Esotico red carpet per la star Khan, il Forrest Gump di Mumbai
«Gangor» dell'italiano Spinelli fa arrabbiare i fondamentalisti indù
FULVIA CAPRARA
ROMA
L'ultima star del Festival si chiama India. Ieri, con i suoi problemi, drammi,
contraddizioni, ma anche con i colori meravigliosi e i cibi raffinati, l'India
è stata al centro della rassegna. Dalla proiezione di Gangor di Italo Spinelli,
ambientato nel Bengala occidentale e dedicato al tema della violenza sulle
donne tribali della Purulia, fino all'«indian dinner» organizzato per
festeggiare il superdivo Shah Rukh Khan che, nel Mio nome è Khan (sui nostri
schermi dal 26 novembre con il marchio Fox) è un misto di Tom Hanks in Forrest
Gump e Dustin Hoffman in Rainman.
Ancora una volta, al Festival, più dei film sono importanti gli argomenti, i
personaggi, la cornice. E infatti, al termine di una 24 ore in salsa tandoori,
non poteva mancare la passerella in stile Bollywood con tripudio di sari e
pioggia di petali multicolori. Eppure il clima dei due film ha ben poco a che
vedere con l'industria che ha fatto la fortuna del cinema indiano. In Gangor,
basato sul racconto Dietro il corsetto della scrittrice Mahasweta Devi, si
racconta la storia di Upin (Hadil Hussein), fotoreporter di fama internazionale
colpito al cuore dall'immagine di Gangor che allatta al seno suo figlio.
Per la protagonista è l'inizio della fine, una maledizione che le distruggerà
l'esistenza. Lo scatto fa il giro del mondo, gli uomini del villaggio mettono
al bando la donna colpevole di aver mostrato il seno nudo, la violentano, la
spingono sulla strada della prostituzione.
Il fotografo impazzisce per il senso di colpa, ma alla fine è proprio Gangor a
portare avanti coraggiosamente la denuncia contro gli stupratori: «Nel racconto
ho descritto la condizione femminile nelle società tribali, anche se oggi molte
cose sono mutate, c'è l'uguaglianza tra i sessi, il divorzio è permesso come la
possibilità di risposarsi». Sul film, che non è ancora uscito in India, grava
il pericolo della censura: «I fondamentalisti indù - dice il regista Spinelli -
potrebbero reagire in modo violento». La scrittrice, 84 anni, è pronta a dare
battaglia: «Se cercheranno di metterci i bastoni fra le ruote, andremo a New
Delhi a protestare».
Angelo Barbagallo, produttore della pellicola, si augura che, vedendola, le
«donne italiane abbiano uno scatto d'orgoglio per quello che sta accadendo».
Intanto si mobilita il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella: «L'
immagine di una mamma che allatta il suo bambino non può mai essere considerata
scandalosa, allattare è un gesto naturale e affettivo in qualunque cultura».
Anche Shak Rukh Khan, 45 anni, adorato da miliardi di fan, 60 film in vent'anni
di carriera e un patrimonio di oltre 500 milioni di dollari, lotta alla sua
maniera per la tolleranza e la comprensione fra diverse culture.
In My name is Khan, campione al box office indiano, racconta l'epopea di un
musulmano affetto da sindrome di Asperger, rimasto orfano da piccolo,
innamorato di una ragazza indù. Dopo l'11 settembre la vita dei musulmani nel
mondo diventa terribilmente difficile, lui decide di anadre a spiegarlo di
persona al presidente degli Stati Uniti.
Ci riuscirà. E nelle ultime sequenze del film di tre ore lo vediamo al fianco
di Obama: «Tra pochi giorni Obama sarà in India, finora abbiamo sentito le sue
giuste parole, adesso dobbiamo vedere se le dichiarazioni saranno realizzate.
Comunque sono convinto che le cose possano migliorare, che ci saranno più
discussioni e più confronti tra diversi punti di vista».
Ogni parola di Khan assume nel suo Paese una risonanza enorme, è nella lista
dei 150 musulmani più influenti del mondo: «Ne sono lusingato, cerco di usare
il mio lavoro per far arrivare messaggi positivi. Voglio che i miei figli
crescano ragionando bene, fuori dagli stereotipi, sapendo che non serve
aggredire per ottenere quello che si vuole».
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