l’Unità 28.7.08
Con l’«antileader» valdese il partito sceglie il pugno chiuso
di Andrea Carugati
L’impronta Ferrero: look da «autista Atac» e niente cachemire
«Ora la comunità potrà ricostruirsi»
Paolo Ferrero non sveste i panni dell’antileader nemmeno nel giorno più importante della sua vita politica. Quando il quorum dei 141 voti segna la vittoria, e i suoi delegati cominciano a cantare Bandiera rossa e Bella ciao con i pugni chiusi, i fedelissimi non lo trovano più: «Ma Paolo dov’è?». Lui se ne sta sulla porta del Palamontepaschi, con una sigaretta in bocca. «È la festa della comunità, non del leader». Poi cominciano a gridare «Paolo, Paolo», «Uno di noi« e lui alla fine si incammina sul palco: rivendica le scelte fatte, anche quella di arrivare alla conta: «Volevo che il partito uscisse da qui con una linea politica chiara». Qualcuno lo fischia, e lui dice: «Ho sempre detto che si poteva fischiare chiunque, figurarsi il sottoscritto». Ringrazia Claudio Grassi, il suo alleato nella prima mozione, «perché è rimasto con me anche se non avevamo sempre le stesse opinioni». Altri canti, pugni chiusi: Ferrero canta Bandiera rossa, alza il pugno e abbraccia Claudio. Poi ripiega gli occhiali nella custodia, ha un po’ gli occhi lucidi. Sul settimo congresso del Prc cala il sipario.
Toni bassi e undestatement, completo grigio fumo con camicie rosso scuro che gli è valso il nomignolo di «autista dell’Atac», Ferrero se ne sta seduto per gran parte del congresso lontano dalla prima fila, in mezzo ai suoi delegati. È consapevole che la sua incoronazione a segretario deriva anche da questo stile, in netta discontinuità con l’era Bertinotti, e distante anni luce dal carisma di Nichi Vendola. «Non sono un leader, sono stato riconosciuto come uno che permetteva a questa comunità di ricostruirsi. E se ho vinto è anche perché, a differenza di altri, ho ammesso di avere sbagliato nel dire sì al governo Prodi». Niente cachemire, poca immagine («Staremo più tra la gente e meno in tv»), discorsi che emozionano poco. Anche quando viene proclamato sembra quasi scusarsi: «Non ruberò tempo alla vostra cena… ». Rigore valdese nella vita quotidiana: 1500 euro al mese di stipendio del partito, divide l’appartamento romano con un compagno del Prc e gira con una Mercedes scassata del 1992.
Nato nel 1960 a Pomaretto, in valle Germanasca, provincia di Torino, Ferrero è stato operaio alla Fiat di Villar Perosa, la cittadina simbolo della famiglia Agnelli. Poi cassintegrato, militante in Democrazia Proletaria e dirigente di Rifondazione. È arrivato qui a Chianciano come il perdente sicuro, ma non si è arreso mai al fascino di Vendola. La sua candidatura è stata presentata solo ieri nel tardo pomeriggio, dopo che aveva vinto la sua linea di sinistra.
In queste giornate di Chianciano ha lavorato con pazienza per mettere insieme una maggioranza composita, che va dai cossuttiani di Grassi ai trotzkisti di Falce e martello. Una maggioranza risicatissima, basti pensare che il neo segretario ha preso 142 voti e il quorum era 141. Lui la chiama «coalizione», ma assicura: «Non è un accordo di potere, ma su una linea politica: svolta a sinistra, immersione nel sociale, autonomia dal Pd, difesa del Prc e del suo simbolo oggi e domani». Oltre ovviamente al no ad ogni ipotesi di costituente di sinistra. «Tra noi c’è un comune denominatore che ci consentità di lavorare insieme per anni». L’idea è quella di dimenticare le decisioni calate dall’alto, di allargare la partecipazione alle scelte: un po’ assembleare, ma i ferreriani spiegano che «tutto questo è mancato per troppi anni».
A Vendola e compagni, Ferrero ha offerto una gestione unitaria del partito, e dimostra la buona volontà confermando il tesoriere uscente, ma non ci spera più di tanto. Per il momento saluta il no alla scissione scandito dal suo rivale e tira dritto. Del resto è un appassionato di scalate in alta montagna, e lì ha imparato a non avere fretta. Anche nella sua nuova maggioranza sono consapevoli che sarà dura gestire il partito con questi numeri: «Saremo un po’ come il Senato della scorsa legislatura, basta che uno abbia l’influenza che il partito non decide più» dice Alberto Burgio, professore bolognese, dell’area Grassi, quelli che ci hanno provato fino alla fine a trovare un accordo tra Paolo e Nichi. «È una vittoria di Pirro, il fatto stesso che si sia arrivati alla conta è una sconfitta del partito».
E tuttavia Burgio non ci sta alla «caricatura» della nuova maggioranza come settaria e isolazionista: «La nuova Rifondazione non sarà una mummia del passato, si butterà in un lavoro duro, oscuro e anche frustrante per ricostruire il legame con la società». Leonardo Masella, dirigente della terza mozione, quella dell’Ernesto, già propone un nuovo simbolo per liste comuni con il Pdci alle europee e su questo annuncia battaglia Nel documento comune la questione è assai più sfumata, ma tant’è. Sulle giunte locali saranno i trotzkisti a farsi sentire, chiedendo uno sganciamento dal Pd.
E Ferrero risponde: «Pensare di uscire da tutte le giunte sarebbe una stupidaggine, valuteremo caso per caso in base alla coerenza con gli obiettivi del partito». Qualche esempio? «La giunta regionale pugliese è la migliore in Italia, ma in quella calabrese non dobbiamo rientrare». Per far capire quale sarà la sua bussola («Direi la Bibbia, ma capisco che non tutti condividono») cita Genova, il 2001, la Rifondazione No Global che diventò «cuore dell’opposizione a Berlusconi».
E il Pd? «Se comincerà a fare l’opposizione saremo ben felici di fare delle cose insieme».
l’Unità 28.7.08
La maggioranza c’è, ma ha tante anime
I bertinottiani, in minoranza e fuori dagli organismi dirigenti, sono la componente più ampia
Con la vittoria di Paolo Ferrero e del documento che raccoglie intorno a sè le ex minoranze del partito, la maggioranza interna del partito cambia volto. Nel congresso di Venezia del 2005 Fausto Bertinotti aveva raggiunto la maggioranza ottenendo il 60% dei consensi, una situazione capovolta dal risultato del congresso di Chianciano.
La nuova maggioranza infatti raccoglie le ex correnti interne al partito: Essere Comunisti di Claudio Grassi, Falce e Martello di Claudio Bellotti e l’Ernesto di Fosco Giannini e Gian Luigi Pegolo.
Ex bertinottiani
Nella nuova maggioranza ci sono rappresentanti della vecchia dirigenza del partito che si sono staccati con la presentazione di una propria mozione. Paolo Ferrero e Giovanni Russo Spena hanno presentato un documento che ha raccolto il 40,3% dei voti, ma nella nuova geografia del partito a dare il loro appoggio al documento dell’ex ministro c’è anche Walter De Cesaris, ex responsabile della segreteria guidata da Franco Giordano. De Cesaris ha presentato al congresso un documento che raccoglie anche l’adesione di Franco Russo e Mercedes Frias che ha raccolto l’1,5% dei consensi.
Essere comunisti
La corrente guidata da Claudio Grassi rappresentava la minoranza più grande del partito. Al congresso di Venezia aveva ottenuto il 26% dei consensi. Nel 2007 però la corrente si è divisa con l’addio di Fosco Giannini e Gian Luigi Pegolo. Nel congresso di Chianciano Grassi appoggia il documento presentato dall’ex ministro della Soldarietà Sociale.
Ernesto
La minoranza guidata da Fosco Giannini e Gian Luigi Pegolo nasce in seguito alla scissione da Essere Comunisti e prende il nome dalla rivista guidata dallo stesso Giannini. Al congresso arriva con un proprio documento che raccoglie il 7.7 per cento dei consensi per poi appoggiare Ferrero.
Falce e martello
La minoranza trotzkista è guidata da Bellotti; al congresso di Venezia ottenne il 2.3% dei consensi. Presenta un proprio documento che raccoglie il 3.2% dei voti. Anche Bellotti appoggia Ferrero.
Bertinottiani
La nuova minoranza del partito è composta da ex dirigenti tra cui l’ex leader del partito Franco Giordano e l’ex capogruppo alla Camera Gennaro Migliore: gode dell’appoggio di Fausto Bertinotti che nel corso delle votazioni ha approvato il documento presentato da Gennaro Migliore.
l’Unità 28.7.08
Rivolta nel Prc: Vladimir Luxuria al reality più trash
Se Mucca assassina accetta le regole dell’Isola
Sì, l’Isola dei famosi fa schifo. E non è un territorio da riconquistare, anche grazie a Vladimir Luxuria. In televisione buca lo schermo, è vero, ma i militanti di Rifondazione la preferivano a Porta a Porta o a Primo piano, quando difendeva con passione i diritti dei gay e dei trans. La preferivano in tailleur gessato, quando interveniva in parlamento ed era tra le più eleganti, mentre i colleghi leghisti (e a volte le colleghe forziste) non lesinavano sguaiataggini. Così, all’idea che quella gran signora corra i rischi del più trash tra i reality italiani, «L’isola dei famosi», hanno trasalito. E hanno scritto a Liberazione.
Particolarmente indignati tre esponenti del Collettivo Italia-Centro America: quel reality impedisce ai garifuna, pescatori nativi, di accedere al mare; «ci dispiace che che tu ti spenda a favore di una lobby di grandi imprese che stanno costruendo mega villaggi vacanze vicino a Cayos Cochinos, sede del’Isola dei famosi». E la trasmissione non è che uno spot per quei villaggi vacanza che sconciano le spiagge e espellono i garifuna.
È vero, Vladimir ha assicurato che anche di questo parlerà al reality. Vedremo se bucherà ancora lo schermo - perché no? - a favore dei diritti umani oltre che quelli civili. Certo è che tra i suoi elettori la scelta di quel realty non è popolare. C’è chi dice: «non voglio avere la tessera dello stesso partito di un partecipante all’Isola»; stia sereno, Luxuria non è affatto iscritta al Prc.
Su Liberazione Angela Azzaro replica: non dovevamo riconquistare coscienze e consenso? La battaglia delle idee si può anche fare così, scrive: Vladimir è una bella persona che «si è inventata la sua vita, che ha seguito il suo desiderio per diventare quello che vuole e sente di essere», può essere una finestra aperta per chi non esce dalla sua parrocchia. Ma riuscirà a litigare per un pesce o a conquistarsi spazio e cibo con lo stesso garbo e ironia che usava in «Mucca assassina»?
l’Unità 28.7.08
Costituente (per ora) fallita, il Pdci chiama all’«unione dei comunisti»
Le reazioni: delusa Sinistra democratica, Diliberto invece invoca un percorso comune con la nuova leadership del Prc
di Eduardo Di Blasi
«SI TORNA a Bandiera Rossa», riflette a voce alta Claudio Fava, coordinatore della Sinistra Democratica, mentre registra l’elezione a segretario di Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero: «Persona che rispetto, certamente. Ma che era il ministro di Rifondazione nel governo Prodi, e quindi non so quanto possa rappresentare di nuovo anche per il Prc». Usa la stessa parola adoperata da Nichi Vendola nell’assise di Chianciano nel definire cosa ha scorto nel campo politico a lui vicino: «Un arretramento». Ma spera di riuscire a rilanciare con il duellante sconfitto il processo di una costituente di sinistra, che parta «dal basso», dai movimenti, dalle associazioni, dai singoli cittadini, come prospettato da Fausto Bertinotti giusto venerdì. Vale a dire prima che quella maggioranza sostenuta anche dall’ex Presidente della Camera divenisse minoranza al congresso di Chianciano.
Certo l’elezione di Ferrero alla guida del maggiore partito organizzato dell’area non sembra aiutare il prosieguo di questa strategia («L’impressione che ricaviamo dall’esito di questo congresso è l’arretramento forte del Prc rispetto alla necessità di ripensare e di ricostruire la sinistra in Italia»), ma rende la situazione più fluida, e certo, commenta Fava, non sarà solo la segreteria di un partito a poter interrompere o dare forza a un cammino che lui continua a reputare «utile e urgente».Altrimenti, chiosa, «compiremmo lo stesso errore fatto con la Sinistra Arcobaleno, vale a dire un processo calato dall’alto». La politica, insomma, prosegue la sua strada, e l’appuntamento di sabato prossimo alla festa di Sd a Bacoli (Na), che ha in agenda un incontro tra Fava, Nichi Vendola e la nuova portavoce dei Verdi Grazia Francescato, sarà occasione per approfondire il dibattito su questo versante.
I Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto, che salutano con gioia l’elezione di un segretario che ha portato nella sua maggioranza la componente di Fosco Giannini (che, come il Pdci dell’ultimo congresso punta ad «unire i comunisti»). «Sono certo possa iniziare un periodo di fattiva collaborazione fra i due partiti ad iniziare dalla manifestazione contro il governo sui temi sociali prevista per l’autunno sia dal congresso del Pdci che dal documento approvato a maggioranza da quello di Rifondazione - afferma il segretario del Pdci Oliviero Diliberto - Da oggi può iniziare un percorso comune e i Comunisti Italiani sono pronti».
Chi nutre profonde perplessità sono gli esponenti della minoranza Pdci, Luca Robotti e Katia Belillo che lanciano in agenzia un lungo j’accuse al partito fratello: «La maggioranza che si è andata a costituire nel congresso del Prc segnala quanto la sinistra italiana, al pari della scelta del nostro partito di lanciare la proposta dell’unità dei comunisti, sia sempre di più ostaggio di se stessa, delle proprie forme autocelebrative e consolatorie, con cui si cerca di conservare ciò che gli elettori hanno spazzato via con il voto. Stranisce che in questo frangente storico stalinisti, trotkisti, movimentisti, massimalisti siano tutti insieme appassionatamente uniti nel dare il colpo mortale alla possibilità che la sinistra italiana possa ritornare unita dopo venti anni di divisioni».
Il fatto che il partito di Rifondazione sia rimasto diviso a metà nel congresso lascia aperto qualche spiraglio per «un dialogo costruttivo con l’area Vendola per iniziare insieme una battaglia che rimetta al centro l’interesse delle persone ed in secondo piano quelle delle parrocchiette», affermano i due esponenti del Pdci. Ma la situazione resta complessa. Il crollo elettorale sotto le insegne della Sinistra Arcobaleno sta producendo una serie di frane a valle difficilmente prevedibili. Per adesso, nelle assise di Verdi, Pdci e Prc sembra aver prevalso l’istinto di conservazione.
l’Unità 28.7.08
Il Pd deluso: ha prevalso chi rifiuta il dialogo
di Bruno Miserendino
«Rispettiamo l’esito democratico del congresso di Rifondazione, ma bisogna constatare che ha prevalso la linea politica da noi più distante e che rifiuta, allo stato attuale, ogni possibilità di dialogo». A tarda sera Goffredo Bettini esprime la delusione del Pd. Prevista ovviamente. Non era un mistero per nessuno che si sperava nella vittoria di Nichi Vendola, però adesso, dicono al Pd, c’è da prendere atto di un risultato e non c’è da demonizzare nulla. Inutile fasciarsi la testa, si vedrà. Veltroni tace, ed è sempre Bettini a parlare: «Mi auguro che comunque gli spunti innovativi e di apertura che il dibattito ha fatto emergere non sia dispersi totalmente».
Il succo è che il Pd va avanti per la sua strada e del resto, come dice Dario Franceschini, è presto per parlare di alleanze, «visto che Berlusconi governa da tre mesi e ne mancano ancora 57». «Non è il momento - aggiunge - per pensare alle alleanze, o a chi è più bravo a fare opposizione, è il momento di fare opposizione dura per contrastare i provvedimenti contro lo Stato di diritto e le famiglie». Per il Pd saranno le prime mosse del neosegretario Ferrero a far capire dove va davvero Rifondazione comunista e se davvero è chiuso ogni spiraglio di dialogo, e saranno soprattutto le mosse dell’area che va da Vendola ai Verdi a Sinistra democratica, a dire cosa sarà del futuro dell’arcipelago sinistra radicale. Il Pd guarda lì e pensa che in quest’area le cose iniziano a muoversi solo ora. A livello elettorale è difficile fare previsioni, ma in fondo, pensano al Pd, chi si sentiva parte della sinistra radicale ma aveva scelto Veltroni in omaggio al «voto utile», potrebbe essere incoraggiato a confermare la scelta dopo l’esito del congresso di Rifondazione. In fondo, dice qualche dirigente, è la conferma che non si poteva che andare alle elezioni rompendo consensualmente il patto di alleanza con la sinistra radicale.
«Il problema non è tanto nel nome del segretario - spiegavano ieri al Pd- è il progetto che va nella direzione opposta». Infatti al momento è difficile vedere Rifondazione comunista coivolta in quell’alleanza riformista che il Pd vorrebbe sperimentare in futuro. Le prime dichiarazioni di Ferrero del resto lo confermano: «Non ci sono le condizioni per un accordo di governo con il Pd», dice il neosegretario, sul futuro delle alleanze locali «decideremo caso per caso, ma sarebbe un errore politico uscire da tutte le giunte». Il che vuol dire che in molti casi, nelle regioni e nei comuni, Rifondazione andrà per conto suo e che in generale Ferrero si muoverà marcando la sua autonomia e la sua totale diversità rispetto al progetto del partito democratico.
Si chiude dunque una porta? Obiettivamente sì, tuttavia dietro la obbligata delusione del Pd si intravedono ragionamenti diversi. Da un lato la vittoria di Ferrero e la sconfitta dell’ipotesi Vendola sgombra il terreno da molti equivoci. Sembra dare ragione a chi ha sempre visto molto complicato il ritorno a un rapporto politico di alleanza con quell’area, anche se avesse vinto Nichi Vendola. Non a caso questa parte del Pd, capeggiata da Rutelli, guarda con molto interesse a un rapporto privilegiato con l’Udc e con l’area centrista. Rapporto complicato, ma obbligato. Sicuramente l’esito del congresso di Rifondazione delude chi dopo le elezioni aveva posto come problema numero uno del futuro del Pd la questione delle alleanze, ipotizzando un vasto fronte che comprendesse anche la sinistra radicale. Questa strada sembra sbarrata, e lo è anche per tutti coloro che hanno nostalgie unioniste.
Ieri Veltroni ha scelto il silenzio, ma in fondo si sa cosa pensa: anche questa conclusione del congresso di Rifondazione lo conferma nell’idea che è giusto cercare potenziali alleati ma che prima di tutto bisogna consolidare il Pd, rendendo forte e riconoscibile la sua identità riformista. Perchè alla fine, la chiave di tutto sarà lì: se il Pd sarà vissuto come baricentro riformista credibile, sarà anche più facile proporre un’alleanza larga agli elettori. Il «nuovo» centrosinistra di cui si parla non potrà che basarsi su un progetto riformista, di cui sarà principale azionista il Pd. E naturalmente, si fa capire, anche la leadership dovrà essere espressa da questo partito.
Anche la vicenda del «corteggiamento» di Casini, che in casa Pd va per la maggiore, soprattutto nell’area dei «coraggiosi», viene vista per quel che è: una scelta obbligata su cui è bene non farsi illusioni, visto che Casini tiene molte porte aperte al Pdl e una metà del suo elettorato è attratta dalla Destra.
Per ora c’è una cosa che sembra accomunare il vasto e composito mondo del centro e della sinistra che va dall’Udc a Rifondazione, ed è la questione della legge elettorale per le europee. Né Casini, né Ferrero vorranno la soglia di sbarramento (5%) che piace a Berlusconi, anche nella versione mitigata della Lega (4%). Il Pd è fermo sulla proposta del 3% reale, e prende in considerazione l’idea di una preferenza che piace all’Udc. Il problema è che su questo terreno, come in tutti gli altri, il premier sembra intenzionato a seguire il suo istinto.
Corriere della Sera 28.7.08
La lunga notte di Nichi: qui c'è da chiamare il 113
La battuta amara di Bertinotti: questi sono peggio di Di Pietro, riapriranno tutte le galere
L'ex presidente della Camera: abbiamo perso e dobbiamo fare autocritica perché non l'avevamo immaginato
di Maria Teresa Meli
E' l'una e mezza di notte e tra qualche ora il governatore della Puglia annuncerà il suo ritiro dalla corsa alla segreteria di Rifondazione comunista.
E' la notte più tormentata dei bertinottiani. Quella in cui, per la prima volta, si accorgono senza alcuna possibilità di dubbio, che ormai è andata, che il rivale Paolo Ferrero ha vinto il congresso.
Nell'atrio dell'albergo dove alloggiano i dirigenti della maggioranza divenuta nel giro di poche ore minoranza, Vendola si sfoga: «Ci sarebbe da chiamare il 113 per come si comportano. Una cosa raccapricciante: sono peggio della destra».
Mentre parla, il governatore lascia andare ogni tanto l'occhio nel vuoto, quasi pensasse: «Ma chi me l'ha fatto fare ». «Hanno preparato — continua — un documento delirante: vogliono fare la costituente comunista».
Ma siccome è un uomo intelligente, a Vendola non sfugge che quel che è successo è anche colpa della fu maggioranza di Rifondazione: «Abbiamo guidato questo partito per anni e anni e non avevamo capito com'era fatto, e così ha vinto Ferrero che sarà segretario proprio come voleva lui». «E che — aggiungerà più tardi l'ex leader Franco Giordano — aveva pianificato tutto da tempo».
Il governatore si infila in ascensore. Trascorre una manciata di minuti e arriva Fausto Bertinotti. Prima scherza (ma mica tanto) con un amico: «Qui bisogna cominciare a temere per la nostra incolumità fisica. Questi sono peggio di Antonio Di Pietro: riapriranno tutte le galere ».
Quel che ha impressionato, e non poco, l'ex presidente della Camera sono stati i pugni chiusi e l'inno utilizzati per «intimidire» quelli che non avevano ancora deciso se votare o meno Ferrero. E' tardissimo, ma Bertinotti si ferma davanti all'albergo con qualche giornalista e un po' di aderenti alla componente. Non ha l'aria esasperata di Vendola, cerca di razionalizzare quel che è accaduto e riflette ad alta voce: «Abbiamo perso e dobbiamo fare autocritica perché non lo avevamo immaginato. Ora l'unica cosa che possiamo fare è ritirare Nichi, toglierlo da questo guazzabuglio: si eleggano il loro segretario».
