sabato 14 giugno 2008

Corpi nudi? Le donne li preferiscono al femminile | Alessandra Farkas | Corriere.it

Corpi nudi? Le donne
li preferiscono al femminile

La visione di un uomo senza vestiti in spiaggia provoca la stessa eccitazione dell'Himalaya ricoperto di neve

Senza veli
NEW YORK - Cos'è erotico per una donna? Decisamente non un uomo nudo. Lo ha scoperto un gruppo di scienziati del Center for Addiction and Mental Health dell'Università di Toronto, autori di uno studio sulla sessualità delle donne nordamericane. «Per le donne eterosessuali - afferma la dottoressa Meredith Chivers, che ha guidato la ricerca - guardare un uomo nudo che passeggia sulla spiaggia è eccitante quanto ammirare un paesaggio».

LA RICERCA - Nel corso dello studio – che è servito come base per il documentario sulla bisessualità "Bi the way" – gli scienziati hanno mostrato ad un campione di signore e signorine dei video di uomini e donne nudi, in vari contesti, erotici e non, per misurare l'eccitazione genitale delle spettatrici attraverso un «foto pletismografo». Dalle trascrizioni del sofisticato apparecchio è emerso che, davanti ad un maschio atletico che fa yoga nudo, le donne eterosessuali non si eccitano né più né meno che nel contemplare le immagini dell'Himalaya ricoperto di neve. Quando le stesse donne vedono un'attrice femmina nuda che pratica ginnastica callistenica, al contrario, la circolazione sanguigna nei loro organi genitali aumenta considerevolmente.

SENSUALITA' - «Quello che importa veramente alle donne non è il sesso dell'attore nel video - teorizza la Chivers - ma il grado di sensualità che emana dalla scena stessa. Le donne – incalza l'esperta - sono più stimolate da video di autoerotismo, ed ancora di più da scene grafiche di coppie, etero o gay, che hanno rapporti sessuali». I risultati dello studio sembrano confermare la convinzione crescente tra i sessuologi Usa circa la natura più complessa e spesso ambigua della sessualità femminile. «La ricerca individua un concetto ovvio ma finora inesplorato - puntualizza Josephine Decker, regista di "Bi the way" -Le donne sono più fluide degli uomini nella loro sessualità».

PREDISPOSIZIONE - Ma la dottoressa Chivers mette in guardia da facili generalizzazioni. «Concludere che tutte le donne sono bisessuali in base alle loro reazioni in questo studio - afferma - trascurerebbe la complessità e multidimensionalità della sessualità femminile». L'apparente flessibilità delle donne, secondo la Chivers dimostra semplicemente «una maggiore predisposizione alla bisessualità rispetto al mondo maschile».

Alessandra Farkas
Corriere.it


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Addio dittatura del proletariato! Ci hanno dato la dittatura di BERLUSCONI. Giuseppe D'Avanzo, la Repubblica

Addio dittatura del proletariato!
Ci hanno dato la dittatura di BERLUSCONI.

 
-Nelle strade armati di fucili
ai soldati il potere di fermo.

-Sorveglianza di sera. Incentivo di 500 euro mensili
Lo schema: due-tre militari insieme a un poliziotto.

Armati di fucile, in uniforme con elemetto e giubotto antiproiettile, gireranno così i 2500 fanti (incentivati con 500 euro) destinati all'ordine pubblico!


.......ma se i militari sono perplessi (vedi generale Mario Buscemi a suo tempo responsabile di "vespri Siciliani....")noi, IO lo sono perchè queste cose portano dritti dritti ad un REGIME: è quello che auspica il premier di Arcore?Legittimo pensarlo e basta?

Berlusconi è intenzionato a dimostrare che - per governare la crisi italiana, come vuole che noi l'immaginiamo - è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l'ordine giuridico dalla vita. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Così critica, oscura e sinistra da rendere urgente e senza alternative un potere di regolamentazione così esteso da modificare e abrogare con decreti le leggi in vigore.

Con il "decreto sicurezza" (alla voce immigrati) e con il "decreto Napoli", è stato chiaro che Berlusconi intende muoversi in uno "stato di eccezione". Ha deciso di esercitare il suo potere secondo un tecnica che gli impone di creare - volontariamente e in modo artefatto - una necessità dopo l'altra, giorno dopo giorno, quale che siano le priorità più autentiche e dolorose del Paese. Nonostante quel che si può pensare, infatti, la necessità non è una situazione oggettiva, implica soltanto un giudizio o una valutazione personale. In fondo, sono straordinarie e urgenti soltanto le circostanze definite tali: quel che, come tali, definisce il Cavaliere.

