Una donna nota in tutto il mondo, ma anche fondamentalmente sola. Una personalità forte, ma anche intimamente fragile. Un Io ipertrofico, ma anche imprevedibilmente aperto. Un carattere egocentrico ed egoista, ma anche improvvisamente generoso. Un'aggressività manifesta, ma anche inconsciamente una forma di difesa. Un modo di fare difficile, ma anche sorprendentemente dolce. Un ragazzaccio incontrollabile, ma anche responsabile e disciplinato. Questa era Oriana Fallaci, della quale sono stato amico prima che il lato che precedeva il «ma» prendesse in lei il sopravvento e finisse la nostra vecchia amicizia.
La (ri)lettura dei suoi libri è certamente un modo, se non il solo per chi non l'abbia conosciuta e frequentata personalmente, di cercare di comprenderne, oltre che lo straordinario talento, la natura complessa. È, infatti, dalle contraddizioni che pur costellano l'intero suo percorso letterario e giornalistico che emerge il dato fondamentale della sua personalità. La Fallaci, attraverso i propri scritti, è stata perennemente alla ricerca di se stessa per la semplice ragione che convivevano nella sua persona quelle stesse contraddizioni. Era un'anarchica, con lo stesso sottofondo liberaloide che caratterizzava il profilo politico di un altro toscanaccio: Indro Montanelli. L'amore per la libertà aveva fondamento, in entrambi, non nella conoscenza dei classici del liberalismo - che forse avevano letto, ma dai quali non erano stati influenzati - ma nel rifiuto di ogni disciplina ideologica. La libertà era, per entrambi, una sorta di adesione temporanea alle convenzioni del momento - che li teneva in sintonia con i loro lettori - ma, allo stesso tempo, anche una forma di latente ribellismo psicologico, che li collocava ai confini dell'eresia, confini valicati, un momento dopo, per una nuova adesione allo «spirito del tempo».
Ero andato a New York per intervistarla. «Del mio libro o parlo con Piero o con nessun altro». Mi aveva chiesto subito - quando le avevo telefonato dall'albergo - se avevo portato il registratore, per fissare alla lettera le sue risposte. Non l'avevo. «Neppure le cassette da usare nel mio e da riportarti a Milano registrate?». No, Oriana, neppure quelle. «E allora, che si fa?», aveva replicato già aggressiva. Si fa che esci e le vai a comprare. Era comparsa nella hall dell'albergo con le cassette e in abito lungo. Era il suo compleanno e l'avevo invitata a cena per festeggiarlo. Il giorno dopo, ero andato a colazione a casa sua. Salmone e caviale, in omaggio ai miei trascorsi russi. Il caviale lo avevo mangiato tutto io: «A me non va - aveva mentito spudoratamente - e poi a te piace». L'insalata l'aveva condita lei, tagliandone le grandi foglie, già nel mio piatto, imprecando: «Sei il solito stronzo viziato, ma come cazzo fa tua moglie a sopportarti?». Eravamo rientrati assieme a Milano e lei - protettiva e inaspettatamente umile - aveva litigato con lo steward, perché aveva servito a «un grande giornalista» una cena non propriamente impeccabile (per l'occasione, il «grande giornalista» ero diventato io, e aveva smesso di esserlo lei!).
Viene a Milano per un'intervista alla nostra tv. «Sono agitata, ho paura che vada male; se non vieni subito, mi suicido». Vado, e prendiamo un tè da Cova. Ma che diavolo vuoi che ti succeda? Ti hanno intervistata decine di volte. Io, poi, devo andare all'aeroporto a prendere mia moglie che torna da Parigi e sto facendo tardi. Sbotta, insofferente. «La vuoi smettere di fare clic-clac con quel cavolo di coso che hai in tasca? Ma che è?» (è un Movado d'epoca da taschino). Oriana, devo andare. Manco parlarne. All'aeroporto ci andrà mio figlio. Si torna al suo albergo. Sale in camera e viene giù con un enorme mazzo di rose e un magnum di champagne - ma quando li ha ordinati? - e dice imperativa: «Sono per Marisa, andiamo a casa tua ad aspettarla». Naturalmente, il giorno dopo, l'intervista andrà benissimo.
Ancora. La Rizzoli ha pubblicato un libro con una raccolta di miei articoli. Ma abbiamo dimenticato quello nel quale la difendevo dagli attacchi che aveva subito per la difesa dei valori dell'Occidente contro l'Islam. Va su tutte le furie. Ci scusiamo, io e l'editore, e ne facciamo una ristampa col benedetto articolo. Ma non basta. Io, poi, ho l'imprudenza di riderci sopra. È la rottura. Era matta da legare, ma con me è stata sempre adorabile e io le ho voluto bene, come si vuole a una sorella maggiore, anche dopo che mi aveva cancellato dalla sua esistenza perché (io!?) ero «proprio insopportabile».
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