Il giorno dopo però l'ex presidente della Camera appare meno propenso ai ragionamenti e molto molto più stufo della situazione. Tanto che dopo che i ferrariani, per controllare i loro, hanno ottenuto la votazione per appello nominale dei documenti politici e non per semplice alzata di mano e di delega, Bertinotti sale sul palco e dice rivolto alla platea: «Voto la mozione due, ma lo avrei fatto anche dal mio posto». Poi mentre scende gli sfugge un «Vaff...» indirizzato di tutto cuore a Ferrero e soci.
Ma al di là degli insulti e delle autocritiche, Vendola e i suoi devono ora affrontare un problema non da poco. «Potrei fare la secessione della Puglia», scherza il governatore. Ma sa che la scissione potrebbe essere uno degli esiti di questo congresso. Ovviamente non ora, onde evitare che la sinistra scompaia. Magari tra un anno... Adesso però è una prospettiva assai lontana a cui il presidente della giunta regionale pugliese non vuole neanche pensare. E Bertinotti alla domanda risponde solo con un enigmatico: «Io saprei cosa fare ma deve essere Nichi a decidere». E la decisione è quella di restare.
La formula si chiama «separati in casa». Perciò niente ingresso nella segreteria del partito, come confermano sia l'ex capogruppo Gennaro Migliore che Vendola. In compenso la corrente ha già un nome, Rifondazione per la sinistra (e non è un caso che il termine "comunista" non sia presente in nessuna versione e non ci sia neanche una vaga allusione). Ha un compito, quello di creare una sorta di partito nel partito: la corrente farà tessere per iscrivere al Prc più gente possibile e si doterà, come spiega Vendola, «di strumenti di lotta politica e d'informazione».
E Rifondazione per la sinistra ha anche un obiettivo. Lo spiega Rina Gagliardi, ex senatrice e bertinottiana di ferro: «Non è affatto detto che questo nuovo gruppo dirigente regga. Sono troppo diversi, litigheranno su tutto, c'è la possibilità che tra meno di un anno scoppino e a quel punto...». A quel punto la situazione potrebbe ribaltarsi.
Corriere della Sera 28.7.08
Il governatore accusa: niente scissione, ma è la fine del Prc
L'ex ministro Paolo Ferrero è stato eletto segretario di Rifondazione comunista. Una vittoria che spacca il partito. L'ira del governatore Vendola: niente scissione, ma è la fine del Prc
di M. T. M.
Il Prc sceglie il leader e si spacca Ferrero batte Vendola per 8 voti
Successo delle minoranze alleate. Il governatore: è la fine di Rifondazione
Lo sconfitto dal palco: non intendiamo abbandonare, staremo qui a costruire la nostra battaglia
CHIANCIANO — E a sorpresa (amara sorpresa per Vendola e i suoi che capiscono solo la sera prima di aver perso), Paolo Ferrero viene eletto segretario di Rifondazione comunista.
L'ex ministro della Solidarietà sociale che per mesi aveva detto e ridetto che mai si sarebbe candidato alla leadership del partito oggi è sceso in campo.
Ma quelle erano dichiarazioni ufficiali. In realtà era da tempo che Ferrero mirava a questo obiettivo. Ed è riuscito a raggiungerlo, pur non avendo ottenuto la maggioranza sulla sua mozione, unendosi con le altre minoranze. Nel nome del comunismo, della lotta al «progetto dell'Unione Europea » e della riesumata battaglia «contro la Nato», com'è scritto nel documento.
È una vittoria che spacca il partito, quella dell'ex ministro. Ferrero infatti viene eletto con pochi voti di scarto: 142 voti favorevoli contro 134 contrari. Di più: se ai no si aggiungono le schede bianche e gli astenuti, l'ex ministro vince per soli 2 voti.
Vendola, che sulla sua mozione aveva la maggioranza relativa, ufficializza il ritiro della candidatura in una conferenza stampa.
Ma il «governatore» della Puglia parla anche prima, dal palco, per ammettere la sconfitta: «Questo esito è la fine della storia di Rifondazione. Questo congresso è il compimento della sconfitta della sinistra e ha prodotto un arretramento culturale. Ma noi non intendiamo abbandonare per un attimo, per un millimetro Rifondazione comunista. Staremo qui a costruire la nostra battaglia».
Vendola annuncia la costituzione di una sua componente, Rifondazione per la sinistra, e assicura che non se ne andrà. Però non rinuncia a dire che il Prc versione Ferrero «rischia la marginalità».
Ed effettivamente le paure sono tante. Soprattutto nella componente ex pci che si è unita a Ferrero. Con qualche compagno di partito persino Claudio Grassi ammette: «Sarà difficilissima, ma noi non potevamo fare altro che votare Ferrero ». Il quale Ferrero ha l'espressione di chi finalmente ha raggiunto il suo scopo.
La sua elezione viene accolta con Bandiera Rossa e l'Internazionale, mentre si levano i classici pugni chiusi.
Di questo congresso di Rifondazione comunista resta l'amarezza dell'ex segretario Franco Giordano, che dopo la sconfitta elettorale si era dimesso: «Io l'ho fatto perché lo ritenevo giusto e non potrei più riprendere un posto di vertice per coerenza. Ferrero, che era l'unico nostro ministro nel governo Prodi, in quel governo, cioè, che secondo lui è stato la causa del nostro insuccesso elettorale, si è candidato a fare il segretario. Come se non avesse nessuna responsabilità nella nostra sconfitta».
Ferrero fornisce la sua versione dei fatti: «Io ho ammesso subito i miei errori e forse i militanti hanno apprezzato il fatto che un dirigente abbia ammesso di aver sbagliato».
Dall'altra parte la pensano in maniera assai diversa. L'ex sottosegretario Alfonso Gianni lo spiega con una sola parola: «Ipocriti ».
Corriere della Sera 28.7.08
Angela Scarparo
La compagna di Paolo: «Denunciai Marramao Poi ci siamo chiariti»
di Fa. Ro.
CHIANCIANO — «Vuole intervistarmi? E perché? Per farmi fare la comunista nostalgica?».
No, signora Angela Scarparo: solo per chiederle qualcosa del suo compagno...
«Il compagno Paolo Ferrero».
Appunto.
«Beh, le dirò: è valdese nella testa, nell'animo. Ed è questo, credo, che piace, che è piaciuto ai militanti».
Sia un poco più precisa.
«Ha un rigore estremo. Se dice una cosa, è quella. Se promette, mantiene. E infatti, guardi, viverci insieme...».
Cosa?
«Mi esaspera. Vede, io sono di origine meridionale, i miei genitori sono napoletani... e, insomma, un conto è essere inflessibili nella vita politica, un conto nella vita privata».
Esempi?
«Ha una fissazione: pur vivendo, in pratica, negli alberghi, non sopporta l'idea di farsi servire il caffè in camera. Gli pare brutto. E sa quand'è stato il primo giorno che ci siamo concessi questo normale sfizio?».
No, quando?
«Questa mattina. Ma ho dovuto pagare io, di nascosto, la cameriera».
Un modo per festeggiare.
«Lo ammetto: quando dopo il suo intervento, mentre tornava al suo posto, i compagni han cominciato a cantare Bella ciao e, dopo, Bandiera rossa... beh, è stato un momento di gioia. Paolo è stato ripagato del suo impegno, della sua coerenza ».
Solo che adesso l'esperienza di Rifondazione volge al tramonto...
«Può essere la fine di tutto, ma anche l'inizio di tutto».
Lei è una comunista retorica.
«Io sono una compagna di base. E penso che sia finito il tempo di gestire i conflitti, è di nuovo ora di provocarli. Oggi, chi non ha una casa, non protesta perché tende a vergognarsi... mentre noi, negli anni Settanta, le battaglie per la casa, le occupazioni le abbiamo fatte con successo. Ecco, dico che è il momento di ricominciare».
Un'ultima domanda: come andò, nel 1993, con il filosofo Giacomo Marramao?
«Lo denunciai pubblicamente. C'era già la moda delle veline, e io non avevo alcuna voglia di essere simpatica in cambio di una recensione favorevole...».
Accusa spiacevole. Vi siete più incontrati?
«Incontrati, e chiariti. Ciascuno prendendosi le proprie colpe. Lui ammettendo di aver detto cose che potevano essere fraintese. E io spiegando che, senza dubbio, all'epoca ero un po' troppo bacchettona...».
Corriere della Sera 28.7.08
L'intervista Il senatore dalemiano: ha vinto un rassemblement di un'altra epoca
Latorre: problemi seri Più difficile coabitare nei governi locali
di Paola Di Caro
ROMA — Senza magari fare il tifo, ma Nicola Latorre la sua preferenza per una Rifondazione comunista guidata da Nichi Vendola l'aveva espressa. E oggi che il governatore della Puglia esce sconfitto dalla sanguinosa battaglia congressuale che ha squassato il Prc, il vice capogruppo del Pd al Senato, dalemiano doc, non fa passi indietro: «Avevamo ragione noi a dire che le due piattaforme congressuali erano radicalmente alternative: una, quella di Vendola, interpretava l'idea di un soggetto politico profondamente innovativo nella forma, e orientato a portare in una esperienza di governo le istanze di una sinistra radicale. L'altra piattaforma invece mette insieme di tutto, dalle case del popolo ai trotzkisti, si espone a rischi - va in piazza Navona e si ritrova alleata con chi, su temi come l'immigrazione, ha posizioni di destra - , è un rassemblement di un'altra epoca, tutto identitario, che si rifugia in accampamenti ormai vuoti, vecchissimi, in cui non si danno risposte alla crisi aperta dal voto di aprile e in cui si ripetono parole che non significano più nulla».
Una di queste parole d'ordine però è molto chiara: mai più alleanze con il Pd.
«Quel che è veramente grave, è che viene negata la possibilità di portare la sinistra radicale in una sinistra di governo. E questa impostazione pone un problema serio non tanto rispetto all'alleanza con il Pd, visto che non ci sono elezioni politiche in vista, ma rispetto alle esperienze di governo locale ».
Sta dicendo che sarà difficile, nelle giunte dove governate assieme, la convivenza tra Pd e Prc, e ancora di più l'alleanza per i prossimi voti locali?
«Beh, oggettivamente si aprono interrogativi molto seri, ci sono problemi da superare. E l'onere di dare risposte sarà di chi ha vinto il congresso».
Lei si troverebbe in difficoltà, oggi, a stringere alleanze sul territorio con il Prc di Ferrero?
«Se dovessi votare domani in Puglia, non avrei alcuna difficoltà a riproporre l'alleanza con Vendola. Per il resto, vedremo quello che succederà».
Ritiene possibile una scissione tra le due anime di Rifondazione?
«Sarebbe inutile fare congetture, sto alle dichiarazioni dei protagonisti. Certo, dal punto di vista politico, le due ipotesi in campo pongono visioni fortemente alternative. Bisognerà capire come la minoranza di Rifondazione intenderà far valere le proprie ragioni nel partito. Ma, e lo dico con tutto il rispetto per il Prc, vedo molto inconciliabili le due posizioni...» Adesso che Rifondazione sceglie posizioni sempre più antagoniste, al Pd toccherà spostarsi a sinistra per raccogliere i consensi dei delusi della sinistra radicale?
«Certamente il Pd ha, ancor più di prima, la responsabilità di mettere in risalto il carattere riformista della nuova sinistra che rappresentiamo, e che deve allargare il suo raggio di azione. Perché è indubbio, c'è un'area sempre più vasta dal punto di vista sociale che reclamerà rappresentanza sociale al Pd».
E questo, a proposito di alleanze da ricostruire, non rischia di scoprirvi al centro?
«Non credo proprio. Il Pd non può rinunciare a rappresentare la sinistra riformista di questo Paese, sono sicuro che è una necessità condivisa anche dai tanti cattolici che sono con noi, da chi viene dalla Margherita... Non dobbiamo rimanere prigionieri degli schemi. Dobbiamo invece aspirare a conquistare un consenso sempre più ampio con un impianto politico e culturale che vada oltre le culture del '900 e interpreti le esigenze vere del Paese».
Corriere della Sera 28.7.08
Religione
Dall'ex ministro al rivale azzurro Lucio Malan I valdesi in politica. Stessa fede
di L.Sal.
ROMA — È la seconda volta che Paolo Ferrero viene eletto segretario. Ieri per Rifondazione, nel 1986 per la Fgei, la federazione giovanile valdese. Sì, perché il successore di Giordano è credente anche se la sua è una fede particolare. Valdese, religione «laica» favorevole alla regolamentazione delle coppie di fatto e pure all'eutanasia. Cinquantamila fedeli in tutto il mondo, 30 mila in Italia guidati da una donna, sono protestanti, gli ultimi eredi di un movimento nato in Francia nel 1200 e che adesso fa il pieno con l'8 per mille. Concentrati in Piemonte, si tramandano la fede di generazione in generazione. Era valdese il regista Luigi Comencini e lo è sua figlia Cristina. Stesso discorso per lo storico Giorgio Spini e suo figlio, il politico Valdo. Anche se di ispirazione liberale, in Italia sono considerati più vicini alla sinistra. Ma come in tutte le regole c'è un'eccezione, il senatore di Forza Italia Lucio Malan. Che da valdese si congratula con «l'amico Ferrero» ma poi parte all'attacco: «Gran parte dei valdesi vota a sinistra ma a sinistra è il 100% della nomenklatura.
Hanno attuato la dottrina gramsciana dell'occupazione del potere. E con l'elezione di Ferrero il cerchio si chiude».
Corriere della Sera 28.7.08
Isola dei famosi. E Liberazione difese Luxuria
MILANO — «Buona fortuna, Vladimir». Con questo titolo Liberazione, il quotidiano del Prc, benedice la scelta dell'ex parlamentare Vladimir Luxuria. Dal Parlamento al reality: il politico transgender andrà sull'Isola dei famosi con buona pace di quanti, nel partito, giudicavano la scelta «insensata». Polemica chiusa, dunque, anche dopo le lettere poco gentili recapitate all'ex parlamentare via quotidiano. La pasionaria dei diritti di gay, lesbiche e trans è sempre stata così, «spiazzante e provocatoria»: può accettare la scommessa.
Corriere della Sera 28.7.08
La prima lite fu tra Garavini e Cossutta. Russo Spena: noi in ginocchio a casa di Sergio per convincerlo a venire al congresso
I 17 anni di Falce e coltello con strappi, espulsioni e odio tra i grandi capi
di Fabrizio Roncone
CHIANCIANO — Finisce male. Un caldo schifoso, zanzare, compagni che si voltano e ti dicono: «Paolo Ferrero? Paolo chi? Boh, no, scusa...». Pessimo affare quando i comunisti litigano. Questi di Rifondazione, poi, sono degli specia-listi: feroci da subito. Dall'inizio. Dal primo congresso.
«Che anno era?». Giovanni Russo Spena, rifondarolo dalla fondazione (veniva da Democrazia proletaria) ha certi suoi modi eleganti e un po' confusi. «Ah, sì, certo: era il 1991... Beh, anche allora... ti dico una cosa che pochi ricorderanno: l'ultimo giorno di congresso, fui addirittura costretto ad organizzare una delegazione per andare a casa di Sergio Garavini, segretario ormai in pectore, e pregarlo... non ricordo se qualcuno fosse in ginocchio, ma può darsi... e pregarlo di venire a concludere con la relazione finale ». Perché voleva restarsene a casa? «Perché sosteneva che Cossutta, pur di diventare presidente del nuovo partito, avesse modificato lo statuto senza consultarlo ». Garavini fu commosso dal vostro pellegrinaggio? «Fu commosso, sì, e divenne segretario».
Ma durò due anni. Ventiquattro mesi di furibonde guerre sotterranee con l'Armando, che aveva imparato l'arte del complotto politico studiando direttamente al Cremlino; finché, sull'italico orizzonte rosso, non comparve un ex gran capo della Cgil polemicamente uscito dal Pds, Fausto Bertinotti, già all'epoca dotato di erre alla Gianni Agnelli e di morbidi maglioni di cachemire («sebbene il primo, ci crediate o no, lo acquistammo al mercatino dell'usato di via Sannio, a Roma»: giura sua moglie Lella, grande amica di Valeria Marini).
Cossutta pretende che Bertinotti diventi subito segretario (23 gennaio 1994). Ma, già un anno dopo, deve affrontare un clamoroso caso: 14 deputati votano infatti la fiducia al governo di Lamberto Dini, ex ministro berlusconiano sostenuto da Lega Nord, dal Ppi e dal Pds. In giugno, i soliti 14 deputati, più 3 senatori, più 2 europarlamentari, più un gruppo di dirigenti guidati da Luciana Castellina e Lucio Magri, escono dal Prc per dar vita al Movimento dei Comunisti Unitari, che tre anni più tardi confluirà nei Ds.
Il partito, nonostante tutto, è però in salute, assorbe gli scossoni e il 21 aprile del 1996 raggiunge il suo massimo storico (8,6%). Segue appoggio esterno al governo di Romano Prodi. E segue la prima bordata di discorsi cui Bertinotti ci abituerà: il boicottaggio della Nike e l'atelier delle sorelle Fendi, l'amicizia con il subcomandante Marcos e la passione per il Grand Hotel di Rimini.
Un frullato. Un comunismo a volte misterioso. Mozioni ed emozioni. Qualcosa che comincia a diventare romantico e visionario. Finché Cossutta non ci sta più. Il 16 settembre 1999, il governo presenta la Finanziaria. A Bertinotti sembra un eccellente argomento per chiudere; Cossutta è per la trattativa. Ma perde.
«Tranne Cossutta — ripete ancora adesso Bertinotti — nessuno mi ha mai definito stalinista. La sua è chiaramente una patologia». Il 5 ottobre Cossutta si dimette da presidente. Quattro giorni dopo, il governo Prodi cade; 48 ore, e i sostenitori di Cossutta fondano il Partito dei comunisti italiani. Bertinotti sorride. Frequenta i salotti più chic. Rilascia interviste: «L'economicismo non si presenta più come un atteggiamento povero di antagonismo reale, ma si trova costretto a scegliere...».
La strategia, almeno, è più chiara: delineare meglio il nuovo corso del Prc e puntare su un partito più marxista e meno leninista, sostanzialmente più movimentista. Per tragica coincidenza, arrivano gli scontri del G8 di Genova e l'inizio della grande stagione pacifista. È così che il partito entra nel movimento.
«La nostra stagione migliore», ammette, cupo, Ferrero. Poi gli anni sono volati con una rapidità che non avrebbe sorpreso Quasimodo. L'idea di fondare «un partito europeo di sinistra alternativa». Poi il terribile congresso di Venezia (marzo 2005): che molti compagni considerano come l'inizio della fine. Di lì a poco, Bertinotti deciderà di provare a essere di lotta e di governo, andrà a sedersi sulla poltrona di presidente della Camera, mentre il no global Francesco Caruso farà il deputato coltivando piantine di marijuana alla Camera e Vladimir Luxuria vi farà ingresso in tailleur rosso lacca. Il segretario Franco Giordano, a Vicenza, sfiderà la folla inferocita di militanti che manifesta contro la costruzione della nuova base militare. Franco Turigliatto, sottoposto a processo politico, verrà espulso — «Hai tradito e boicottato la linea politica del partito...» — e andrà a rinforzare lo schieramento degli esuli, da Marco Ferrando a Salvatore Cannavò. Lo stesso Bertinotti, all'università La Sapienza, verrà contestato duramente, con fischi e grida dai giovani compagni dei collettivi: «Sei un guerrafondaio ». Le elezioni dello scorso aprile, come si sa, hanno poi fatto il resto. Ragioniamo, ricordiamo, e ci sono compagni che scuotono la testa, che si mordono le labbra, camminando nei vialetti di questa stazione termale ed è curioso vedere tanta gente che viene qui per cercare di allungarsi la vita, mentre un partito ha invece scelto Chianciano, bizzarro, no? per iniziare la sua agonia.
Repubblica 28.7.08
Il nuovo leader eletto per 8 voti. Il Governatore: finito il partito che conosco
Rifondazione si spacca Ferrero sconfigge Vendola
L’ora della verità al congresso di Chianciano è scoccata prima dell´alba, quando anche l´ultimo tentativo di mediazione è fallito
Inni e tradimenti, va in scena la resa dei conti
Trotzkisti, bertinottiani e leninisti come in un dramma shakespiriano
La mozione Bellotti chiede piazza pulita: "Que se vayan todos!"
La Mascia si sfoga: "Si può tenere in vita un simbolo e cancellare la sua storia"
di Sebastiano Messina
Per colpire Bertinotti hanno pugnalato il suo figlio prediletto, quel Nichi Vendola che era il suo erede designato e che ha pagato con una amarissima sconfitta tutte le colpe imputate a dodici anni di bertinottismo.
Ma il dramma che si è consumato nella inutile frescura delle terme di Chianciano - perché il mal di fegato dei comunisti era tutto psicosomatico - non può essere compreso e spiegato inforcando solo gli occhiali della politica, incapaci per esempio di dare un senso al paradosso più eclatante: un partito che imputa alla sua dirigenza di aver portato Rifondazione nel governo Prodi, e poi elegge come nuovo segretario Paolo Ferrero, ovvero l´unico suo iscritto che di quel governo sia stato ministro.
No, c´è dell´altro dietro questo scontro avvelenato, dietro le raffiche di parole sorde che hanno segnato la resa dei conti di un partito ormai extraparlamentare. E forse ci vorrebbero le lenti della psicanalisi, che letteralmente significa scioglimento dell´anima, per decifrare le ansie nascoste, i sogni misteriosi e i desideri inconsci di una risicata ma solidissima maggioranza di comunisti che, dopo la più rovente sconfitta della loro storia, fucilano sul campo tutto il quartier generale e imboccano senza esitazioni il sentiero della purezza ideologica (o della solitudine politica).