Il quinto consiglio dei Ministri del Berlusconi IV ha dichiarato l'assoluta necessità di ridimensionare l'azione dei giudici; di limitare il diritto di cronaca; di declinare le ragioni dello Stato con l'esibizione, la forza, le armi dell'Esercito. E' finora il caso più emblematico ed esplicito di quel che abbiamo definito la "militarizzazione della politica". Non è mai avvenuto in Italia che i soldati fossero chiamati a far fronte all'ordine pubblico o al controllo delle città. Nemmeno nei terribili mesi che seguirono alla morte di Falcone e Borsellino, all'aperta sfida lanciata contro lo Stato dalla Cosa Nostra di Totò Riina. In quell'occasione, l'Esercito si limitò a proteggere, con "posti fissi", gli edifici pubblici e i luoghi "sensibili" liberando dall'impegno non investigativo le forze di polizia. La decisione del governo di "parificare" 2.500 soldati "agli agenti di pubblica sicurezza" con "compiti di pattugliamento e perlustrazione" delle città inaugura una nuova, inedita stagione. Evocando ragioni (necessità) di "ordine pubblico" e "sicurezza" avvicina, sovrappone il diritto alla violenza. Assegnata all'Esercito, altera il suo segno la funzione amministrativa della polizia, chiamata a rendere esecutivo il diritto. Quella funzione e presenza si fa intimidazione. Non solo per chi trasgredisce, ma per tutti coloro che non credono "democratico" che il governo sostenga le sue decisioni con la violenza. 

Nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto della forza, come non avvertire il rischio che chiunque dissenta sia considerato un "criminale" perché avversario di una "decisione assoluta" che sola può assicurare la "governabilità" e l'uscita dalla crisi? Non è questa l'idea politica, il paradigma di governo, addirittura il fondo sublogico che consiglia a Berlusconi di intervenire anche contro la magistratura limitando l'uso delle intercettazioni o contro l'informazione, promettendo il carcere a chi pubblica il testo o il riassunto di "un ascolto"?

Magistratura e informazione, i due ordini che, in un'equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri, diventano in questo quadro i pericolosi agenti attivi e degenerati del declino da affrontare. "Nemici", perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l'urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi avrebbe voluto con immediata forza di legge. E' stato costretto a una marcia indietro dal capo dello Stato e, dalla Lega, a una correzione che autorizza le intercettazioni anche per i reati contro la pubblica amministrazione. Ma il disegno di legge, se non sarà corretto in Parlamento, dissemina l'iter investigativo e la sua efficacia di intralci, intoppi, legacci, esclusioni, vuoti, bizzarri obblighi (se l'indagato è un vescovo bisognerà avvertire il segretario di Stato vaticano, cioè il ministro di un altro Stato).

Sono ostacoli che salvaguardano le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendono più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy. I corifei del sovrano diffondono numeri farlocchi sul passato, mai spiegano perché non chiudono le falle nella rete dei gestori di telefonia, venute alle luce con l'affare Telecom. Né svelano all'opinione pubblica come e se daranno mai conto dell'uso delle "intercettazioni preventive" che oggi, al di fuori del processo penale e di ogni tipo di controllo giurisdizionale, possono essere effettuate dalle polizie e, dal 2005, anche dai servizi segreti su delega del presidente del Consiglio con l'autorizzazione del procuratore presso la Corte d'Appello.

Non è la privacy del cittadino che interessa a Berlusconi. Gli interessa soltanto la sua privacy e la sua immagine, l'annullamento di un paio di conversazioni con Agostino Saccà, l'oblio di altre in cui di lui si parla. Intende creare una sorta di "diritto positivo della crisi" che impone al giudice di che cosa occuparsi in ossequio alla funzionalità della decisione politica, presentata come necessaria e univoca. Vuole giornalisti silenziosi, intimiditi dalla minaccia del carcere. Vuole editori spaventati dalle possibili, gravi penitenze economiche.

Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare radicalmente la struttura e il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie.


(14 giugno 2008 Giuseppe D'Avanzo : Il commento)

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Tremonti: da Irlanda segnale di paura Il ministro dopo la vittoria dei no: «È un messaggio irrazionale». Sarkozy:«Il processo deve continuare»

Tremonti: da Irlanda segnale di paura

Il ministro dopo la vittoria dei no: «È un messaggio irrazionale». Sarkozy:«Il processo deve continuare»

(Eidon)
ROMA - Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, non nasconde la sua preoccupazione per la bocciatura, con un referendum, del Trattato di Lisbona da parte dell'Irlanda. «È un messaggio dei cittadini, i popoli ci trasmettono segnali di paura e di incertezza - ha detto al termine della riunione del G8 di Osaka -. Si può dire che questo non è razionale, ma riceviamo un messaggio e dobbiamo agire perché sono segni di difficoltà alla tenuta democratica».

