giovedì 2 febbraio 2012

Addio Wislawa Szymborska; poetessa e grande testimone del presente

Aveva 88 anni ed è morta ieri sera a Cracovia Svelò l’emozione di un mondo salvato dalla meraviglia.

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Nel discorso di accettazione per il premio Nobel, Wislawa Szymborska spiegò che cosa intendeva lei per «poeta»; un essere semiclandestino, inafferrabile, e proprio per questo, forse, insostituibile. Il poeta odierno, diceva, «è scettico e diffidente... nei confronti di se stesso. Malvolentieri dichiara in pubblico di essere poeta, quasi se ne vergognasse un po’»: perché non ci sono «professori di poesia», perché «il loro lavoro non è per nulla fotogenico», ma soprattutto perché i poeti posseggono due parolette: «non so». E’ morta ieri a Cracovia, a 88 anni. Era nata nel 1923 a Kornik, cittadina vicino a Poznan, e ha trascorso una lunga vita lontano dai riflettori. Sostanzialmente, scrivendo poesie. Minuta, i capelli candidi, il volto aguzzo e sorridente, l’abbiamo vista qualche volta in Italia, per esempio alla Fiera del libro di Torino. Non amava particolarmente i discorsi in pubblico.

Wislawa Szymborska; poetessa e grande testimone La sua vita è stata forgiata dalle iniziali speranze per il comunismo alle precoci disillusioni, vivendo di nulla, per esempio di rubriche su un giornale che l’aveva licenziata quando lei stracciò la tessera del partito, standosene il più possibile appartata e riuscendo tuttavia a pubblicare le sue raccolte di versi. La sua non è una battaglia politica in senso stretto, nell’Europa dell’Est prima dell’89. E’ semmai una testimonianza. Appartiene alla generazione dell’esilio interno, come il praghese Holan o l’ungherese Kertész, Quando nel ‘96 ha ricevuto il Nobel, ha distribuito in aiuti e beneficenza il premio in denaro e da Cracovia si è trasferita a Zakopane, per difendersi dalla notorietà. In quel momento era già tradotta nelle principali lingue, anche in Italia da Scheiwiller, ma non era affatto nota. La prima volta in cui il suo nome era risuonato in Italia risale però al 1988, quando, ancora a Torino, un altro Nobel, il poeta russo esiliato in America Josif Brodskij, parlò di lei come di una delle grandi voci poetiche del Novecento non soltanto polacco (in Russia l’aveva tradotta l’Achmatova nel 1966). Poi la pubblicazione della raccolta Vista con granello di sabbia per Adelphi l’ha fatta diventare anche da noi un autore molto amato.

La sua poesia, in apparenza semplicissima, è in realtà insidiosa, niente affatto tranquillizzante. Antiplatonica, non crede in un mondo immutabile delle idee, anzi ad ogni verso ne svela l’inganno. La nostra esistenza, scrive, «è benvenuto e addio in un solo sguardo»: ci salva la meraviglia davanti alla realtà, il poter dire «tutto è mio, niente mi appartiene». Nel passaggio stretto della vita c’è una possibilità: la bellezza che va oltre il male, oltre la fine - ingiusta - della vita stessa. Sempre nel discorso del Nobel, aveva evocato l’intero universo, con le sue distanze abissali, le stelle infinitamente lontane, i pianeti «già morti o ancora morti», per ricordare che «il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da alcun paragone con alcunché, e poi perché il mondo, qualunque cosa ne pensiamo, questo smisurato mondo è stupefacente».

Si è parlato per lei di una sorta di «addomesticamento della morte». Una delle sue metafore preferite è quella delle nuvole, eternamente mutevoli e imprevedibili. «Non c’è vita/ che possa essere immortale/ se non per un momento». Parla del presente, tutto il resto è ipotesi, ricostruita dal passato o proiettata sul futuro. E lo fa con una dolcezza ironica.

szymb4[1]La sua poesia «post-ideologica» ci parla dello stupore: il mondo non è affatto ovvio, si tratta di vedere i «miracoli», soprattutto quelli «alla buona», in base ai quali, per esempio, «le mucche sono mucche» e la frutta matura nel frutteto. Tra i suoi ammiratori il regista turco (e italiano) Ferzan Ozpetek ha raccontato una volta come il primo incontro con i suoi versi corrispose anche, magicamente, all’anteprima del suo film d’esordio, Il bagno turco «Quello che la Szymborska vuole salvare dal diluvio - dice il suo traduttore Piero Marchesani - non sono le grandi cose o i paroloni, ma «chiaroscuri e semitoni/ capricci, ornamenti e dettagli/ stupide eccezioni/ segni dimenticati innumerevoli varianti del grigio/ gioco per il gioco/ e lacrima del riso». La sua tranquilla e sorridente sapienza stoica può stare in un solo verso: «Tutto è mio, niente mi appartiene».

Via | La Stampa | MARIO BAUDINO

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