Sotto il tendone bianco del Palamontepaschi ha prevalso, prima della ragion politica, la voglia irresistibile di regolare i vecchi conti, vestendola magari di altri sentimenti come nella trama di un dramma shakesperiano. Eppure bastava dare un´occhiata ai documenti delle cinque mozioni per trovarne le tracce. La mozione 1, quella di Ferrero, cominciava con una citazione di Majakovskij che era uno schiaffo al bertinottismo: «Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada». E la mozione 4, quella del trotzkista Claudio Bellotti, ci andava ancora più pesante: «E´ necessario compiere una vera e propria rivoluzione interna che faccia piazza pulita dei veleni del carrierismo e dell´istituzionalismo». Titolo: «Que se vayan todos!», che se ne vadano tutti.
Così è stato. A nulla è servita l´affascinante, poetica e astuta orazione con cui Vendola ha aperto il congresso, indicando al partito la strada di una nuova autonomia, però senza rompere col Pd e senza rinunciare a cercare nuove alleanze a sinistra, «infedele ai richiami della nostalgia e dell´identitarismo». A nulla è valso l´appassionato intervento di Bertinotti, che evocava Lula, Chavez e Morales per seppellire definitivamente la «Sinistra Arcobaleno» e ammetteva che «bisogna saper imparare dalle sconfitte»: l´applauso che lo ha sommerso, quella standing ovation che per otto minuti ha dato l´illusione ottica di un partito di nuovo unito nel nome del padre, nascondeva la voglia di celebrare con un giorno di ritardo il 25 luglio di Rifondazione, l´espulsione dalla nomenclatura interna di chiunque abbia gestito il partito negli ultimi dieci anni.
L´ora della verità è arrivata nella notte, al momento di votare il documento politico che avrebbe deciso la linea del partito. Allora i bertinottiani hanno capito che gli altri si erano coalizzati contro di loro, che non accettavano nessuna proposta di mediazione. «Abbiamo il 47 per cento - ha protestato poi Gennaro Migliore - e ci viene impedito di proporre un documento unitario. Incredibile. E´ come la storia del nano più alto del mondo, avete presente?». Bertinotti, però, aveva capito tutto in anticipo, quando ha sentito che l´intervento di Ferrero veniva salutato con «Bandiera rossa».
Allora s´è girato verso Vendola e gli ha sussurrato: «Hai capito cosa ti stanno facendo? Vogliono farti passare per il traditore del comunismo. Chi vota per te tradisce».
La sindrome del traditore ha spianato la strada all´ex ministro e sbarrato quella del governatore delle Puglie. Claudio Grassi, leader della corrente «Essere comunisti» con il suo 7 per cento avrebbe potuto consegnare a Vendola le chiavi della segreteria, ma lui non se l´è sentita di passare dall´altra parte, dopo il sangue sparso nei congressi provinciali - le assemblee taroccate, i tesserati fantasma e la guerra di ricordi - per non sentirsi chiamare Giuda dai suoi compagni. Era uno schiaffo a Bertinotti? Pazienza, commentava Maurizio Acerbo, il combattivo alfiere della mozione di Ferrero: «Qui non siamo nella fattoria degli animali. Nessuno è più compagno degli altri. Nessuno è maggioranza per diritto divino».
La parte di Bruto, ovvero il compito di assestare il colpo finale, è toccata a Giovanni Russo Spena, che ha letto al congresso il documento politico della nuova maggioranza. Senza enfasi e senza fretta («Ve lo leggo, compagni, sono solo quattro cartelle») l´ex capogruppo al Senato ha disegnato l´identikit della nuova Rifondazione: un partito ancora più marxista-leninista, che lavora nell´anno 2008 alla ricerca di una «società comunista», che si gode la sua solitudine per non inquinare la purezza della sua ideologia, che non vuol saperne non solo del Pd di quel centrista perso di Veltroni - centrosinistra addio - ma neanche del Partito socialista europeo, troppo in odore di socialdemocrazia.
Bertinotti ascoltava, dalla solita settima fila, e l´abbronzatura rendeva ancora più forte lo scurirsi del suo viso. Lui è rimasto muto, ma i suoi no.
«Si può tenere in vita un simbolo e cancellare la sua storia» ha gridato Graziella Mascia scendendo dal palco, mentre Vendola c´è andato giù pesante: «Considero questo congresso come la fine della storia di Rifondazione comunista». Per un partito nato da una scissione, la vera nemesi storica sarebbe la sua scissione. Invece ci sarà solo una coabitazione tra separati in casa: da una parte Vendola con la sua minoranza del 47,3 per cento - «il nano più alto del mondo» - dall´altra Ferrero con i comunisti duri e puri, da Citto Maselli al trotzkista Bellotti, che alzano una bandiera ancora più rossa e marciano spediti verso il deserto che li aspetta.
Repubblica 28.7.08
Ferrero batte Vendola, Rifondazione spaccata
Il neo segretario: svolta a sinistra, no al Pd. Lo sconfitto: non faremo scissioni
Il neo leader attacca Fausto: "Meno tv, dobbiamo tornare tra la gente"
di u.r.
CHIANCIANO - E ora, «tornare tra la gente e meno tv». Paolo Ferrero, l´ex ministro del governo Prodi, è il nuovo segretario di Rifondazione comunista. Ancora Bandiera rossa, pugni chiusi, l´Internazionale salutano le sue prime parole alla fine dei quattro giorni che sconvolsero il Prc. Nichi Vendola, lo sconfitto, aveva lasciato la sala del congresso ancora prima della proclamazione, tornandosene in Puglia. I delegati della sua mozione lo hanno fatto appena il neosegretario ha cominciato a parlare per i ringraziamenti, abbandonando il tendone fischiando e protestando. Senza scalfire comunque l´aplomb di Ferrero, «i fischi io li ho sempre difesi, vale quindi anche qui: il segretario si può contestare».
L´ex ministro della Solidarietà sociale, eletto dal comitato politico con 142 voti a favore e 134 no, ha dunque vinto di misura riuscendo a mettere insieme anche i voti di altre tre mozioni (grassiani, trotzkisti, una frangia di ex bertinottiani), sulla base di un documento politico che mette al primo punto la definitiva «chiusura di ogni collaborazione organica con il Pd», così come era avvenuta «nella fallimentare esperienza di governo dell´Unione». Si riparte da Rifondazione, stop alla costituente di sinistra e ad ogni ipotesi di scioglimento del partito, alle europee con il simbolo del Prc ma ricercando l´unità con altri soggetti comunisti. Per la soddisfazione di Oliviero Diliberto, segretario del Pdci. Battaglia contro il governo e la Confindustria partendo dal basso, dalle lotte sociali, a cominciare «dalla costruzione di un nuovo 20 ottobre, una nuova manifestazione di massa». Come gesto distensivo, Ferrero ha subito invitato a restare in carica il tesoriere, bertinottiano.
Una linea però arroccata, pasticciata, con una «aggregazione politica informe» l´ha definita Nichi Vendola. «Questo congresso è la fine della storia di Rifondazione, una regressione, ma non un colpo mortale». E intende dare battaglia per rovesciare la nuova leadership, e insieme alla sua mozione - «che ricordo rappresenta da sola la maggioranza relativa del partito» - non abbandonerà il partito. Si costituisce però in area organizzata, «Rifondazione per la sinistra», e il governatore della Puglia ha già dato appuntamento ai primi di settembre per la prima manifestazione nazionale della corrente, che si darà anche propri organi di informazione.
Il congresso consegna di fatto un partito spaccato a metà come una mela, con fortissime tensioni. Vissute anche nell´ultima, incandescente giornata. Come la contestazione di alcuni delegati del nord nei confronti di Vendola, per le presunte irregolarità in alcuni congressi al Sud. Durissima la resplica: «Vorrei che questi compagni del Nord venissero a vedere che cosa succede nelle regioni meridionali, che cosa significa ogni giorno battersi faccia a faccia contro la mafia, in nome della trasparenza». Sul ponte di comando del partito si insedia una nuova maggioranza, un puzzle assai variegato. In segreteria troveranno così posto per la prima volta i trotzkisti di Claudio Bellotti insieme al gruppo di Essere comunisti guidato dal cossuttiano Claudio Grassi. Insieme a loro ci saranno poi i rappresentanti dell´Ernesto, la minoranza diretta di Fosco Giannini, oltre naturalmente all´area di Ferrero e di Giovanni Russo Spena, di provenienza Democrazia proletaria.
Repubblica 28.7.08
L´ex leader nella notte incontra il delfino: "Nichi rinuncia, si sono blindati contro di noi"
L´amarezza del delegato Fausto "Questo non è il partito che sognavo"
Brutta scena quel Bandiera rossa cantata come avvertimento Mai visto, neanche nei momenti peggiori
di Umberto Rosso
CHIANCIANO - «Questo non è il partito che conoscevo. E non è la Rifondazione che sognavo». Sale in macchina e se ne torna a Roma il delegato di Cosenza, al fianco la moglie Lella, che per la prima volta ad un congresso del Prc si vede poco e niente. Triste solitario y final. Sotto il tendone, mentre si abbattono tuoni e fulmini, manco fosse una sceneggiatura di film, eleggono nuovo segretario Ferrero. Ma Fausto Bertinotti nemmeno nei 280 del parlamentino è entrato a far parte. Perciò via, da Chianciano e da una leadership che adesso davvero non è più sua. L´ultima, disperata missione era fallita nella notte. All´una è uscito dall´albergo, lasciandosi alle spalle tutti i buoni propositi di non entrare mai più «in partita», per incontrare Claudio Grassi, il «cossuttiano» arbitro degli equilibri interni, un vecchio rivale di Fausto. Ma va male. «Lui è preoccupato di come si stanno mettendo le cose - spiega al rientro Bertinotti - ed è disposto a mediare. Ma i suoi non lo seguiranno, e vedrete che non insisterà.Un gravissimo errore, perché non è il momento di difendere il proprio orticello ma di un atto di coraggio. Però, mi pare proprio chiusa». Fine dei giochi, annuncia perciò. Arriva Vendola, distrutto. E adesso che si fa? Andare avanti a testa bassa nella candidatura? Sfidare la conta? Chiamarsi fuori? Il governatore, Giordano, Migliore, i colonnelli, tutti lì nel pallone. Tocca ancora al vecchio segretario riprendere il filo, e dare la linea. È lui che a sorpresa consiglia a Nichi: «Rinuncia alla corsa».
Possibile mai e perché? «Perché fino a qualche ora fa le altre quattro mozioni erano un fritto misto ma ora, insieme, rappresentano una maggioranza e un progetto politico alternativo al tuo, al nostro. Hanno truppe blindate, militarizzate. Non possiamo che perdere il congresso. Rinuncia e ricomincia la battaglia dall´interno». Dall´interno. Scissioni non se ne fanno, è l´altro messaggio-chiave di Bertinotti, «anche se in segreteria e negli altri organismi dirigenti non dobbiamo entrare». Ci si muoverà come area organizzata, maxi-corrente, magari lanciando una campagna di adesioni in stile Super-Red dalemiano, anche se del doman non c´è certezza e il rischio della scissione nessuno può escluderlo. Al momento però fermi tutti, niente colpi di testa, annunci o grandi manovre per clamorose fughe di massa e spaccature, pure se abbiamo perso, pure se il partito «ferreriano» «per molti aspetti mi lascia sconcertato e non mi ci riconosco affatto, marcia verso l´involuzione culturale, l´arroccamento identitario».
Con ancora un´immagine negli occhi, quella che ha sorpreso e ferito di più l´ex padre di Rifondazione. Bandiera rossa, comunismo e pugni chiusi agitati in sala dai compagni della mozione I, subito dopo l´intervento di Ferrero, contro gli altri. «Brutta scena. Mai vista nei nostri congressi, anche nei momenti peggiori. Vi rendete conto? Aveva tutta la carica di un avvertimento, di un segnale agli indecisi di Grassi: come a dire, state attenti a non tradire. E il messaggio è arrivato a segno». E che altro non va giù, all´uomo che per dodici anni ha costruito pezzo per pezzo la Rifondazione comunista? Una «mutazione» in agguato, e questa proprio non se l´aspettava: il virus del dipietrismo che si mette a scorrere nelle vene del partito.
Allora, che c´azzecca Tonino l´anticomunista con le bandiere del Prc in piazza Navona? «Attenti compagni - scherza ma non tanto Fausto - che qui altro che politica, l´incolumità fisica rischiamo con queste innaturali alleanze. Sai quante porte delle galere stanno per aprirsi. «. Volente o nolente, di riffa o di raffa, finisce che più crescono i guai e le difficoltà più i «consigli» del delegato di Cosenza risultano determinanti. E se voleva uscire di scena, lo psicodramma l´ha rimesso in pista. La pensione può aspettare. Con due partiti sotto lo stesso tetto, Rifondazione 1 e Rifondazione 2, il suo ruolo torna centrale. Preoccupato com´è anche per la piega che le cose possono prendere sul fronte istituzionale. La porta sbattuta in faccia al Pd e la verifica annunciata nelle giunte locali di centrosinistra. «Voglio proprio vedere però come faranno a tenere insieme i trotzkisti che vogliono mandare all´aria le amministrazioni e l´ala Grassi che non mi pare proprio abbia di questi propositi». E il capitolo, cruciale, delle liste per le europee. La linea Ferrero prevede simbolo del partito e apertura a Diliberto, per l´unità dei comunisti. Giusto il progetto che Fausto ha sempre avversato. E su questo il filo fragilissimo rischia di rompersi: sotto quel vecchio marchio i bertinottiani non hanno alcuna intenzione di prendere posto, e potrebbero scendere in campo con una propria lista. Si vedrà. Per ora, il delegato di Cosenza se ne torna a casa con quell´ultimo fotogramma, «che spettacolo penoso», di un congresso che non avrebbe mai immaginato così: l´appello nominale sui documenti, la sfilata sul palco delegato per delegato per controllare la fedeltà. «Compagni ecco il mio voto, anche se avrei potuto esprimerlo restando seduto. «.
Repubblica 28.7.08
Il capogruppo democratico
Soro: così la distanza con noi cresce ha vinto chi rinuncia a governare
ROMA - «Vince la sinistra a vocazione minoritaria. Che rinuncia a governare le sfide del nostro tempo e si limita a coltivare una nicchia autoreferenziale». Il capogruppo del Pd alla Camera, Antonello Soro, non usa mezzi termini per spiegare che avrebbe preferito la vittoria di Nichi Vendola piuttosto che quella di Paolo Ferrero.
Perché?
«Sembra che la mozione di Ferrero si ponga come primo obiettivo la lotta al riformismo. Si amplia la distanza tra noi e il Prc».
Per il Partito democratico può essere anche un elemento di chiarezza rispetto alle scelte future.
«Questa è sicuramente la prova del nove. È la prova che quello che abbiamo fatto era indispensabile, che non era possibile mantenere in vita il centrosinistra nella forma originaria. Ed è la prova che se alle elezioni hanno preso il 3% non è per colpa nostra ma per la loro difficoltà a parlare a larga parte del Paese».
Quindi per voi sarà più facile scegliere l´alleanza con l´Udc?
«Con Casini dialoghiamo perché stiamo entrambi all´opposizione. Il tempo delle alleanze verrà più avanti. E le decideremo sulla base dei programmi. Per ora constatiamo che Ferrero coltiva la vocazione minoritaria».
Corriere della Sera 28.7.08
Oltre la guerra fredda Dopo la lettera di D'Alema, Fini, La Malfa, Parisi e Calogero sulla possibilità di eliminare le armi di distruzione di massa
La pace impossibile e l'equilibrio atomico del non terrore
Perché Usa e Russia si oppongono al disarmo ma possono frenare la proliferazione nucleare
di Emanuele Severino
Senza illusioni
Chi oggi è invincibile non rinuncerà mai allo strumento principale del proprio potere Un manifesto americano per la difesa civile del 1951, al culmine della guerra fredda. Il testo dice: «Può accadere qui. Arruolati nella difesa civile».
Il Corriere ha pubblicato in questi giorni una lettera — firmata dagli onorevoli Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Giorgio La Malfa, Arturo Parisi e dal premio Nobel Francesco Calogero — che ripresenta qui in Italia una proposta da qualche tempo avanzata in Usa, Russia, Inghilterra, Francia, Australia e promossa da esponenti di primo piano del mondo politico (quali, oltre ai due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, George Shultz, Henry Kissinger, William Perry, già ministri dei presidenti Reagan, Nixon e Clinton). Si tratta della proposta di impegnarsi «per un mondo senza armi nucleari», basata sulla convinzione che se i Paesi che ne dispongono «e soprattutto i due principali, Stati Uniti e Russia, non prendono l'iniziativa di avviare un processo tendente alla loro eliminazione, diventerà sempre più difficile impedirne l'acquisizione da parte di altri Paesi, con il rischio che prima o poi queste armi vengano usate con esiti catastrofici per il mondo». È importante che all'estero e in Italia abbiano a concordare, su questo tema, personalità di primo piano appartenenti a opposti schieramenti politici. I grandi problemi spingono ai margini le contrapposizioni di basso profilo. Ma esiste qualche possibilità che la proposta di eliminare le armi nucleari abbia a realizzarsi?
I firmatari della lettera riconoscono che «le superpotenze nucleari, Stati Uniti e Russia, detengono tuttora — nonostante le recenti riduzioni — oltre i nove decimi di tutte le armi nucleari del mondo». Il che significa, osservo, che se Usa e Russia possono distruggersi, hanno però distanziato a tal punto tutti gli altri Paesi del pianeta da essere diventati ormai, e per un tempo incalcolabile, invincibili. Tale invincibilità non esclude che altre loro torri possano essere distrutte e i loro eserciti subire sconfitte, ma significa che se ognuno di essi dovesse trovarsi con l'acqua alla gola ad opera di un nemico che non fosse l'altro dei due, ognuno avrebbe la capacità di distruggerlo; e potrebbe farlo solo mobilitando il proprio apparato nucleare. (Da tempo si sa, peraltro, che nessuna delle due superpotenze metterebbe l'altra con l'acqua alla gola perché la reazione e controreazione farebbero affogare entrambe). Oltre un certo limite, anche la crisi economica — oggi va detto soprattutto degli Usa — è acqua alla gola. In una intervista del 1975 al Business Week Kissinger dichiarava che «una cosa è usare la forza in caso di semplice litigio sui prezzi del petrolio, un'altra usarla se esistesse il pericolo di una specie di strangolamento economico del mondo industriale ». Ma che efficacia può avere una forza sprovvista di armi nucleari? Che deterrenza può avere la minaccia di usarla?
Invincibili, dunque, Usa e Russia; e in forza del loro potenziale nucleare. Ma chi è diventato invincibile può rinunciare ad esserlo? Soprattutto se ha attorno a sé Paesi che tentano in ogni modo di ridurre le distanze che è riuscito a porre tra sé e tutti gli altri? Lo scopo di un Paese invincibile è di perpetuare indefinitamente le condizioni della propria invincibilità. Chiedere a Usa e Russia di distruggere il proprio potenziale nucleare equivale a chieder loro il suicidio. E anzi un doppio suicidio: quello con cui si priverebbero della loro forza invincibile; e quello che li esporrebbe alla forza di chi, dopo aver firmato tutti i trattati in favore di un mondo senza armi nucleari, si dotasse poi lui di tali armi, che gli consentirebbero di diventare lui la superpotenza capace di imporsi su Stati Uniti e Russia, e di colpirli a morte. Su che cosa è basata la convinzione di poter acquisire la forza gigantesca capace di persuadere chi è invincibile a perdere la propria invincibilità? E su che cosa è basata la convinzione che, qualora si trovasse questa inverosimile forza, e Usa e Russia rinunciassero alla propria potenza e sicurezza, non ci possa essere chi, approfittando della loro debolezza, abbia a dotarsi di un apparato nucleare, diventando lui il padrone del mondo? E ancora: è verosimile che tutto questo non sia saputo dalle élites politiche (anche italiane)?
Secondo gli estensori di quella lettera, l'urgenza che il club atomico, Usa e Russia in testa, prenda l'iniziativa di togliere dal mondo le armi nucleari, è dovuta al fatto che sarà sempre più difficile impedire la loro acquisizione da parte di altri Paesi e quindi crescerà il rischio che prima o poi esse vengano usate e devastino il mondo. Ora, è indubbio che la difficoltà di impedire la proliferazione nucleare è crescente. Ma il rimedio non può essere l'irrealizzabile decisione, da parte degli Usa e della Russia, di rinunciare a se stessi. Né è verosimile che chi detiene i nove decimi di tutte le armi nucleari esistenti al mondo lasci che questa disparità si riduca fino al pareggio che, daccapo, distruggerebbe la sua invincibilità.
Il rimedio è un altro. Non velleitario, perché è già in atto il processo da cui è realizzato (e di cui ho già scritto su queste colonne). È impossibile impedire la proliferazione nucleare; ma è possibile controllarla perché, nonostante tutto, Usa e Russia restano, proprio per la loro potenza nucleare, i due punti di riferimento dell'intero pianeta. La proliferazione nucleare tende cioè a prodursi, più o meno direttamente, all'interno delle loro rispettive «sfere di influenza». Una vecchia espressione, questa, ma da quando l'Urss è scomparsa, ho continuato a sostenere che non per questo il bipolarismo era un capitolo chiuso. La guerra fredda ha reso irrealizzabile lo scontro tra Usa e Urss e ha assicurato la pace in un mondo, allora privo di potenza atomica, gravitante attorno a questi due poli. Ma la guerra fredda è continuata e ora sta assumendo una forma nuova dove, se la contrapposizione ideologica delle due superpotenze non è più così marcata, esse stanno tuttavia diventando i leader di due contrapposti schieramenti nucleari (Russia, Cina, Iran da una parte; Usa, India, Inghilterra, Francia dall'altra) che sono interessati a non far prender piede a quella forma ancora diversa di proliferazione nucleare che intenda svilupparsi al di fuori della loro logica e dunque del controllo da essi esercitato. La pace assicurata dalla forma tradizionale della guerra fredda tende a perpetuarsi nella sua forma nuova e più complessa. E, con la pace, anche quello sviluppo economico il cui indebolimento coincide con gli anni in cui si è creduto che il conflitto planetario fosse ormai spento e che il destino del mondo, dopo la fine dell'Urss, fosse di esser guidato dall'unica superpotenza rimasta. Il conflitto vivo ma freddo favorisce la ripresa economica.
Infine, se le élites politiche mondiali vogliono un mondo senza armi nucleari, è però inverosimile che non sappiano che chi è diventato invincibile non rinuncerà mai a questa sua prerogativa. Propongono cioè qualcosa di cui conoscono l'irrealizzabilità. E fanno bene: fanno il bene di chi è invincibile e dei suoi alleati. Infatti è indispensabile che chi è potente tenti di far credere ai non potenti di voler rinunciare alla propria potenza. Se ci riesce, alleggerisce la loro pressione.
l'Unità 28.7.08
La Cina punta all’oro. Anche per la scienza
di Pietro Greco
IL VILLAGGIO olimpico, finiti i giochi, diventerà un museo scientifico interattivo. Il paese del Dragone pensa di diventare un leader dello sviluppo fondato sull’innovazione, come documenta uno speciale su Nature
Ieri, domenica 27 luglio, è stato ufficialmente aperto a Pechino il Villaggio Olimpico, dove alloggeranno in migliaia gli atleti che parteciperanno, a partire dall’8 agosto, ai Giochi della XXIX Olimpiade (dell’età moderna). Quando, dopo 15 giorni, le gare termineranno e gli atleti lasceranno i loro alloggi, al Villaggio Olimpico inizieranno i lavori per aprire un museo della scienza. Un museo di nuova generazione, interattivo, per un investimento equivalente a 200 milioni di euro.
Non sarà l’unico, in Cina. Il paese del Dragone, infatti, ha in atto un programma, che sarà completato entro il 2010, per la costruzione di un museo scientifico in ciascun capoluogo dei suoi 34 distretti, che si aggiungeranno ai 40 già esistenti nel paese. 14 musei sono già in costruzione. L’obiettivo è dare un forte impulso alla diffusione della cultura scientifica nel paese.
Già, perché il paese che crede di poter conquistare la prima posizione nel medagliere delle Olimpiadi che si accinge a ospitare, crede anche in uno sviluppo fondato sulla scienza e l’innovazione tecnologica capace di fare della Cina uno dei leader della società (e dell’economia) della conoscenza, come ha ben documentato con uno speciale la rivista inglese Nature da giovedì in edicola. E il piano di creazione di una rete diffusa di musei non è che un piccolo indicatore di questa fiducia.
Ce ne sono altri e di diversa natura. Da due decenni, senza soluzione di continuità e, anzi, con una progressiva accelerazione, la Cina accresce gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) a un ritmo - mai sperimentato da alcun paese in epoca moderna - del 20% annuo. Ciò le ha consentito performances relative (gli investimenti in R&S sono passati dallo 0,4% all’1,6% del Pil, poco meno degli investimenti medi nell’Unione Europea che sono pari all’1,8% del Pil) e performance assolute (nel 2007 la Cina ha investito 175 miliardi di dollari equivalenti in R&S, superando largamente il Giappone e assestandosi al secondo posto assoluto nel mondo, dopo gli Stati Uniti). Ciò rende ancora più credibili i progetti di Pechino: raggiungere un livello di investimenti in R&S pari al 2,5% del Pil entro il 2020. Raggiungendo il livello relativo delle massime potenze scientifiche del pianeta. Se ciò avverrà, nel 2020 la Cina supererà gli Usa e diventerà il massimo investitore assoluto al mondo in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico.
Ma la scienza non è solo capitale economico. È anche e soprattutto capitale umano. Ebbene anche da questo punto di vista le performances cinesi hanno pochi precedenti. Il paese vanta già 1,5 milioni di ricercatori (a mero titolo di paragone, l’Italia ne ha 60.000). Ma soprattutto è pronta a incrementare sensibilmente questa cifra. Con 672.000 iscritti a facoltà di scienza o di ingegneria (erano solo 150.000 nel 1995), la Cina già oggi vanta il più alto numero al mondo di studenti in materie scientifiche, avendo superato sia gli Usa che il Giappone. Ogni anno, inoltre, laurea oltre 12.000 nuovi PhD, il che colloca il paese al terzo posto al mondo, non lontano dai primi, gli Usa (dove acquisiscono il PhD circa 20.000 giovani). Bisogna tener conto, tuttavia, che mentre in Cina i nuovi PhD sono quasi tutti cinesi, negli Usa almeno 5.000 (uno su quattro) sono cinesi e uno su tre (quasi 7.000) sono indiani. Oggi il sistema scientifico americano si regge anche grazia a 142.000 PhD di origine straniera: 32.000 sono cinesi. E molti stanno tornando a casa.
Molti capitali investiti e molto capitale umano stanno producendo i loro frutti. Sia in termini scientifici che economici. In termini scientifici la produttività della scienza cinese è notevolmente aumentata. Gli scienziati del paese asiatico hanno firmato nel 2006 oltre 80.000 articoli scientifici su riviste internazionali accreditate. Sono ormai secondi al mondo per numero di articoli prodotti. Anche qui la performace è stata evidente: nel 1980 gli articoli firmati da uno scienziato cinese non superavano lo 0,2% del totale mondiale, nel 2006 erano diventati il 7,4%. Bisogna inoltre tener conto che in Cina esistono oltre 8.000 pubblicazioni scientifiche non recensite a livello mondiale e che, quindi, la produzione di articoli è ancora superiore. Certo la qualità degli articoli - anche di quelli che sono pubblicati sulle riviste internazionali - è ancora inferiore alla media mondiale, ma anche per numero di citazioni (un indicatore di qualità) la Cina è ormai quinta al mondo.
Certo non bisogna dimenticare i limiti della corsa scientifica della Cina. Che dedica più attenzione allo sviluppo tecnologico che non alla ricerca di base. Anche se, come documenta un recente rapporto del R&D Magazine stranamente ignorato da Nature, oggi gli investimenti sia dello Stato in ricerca accademica sia delle industrie autoctone cinesi stanno crescendo a un ritmo superiore alla media nazionale. Insomma il progetto del governo di Pechino di realizzare entro il prossimo decennio una marcata «innovazione indigena» fondata su una solida ricerca accademica è già in corso.
In ogni caso i risultati di questa politica, anche da un punto di vista economico, sono evidenti. La Cina, che da 20 anni registra una crescita del Pil intorno al 10% annuo, è diventato il primo partner commerciale dell’Europa e dell’Oceania, scalzando in entrambi i casi gli Stati Uniti, grazie all’exploit delle sue esportazioni hi-tech, passate dal 6% del totale nel 1992 al 30% nel 2006. Per ogni tre dollari di beni esportati, uno deriva dalla vendita di alta tecnologia.
La crescente capacità tecnologica ha un risvolto anche sulle importazioni della Cina. L’importazione di hi-tech aumenta, ma a ritmi sempre più blandi. Tanto che il governo cinese punta a ridurla dal 60% del totale odierno a non più del 30% entro il 2020.
Ma per molti il significato di questi numeri va bel oltre la dimensione economica. Come rileva un rapporto firmato dagli inglesi Charles Leadbeater and James Wilsdon per l’istituto Demos, l’asse scientifico del pianeta si sta spostando da ovest e est. Ciò non significherà, probabilmente, come scrivono l’americano Rogers Hollingsworth e due suoi collaboratori, la nascita di una nuova superpotenza - la Cina - destinata a prendere il posto degli Stati Uniti. Significa semplicemente che, nel futuro - un futuro che è già iniziato - vivremo - per la prima volta in epoca moderna - in un mondo scientificamente multipolare. Che avrà (che ha già) nell’Asia uno dei suoi centri principali. È probabile che in un mondo multipolare della conoscenza, le opportunità supereranno i rischi. In ogni caso dovremo imparare a vivere in questo mondo.
l'Unità 28.7.08
Quando la morte viene disumanizzata
di Roberto Brunelli
La morte torna a parlarci, in questa ennesima estate. E ci fa domande molto dure. Ci sono i corpicini delle ragazzine rom, affogate pochi minuti prima, sdraiate sulla spiaggia mentre tutt’intorno i bagnanti, nell’assoluta indifferenza, continuano a prendere il sole. Ci sono i corpi di alcuni giovani dilaniati dalle lamiere, di nuovo all’incrocio tra la Nomentana e Viale Regina Margherita (Roma caput mundi), e altri ragazzi che si precipitano a fissare quell’immagine coi loro videofonini, per captare qualche frammento di orrore. C’è quella sedia elettrica di un giostraio, con seduto sopra un manichino molto vivido, cui per il divertimento del pubblico pagante vengono scaricati addosso non so quanti Volt: era l’attrazione principale del luna park, finché non sono intervenute le autorità. A prima vista, queste tre schegge di cronaca sono molto diverse tra loro, quasi opposte. Il caso delle bambine affogate davanti ad una spiaggia vicino Napoli è il più inquietante. Il quotidiano britannico The Independent l’altro giorno titolava in prima pagina “La vergogna italiana”. Quella foto che è finita sui giornali di tutto il mondo (quei due piccoli corpi che sbucano da sotto un telo, un signore che gli passa distrattamente davanti mentre chiacchiera al cellulare, gli altri che non demordono dalla tintarella) ci parla di freddezza, distanza, disinteresse. Di una specie di straniamento, di fronte alla morte. Questa non è più qualcosa che è possibile elaborare solo con una serie di riti coltivati nei millenni? Non è più qualcosa che dovette impattare violentemente con l’ovvietà assolata di una giornata al mare tra ombrelloni e l’odore pungente delle creme abbronzanti?
Non sappiamo niente di quei bagnanti, a parte il fatto che se ne stanno lì come se nulla fosse: non sappiamo, per esempio, se sapessero che si trattava di bimbe rom. Si potrebbe anche pensare che l’indifferenza sia una sorta di schermo di fronte ad un fatto troppo grande, troppo incomprensibile, quasi imbarazzante: non sapendo che fare, si continua a prendere il sole. In ogni caso, però, la morte qui è rimasta distante, è rimasta un interrogativo che si è voluto tenere lontano, come se non ci riguardasse. Come se quelle ragazzine non fossero davvero morte, oppure come se non fossero davvero delle ragazzine, ossia degli esseri umani, ma qualcosa di estraneo a noi.Davvero ormai ci è estranea la morte? Spesso ci dicono che, nell’epoca della comunicazione di massa, è diventata “solo uno spettacolo”. È per questo che un gruppo di giovani, di fronte ad un incidente, ha avuto come primo pensiero quello di “immortalare la morte” fotografando feriti e registrando urla a rotta di collo? È per questo che è “divertente” una sedia elettrica che imita l’uccisione di un uomo nel modo più realistico possibile? Oppure questi tre episodi, apparentemente opposti (disinteresse e distanza nel primo, attrazione morbosa negli altri due) in fondo ci dicono la stessa cosa? Non danno, forse, il segno di quanto sia mutato il cosiddetto “senso comune” degli italiani? E non è parente, questo atteggiamento, della disinvoltura con cui molti i mass media e molta politica, in nome di una accezione astratta di ciò che è vita e morte, vampirizzano la vicenda di Eluana come se il dolore della famiglia fosse solo un titolo d’agenzia e non una profonda e intima ferita? La morte che diventa un’astrazione e in quanto tale distante, “l’immorale” che diventa ovvio, l’accettazione fredda di quello che un tempo veniva considerato orrore. E ancora. L’altro da sé che viene “deumanizzato” (come nel caso delle bimbe rom di Napoli), la sofferenza del prossimo che diventa accettabile solo attraverso una simulazione della realtà per come viene riprodotta dai media (vedi il caso dei ragazzini e dei loro videofonini nell’incidente della Nomentana): è il sintomo della fragilità di un paese quando via via sembrano smottare quelli che fino a un minuto prima parevano essere i capisaldi su cui si fondano le regole di condivisione di una società definita civile. Ma non è una cosa nuova. Ogni tanto i segnali di uno scivolamento dalla cosiddetta normalità di una vita regolata e borghese verso il vuoto si moltiplicano. L’importante è solo non accorgersene troppo tardi.
il Riformista 28.7.08
Prc Ribaltone al congresso di Chianciano
Perde Vendola: «È la fine di Rifondazione»
di Alessandro De Angelis
Ferrero chiude l'era di Bertinotti e il partito si allontana sempre più dal Pd
Parla di «plebeismo culturale», di un partito in mano a «un guazzabuglio di culture minoritarie». Ci va giù duro Vendola, che - entrato papa in conclave - ieri ha visto la sua fumata nera, anzi nerissima. Fallite tutte le mediazioni, il comitato politico nazionale del Prc ha infatti eletto a maggioranza Paolo Ferrero segretario del partito (142 favorevoli, 134 contrari).
Il ribaltone, al congresso di Rifondazione terminato ieri a Chianciano, è avvenuto nella notte di sabato quando l'ex ministro ha messo insieme l' union sacrée degli anti-bertinottiani, alleandosi con i rappresentanti della mozione tre Pegolo-Giannini (titolo: «Per rilanciare il conflitto sociale») e della mozione quattro di Bellotti (titolo «Per la falce e il martello»). Parole d'ordine: attacco al Pd e svolta comunista. Per Vendola si è materializzato il dramma politico. E a quel punto, non avendo più i numeri, il governatore della Puglia ha ritirato la sua candidatura, annunciando che darà vita a una corrente: «Compagni della mozione due ci vediamo nell'area politico-culturale "Rifondazione per la sinistra"». È la sconfitta più dura per i bertinottiani («Considero questo congresso come la fine di Rifondazione» ha tuonato Vendola), che per la prima volta nella loro storia sono minoranza nel partito. Fausto - riferiscono i suoi - si è detto «deluso», «sconcertato» per il livello culturale espresso dal congresso: «Plebeismo» è la parola che anche l'ex presidente della Camera ha usato più volte. È come se il suo lavoro di questi anni non fosse servito a nulla. Ora, dalla sua rivista e dal centro studi che a ottobre terrà a battesimo, darà sponda alla battaglia interna di Nichi. Anche perché i suoi non entreranno nei gruppi dirigenti: «Nessuna compromissione» ha affermato Vendola.
Lo schiaffo è arrivato quando l'ex capogruppo al Senato Russo Spena, nella tarda mattinata di ieri, ha letto il documento che sarà alla base della "nuova stagione" di Rifondazione. Ogni capitolo, dicono gli uomini di Bertinotti, porta indietro l'orologio della storia. Il primo, ad esempio: «Superare la collaborazione organica col Pd»; o il secondo: «Svolta a sinistra del Prc». Per non parlare di quello dal titolo: «Collaborazione con i movimenti comunisti e rivoluzionari». È davvero troppo per chi ha fatto una battaglia per portare il partito al dialogo con D'Alema, in nome di un «nuovo centrosinistra» e ora si ritrova come interlocutore Diliberto. Alfonso Gianni, fedelissimo di Bertinotti, è di umore plumbeo: «Si retrocede su tutta la linea - spiega -. Ferrero e i suoi si sono rinchiusi nel fortino del Prc e parlano di una non ben definita forza comunista e anticapitalista. E invece bisognerebbe dire come si ricostruisce la sinistra». L'ex ministro ha concesso, e non poco, alle minoranze interne, decisive per cucire la maggioranza che lo ha portato alla guida del partito. All'Area dell'Ernesto di Fosco Giannini (7,7 per cento) che esulta: «Siamo noi i veri vincitori del congresso. Ferrero ha fatto sua la nostra linea di unità dei comunisti». Lui (guai a chiamarlo trotzkista, visto che si definisce orgogliosamente «leninista») in questi mesi ha alzato le barricate rispetto all'idea di andare oltre Rifondazione, promuovendo pure una contestazione di Giordano&Co davanti a via del Policlinico: «Altro che costituente di sinistra. Dobbiamo dar vita alla costituente comunista col Pdci e con tutte le forze anticapitaliste» dice Giannini. E il Pd? «Assolutamente nessuna alleanza». Ferrero ha concesso molto anche all'altra minoranza di Bellotti (3,2 per cento) che, invece, si definisce orgogliosamente «trotzkista»: una "verifica" col Pd negli enti locali. Spiega Bellotti: «È passato il nostro criterio. In molte amministrazioni il Pd esprime politiche che noi contrastiamo da sempre. Ogni accordo futuro andrà verificato. È finita ogni forma di subalternità a un partito che è stato considerato la brutta copia dei Ds, che a loro volta venivano considerati la brutta copia del Pci. Il Pd è invece fuori dalla sinistra».
La scissione non ci sarà, almeno per ora: «Noi abbiamo fatto la storia di questo partito, non ce ne andiamo» afferma l'ex capogruppo alla Camera Migliore. Ma il "piano b" non è ancora chiaro: «Ci riprendiamo il partito dopo le europee. Tanto Ferrero non lo vota nessuno» dice un bertinottiano di rango. Ammesso che ci sarà ancora un qualcosa da riprendere.
il Riformista 28.7.08
Allarmi Se il governo di destra le ruba anche l'anima
Lo scippo, destino terminale della sinistra
di Antonio Polito
C ol caldo che fa, non si vorrebbe sprecare energie in cerca della sinistra. I suoi apparati politici si sono liquefatti, e stanno defluendo down the drain, giù per il lavandino, come dicono gli inglesi. È il caso del congresso di Rifondazione, che si è svolto nelle riunioni di corrente a porte chiuse proprio come un congresso democristiano di altri tempi. E che si è concluso nel peggiore dei modi, quasi sfiorando una scelta extraparlamentare. Ma è anche il caso del gruppo dirigente del Pd, che quei voti lasciati liberi ora dovrebbe cercare, e che invece, quando non sfoglia la margherita (francese, spagnolo, tedesco… vocazione maggioritaria… non autosufficienza), scrive articoli di giornale. Ultimo in ordine di tempo quello di Veltroni al "Foglio", in cui si raggiungeva il massimo della contraddizione che nol consente: scoprire nel 2008 che Berlusconi è inaffidabile personalmente e politicamente, e riproporsi come partner di un dialogo parlamentare per cambiare regole del gioco che presuppongono la reciproca affidabilità delle parti.
Però la cosa curiosa è che mentre la sinistra politica muore, di sinistra nel paese ce ne deve essere tanta, se i governanti della destra la evocano a ogni piè sospinto, le ammiccano compiacenti, la sdoganano ogni volta che possono. E prima Tremonti con Robin Hood, e poi Berlusconi con il Welfare di Sacconi, e poi Brunetta che si autoproclama centrosinistra. Nella precedente legislatura berlusconiana, Giuliano Cazzola scrisse un articolo sul "Riformista" sostenendo che il governo di destra faceva politiche di sinistra senza dirlo. Ora lo dicono pure. Vuol dire che da quella parte i voti ci sono ancora, e comunque c'è un senso comune contro il quale non si può andare, senza rischiare di perdere la mente e il cuore del paese.
I titolari del marchio sociale della sinistra ne sono sconcertati, irritati, quasi offesi. Lo sentono come un furto. E non riescono a capacitarsi di come sia possibile che un governo così smaccatamente di destra possa vantare politiche di sinistra. Ripetono pari pari lo stesso errore di sempre, Occhetto, Fassino o Veltroni non cambia niente, perché tanto hanno fatto le stesse scuole e letto gli stessi libri, e dunque, messi alla prova, hanno sempre le stesse reazioni. L'errore sta nel non capire più che cos'è, nell'Italia di oggi, una politica di sinistra.
Faccio un esempio: i fannulloni nella pubblica amministrazione. La sinistra continua a pensare che minacciarli e colpirli sia una politica di destra. Invece è una politica classicamente di sinistra, perché punta a ristabilire la parità di diritti e di doveri, in definitiva l'uguaglianza. Sono bastati gli annunci di Brunetta perché gli statali si ammalassero il 18% per cento in meno in due mesi. Credete che nelle fabbriche, tra i giovani disoccupati, tra i nuovi poveri, la cosa sia stata presa male? Che sia scattata una forma di solidarietà di classe verso i compagni lavoratori statali che non possono neanche più godersi i loro tre giorni di malattia senza una visita fiscale? Pensate che sia un politica di destra? Lo pensa forse il Pd. Certamente lo pensò nella passata legislatura, quando un gruppo di parlamentari presentò il disegno di legge Ichino per un'authority che sorvegliasse sulla produttività degli statali, e li premiasse o li punisse di conseguenza. Non se ne fece nulla perché la Cgil non voleva, e bisognava salvare la tranquillità del ministro del tempo, Nicolais, che sarebbe stata turbata da uno sciopero.
Oppure prendiamo i precari. Ora la sinistra li cavalca di nuovo, per quell'emendamento un po' subdolo che vorrebbe togliere ai giudici del lavoro il potere di fare gli organici delle aziende. Ma la sinistra sui precari si è già bruciata. Perché - sorpresa delle sorprese - ci sono molti precari che preferirebbero restar precari piuttosto che diventare disoccupati. Durante il governo Prodi fu approvata una norma per la quale non si potevano prorogare contratti a termine oltre i 36 mesi, nella convinzione cartesiana che avrebbe portato alla loro assunzione definitiva. Sembrò una fantastica politica di sinistra. Alcuni riformisti avvertirono che non funzionava proprio così. E infatti qualche mese dopo, scaduti i 36 mesi per migliaia di precari che lavorano in Rai, l'azienda non li assunse tutti in pianta stabile, ma tentò di mandarli via per prendere altri e nuovi precari, con grande incazzatura dei vecchi precari per cui quella legge era stata fatta.
È qui, in questo spaesamento, il cuore nero della sinistra che non sa diventare riformista. Avesse messo in riga i fannulloni, dato più lavoro anche se a termine, combattuto il crimine che colpisce i più deboli, forse sarebbe ancora al governo e Rifondazione esisterebbe ancora. Oggi si trova davanti un governo che fa sì molti scappellamenti a destra (le maronate sugli immigrati, l'antimercatismo di Tremonti, lo statalismo bancocentrico sull'Alitalia) ma che realizzando quelle due o tre cose che avrebbe dovuto fare la sinistra le occupa lo spazio vitale, l'asfissia nell'opinione pubblica, e alla fine se la fagociterà se non arriverà per tempo un salvatore, qualcuno che ha capito come va il mondo di oggi semplicemente perché ci è nato.
il Riformista 28.7.08
Rifondazione conversazione con giorgio tonini sul dopo chianciano
«Con Ferrero più extraparlamentari»
di Alessandro De Angelis
«Con questa scelta, è difficile che Rifondazione possa tornare in Parlamento». Giorgio Tonini, fedelissimo di Veltroni, in una conversazione col Riformista commenta l'esito del congresso di Rifondazione e avverte chi aveva immaginato alleanze con la sinistra: «Oramai la strategia della vocazione maggioritaria è inevitabile».
Senatore Tonini, Ferrero è il nuovo segretario del Prc. Cosa cambia dal suo punto di vista?
«Innanzitutto auguri a Paolo. Ciò detto, premesso che Ferrero è una persona intellettualmente onesta e dalla adamantina moralità, sono preoccupato. La svolta a sinistra di Rifondazione rende più difficile il quadro dell'opposizione in questo paese».
Si spieghi meglio.
«Noi abbiamo sempre detto che alla base di una alleanza politica ci deve essere una convergenza programmatica. Questo criterio valeva per chiunque avesse vinto a Chianciano. Ma con Ferrero vedo difficile anche parlare di programmi».
Insomma, la sinistra radicale è irrecuperabile. Si è sbagliato D'Alema a sperare in Vendola?
«Ad oggi la sinistra radicale è irrecuperabile. E aggiungo: il congresso di Rifondazione ha reso ancora più evidente che si è chiuso un ciclo della politica italiana. Definitivamente e irreversibilmente. I riformisti devono imparare a vincere con le loro forze. E solo se dimostreranno questo coraggio potranno trovare anche nuovi compagni di strada. Su questo aveva visto giusto Veltroni un anno fa. Le coalizioni senza confini a sinistra non si possono più fare: serve un sistema politico nuovo».
E le alleanze?
«Guardi, il vecchio schema di alleanze reticenti non funziona più: non si può mettere insieme da Vendola a Cuffaro, come qualcuno ha pigramente teorizzato dopo il 13 aprile. La verità è che noi non abbiamo affatto sottovalutato la sconfitta. È vero il contrario. Il centrosinistra era già in crisi un anno fa. E non siamo stati noi ad aver minimizzato la catastrofe strategica dell'Unione. Alleanze che non si fondano su una chiara convergenza programmatica e, dirò di più, su una comune cultura politica, non possono che fallire alla prova del governo.».
Ferrero chiederà una "verifica" al Pd. È un alleato o un nemico?
«Diciamo che a livello locale bisogna avere un approccio pragmatico e verificare caso per caso. Ci sono esperienze amministrative che vanno a gonfie vele e hanno il consenso degli cittadini. Non si capisce perché bisognerebbe metterle in discussione»
Vale anche per le regionali?
«Su questo vedremo strada facendo».
Dopo Chianciano, che cambia?
«Dal congresso di Rifondazione emerge un'Italia più vicina all'Europa».
In che senso ?
«Non esiste un solo paese europeo nel quale in questa fase storico-politica c'è un'alleanza di governo o comunque strategica tra il centrosinistra riformista e la sinistra comunista. Basta guardare a esempi per altri versi agli antipodi tra loro come la Germania o la Spagna ».
Che cultura politica esprime il Prc?
«Si autodefinisce "comunista". Naturalmente non ha nulla a che fare con la tragica grandezza del Pci: a un congresso del Pci non si sarebbero mai sentiti i fischi verso un presidente della Camera o toni qualunquistici come quelli sentiti a Chianciano. Rifondazione rappresenta un comunismo immaginario tra utopia assoluta e forme di plebeismo ai limiti dell'antipolitica».
Vuole dire che con Ferrero Rifondazione diventa più extraparlamentare?
«Sì, sulla strada che hanno scelto credo che sia difficile tornare in Parlamento. E certamente impossibile tornare al governo».
Vi sentite un po' responsabili per averli messi fuori gioco?
«Per la verità si sono messi fuori gioco da soli. Più che responsabili dei problemi altrui noi, come Pd, dovremmo sentirci responsabilizzati: la strategia del partito a vocazione maggioritaria è sempre più attuale e inevitabile».
Cosa si sente di dire a Vendola?
«Caro Nichi, non può esserci una via intermedia tra massimalismo e riformismo».
(deangelis)
il Riformista 28.7.08
Per il giornale l'isola è la casa degli italiani
Se «Liberazione» confonde Luxuria con la Cuccarini
La classe operaia non è in Paradiso, ma l'onorevole travestito Vladimir Luxuria, epigono del transex Maurizia Paradiso, sì. Certo, se l' Isola dei Famosi , in Honduras, è il Paradiso. E per me, è solo una cloaca umana galleggiante in neurovisione. Ma non erano i berlusconiani i profeti della politica tutta nani e ballerine? Si è tanto ironizzato, a sinistra, sulla Carfagna, sulle tante ex soubrette diventate parlamentari. Si stigmatizza un fare politica che è tutto microfoni e boutade, push up e silicone. E poi ci si ritrovo con un Cavallo di Troia dentro le proprie mura. Povera Ilio, sei perduta. Da anni, dall'adamitico peccato originale di Irene Pivetti, c'è una totale osmosi tra Camere e telecamere. Ma questa volta, il percorso di involuzione, con un aggravante ipocrita travestitismo idealista, è eccessivo. Vladimiro Guadagno in arte Luxuria, ex star del Muccassassina e guest star del Parlamento, andrà all'Isola dei famosi , dice, per continuare l'esperienza del Parlamento. Dice che lì era come un reality, che osservavano come ti vestivi, come ti muovevi. D'altronde Luxuria è rimasta nelle cronache parlamentari per essere entrata nel bagno delle donne, sebbene virilmente accessoriata, scontrandosi con la Gardini, di Forza Italia. È vero che il Parlamento è sempre più simile a un reality. Ma perché ci sono stati personaggi come lei, cioè lui, Luxuria. Candidamente, Luxuria ha ammesso perché ha accettato di andare all'isola (meglio chiamarla dei fumosi), dopo settimane in cui sdegnosamente, virginalmente ipocrita, negava questa ipotesi. Non ha resistito al richiamo della Mona Ventura. Manco fosse Raffaella Carrà. Simona Ventura, la soubrette senza qualità, il medico che dovrebbe curare se stesso quando giudica un cantante a X factor , la pentita delle tette rifatte, l'unica conduttrice che dà le spalle alla telecamera e non sa fare nulla che giustifichi la sua presenza (Crederci sempre, arrendersi mai , titola la sua auto-biografia in cui racconta come giocasse sulla leggenda della sua love story con Galliani). Ma c'è sempre una motivazione più alta, dietro il piccolo io desiderante: Luxuria ha detto che andrà sull'Isola dei famosi per rivendicare i diritti degli indios. Visto che l'isola si trova in Honduras. Perfetto. Allora Briatore ha aperto il Billionaire per dare lavoro ai minatori sardi disoccupati, il Club med è una ong che lavora per migliorare le condizioni di vita sulle rive del Mediterraneo e via coglionando il mondo, Berlusconi è sceso in campo per salvare l'Italia dalla dittatura comunista, Massimo Moratti è stato messo alla guida dell'Inter per le sue doti di amministratore oculato e abile nei profitti.
Su Liberazione , che ha gigioneggiato con Luxuria, dandole spazio per le presunte ragioni della sua partecipazione all'isola, dove è arrivata a dire che il format del reality deriva della Tempesta di Shakespeare, è scoppiato il caso, con decine e decine di lettere dei lettori che, giustamente, più che indignarsi hanno un conato di vomito per la scelta di Guadagno - nomen omen - che mentre il partito si spacca, si dà alla macchia politica in primo piano televisivo. Scrive il Collettivo Italia Centro America che lì in Honduras le misure di sicurezza per L'Isola dei famosi impediscono agli indigeni di pescare. Altro che rivendicazione dei diritti degli indios. Paola Nardi da Vicenza, è più concreta ancora: «E chi se ne frega! Guadagnerà l'equivalente di 300 anni di lavoro di un operaio che votando Rifondazione magari ha fatto eleggere proprio lei». C'è chi dice che è il «punto massimo della tv spazzatura», ma forse è il punto massimo della politica spazzatura. Quella che si rinfaccia a Berlusconi ma il Cavaliere ha solo avuto la faccia tosta di sdoganare per primo. Alla fine, Luxuria si è dimostrato un politico fast-food, roba da Drive in. Ma è pure brutta e ipocrita. Solo l'esibizionismo e il più insignificante cinismo possono portare una persona che si è spacciata per politica, per impegnata, a rifugiarsi in un luogo non luogo, pieno di mucillagine umana, e volendo persino rivendicare un più alto destino per la sua avventura: riscattare un popolo oppresso. Sono gli italiani gli indios che gente come la Guadagno sfrutta ieri come oggi come domani. In un locale equivoco, in un Parlamento dove non si sa neanche in che bagno andare, su di un'isola finta di gente finta e forse, nel senso latino, pure molto fessa. Certo che se uno mette in fila gente come Guadagno e Caruso, capisce perché Bertinotti ha fatto questa fine. Eppure ieri, su Liberazione , provando a moderare il dibattito - moderati anche loro? - Angela Azzaro sostiene che, forse, il «conflitto, quel conflitto tanto evocato, cercato, amato» può passare «anche attraverso la possibilità di entrare nelle case degli italiani e delle italiane». Sì, Scavolini. La casa degli italiani. Luxuria, cuccata da Bertinotti, come la Cuccarini. Ma la domanda è: quanto guadagna il Guadagno?
domenica 27 luglio 2008
l’Unità 27.7.08
Bertinotti fa l’ultimo appello. Invano
A vuoto l’appello di Bertinotti. Prc, sfida all’ultimo delegato
di Simone Collini
Applausi e lacrime per l’ex segretario
«Il processo costituente non può essere un assemblaggio...»
Fallisce il tentativo di ricomposizione. Metà platea canta Bandiera rossa, l’altra metà tace
Tutti uniti nella standing ovation a Fausto Bertinotti, ma per il resto Rifondazione comunista è drammaticamente spaccata a metà. Oggi si va alla conta per la scelta del segretario: si decide per pochi voti e potrebbero essere determinanti le alleanze che Paolo Ferrero sta realizzando con le altre minoranze del partito. Nel suo intervento l’ex ministro ha invitato i delegati ad una scelta chiara e netta: o la sua linea, o quella dell’avversario Vendola, che ha ottenuto la maggioranza (ma solo relativa) dei delegati.
Applauditissimo, Fausto Bertinotti lancia l’appello a «ricominciare dal basso». Parole dure verso il Pd («non ha i fondamenti per l’opposizione») e ancor più per Di Pietro: «La sua è una cultura di destra». E conclude: «L’opposizione non può che essere costruita da sinistra».
BERTINOTTI che unisce, ma solo nella commozione e gli applausi. Ferrero che divide anche su Bandiera Rossa e Bella Ciao. Oggi si chiude il congresso di Rifondazione comunista e ancora è tutt’altro che chiaro qual è la linea politica che il partito porterà avanti nei prossimi mesi e chi sarà il segretario. Bertinotti, intervenendo da «semplice delegato», tenta di ricompattare le diverse anime offrendo come terreno di mediazione un’autocritica sulla Sinistra arcobaleno e l’accantonamento per il futuro di processi analoghi: «Sono state sconfitte tutte le ipotesi di unità a sinistra, quella del superamento di Rifondazione come quella della federazione», dice dal palco, «chi pensa a un processo costituente deve dire chiaramente che tutt’altro è il cammino rispetto a quelli che abbiamo conosciuto, altri i protagonisti, diversa la meta, anche nell’organizzazione delle forme della politica. Questo processo costituente non può sembrare un assemblaggio di forze». Una mano tesa ai sostenitori della mozione Ferrero-Grassi e alle altre tre mozioni contrarie alla costituente di sinistra proposta dalla mozione Vendola. E infatti tutta la platea applaude questi passaggi, come quelli sulle ragioni di proclamare oggi uno sciopero generale, sulla necessità di «ripartire dal basso» e di «ricostruire un nuovo movimento operaio», sull’inensistenza di un’opposizione di sinistra perché «il Pd non ha i fondamenti per essere partito di opposizione» e perché «Di Pietro e in generale le culture populiste non sono di sinistra ma di destra». E poco importa se l’ex presidente della Camera lancia anche dei moniti a chi sostiene (mozione Ferrero-Grassi) la linea del rilancio del Prc come forza autonoma facendo notare che la ritrovata forza dei partiti di sinistra sudamericani come il Pt di Lula è dovuta alla continua ricerca dell’«innovazione», al fatto che «non sono ossessivamente tornati sui loro passi» e che «la forza dell’antagonismo non può durare se rimane minoritaria» e deve invece aspirare ad avere una «vocazione maggioritaria».
Quando finisce di parlare, tutti i delegati sono in piedi ad applaudire. Scende dal palco, si abbraccia con Vendola, con Giordano, con tutti gli altri che gli vanno incontro, poi torna su perché l’applauso non si smorza e lui vuole ringraziare: «Per tutto quello che mi avete dato in questi anni». Poi è di nuovo in mezzo alla calca, giù in platea, mentre in molti si asciugano le lacrime. A un certo punto sale anche su una sedia per salutare col braccio e l’applauso si fa ancora più forte. Per dieci lunghi minuti così, con le divisioni che scompaiono e le lacerazioni delle ultime settimane che sembrano consegnate al passato. Il dibattito va avanti, ma tutta l’attenzione a questo punto è sulla Commissione politica. Le parole di Bertinotti sono un punto da cui ripartire, si dice, l’organismo può trovare un accordo su un documento politico unitario che preveda la presentazione alle europee con il simbolo del Prc, l’accantonamento della costituente di sinistra e il rilancio del partito.
Passano le ore e l’accordo non si trova. Poi interviene Ferrero e si fa chiaro che l’unità è solo quella delle emozioni, della riconoscenza per chi ha fatto molto in passato per il partito ma oggi non è riuscito né a compattare politicamente né a spostare consensi sulla candidatura a segretario di Vendola. L’ex ministro difende la scelta di aver partecipato alla manifestazione di piazza Navona, invoca una «svolta a sinistra» e la necessità di «ricostruire un limpido conflitto di classe», dice che «non c’è possibilità di fare alleanze col Pd, rispetto al quale dobbiamo essere concorrenziali» e critica la linea decisa al congresso di Venezia: «Abbiamo sbagliato analisi dei rapporti di forza, abbiamo pensato che dal governo potessimo cambiare quelle cose che non siamo riusciti a fare nella società». Bertinotti si agita sulla sedia, ricordando con Salvatore Bonadonna che gli sta accanto che l’ex ministro questa linea a Venezia l’ha appoggiata. Ma è quando Ferrero finisce di parlare che l’ex leader della Camera si fa ancora più scuro in volto, e poi si porta anche una mano alla fronte, coprendosi gli occhi. Lo fa quando metà della platea, mentre Ferrero scende dal palco, inizia a intonare Bandiera Rossa. L’altra metà è zitta e immobile. Di là tutti in piedi, pugni chiusi tenuti bene in alto. Di qua silenzio. Sul palco Gennaro Migliore, in attesa di poter prendere la parola. Di là attaccano con Bella Ciao. Di qua facce sempre più scure. La spaccatura c’è tutta. La Commissione politica riprende i lavori dopo l’intervento di Claudio Grassi, che lancia un appello a «Nichi» e «Paolo»: «Parlatevi. Divisa in due Rifondazione non esisterà più». Ma i margini di manovra sono ormai ridotti al minimo. Tutto si gioca nel Comitato politico nazionale che si riunisce questo pomeriggio. E che decide con votazione segreta chi dovrà guidare il partito. I tentativi di trovare l’accordo su un documento politico unitario tra la mozione Vendola e quella Ferrero-Grassi, che hanno preso rispettivamente il 47 e il 40 per cento dei consensi, vanno a vuoto fino a sera. A meno che il miracolo non sia riuscito nella notte, oggi si andrà alla conta. Che sarà all’ultimo voto. A Vendola mancano una decina di voti per farcela. La sua è l’unica candidatura. Ferrero, lasciando il Palamontepaschi, dice con un sorriso: "Per ora sì".
l’Unità 27.7.08
Il governatore ha 113 voti. L’ex ministro 123
Il Parlamentino del Prc che oggi deciderà il vincitore del congresso e il futuro del partito, in base all’intesa raggiunta nella commissione politica, è composto da 240 membri, così suddivisi tra le varie mozioni in base ai voti dei congressi dei circoli: la mozione 1 (Ferrero) ha 97 delegati, la mozione 2 (Vendola) ha 113 delegati, la mozione 3 (Pegolo-Giannini) ne ha 18, la mozione 4 (Bellotti) con 8 delegati, la mozione 5 (De Cesaris) ha 4 delegati. Visto che la mozione 5 si è schierata per l’astensione, il numero dei votanti è di 233 e quindi per raggiungere la maggioranza bisogna superare quota 118.
l’Unità 27.7.08
Le trattative. «Abbiamo vinto, accordiamoci con Nichi»
Ma Ferrero: «Ho i numeri, vado alla conta»
di Andrea Carugati
Grassi fino all’ultimo cerca di evitare lo strappo
I «vendoliani»: così il partito non c’è più
La svolta arriva nella notte tra venerdì e sabato, in una stanza dell'Hotel Ambasciatori di Chianciano. Si riuniscono tutti i capi della mozione uno, quella di Paolo Ferrero, e il tentativo di Claudio Grassi il mediatore di convincere l'ex ministro a trovare una sintesi con Nichi Vendola si scontra contro un muro. «Paolo, se vai allo scontro il Prc si sfascia, e poi come farai a governare il partito con i trotzkisti?», dice Grassi. «In fondo l'ipotesi di superare Rifondazione e di dar vita a un nuovo partito è stata accantonata, abbiamo vinto, troviamo un accordo con Nichi».
L'ex ministro non si muove di un millimetro: «Io vado alla conta, abbiamo i numeri». Seguono interventi di uomini vicini a Grassi, tra cui Burgio, che sostengono la linea di Ferrero. E il mediatore si arrende: «Se ti candidi io ti seguo, non spacco la mozione». Ferrero dunque vince tra i suoi, all'una di notte incontra i giornalisti sulla terrazza dell'Ambasciatori ed è soddisfatto. Nel frattempo è andato avanti anche il lavoro diplomatico con i capi delle mozioni minori, il gruppo dell'Ernesto (mozione 3) e i trotzkisti di Falce e martello (mozione 4) , che saranno decisivi per l'eventuale incoronazione di Ferrero a leader. Fosco Giannini, ex senatore ribelle e tra i leader della terza mozione, si fa vedere sulla terrazza, parla stretto con Ferrero, si capisce che è disponibile a un'intesa. Purchè nel Documento politico finale si faccia almeno cenno a uno dei cavalli di battaglia del suo gruppo, e cioè l'unità di tutti i comunisti, a partire dal Pdci. Non è necessario che si facciano liste comuni già alle europee («Non siamo così rozzi», dice Giannini «ma dovranno essere liste comuniste a anticapitaliste») ma insomma che si vada in quella direzione. I trotzkisti fanno sapere che se si tratta di «spostare il Prc a sinistra noi ci siamo». Insomma, sommando il 40,3% di Ferrero e Grassi, il 7,7% di Giannini e il 3,2% di Falce e martello si arriva a superare il 50%, mentre Vendola resterebbe inchiodato al suo 47,3%. Tradotto nei numeri del comitato politico nazionale, che sarà eletto oggi e dovrà esprimere il segretario significa questo: 240 membri, 113 voti per Vendola, 123 per Ferrero e 4 astenuti della mozione 5. Sempre che il totale non cambi, visto che gli uomini di Ferrero stanno spingendo per alzare il numero dei componenti e rendere più difficile la strada per eventuali franchi tiratori nella nuova maggioranza.
Tutti uniti contro Nichi, contro l'idea della costituente di sinistra e contro il Pd, dunque. Ma con che futuro? Ferrero è consapevole che sarà difficile guidare il partito con una maggioranza così risicata e composita. E così propone una gestione unitaria ai vendoliani, ma sulla sua linea, che viene respinta al mittente: «Se vai alla conta e vinci poi il partito te lo governi da solo», dicono gli uomini del governatore pugliese. E aggiungono: «Se vince Ferrero Rifondazione non esiste più, noi non faremo la scissione ma partiremo subito con la costituente di sinistra». Ferrero alza gli occhi al cielo: «Non credo che ci sarà la scissione, e comunque dove andrebbero con Mussi e Fava? Forse in vacanza… ».
Ferrero è un carro armato, ma anche nella sua probabile e composita maggioranza le acque non sono poi così tranquille: «Sarà una roba come l'Unione, solo che stavolta Prodi lo fa Ferrero e io farò il Ferrero», sorride Leonardo Masella, capogruppo Prc nel consiglio regionale dell'Emilia Romagna ed esponente della terza mozione. «Di certo noi in autunno partiremo con la costituente dei comunisti», annuncia. Insomma, le obiezioni di Grassi sulla tenuta del nuovo gruppo dirigente mostrano già qualche consistenza. Dagli uomini più vicini a Ferrero si spiega che la cosa importante è che il partito esca con una linea chiara, svolta e sinistra, rilancio del partito con il suo simbolo, no a un nuovocentrosinistra col Pd, poi il resto verrà piano piano. In fondo loro sono arrivati qui a Chianciano come gli sconfitti, e stanno ribaltando le sorti di un congresso già perso, almeno sulla carta.
Ferrero non parla mai della sua candidatura, dal palco non dice una parola, spiega che «prima viene la linea politica» ma è chiaro che oggi pomeriggio, quando si riunirà il comitato politico, dovrà uscire allo scoperto. Gli uomini di Vendola le stanno provando tutte per trovare la sintesi su un documento comune, anche rinunciando a un caposaldo della loro battaglia congressuale come il processo costitutente a sinistra. Ma su un punto non molleranno: il nome di Vendola come segretario. Per Ferrero è fumo negli occhi, dunque oggi, a meno di un miracolo, si andrà alla conta. I numeri ce li ha l'ex ministro, ma il voto è segreto. La suspence non è ancora finita.
Corriere della Sera 27.7.08
Rifondazione. A colpi di Bandiera rossa
Fausto e il deserto politico
di Paolo Franchi
Nelle ore in cui Berlusconi assicura che il suo governo fa cose di sinistra, e in un certo senso della sinistra fa le veci, Rifondazione è a congresso.
Anche i suoi più feroci critici tributano al «delegato di Cosenza» Fausto Bertinotti un'ovazione quando constata amaro che la sinistra non c'è più, e va ricostruita dalle fondamenta. Sarà una coincidenza, ma colpisce lo stesso. Se non altro perché testimonia che il concetto stesso di sinistra, prima ancora che il consenso elettorale e la forza organizzata della sinistra medesima, si è fatto così vago e impalpabile da conferire una qualche legittimità non solo, come è ovvio, all'affermazione di Bertinotti, ma pure, paradossalmente, a quella di Berlusconi. Che è propaganda, certo, ma non soltanto propaganda. C'è stato, in Italia, un tempo - il tempo della democrazia bloccata - in cui la Dc poteva proclamarsi, e con qualche ragione, «alternativa a se stessa», dal momento che il Pci, per la sua collocazione internazionale, non era in grado di candidarsi a sostituirla al governo, e si regolava di conseguenza. Dalla caduta del Muro, e dalla fine del Pci, sono passati quasi vent'anni, non c'è condizionamento internazionale che tenga, la nostra non è più una democrazia bloccata. Ma Berlusconi può proclamarsi ugualmente alternativa a se stesso. In ragione non del fattore K, ma di qualcosa di più profondo ancora: il deserto politico e culturale in cui vagano i suoi competitori. Moderati riformisti o radicali che siano.
Per restare alla sinistra. Se questa suona come una parola vuota, o come semplice riferimento all'autobiografia individuale e collettiva di una parte (certo non piccola, ma nemmeno maggioritaria) del Paese, nulla osta a che il presidente del Consiglio, senza incontrare particolari reazioni, possa presentare come misure «di sinistra » l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, la Robin tax o la social card per gli indigenti. Se a tenere insieme nel profondo il mondo della sinistra e del centrosinistra non ci sono un'idea di Paese, una visione, un'intuizione del mondo diverse e alternative rispetto a quelle della destra e del centrodestra, ma solo l'antiberlusconismo, non ci vuol molto a capire perché il richiamo della foresta del dipietrismo, che ovunque sarebbe considerato, per quello che è, un fenomeno di destra, condiziona così pesantemente non solo il Partito democratico, ma anche la sinistra cosiddetta radicale, che pure, tra le sue numerose e gravi responsabilità, non porta quella di aver prestato orecchio alle sirene del giustizialismo. E si potrebbe continuare a lungo.
E' evidente che la questione principale riguarda il Pd e la sua vocazione maggioritaria, proclamata ambiziosamente, sì, ma senza preoccuparsi troppo di stabilire su che cosa dovrebbe fondarsi e trovare riscontro nella maggioranza degli italiani, e rimasta a vagare nell'aria (Benedetto Croce avrebbe detto: come un caciocavallo appeso) dopo la sconfitta di aprile. Ma c'è anche, eccome, il problema di una sinistra- sinistra, che è ancora, nonostante tutto, qualcosa di più profondo e radicato di quanto dica il disastroso risultato elettorale.
Nel giorno della commossa cerimonia degli addii dalla politica attiva, Bertinotti la esorta a ripartire dal basso, a incamminarsi in una sorta di lunga marcia in tutti i luoghi possibili del conflitto per costruire, nel ventunesimo secolo, qualcosa di simile a quello che fu, nel ventesimo, il movimento operaio. E' come dire, per l'oggi, che la prima se non l'unica cosa da fare è dare un taglio netto alla logica dei partitini e degli stati maggiori che nemmeno si accorgono di non avere più delle truppe alle spalle. Un appello accorato e persino lodevole, al di là del massimalismo verbale di cui è intessuto. Peccato che la platea congressuale cui è rivolto, quella di Rifondazione comunista, sia (al pari di tutte le altre platee congressuali dell'ex Sinistra Arcobaleno) poco incline a raccoglierne la sostanza. Dovrebbe ragionare con umiltà e passione insieme sui perché di una sconfitta storica e su quale mai possa essere la porta stretta da attraversare per mettere mano alla costruzione, in Italia, di una sinistra larga e plurale. Preferisce invece esercitarsi nel gioco delle mozioni, dei regolamenti di conti interni e delle possibili o impossibili mediazioni, come se fosse avvenuto qualcosa di grave, sì, ma non di gravissimo e, forse, di irreparabile.
Si capisce l'amarezza del direttore di Liberazione,
Piero Sansonetti. Faccia o no cose di sinistra, Berlusconi può stare tranquillo. C'è grande disordine sotto il cielo. Ma la situazione non è affatto eccellente.
Corriere della Sera 27.7.08
Ovazione a Bertinotti Prc, si va alla conta su Vendola e Ferrero
L'ex leader: il Pd non è un partito di opposizione
Quindici minuti di applausi all'ex presidente della Camera, ma fallisce il tentativo di trovare una mediazione tra le mozioni
di Maria Teresa Meli
CHIANCIANO — E' l'ovazione più sentita, la più forte: per un quarto d'ora la platea del congresso di Rifondazione, in piedi, si spella le mani per Fausto Bertinotti. L'ex (?) leader del Prc cerca di dare ancora una volta la linea al partito e una mano a Nichi Vendola: «Non dobbiamo ritornare in un rifugio: una forza antagonista non deve essere minoritaria, ma deve avere una vocazione maggioritaria».
Il messaggio è rivolto a Paolo Ferrero e ai suoi. Ma siccome l'ex presidente della Camera vuole aiutare Vendola nella sua impresa ammette gli insuccessi: «L'ipotesi della sinistra unita è stata sconfitta». E attacca il Pd, che in questa sala è più odiato del Pdl di Silvio Berlusconi: «Non ha i fondamenti di un partito d'opposizione».
Bertinotti finisce di parlare e gli applausi che riceve illudono tanti: forse è possibile una soluzione unitaria. «Dovrebbe fare lui il segretario», sorride Giovanni Russo Spena, alleato di Ferrero. Ma la tregua non c'è: i convogli sono partiti e rischiano di scontrarsi. Lo si vede nel pomeriggio, quando interviene l'ex ministro Ferrero in nome della difesa del partito identitario.
Appena termina, una parte del congresso intona l'inno: «Bandiera rossa» e pugni chiusi accompagnano la sua uscita. E' la fotografia plastica della spaccatura di Rifondazione, quella platea divisa a metà. Ma è quando inizia a parlare l'ex capogruppo Gennaro Migliore che il clima si incattivisce. Chiede al partito «coraggio politico», e dal fondo della sala un gruppetto inveisce contro di lui. Rischia perciò di restare inascoltato l'appello di Claudio Grassi: «Se il partito si divide muore».
In serata la foto finale è quella di un partito di separati in casa. Ferrero che si candiderà oggi, nel comitato politico che elegge il segretario, è in vantaggio di una decina di voti su Vendola. Ma resta l'incognita dello scrutinio segreto. Tant'è vero che Ferrero ora vuole rompere l'accordo raggiunto sul numero di componenti del comitato politico: vuole allargarlo per aumentare il suo vantaggio.
Fausto Bertinotti, 68 anni, inizia la sua carriera nella CGIL, nel '64, come segretario dei tessili. Dal '67 segretario della Camera del lavoro di Novara diventa negli Anni 80 segretario piemontese
L'attività sindacale occupa Bertinotti fino al 1993, quando su invito di Cossutta entra nel Partito della Rifondazione Comunista
Al vertice del Prc dal '94 (sopra, con Cossutta), entra nel governo Prodi del '96, e dopo una serie di attriti, Bertinotti nega la fiducia alla Finanziaria del '98 e il governo cade. Cossutta e Diliberto fondano il partito dei Comunisti italiani
Dalle fabbriche piemontesi a Montecitorio: è con il secondo governo Prodi, nel 2006, che Fausto Bertinotti diventa presidente della Camera
Corriere della Sera 27.7.08
Dietro le quinte E Fausto avverte lo sfidante Nichi: vogliono farti passare per traditore
Bandiera rossa, cantano solo i fan dell'ex ministro
di Maria Teresa Meli
CHIANCIANO — L'eco di Bandiera Rossa si è spento da poco quando Fausto Bertinotti prende da parte Nichi Vendola. «Hai capito quello che stanno facendo? Ti vogliono far passare come un traditore del comunismo. Lo fanno per conquistare gli indecisi. Mandano questo messaggio: chi vota Nichi tradisce il comunismo ».
Già, è questa l'operazione che ha messo in moto Paolo Ferrero. L'ex presidente della Camera l'ha capito subito, appena ha assistito allo show dei pugni chiusi e dell'inno. «Se un pezzo di Rifondazione comunista canta «Bandiera rossa» contro l'altro pezzo, vuol dire che di fatto si sente un altro partito»: confida Bertinotti a un compagno che gli siede vicino in platea.
Il comunismo, la fedeltà al partito e al passato diventano le armi con cui combattere contro il «governatore » della Puglia. Per questa ragione l'ex capogruppo Gennaro Migliore tenta di contrastare subito questa tattica ricordando a Paolo Ferrero che «le parole di quell'inno sono di tutti noi, non di una sola parte».
Può sembrare surreale, nel 2008, il congresso di un partito in cui si litiga su chi è o non è un comunista doc. Come può apparire strano che uno dei due contendenti, l'ex ministro Ferrero, non si candidi davanti alla platea congressuale, ma nel chiuso della stanza del comitato politico. Ma tant'è. Questa è la liturgia del Prc o, almeno, di una sua parte.
Non bisogna però credere che i sostenitori di Ferrero siano tutti come questo signore dall'aria seria e i vestiti sobri. A caldeggiare la candidatura dell'ex ministro della Solidarietà sociale c'è anche un personaggio come Nunzio D'Erme, salito agli onori delle cronache per aver portato, quando era consigliere comunale di Roma, del letame sotto casa Berlusconi. Anche lui sta con Ferrero e spiega il perché alla sua maniera: «E' meglio di Vendola, no? Pure se a me non è che frega un c... So' ubriaco e sto qui solo perché mi pagano l'albergo».
Variegato, il mondo di Rifondazione comunista. C'è l'ex deputato nonché ex bertinottiano Ramon Mantovani, per esempio, che sostiene Ferrero e che quasi non saluta più gran parte dei suoi avversari interni. C'è l'ex cossuttiano Claudio Grassi che tenta di conciliare l'inconciliabile pur di non dividere il partito e implora: «Ferrero e Vendola, parlatevi ». E c'è Fosco Giannini, capo di una delle cinque mozioni congressuali, che per sostenere Ferrero chiede in cambio la costituzione di un pci versione bonsai formato da Rifondazione e dai comunisti italiani di Oliviero Diliberto. In platea, ogni tanto, Bertinotti scuote il capo, fa spallucce, sospira: l'aveva pensato diverso, il suo partito.
Ma, com'è ovvio, in un congresso non si vince solo in nome dell'intangibilità dell'ortodossia comunista. Per questa ragione si apre per tutta la giornata la caccia ai voti. Ferrero tenta di rafforzare il suo vantaggio, Vendola di convincere quella manciata di delegati che lo separano dal vincitore in pectore. E oggi, comunque andrà a finire, chiunque vinca, se lo scontro non verrà scongiurato all'ultimo momento, vi saranno due partiti in uno. A meno di una scissione, naturalmente. Ma se Vendola perde i suoi non se ne andranno. Resteranno nel partito. Non è il caso di divorziare quando la famiglia della sinistra è così mal messa...
Repubblica 27.7.08
"Abbiamo fallito, ripartiamo dagli operai"
Ovazione, lacrime e baci per Bertinotti. "Il Pd non può fare l’opposizione"
Il Pd non ha i fondamenti per fare opposizione e Di Pietro appartiene a una cultura di destra
Dobbiamo creare le condizioni per uno sciopero generale, il banco di prova per l´opposizione
Come diceva Marx, il movimento va ben oltre. La sinistra non ha nulla da perdere se non le catene
Il risultato elettorale ci dice che sono state sconfitte tutte le ipotesi di unità a sinistra
Dopo il discorso l´ex leader si leva un sassolino dalla scarpa: "I fischi? Non li ho sentiti"
di Sebastiano Messina
CHIANCIANO - Mai, nella storia della sinistra italiana, un delegato di Cosenza era stato accolto al congresso da una standing ovation di otto minuti. Un´ovazione che sembra interminabile, otto minuti durante i quali un intero partito si mette in fila per abbracciarlo, baciarlo, stringergli la mano, strappargli un autografo o dirgli, semplicemente, «ti vogliamo bene», come fa la compagna Laura quando arriva il suo turno. D´altra parte, non era mai successo che a Cosenza mandassero al congresso del partito un delegato come il compagno Fausto Bertinotti.
Cose che capitano una sola volta, come il discorso di 24 minuti col quale l´ex leader di Rifondazione comunista oggi ha catturato, conquistato e sedotto tutti, ma proprio tutti i 630 delegati radunati sotto il tendone capitalista del Palamontepaschi, circondato da arzilli pensionati col bicchiere in mano in pellegrinaggio verso la fontana miracolosa che risana il fegato. Un discorso abilissimo, l´unico che potesse ricompattare almeno per 24 minuti le anime divise da cento rancori che si contendono la guida di un partito ormai extraparlamentare. Un discorso così efficace che lascia a bocca aperta persino l´ex dissidente Marco Ferrando, oggi capo di un suo partitino dello zero virgola, al quale si deve il commento più acido: «Il fatto che Rifondazione acclami l´uomo che l´ha distrutta dà la misura plastica della sua crisi irreversibile». Bertinotti, in realtà, ha cercato di dimostrare l´esatto contrario. Ha ammesso fino in fondo la sconfitta che ha espulso il suo partito da quel Parlamento che lui presiedeva, fino a tre mesi fa. E ha offerto ai suoi compagni una rotta per uscire dal gorgo della sparizione, o almeno per provarci.
Per il suo intervento dal palco, il delegato di Cosenza ha rinunciato all´abito beige per una giacca a righe bianche e blu su una polo Lacoste. Aspetta pazientemente che venga il suo turno, seduto in settima fila. Poi, a mezzogiorno e mezzo, si avvia finalmente al microfono, mentre tutta la sala si alza in piedi per applaudirlo.
Lui arriva subito al dunque. Perché, si domanda, abbiamo perso così duramente? Perché la cultura di sinistra è diventata minoritaria. «Quando un operaio di Brescia prende la tessera della Fiom ma vota per la Lega, non è uno sciocco o uno stupido. Lo fa per una convenienza attesa. Allora, o noi siamo in grado di disgregare quella convenienza e di crearne una nuova, o quello continuerà a votare Lega». Certo, commenta, dobbiamo fare i conti col sindacato «che è un problema gigantesco». Ma quello di cui abbiamo bisogno è «un´opposizione di sinistra». Che oggi manca. «Il Partito democratico non ha i fondamenti per essere un partito d´opposizione. E Di Pietro, e in generale la cultura populista, possono anche apparire ma non sono di sinistra, anzi sono una cultura di destra». Dunque tocca a Rifondazione. Ma come? Ricostituendo «un nuovo movimento operaio». Lavorando a «un grande sciopero generale».
E qui Bertinotti compie il suo capolavoro, trasformando la sconfitta del 14 aprile nella chiave per aprire la porta di un nuovo luminoso futuro. Sì, ammette a voce alta, «abbiamo fallito l´esperienza della sinistra alternativa». «E siccome sono, come sempre, onesto, non ho difficoltà a riconoscere che bisogna andare oltre. Uno deve saper imparare dalle sconfitte». Ferrero, dal suo posto, annuisce soddisfatto. Ma l´ex segretario non ha finito.
«Adesso però non buttiamo il bambino con l´acqua sporca. Più che un assemblaggio di pezzi bisogna riprendere la politica degli avi». La politica degli avi? Già, quella che aveva i suoi luoghi «nelle case del popolo, nelle leghe». Riprendiamo il contatto con la realtà, con la gente. Impariamo dalle esperienze dei partiti socialisti sudamericani, che dopo essere stati sconfitti hanno ricominciato daccapo, «però innovando». E la vera innovazione, per Rifondazione, deve essere quella di conquistare «una vocazione maggioritaria», perché «una forza antagonista non può resistere a lungo se è una forza minoritaria».
La platea applaude per la ventesima volta. Il tempo per il delegato di Cosenza è scaduto da un pezzo, anche se nessuno si azzarderebbe mai a picchiettare il microfono per ricordarglielo. Ma il compagno Fausto guarda l´orologio (un Rado in ceramica fumé) e decide che è arrivato il momento di chiudere. «La nostra parola è di nuovo la parola liberazione» scandisce, e si allontana dal microfono, mentre tutti si alzano in piedi, applaudendo. E´ solo l´inizio del suo congedo. Lui manda un bacio. Si inchina ai compagni. Mette la mano sul cuore, come per dire: vi porto tutti qui dentro. L´intera presidenza del congresso si mette in fila per abbracciarlo, e lui li stringe tutti. Quando ha finito, torna al microfono, ha ancora un´ultima cosa da dire: «Grazie per tutto quello che mi avete dato in questi anni. Grazie di cuore. Vi voglio bene». E qui la voce gli si incrina per la commozione, lui si asciuga rapido due lacrime che gli sono scappate e affronta la lunga traversata della sala. Poi, quando finalmente guadagna l´uscita, si gira verso i cronisti che gli chiedono un ultimo commento e si toglie, con un sorriso, un sassolino dalla scarpa: «L´unica cosa che ho da dirvi è che i fischi io non li ho sentiti».
Repubblica 27.7.08
Bertinotti e Grassi spingono per l´accordo: una spaccatura profonda potrebbe essere la fine del Prc
Parla Ferrero e parte Bandiera Rossa lotta all´ultimo voto per la leadership
di Umberto Rosso
CHIANCIANO - Caccia al voto. Sei, pochi maledetti e subito farebbero la felicità di Nichi Vendola, sei franchi tiratori strappati a Ferrero nel segreto dell´urna per conquistare domani notte la segreteria. Ma siccome qua nessuno è fesso, ecco la contromossa subito partorita nei corridoi del congresso: alzare d´ufficio il plenum del parlamentino chiamato all´elezione, portando da 240 a 260 il numero dei componenti del Comitato politico nazionale. Alzando l´asticella fino al limite che, secondo gli anti-bertinottiani, il governatore della Puglia non potrà mai scavalcare. Risultato, in questo caso: domenica notte sulla poltrona di nuovo segretario si siede l´ex ministro della Solidarietà sociale del governo Prodi. I pontieri sono ancora all´opera, ma quanto è difficile ricucire in questo settimo congresso di Rifondazione, veleni e veline, sul quale come una maledizione pesa un´ombra da tanti evocata: potrebbe essere l´ultimo. Non c´è posto per due Rifondazioni sotto lo stesso tetto. Ci ha provato Bertinotti, spostando più in avanti le lancette del confronto. Ci ha provato Claudio Grassi con l´appello ai due, «Nichi e Paolo, parlatevi, un accordo si può trovare, se no Rifondazione muore». Si fanno, disfanno, rifanno documenti di compromesso nelle riunioni-fiume fra le componenti ma regolarmente il castello si affloscia quando si tocca il tasto fatale, «ma chi gestisce la linea e fa il segretario?». Vendola non molla. Ferrero nemmeno. Va alla tribuna e accende i cuori dei suoi invocando il ritorno ad una «limpida lotta di classe», a Marx, al comunismo che resiste, e che non può avere niente a che fare con il Pd e con la tentazione di un nuovo centrosinistra. Ma anche referendum sociali contro la legge 30. E sono cori Bandiera rossa, Bella Ciao, pugni chiusi, comunismo-comunismo. Bertinotti scuote la testa, «quando un pezzo del partito arriva ad usare Bandiera rossa contro un altro pezzo, vuol dire che si sente già fuori». Sulla carta l´ex ministro potrebbe farcela. Mettendo insieme tutte le altre quattro mozioni (la sua ha 97 voti, quella dell´Ernesto 18, i trotzkisti 8, la frangia ex bertinottiana 4; la mozione Vendola ha conquistato invece la maggioranza relativa con 113 voti). Ogni pezzetto del mosaico però avanza richieste. Giannini vorrebbe la costituente comunista con Diliberto. I trotzkisti pretendono che il partito diserti tutte le prossime competizioni elettorali, «e voglio proprio vedere - se la ride Francesco Forgione, ex presidente dell´Antimafia - come farà Ferrero a non presentare le liste, già in Abruzzo». Temono, i bertinottiani, il ritorno al passato, l´involuzione, l´arroccamento e la fine di un partito che con la linea Ferrero rimetta insieme i Turigliatto, i Cannavò, i Ferrando, duri e puri e perdenti. Ma l´arroccamento non ci sarà, garantisce Russo Spena, l´ex capo dei senatori, «e del resto anch´io non mi sentirei tranquillo da una segreteria di Nichi non vincolata ad una linea politica precisa». Vendola che, con una punta di veleno ricorda Ramon Mantovani, neanche starebbe più nel partito se in passato si fosse usata anche con lui la mano forte: baciò il rospo del governo Dini, nel ‘95, ma non venne espulso.
l’Unità 27.7.08
LA STRATEGIA
Criminalizzare, censire ed espellere:
il progetto Maroni e l’escalation della destra
È ministro dell’Interno da pochi mesi eppure l’escalation di Maroni sull’immigrazione è stata costante. Obiettivo: censire, espellere, criminalizzare. Sul filo del razzismo, e anche oltre. Dall’idea del reato di clandestinità alle impronte digitali all’etnia nomade e ai piccoli rom al di sotto dei 14 anni. Alla fine di questo lungo giro che ha portato alla dichiarazione dello stato d’emergenza, come per i terremoti e le catastrofi ambientali, alla fine delle contrattazioni, il ministro Maroni è arrivato con provvedimenti come l’aggravante del reato in caso di clandestinità e le espulsioni più facili. Ma anche il carcere per chi affitta le case ai clandestini.
La questione rom
Da subito nel mirino soprattutto per quanto riguarda la gestione dei campi. È il 28 maggio quando Maroni convoca al Viminale una riunite con sindaci e prefetti. L’ordine è quello di smantellare in tre regioni - Lazio, Lombardia e Campania - i campi nomadi. Ai prefetti poteri per delocalizzare i campi rom, individuando tutte le misure necessarie, anche in deroga alle leggi vigenti. Ma è la questione impronte a tenere banco. Prima dello smantellamento c’è il censimento e prima ancora del censimento il riconoscimento, cioè la schedatura. Maroni chiede che ogni nomade, bambini compresi, vengano fotografati e vengano loro prese le impronte. È la rivolta. E anche l’imbarazzo di alcuni all’interno del Pdl. Il primo a ribellarsi - tra le istituzioni - è il prefetto di Roma Carlo Mosca. Il prefetto dice no, ufficialmente. Dice: «Non farò prendere le impronte digitali ai bambini rom. Così come non si prendono le impronte digitali per il passaporto ai minori italiani così non si vede il motivo per cui bisogna farlo con i bambini rom». Anche la Commissione Ue interviene e dice che non è possibile prendere impronte digitali ai rom, secondo le regole europee. Maroni però non è pago e il 29 giugno dichiara: «Le polemiche sull’identificazione dei bambini rom attraverso le impronte digitali sono totalmente infondate, frutto di ignoranza e pregiudizio politico. Non mi faranno retrocedere neanche di un millimetro è solo ipocrisia».
I nuovi Cpt
Quasi contemporaneamente il ministro Maroni cova un altro progetto. Moltiplicare i Cpt, i centri di accoglienza permanente per gli immigrati clandestini. Anzi li vuole chiamare Cie, cioè centri di identificazione ed espulsione. C’è un disegno di legge che dice che il tempo di permanenza in queste strutture si allunga dagli attuali 60 giorni a 18 mesi. Questo - insieme all’idea dell’introduzione del reato di immigrazione clandestina - comporta l’esigenza di nuovi Centri. Maroni ne enumera 10 e presenta anche i conti: serviranno 600 milioni di euro per avere un Centro a regione. Ad ospitare i nuovi Centri saranno 10 caserme dismesse dall’Esercito.
Reato di clandestinità
L’idea prende meglio forma: serve creare il reato di clandestinità. «La sinistra italiana ci rompe le palle - spiega Maroni - . Se una cosa la facciamo noi, non va bene, se la fanno gli altri invece va bene». Il reato di immigrazione clandestina, dice, c’è in Francia, Inghilterra e Germania. Arriva il no delle opposizioni, del Vaticano e dell’Alto commissario per i diritti umani, Louise Arbour. Berlusconi frena, interviene Bossi: «Per adesso lasciamo il reato. L’importante è raggiungere l’espulsione». Maroni insiste: «La tolleranza zero si realizzerà. Il reato di immigrazione clandestina resterà e non temo le critiche di opposizione, pm e Chiesa». Nel decreto sicurezza, alla fine, il reato passa come aggravante. Cioè le pene vengono aumentate di un terzo se a commettere i reati sono immigrati clandestini.
Le badanti
Si profila però un problema badanti, e Moroni diventa inflessibile: «Le badanti restano fuori dal reato di immigrazione clandestina, anche se non ci saranno sanatorie». Tale inflessibilità resta anche quando i ministri Sacconi e Carfagna mettono a punto una bozza di emendamento al decreto sicurezza che dà la via libera all’assunzione delle straniere irregolari che già lavorano e si occupano di assistere anziani e disabili. Bozza su cui il titolare del Viminale è del tutto contrario.
Espulsioni
Obiettivo espulsioni. Maroni ci riprova nel decreto sicurezza con l’emendamento che dice: se il magistrato non dà entro 48 ore l’ok alla richiesta di espulsione fatta dalle forze di polizia, scatta il silenzio-assenso, cioè l’espulsione diventa immediatamente operativa. Ma nel decreto approvato il 23 luglio passano queste norme: si ampliano i casi di espulsione su ordine del giudice per gli stranieri condannati. Sarà espulso chi è condannato a più di due anni di reclusione (prima era 10 anni). Obbligatorio l’arresto dell’autore, anche se non c’è flagranza, e si procede con rito direttissimo.
l’Unità 27.7.08
Due bimbe rom, un sabato di luglio
Rosetta Loy
Questa foto in apparenza anonima
accorpa in sé, involontariamente
non solo la storia di due morti
per annegamento, ma ci svela
una realtà spaventosa, qualcosa
che non vorremmo mai avere visto
Vorrei parlare della fotografia di due coppie di piedi e di un uomo e una donna seduti un poco defilati sullo sfondo.
Veniamo da un secolo, il Novecento, che ci ha abituato a cercare nel particolare la chiave per accedere alla verità nascosta sotto ineccepibili apparenze. Il primo a insegnarcelo è stato forse lo svizzero Morellini che riuscì a scoprire molti falsi in pittura attraverso l’analisi di particolari insignificanti: l’unghia di un mignolo, un ciuffo di capelli, l’ala di un fringuello. Il disegno di una pantofola. Ma ce l’hanno insegnato anche Conan Doyle e Sherlock Holmes sempre con la lente di ingrandimento a cercare quello che sfugge a occhio nudo.
L
a fotografia di cui voglio parlare è stata scattata una mattina di sole sulla spiaggia di Torrevegata vicino a Napoli, un sabato di luglio. La prima cosa che colpisce in questa fotografia sono quattro piedi che fuoriescono da due teli da spiaggia, uno verdolino e l’altro a disegni bianchi e blu. Quattro piedi divaricati. Forti. Ma anche morbidi, con ancora delle rotondità infantili. Piedi con la pianta rivolta al sole. Accanto un giovanotto in shorts blu e maglietta bianca ha il cellulare all’orecchio, probabilmente sollecita qualcuno a portare via i due corpi distesi sotto i teli. Ma lui è marginale alla foto. Centrali sono i piedi e la coppia in secondo piano, sullo sfondo. Sono un uomo e una donna seduti sulla sabbia a ridosso di una bassa scogliera formata da alcuni massi e ciottoli levigati dal mare. La donna tiene le mani intrecciate mollemente intorno alle ginocchia , è in costume da bagno e ha un cappellino in testa, appare graziosa e rilassata, la grossa borsa da spiaggia azzurra a distanza di braccio. Accanto a lei è seduto l’uomo con le gambe appena più allungate e un cappellino probabilmente celeste.
Questa fotografia in apparenza anonima e casuale assume a un tratto un significato agghiacciante. Accorpa in sé, involontariamente, non solo la storia di due morti per annegamento in un sabato di sole sulla spiaggia di Torregaveta ma ci svela nei suoi particolari meno appariscenti una realtà spaventosa, qualcosa che non vorremmo mai avere visto e mai vedere: Noi. Una realtà al limite della nausea. E non sono i corpi delle due bambine coperti dai teli da spiaggia, due teli trovati al momento per velare pudicamente la morte, ma i loro piedi che i teli non arrivano a coprire, ancora infantili ma anche densi, piedi che vanno, abituati a camminare. Eppure sempre e ancora piedi di bambini che si offrono allo sguardo in primo piano come se non fosse poi così importante nasconderli per coprire l’inguardabile della morte. Ma l’obbiettivo che li inquadra cattura sullo sfondo qualcosa che non ha niente a che vedere con quei piedi : la coppia venuta a trascorrere una meritata giornata di mare e sole, l’acqua e i panini, la frutta lavata al fresco nel borsone accanto. Una coppia che ci rappresenta in maniera da manuale; e così adesso quei piedi gridano, urlano, pesano come piombo.
Quattro ragazzine venute a vendere tartarughe e braccialettini ai bagnanti del weekend di luglio. Sporche e impacchettate in vestiti lunghi, stracciosi, che subito le identificano come le infime degli infimi. Tredici, quattordici, dodici, undici anni. Ragazzine che a un tratto non ne possono più di quel caldo insopportabile e entrano in mare. Prima i piedi e i cavalloni che si sciolgono sulle gambe in un apoteosi di schiuma, e subito si ritraggono in un risucchio. Il resto si sa, ancora qualche passo e a un tratto un cavallone più alto degli altri gli si schianta addosso mentre il risucchio si tira appresso le gambe, quei vestiti che le imprigionano come corde, i piedi scivolano sul fondo loro annaspano per tenersi a ritte, vanno giù, poi ritornano su, poi ancora giù, qualcuno a un certo punto se ne accorge. Due le salvano, per le due più piccole è invece troppo tardi.
Ma lo scompiglio creato dalla tragica fine del loro goffo bagno si placa in fretta, noi abbiamo ripreso a goderci la nostra meritata giornata di vacanza, accanto la grossa borsa con i vari generi di conforto. Fra poco faremo un tuffo, magari stando un poco più attenti. Se non fosse per la visione di quei piedi così spaventosamente simili, identici a quando avevamo dodici o tredici anni, gli alluci e le piante appena rigonfie, le caviglie ancora morbide. Dei piedi che ci raccontano di come il nostro cuore sia diventato un sasso, la nostra testa una calcolatrice dotata di una mirabolante serie di tasti. La nostra anima? chissà dove .
Questo ci dicono quei piedi e la serena coppia sullo sfondo.
l’Unità 27.7.08
Caso Eluana, in Parlamento una mozione che calpesta le regole
di Vannino Chiti
La prossima settimana il Senato e forse anche la Camera affronteranno con una mozione il caso di Eluana.
Voglio esprimere prima di tutto la vicinanza al padre, il rispetto per una prova così drammatica come quella che ha dovuto e deve affrontare. Mi ha colpito la dignità di quest’uomo.
La vicenda di Eluana nel merito non si presta a decisioni facili. Ho letto le valutazioni di tanti costituzionalisti ed esperti: il loro giudizio non è univoco e le differenze non sono coincidenti con le scansioni determinate dalle convinzioni ideali o dalle appartenenze politiche.
Se si ritiene che Eluana sia artificialmente tenuta in vita, allora saremmo di fronte ad un caso di accanimento terapeutico, che può essere rifiutato: del resto proprio chi si appella alla fede religiosa più di altri fa riferimento a leggi di natura che non possono essere forzate ad arbitrio dell’uomo.
Se si assume invece come punto di vista il dovere di assicurare l’alimentazione - cibo e bevande - allora la collettività non può in alcun modo farle mancare ad Eluana.
Difficile, almeno per me, farsi un’idea della decisione giusta o semplicemente più giusta. Certo non si è di fronte ad un caso come quello di Welby. Di sicuro, come già avvenne negli Usa per Terry Schiavo, morire per fame e sete produce un’agonia lenta, lunga, inumana.
Non su questo comunque sono chiamate a pronunciarsi le Camere. La mozione sottoposta alla nostra attenzione segna, di fronte ad un immenso dramma umano, la pochezza, il cinismo, la lontananza di una politica che nasconde dietro strumentalizzazioni ideologiche o freddi tatticismi la sua incapacità di farsi carico realmente dei problemi della vita nella sua concretezza.
La mozione a mio giudizio è improponibile. Non si è mai visto una Camera impegnare se stessa anziché il Governo. Né si può sollevare conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale riguardo ad una sentenza non definitiva della Cassazione. Non si tratta soltanto di spreco di risorse pubbliche, in un momento nel quale è richiesto alla politica estremo rigore, sobrietà, senso di responsabilità. È ancor più il prestigio delle istituzioni che viene meno, quando le regole vengono calpestate, il rapporto tra i diversi poteri sacrificato a calcoli di politica contingente.
Le regole invece si rispettano fino a quando non siano state cambiate. In caso contrario la democrazia si svuota e impoverisce.
Il dovere che oggi le Camere dovrebbero avvertire come primario è quello di aprire un confronto serio e approfondito per una legge sul testamento ideologico: consentire ad ognuno di noi, se lo vuole, di lasciare scritte le sue volontà sulle cure accettabili in drammatiche situazioni che ci potranno riguardare; prevedere per i medici una funzione non puramente notarile perché le conoscenze si modificano e possono essersi evolute tra il momento in cui si esprime una volontà e le circostanze che ne chiamano in causa l’attuazione.
Un tale equilibrio è possibile ed è questo il compito del Parlamento e di una politica seria.
La missione dei medici è quella di aiutare la vita e di sconfiggere nei limiti del possibile il dolore. Anche la politica deve far proprio il valore della vita, rendendola inseparabile, sempre, dalla dignità della persona.
Sono i ritardi della politica, per prevalente responsabilità della destra, ad aver determinato per il nostro Paese la mancanza di una legge che altre nazioni avanzate hanno: una legge di civiltà, non di abbandono di persone, delle famiglie, degli stessi medici.
In questo impegno, senza pregiudiziali e senza certezze assolute di cui nessuno è detentore, è giusto mettere passione e competenza.
Personalmente non intendo partecipare al voto: in questo caso non per libertà di coscienza ma per manifestare dissenso nei confronti di una mozione che secondo me calpesta regole, procedure parlamentari e non sa calarsi nel dramma di una difficile vicenda umana.
l’Unità 27.7.08
Storia di Faiza e del suo Burqa
di Luigi Manconi Andrea Boraschi
Faiza Silmi è una donna di 32 anni che vive in Francia da 8. Sposata, tre figli nati lì, parla correntemente la lingua locale e vive, a suo dire, come ogni altra donna in quel paese. Vorrebbe diventare francese, prendere la nazionalità e godere di tutti i diritti di cittadinanza lì riconosciuti. E, nonostante su di lei non gravi alcuna accusa, non si sia mai macchiata di illeciti o di reati e le sue abitudini di vita non minaccino o ledano alcuno, quella donna non può diventare cittadina francese. Per via del suo credo e dei comportamenti che - così lei ritiene - da quello le sono imposti. Perché Faiza indossa il burqa. Così una sentenza del Consiglio di Stato francese ha ribadito, pochi giorni or sono, la decisione già assunta alcune settimane prima: "difetto di assimilazione", questa la motivazione della sentenza. Faiza, secondo i giudici, "ha adottato, in nome di una pratica radicale della sua religione, un comportamento sociale incompatibile con i valori della società francese, con particolare riferimento all’uguaglianza dei sessi". È la prima volta che in quel paese viene negata la cittadinanza sulla scorta di valutazioni riferibili all’appartenenza religiosa; in precedenza era stata negata solo in caso di sospetta militanza in gruppi fondamentalisti o in caso di aperto schieramento in favore del radicalismo islamico.
È certamente ipotizzabile che nel giudizio abbia pesato la controversa legge sulla laicità in vigore da qualche anno, che vieta l’ostensione di simboli religiosi in luoghi pubblici. Faiza si è presentata ai colloqui con i funzionari che hanno istruito il suo dossier sempre indossando l’abito al centro della contestazione; e ha sostenuto di aver spontaneamente aderito a una lettura particolarmente rigorosa del Corano, che le imporrebbe di indossare il velo integrale. Il rifiuto della cittadinanza viene inoltre motivato sottolineando la condizione di sottomissione al genere maschile che sembra contraddistinguere la vita di quella giovane donna. In conclusione, ella "non ha alcuna idea della laicità e del diritto di voto, le sue dichiarazioni rivelano la non adesione a valori fondamentali della società francese". Del caso si è interessato anche il New York Times. Perché l’identità Faiza, dalle dichiarazioni poi rilasciate, sembrerebbe non coincidere, almeno non perfettamente, con quel modello regressivo di femminilità islamica descritto dalla sentenza della Corte di Stato. Eccola allora rivelare di non aver mai indossato il burqa prima della sua venuta in Francia: e di farlo "per abitudine più che per convinzione religiosa", per assecondare il marito. Dal quale, però, si dice ampiamente autonoma: "Mio marito non m’impone proprio nulla. Ho un’auto mia, esco a fare shopping da sola e sono libera di andare e venire a mio piacimento. Per il resto, ho cura dei miei figli e non ho commesso alcun reato. L’unica mia colpa è quella di essere musulmana praticante e ortodossa". E, conclude, "Mai avrei pensato di venire esclusa sulla base del mio abbigliamento". Insomma: difficile dire se Faiza sia una donna libera, consapevole dei suoi diritti e delle sue prerogative, o, altrimenti, una persona oppressa da un’interpretazione aberrante di un dato religioso, che la relega in una condizione di soggezione nei confronti del mondo maschile. E, in fin dei conti - non per amore del paradosso - la cosa è secondaria ai fini del nostro ragionamento. Non solo: la materia è, insieme, così cruciale e così scivolosa che non ci sentiamo di prender partito in un senso o in un altro; assai più importante è discuterne e approfondirne i molteplici significati. La notizia è stata accolta con favore dal ministro francese Fadela Amara, di origine algerina: perché, così si è espressa, "Il burqa è una prigione, una camicia di forza. Non è un simbolo religioso, ma il simbolo visibile di un progetto politico totalitario che alimenta la disuguaglianza dei sessi e porta in sé la totale mancanza di democrazia". Vorremmo saperne un po’ di più, in materia: ma non stentiamo a crederle ed esprimiamo convintamente pari ostilità verso la valenza simbolico-sociale di quell’indumento. Il problema, però, è un altro.
Faiza ha tutti i requisiti giuridici per ottenere la cittadinanza francese. La valutazione che è stata fatta della sua persona, invocando laicità, è tutt’altro che laica. Ovvero, a quella donna sono stati negati diritti e garanzie in virtù di ciò che si presuppone della sua vita relazionale e della sua convinzione religiosa. Quindi a partire da giudizi che intervengono nella sfera privata della sua vita: uno spazio esistenziale - fatto di orientamenti, sentimenti, condotte, preferenze, convinzioni - al quale dovrebbe rimanere estraneo ogni controllo da parte di un’autorità pubblica. E dal quale, invece, non ha ritenuto di doversi chiamare fuori il Consiglio di Stato.
Si può negare la cittadinanza a una persona per le forme in cui interpreta il suo credo religioso, quando quelle forme non rappresentano una minaccia per alcuno? O perché le sue dichiarazioni rivelano la non adesione ai valori civili di uno stato? Le motivazioni della sentenza formulata dal Consiglio appaiono più che mai rivelatorie: "difetto di assimilazione". E rinviano a un preciso paradigma, quello "assimilazionista", che trae ispirazione, principalmente, da una preoccupazione di difesa della propria civiltà. "Assimilare", in questa cornice, vuol dire chiedere agli immigrati, in cambio del diritto a beneficiare di una qualche integrazione, di rinunciare a una porzione consistente della propria identità per aderire alle regole (e non di rado all’ethos) della civiltà occidentale. In questo caso, l’identità dell’immigrato si trasforma, con l’interdizione dei suoi aspetti meno secolarizzati, in "cittadinanza" nel più blando senso giuridico-territoriale, riducendosi a pura fruizione di diritti formali. Incapace di ricevere e comprendere comportamenti "altri", la società "assimilazionista" si limita a contenerli, reprimerli o bandirli. Operazione legittima, questa, fin quando si facciano rispettare leggi non invasive della sfera individuale e non intrusive rispetto alla dimensione culturale, religiosa, esistenziale dello straniero; assai criticabile quando una non meglio precisata "coscienza laica" impone - attraverso la legge francese prima ricordata - il divieto di indossare non solo il burqa, ma anche il velo (che pure lascia scoperto il volto) alle donne musulmane.
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it
l’Unità 27.7.08
Da ieri sera è montata al Poetto: 30 metri per 15 con tanto di abside
L’ultima tentazione da spiaggia:
ecco servita la chiesa gonfiabile
di Davide Madeddu
Dopo i raduni di preghiera al palazzetto dello sport, nella diocesi di Cagliari arriva la chiesa gonfiabile e in spiaggia. Giusto per non passare inosservati. Se poi tra bagnasciuga e battigia c’è chi indossa ancora boxer o costume da bagno poco importa.
Perché «se i fedeli non vengono in chiesa, è bene andare a cercarli». E don Emanuele Mameli, parroco a Cagliari i fedeli li va a cercare direttamente in spiaggia. Con la chiesa gonfiabile sistemata da ieri alle 23 nella spiaggia del Poetto. Tra barettini e spettacoli, passatempo e goliardate, nella spiaggia dei centomila è spuntata la chiesa gonfiabile. Una struttura nera e fucsia lunga 30 metri e larga 15 con tanto di abside spaziosa.
Chiesa che, come chiarisce il giovane sacerdote, non «ospita la celebrazione della messa ma solo chi vuole pregare. E a chi sta dentro si può aggiungere qualche altro». Perché, aggiunge don Emanuele, che dall’anno scorso si occupa della «missione cittadina», «se i fedeli non vengono in chiesa bisogna andare a cercarli» . Dove? «Nelle piazze, nei luoghi del divertimento, d’altronde si tratta di un’iniziativa nazionale che solo per un giorno tocca Cagliari».
Per la precisione nella spiaggia del Poetto e in un’area che vive quasi 20 ore al giorno conosciuta da tutti con il nome di «quinta fermata».
Ad allestire il tutto, il gruppo di evangelizzazione «Sentinelle del mattino» che mette in piedi iniziative analoghe in quasi tutti i centri d’Italia. Campagna promozionale alla ricerca di fedeli anche sulle spiagge. Esagerazione o estremismo? Nemmeno per sogno, a sentire don Mameli. Che dice «è una luce nella notte, perché mai si dovrebbe pensare a una polemica o strumentalizzazione? È un momento di preghiera, anche tra i giovani e chi si diverte, eppoi... bisogna stare al passo coi tempi, e quindi far conoscere agli altri ciò che si fa e cosa sia l’evangelizzazione».
Non è la prima volta che nella diocesi di Cagliari le celebrazioni varcano la soglia delle chiese tradizionali. È cronaca degli anni scorsi, ma i due eventi non sono collegati tra loro: la predicazione degli Apostoli di Maria al Palazzetto dello sport. Ossia il movimento di preghiera fondato da don Massimiliano Pusceddu, prete di professione e pugile per passione (con pugno da ko «per aiutare le missioni in Africa») che riusciva a riunire negli spalti del palazzetto di Cagliari migliaia di fedeli. Tutti a sentire le prediche del prete pugile, lo stesso che - come scrive anche nel suo sito internet www.gliapostolidimaria.it - ha fondato il movimento di preghiera, e che, pur non potendo contare sulla chiesa gonfiabile, viaggia a colpi di volantini e scritte sui muri e su qualche sovrapassaggio. Giusto per non passare e inosservati. Come dire, il nuovo marketing in nome del Signore.
l’Unità Roma 27.7.08
Musica o poesia? Leonard Cohen
Lo straordinario autore canadese domani in concerto all’Auditorium
di Federico Fiume
È UNO DEI GRANDI EVENTI della stagione il concerto che Leonard Cohen terrà stasera alla cavea dell’auditorium, accompagnato da un ensemble di altissimo livello formato da Roscoe Beck (basso e voci, direzione musicale), Neil Larsen (tastiere, stru-
menti a fiato), Bob Metzger (chitarre e voci), Javier Mas (chitarre acustiche), Christine Wu (Violino, viola, violoncello e tastiere), Rafael Gayol (batteria e percussioni) e Dino Soldo (tastiera, sassofoni e voci). Il settantatreenne autore di "Suzanne", "I’m Your Man" "Famous Blue Raincoat" e tante altre canzoni entrate nella storia della miglior musica d’autore mondiale, ha la statura di un vero e proprio monumento del novecento in campo musicale ma non solo.
Cohen è anche un apprezzato scrittore, un poeta raffinato le cui parole hanno segnato il cuore di più di una generazione. Capace di cantare l’amore e l’erotismo come nessun altro, ma anche di parlare del mondo che lo circonda con sguardo lucido e personale e di toccare temi spirituali, è stato a lungo fuori dal circuito musicale, dedicandosi alla meditazione in un tempio buddista nel corso della seconda metà degli anni ’90. Il suo libro di poesie del 2006 "Book of Longing" ha ispirato al compositore Philip Glass un ciclo di canzoni raccolto in un doppio cd che vede anche la presenza di Cohen, in veste stavolta non di cantante ma di speaker delle sue stesse poesie. Il 10 marzo 2008 Leonard Cohen è entrato ufficialmente nella Rock and Roll Hall of Fame ed ha annunciato il suo ritorno in tour dopo 15 anni.
Un percorso mondiale partito da Toronto, la città che lo ha visto nascere come musicista e scrittore e del quale l’Auditorium Parco della Musica ospita stasera in esclusiva la preziosa tappa romana. Preziosa davvero, in termini artistici e anche economici, considerato il prezzo dei biglietti che, come per Bjork, oscilla fra i 60 e i 120.
Ore 21 Cavea dell’Auditorium
Corriere della Sera 27.7.08
Il caso Proteste dei lettori. La Armeni: ora Vladimir sta esagerando
Luxuria all'Isola, «rivolta» su Liberazione L'ex deputata: difenderò i diritti degli indios
di Lorenzo Salvia
ROMA — Ieri il problema erano i diritti della popolazione garufina. Scriveva il Collettivo Italia Centro America che lì in Honduras le misure di sicurezza per L'Isola dei famosi impediscono agli indigeni di pescare. E da quelle parti pescare non è un passatempo da riccastri ma un modo per sopravvivere. Oggi Paola Nardi da Vicenza abbandona il metodo etnografico: «E chi se ne frega! Guadagnerà l'equivalente di 300 anni di lavoro di un operaio che votando Rifondazione magari ha fatto eleggere proprio lei». Sarà anche spaccata a metà tra la mozione Vendola e quella Ferrero ma su un punto la base di Rifondazione comunista è unita come un sol uomo: Vladimir Luxuria al reality di Simona Ventura non ci deve andare. Sono giorni che la questione campeggia sulle pagine di Liberazione. E sono giorni che in redazione arrivano decine di lettere contro la decisione dell'ex onorevole che a settembre se la vedrà all'ultima nomination con Antonio Cabrini e Giucas Casella. Oggi il quotidiano del partito pubblica una piccola parte di quelle lettere. Andrea Tanucci dice che non vuole avere la tessera dello stesso partito di un partecipante all'Isola, il «punto massimo della tv spazzatura », secondo un altro lettore. Tutti contrari, qualcuno anche in modo pesante. Luxuria mantiene la calma: «Reazioni come queste le avevo messe in conto. Figuriamoci se, con la mia storia, posso criminalizzare il dissenso». Dice che tra una prova di sopravvivenza e l'altra farà politica: «L'accordo con la Ventura — spiega — è che io possa parlare di tutto. Magari anche dei diritti della popolazione garufina, su cui in effetti non ero informata». La politica in un reality? La stessa spiegazione che dà Angela Azzaro, il caporedattore di Liberazione che oggi si prende la briga di rispondere alle lettere di protesta: «Sono proprio quelle trasmissioni che formano il consenso e stabiliscono un contatto diretto con quei cittadini che ci hanno voltato le spalle». Se le elezioni sono andate male tante vale buttarsi dalla Ventura. «Vladimir può fare quello che vuole — commenta la giornalista Ritanna Armeni — ma dire che va lì per difendere la causa comunista mi sembra esagerato». «Lei — aggiunge l'ex parlamentare Rina Gagliardi — viene dallo spettacolo. Dov'è il problema?».
Corriere della Sera 27.7.08
CHIESE NEL MONDO ISLAMICO RECIPROCITÀ E TOLLERANZA
Risponde Sergio Romano
C'è una pecca nel suo ragionamento sulla necessità di una moschea a Milano: quantunque da non credente a cui non importa niente che ci siano o meno chiese o moschee, non avrei obiezioni da fare sulla presenza sul suolo italiano di moschee, che già ci sono del resto, se vi fossero chiese cristiane in Arabia Saudita, poniamo, o in altri Paesi dell'area musulmana.
Questo per un principio di reciprocità che lei ben conosce, e che, se lo si ignora, invalida qualsiasi altro ragionamento.
Antonio Benazzo
Caro Benazzo,
Esistono chiese cattoliche in tutti i Paesi musulmani della costa meridionale del Mediterraneo e in alcuni di essi vi sono diocesi vescovili e nunzi o legati apostolici. In Iran vi sono chiese, preti, un nunzio apostolico a Teheran (Mons. Angelo Mottola) e un Vicario generale dei latini a Ispahan (Il salesiano Francesco Pirisi). La presenza cattolica nel Golfo Persico è più recente. Nel Dubai la chiesa di Santa Maria è stata inaugurata dal Primo ministro sceicco Sheikh Rashid bin Saeed Al Maktoum nel 1967 e considerevolmente ampliata nel 1980. Sempre nel Dubai, a Jebel Ali , vi è la Chiesa di San Francesco d'Assisi, inaugurata nel novembre 2001. In Qatar esiste una vecchia parrocchia intitolata nel 2003 a Nostra Signora del Rosario che 30 giorni, la rivista di Giulio Andreotti, ha descritto in un servizio giornalistico qualche tempo fa. Questi insediamenti cattolici dipendono dal Vicariato Apostolico del-l'Arabia che ha sede a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, ed è responsabile per i Paesi della penisola Araba: Bahrain, Oman, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Yemen. Un altro Vicariato Apostolico, nato da una costola di quello per l'Arabia, esiste nel Kuwait.
Non vi sono invece né chiese né istituzioni cattoliche in Arabia Saudita. Interrogati sulle ragioni di questa mancanza, i rappresentanti del Regno rispondono generalmente che non vi sono moschee nella Città del Vaticano e aggiungono che tutta la terra dove sorgono i due maggiori luoghi santi dell'Islam (la Mecca e la Medina) è una «Santa Sede». La questione, in realtà, è un po' più complicata. Dopo aver estromesso gli Hussein dalla penisola araba, Ibn el Saud e i suoi discendenti divennero Sceriffi della Mecca e custodi dei Luoghi Santi. Sono i signori del regno, ma esercitano il loro potere sulla base di un patto con i seguaci di Mohammed Ibn Abd al Wahhab, un teologo «controriformatore», paladino del più scrupoloso rigore islamico, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo. Quel patto religioso è il titolo di legittimità del regno dei Saud, la ragione stessa della sua esistenza. E l'osservanza del patto è divenuta ancora più necessaria e costrittiva quando Ibn el Saud, per sfruttare l'immensa ricchezza petrolifera del Paese, strinse rapporti speciali con gli Stati Uniti in occasione del suo storico incontro con il presidente Roosevelt su un incrociatore americano negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale. Gli imam wahhabiti tollerano questo rapporto con l'«infedele», ma esigono che il regno venga governato secondo i criteri della più stretta ortodossia islamica. E' questa la ragione per cui gli Stati Uniti e, più generalmente, i Paesi occidentali hanno rinunciato a esigere dai Saud l'applicazione del principio di reciprocità. L'ultimo sovrano è un prudente riformatore che ha cercato di allargare le maglie dell'ortodossia, ma non può mettere in discussione il principale titolo di legittimità del suo regno.
Dovremmo forse rispondere al rigore islamico dell'Arabia Saudita vietando la costruzione di moschee in Italia? Se adottassimo questa linea puniremmo anzitutto i cittadini di Paesi che non proibiscono ai nostri connazionali la professione della loro fede religiosa. E mancheremmo, in secondo luogo, a un principio che è il principale titolo di legittimità delle democrazie: la tolleranza.
Corriere della Sera 27.7.08
Il confronto Ginzburg-Davidson
Ma lo storico vive dentro la storia
di Giuseppe Galasso
Che c'è di nuovo?, chiederei, per dire con schiettezza, come più che mai si conviene per il rispetto dovuto agli interlocutori, la mia reazione al dibattito fra Carlo Ginzburg e Arnold J. Davidson, moderatore Pier Aldo Rovatti, per la rivista Aut Aut (il Saggiatore), su «Il mestiere dello storico e la filosofia», ampiamente riportato dal Corriere di giovedì scorso. I problemi storici e storiografici di cui vi si parla sono pur quelli sui quali si è arrovellata la riflessione europea dai tempi ormai lontani del positivismo. E questo, per la verità, non basta. Quel che Ginzburg definisce pre-giudizio (staccando i due termini), e che precisa poi essere l'ipotesi di lavoro da cui lo storico non può non partire, è una condizione del lavoro scientifico nota almeno dai tempi di Galilei (e, sia detto per inciso, l'ipotesi di lavoro non è un «giudizio » preesistente; è, semmai, un «giudizio», a voler proprio usare questo termine, qui incongruo, provvisorio e soggetto a continue riformulazioni in corso d'opera).
Allo stesso modo, l'insistere sul rapporto tra cognizione e valutazione nel lavoro dello storico mi richiama la regola che giornalisti saccenti insegnano come propria del loro mestiere: distinguere fatti e commenti. Come se il modo di presentare i fatti non contenesse in sé fatalmente un giudizio. I giornali francesi del marzo 1815 parlavano del ritorno di Napoleone dall'Elba definendolo via via il mostro, l'usurpatore e, infine, l'imperatore. È una novità? E lo «straniamento» teorizzato per lo studioso rispetto ai testi? Sarebbe «un atteggiamento che ci fa guardare a un testo come a qualcosa di opaco». Traduco per quanto capisco: diffidare della lettera e del significato immediato del testo e mantenerne sempre attivo un vaglio critico. E che cosa, dai tempi almeno di Lorenzo Valla, fa e insegna a fare la filologia, della quale si parla anche qui, ma che non è nata ieri, e neppure l'altro ieri? Ginzburg dice bene che nel lavoro storiografico «meno si parla di morale meglio è». Ha ragione, ma va intesa qui per morale il pregiudizio (pregiudizio qui in senso proprio) moralistico. Lo storico che fa il proprio mestiere è sempre un uomo intero, totus homo, e non può resecare da sé una parte, e metterla… da parte: ora mi spoglio delle mie opinioni, idee, sensibilità in fatto di morale, e valuto le cose prescindendone. In realtà, lo storico subisce il condizionamento storico che subiscono tutti, uomini e cose, vivendo nella storia, e fuori del quale non sono neppure pensabili, e Ginzburg dice cose giuste al riguardo, ma nella scia, mi pare, anche qui, di idee non recenti. E la dialettica del distante/ vicino nel lavoro storico, non s'intende più presto e meglio se assorbita nel problema della cosiddetta «contemporaneità della storia»?
Tralascio, comunque, altri punti (tra cui quello della «traducibilità », ossia il problema di identificare e interpretare il senso di ciò che leggiamo o ascoltiamo, su cui Ginzburg svolge considerazioni fra le sue migliori qui) e vengo al punto sottostante, mi pare, alla natura dei problemi discussi: il punto della verità che nel lavoro storico — si dice — traspare o non traspare per spie e indizi, è implicita o esplicita, pura o non pura, oggettiva o soggettiva. Ma nel lavoro storico la verità è anch'essa un dato storico. Si forma nel dibattito assiduo e dialettico degli studi e delle discipline che li coltivano, e di tutta la vita morale e culturale dell'uomo nel corso del tempo. Non è mai una verità definitiva, una prigione da cui non si possa più evadere. Certo, la nostra verità sulla storia romana è più complessa, profonda e attendibile di quella di Livio o di Tacito, che tuttavia resta per sempre la loro verità, della quale anche noi viviamo e senza la quale, o dimenticandola, neppure la verità nostra sarebbe nata e si manterrebbe.
Relativismo? Non vi sarebbe nulla di male, ma non è questo. Un autore a me molto caro lo disse come meglio non si potrebbe: «Il concetto della verità come storia modera l'orgoglio del presente ed apre le speranze dell'avvenire; e sostituisce alla disperata coscienza di strappare il velo a ciò che sempre sfugge e si cela, la coscienza del sempre possedere ciò che sempre si arricchisce » nel succedersi delle umane vicende ed esperienze.
Filologia e morale sono essenziali nel ricostruire gli eventi passati
Corriere della Sera Salute 27.7.08
Genetica Fa discutere il manifesto di 18 grandi scienziati dell'università Usa di Stanford
Nel Dna non c'è la razza
«Nella variabilità genetica umana, le differenze razziali non hanno alcuna base scientifica»
di Franca Porciani
Dibattiti Fa discutere la presa di posizione molto decisa di 18 grandi scienziati, tra i quali Luca Cavalli Sforza
Bocciate le razze all'esame del Dna
Dall'Università di Stanford un manifesto contro i pregiudizi «genetici»
I geni stanno diventando le icone più potenti della nostra società; sembra che tutto dipenda dai quei minuscoli frammenti di Dna distribuiti sui 46 cromosomi di cui ognuno di noi è dotato. Un'icona pericolosa se non viene smitizzata, o quanto meno governata, perché potenziale pretesto di derive razziste.
Ne è convinto un gruppo di esperti della Stanford University che dopo una serie di incontri, (il primo nel 2003) ha messo nero su bianco dieci enunciati ( riportati qui accanto),
ovvero un ma-nifesto, un elenco di certezze che dovrebbero mettere al riparo da un uso in senso razzista delle informazioni genetiche che si vanno via via accumulando. Fra i 18 firmatari, nomi importanti del mondo accademico americano, come il biologo Marcus Feldman e Barbara Koenig, bioeticista della Mayo Clinic, ma fra tutti spicca Luca Cavalli- Sforza, scienziato di fama mondiale per le sue ricerche sulla genetica delle popolazioni e sulle migrazioni umane che dopo tanti anni passati alla Stanford University ora rientra definitivamente a Milano (in programma un insegnamento all'Università di Pavia, la città dove studiò). Punto centrale il primo: l'idea che la variabilità genetica umana permetta di configurare l'esistenza delle razze non ha alcuna base scientifica. E su questa scia si ribadisce che i concetti di razza e di etnia hanno una matrice esclusivamente socio-politica e che nell'albero genealogico di un individuo le informazioni genetiche ci dicono poco se non sono accompagnate da altre di tipo culturale, affettivo, comportamentale. Un manifesto per molti versi simile a quello degli scienziati antirazzisti 2008 presentato pochi giorni fa a San Rossore (anche questo in dieci enunciati) ma assai più lapidario.
«D'altro canto il manifesto della Stanford University rispecchia le tensioni razziali che ancora oggi esistono negli Stati Uniti e la paura che la genetica possa porgere il fianco a nuove discriminazioni» commenta Alberto Piazza, direttore del dipartimento di genetica, biologia e biochimica della facoltà di medicina dell'Università di Torino, che insieme a Marcello Buiatti, Guido Barbujani e Rita Levi Montalcini - e altri ricercatori - ha firmato il manifesto di San Rossore. «L'uguaglianza non ha niente a che fare con la omogeneità genetica e questo documento, rigido fino alla semplificazione, lo esprime bene; non si può non condividerlo » commenta Giuseppe Biamonti, direttore dell'istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia.
Più critico Luigi Naldini, condirettore dell'Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica di Milano: «La paura di una deriva razzista porta a enfatizzare l'origine sociopolitica delle etnie fino a vedere solo quella. Ma sotto il profilo scientifico le cose sono più complesse: esistono gruppi di popolazione che per motivi storici, ad esempio in seguito all'isolamento e ai matrimoni fra parenti, sono molto omogenei sotto il profilo genetico e noi sappiamo quante informazioni utili, ad esempio sulla suscettibilità alle malattie, ci dà lo studio delle loro caratteristiche. Non credo che si possa combattere una ideologia razzista con un'operazione altrettanto ideologica che nega il valore del patrimonio genetico nella storia dell'uomo».
Corriere della Sera Salute 27.7.08
Scienza ed etnie
Il dibattito americano e l'evoluzione del razzismo secondo lo storico Francesco Cassata
«C'è una nuova insidia: l'assolutismo culturale»
di Antonio Carioti
«Il dibattito sul valore scientifico del concetto di razza si è sviluppato negli Stati Uniti da molti anni, a partire dalle quattro dichiarazioni emesse dall'Unesco tra il 1950 e il '67, che costituirono la piattaforma ideologica della lotta alla segregazione razziale e suscitarono forti reazioni ostili da parte di alcuni scienziati». Lo storico Francesco Cassata ha scritto per l'editore Bollati Boringhieri libri come Molti, sani e forti, sull'eugenetica in Italia, e il più recente Le due scienze, sui riflessi del caso Lysenko nel nostro Paese.
A suo avviso, il manifesto di Stanford «va inserito nella polemica che vede influenti settori del mondo scientifico americano rivendicare la validità di categorie razziali, usando le differenze nel quoziente d'intelligenza medio riscontrabili fra le etnie per attaccare le politiche di Welfare in favore dei più poveri. Si tratta degli stessi argomenti ripresi di recente dal premio Nobel James Watson, ma che sono già stati confutati da tempo, attraverso studi che hanno dimostrato l'assoluta inadeguatezza del quoziente d'intelligenza come strumento per misurare le capacità mentali e classificare le popolazioni».
Insomma, secondo Cassata, «il manifesto di Stanford è utile, perché ribadisce che le differenze genetiche vanno riferite agli individui e non ai popoli, sbarrando la strada a ogni deriva etnicizzante della genomica. Inoltre richiama l'esigenza di far conoscere la storia della biologia: specie del suo "lato oscuro", che in passato ha legittimato il razzismo».
Proprio da questo punto di vista è assai carente, secondo Cassata, la dichiarazione antirazzista di San Rossore: «Il testo è speculare al manifesto razzista uscito nel 1938, come se fosse ancora urgente contrastare quelle posizioni, mentre ignora le radici antiche che il mito ariano aveva anche in Italia e la questione dell'impunità di cui godettero i firmatari del 1938, studiosi cui ancora oggi sono intitolati musei, strade e premi scientifici. Inoltre il manifesto non considera che oggi il razzismo ha cambiato volto: non si richiama più a categorie biologiche, ma alle culture e alle loro differenze, che tende ad assolutizzare. Non ha molto senso oggi l'indignazione retrospettiva verso le idee razziste degli anni Trenta, quando un altro tipo di razzismo, più sottile e insidioso, trova spazio sui media e anche in sede politica».
Corriere della Sera Salute 27.7.08
Biblioterapia Un «trattamento» da mettere in valigia
Il dottore mi ha prescritto un libro
Pagine scelte, contro i nostri disagi
di Rita Proto
I libri sono miniere, in cui ciascuno di noi, se vuole, può trovare la nota cui accordare il proprio cuore
Ma che cos'è questa strana cura?. «La biblioterapia è una vera e propria terapia: "prescrivere" un libro — spiega Rosa Mininno, psicologa e psicoterapeuta, curatrice di www.biblioterapia. it, il primo sito del genere in Italia — aiuta la persona sofferente a riflettere su di sé, a potenziare le capacità cognitive ed emotive sviluppando risorse empatiche, acquisendo conoscenze ed elaborando strategie di gestione del disagio».
«Io ho cominciato più di 10 anni fa — conferma Andrea Bolognesi, psichiatra — a "prescrivere" libri, al posto o insieme ai farmaci, a pazienti in situazioni di disagio esistenziale, lieve depressione, o che soffrivano di crisi tipica delle età di "passaggio": adolescenza, menopausa, vecchiaia».
Ma perché leggere fa bene? «I romanzi, — risponde Bolognesi — specie i grandi della letteratura classica, sono miniere dove ognuno può trovare la nota cui accordare il suo cuore. Nella lettura dei romanzi entra in gioco l'identificazione coi personaggi. Questo meccanismo permette di "guardarsi dentro" senza auto-inganni, grazie a quella dose di indulgenza/ complicità che, attraverso il personaggio, ci fa accettare nostri difetti, errori o conflitti. Nella lettura dei saggi invece, se davvero "centrati" sul problema del paziente, scatta un meccanismo di chiarificazione/illuminazione che fa esclamare: "Ma è stato scritto proprio per me!". E questo aiuta a superare le naturali resistenze che, all'inizio, si frappongono tra terapeuta e paziente».
E ci sono libri per ogni tipo di disagio. «Come non consigliare Madame Bovary, o Anna Karenina, o Casa di bambola a donne tormentate dal desiderio di evasione e riscatto? — dice Bolognesi —. Ai genitori possessivi, suggerirei il capitolo "I Figli" tratto dal Profeta di Gibran e ad adolescenti afflitti da incomunicabilità col padre proporrei Lettera al padre di Kafka. Ai depressi indicherei Bartebly, lo scrivano di Melville, e Oblomov di Goncarov, due personaggi che rappresentano, meglio di qualsiasi trattato di psichiatria, il prototipo di chi lascia scorrere la vita guardandola dalla finestra. Confrontandosi con loro, il depresso apatico può scuotersi e ritornare ad essere attivo, con un meccanismo "omeopatico". Con meccanismo opposto può invece agire il Circolo Pickwick di Dickens, che dona buon umore anche ai più sfiduciati. Ai manager stressati, propongo Le memorie di Marco Aurelio e Le lettere a Lucilio di Seneca: la loro pacata saggezza potrà aiutare a capire il valore del "soffermarsi" su di sé con coraggio. E agli ansiosi ipocondriaci indico Il male oscuro di Giuseppe Berto o il bellissimo racconto Il sentiero nel bosco di Adalbert Stifter perché possano rendersi conto di quante energie dilapidano concentrandosi sulla loro nevrosi».
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