SEGNALE IRRAZIONALE - «Il mercato finanziario è importante - ha aggiunto Tremonti - ma la stabilità politica è più importante per il mercato. Su questo hanno convenuto più o meno tutti i ministri». Quello dell'Irlanda, è un voto «molto forte, che viene dalle aree più popolari, da un paese beneficiario dell'Europa. È un segnale irrazionale e proprio per questo pericoloso». Bisogna cambiare schemi di valutazione, secondo Tremonti, «occorrono modelli diversi, che non sono quelli degli illuminati che dovrebbero lasciare la scena per limiti d'età».

SARKOZY: «ANDARE AVANTI» - «L' incidente del no irlandese non deve diventare una crisi - è invece l'opinione del presidente francese, Nicolas Sarkozy, espressa nel corso della conferenza stampa congiunta al termine della visita in Francia di George W. Bush -, e nello stesso tempo deve spingerci a riflettere insieme sul modo in cui viene portata avanti la politica europea». Il processo di ratifica del Trattato di Lisbona, secondo il capo dell'Eliseo, «deve continuare». «Molti europei - ha spiegato Sarkozy, che dal primo luglio assumerà la presidenza dell'Ue - non comprendono come si sta costruendo l'Europa. Occorre essere più efficaci sulla vita quotidiana dei cittadini». Sarkozy ha citato, in particolare, la questione dell' immigrazione e dell'aumento del costo del petrolio.

STEINMEIER - Un invito a non lasciarsi prendere dallo sconforto arriva anche dalla Germania, secondo cui l'Ue potrà portare avanti il processo di integrazione nonostante il no irlandese. «La questione è se l'Irlanda potrà, per un certo periodo, aprire la strada a un'integrazione degli altri 26 Stati membri», ha spiegato il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, a margine di una visita in Cina. Steinmeier ha spiegato che i ministri degli Esteri ne discuteranno lunedì a Lussemburgo per risolvere una questione complessa sotto il profilo giuridico. Berlino ha definito «un duro colpo» per l'integrazione la vittoria del no nel referendum in Irlanda, ma ha invitato gli altri Stati membri a portare avanti il processo di ratifica.

Corriere.it

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Sotto il voto cattolico niente "la questione cattolica è stata all'origine della democrazia italiana" di Raniero La Valle, Megachip - di prossima pubblicazione sulla rivista "Rocca"

Sotto il voto cattolico niente

"la questione cattolica è stata all'origine della democrazia italiana"

di Raniero La Valle, Megachip - di prossima pubblicazione sulla rivista "Rocca"

Circolano degli studi, condotti con encomiabile rapidità dai professori Paolo Segatti e Paolo Natale, sulla dislocazione del voto cattolico nelle recenti elezioni politiche che hanno dato il trionfo alla destra. Su tali studi, nel giro di pochi giorni, ci sono stati due convegni a Roma, uno all'università Gregoriana organizzato da Dario Franceschini e dalla sua rivista "Questa fase", l'altro nei pressi di Montecitorio organizzato dai cristiano-sociali del Partito democratico.

Da questi studi, e dai relativi convegni, è risultata una singolare verità: sotto il voto cattolico, niente. È la prima volta che ciò accade da quando, attraverso la DC, il voto cattolico era determinante per qualsiasi risultato elettorale. Questa volta viene fuori che il voto dei cattolici si è spalmato tra i partiti, più o meno nelle stesse proporzioni in cui si è distribuito l'elettorato in generale. Naturalmente ci sarebbe da discutere chi siano, veramente, i cattolici. Secondo i parametri dei sociologi sono quelli che con maggiore o minore frequenza vanno a messa (con un declino del 6 per cento negli ultimi dodici anni), dichiarano la loro appartenenza alla Chiesa e mantengono qualche pratica di usanze cristiane; si tratta di circa un terzo dell'elettorato. Così identificati, essi per il 42 per cento hanno votato a favore del Popolo della libertà di Berlusconi, per il 36 per cento a favore del Partito democratico di Veltroni, mentre per il 4 per cento hanno votato a favore dell'Unione di centro di Casini. Si sono fatte anche analisi più dettagliate, ma il risultato complessivo non cambia, ciò che fa dire a quanti hanno commentato questi studi che "è finita la questione democristiana", "è finito il cattolicesimo democratico" o addirittura "è finita la questione cattolica".

In un senso più profondo, e meno elettoralistico, le analisi dicono che si sarebbe creato una specie di amalgama in cui non c'è più una distanza culturale tra cattolici e "laici", tutti rientrando in una grande area multiforme di secolarizzazione di massa, in cui prevale una linea "neolibertaria tecnocratica e neoscientista", le cui caratteristiche salienti sarebbero il primato della soggettività, un individualismo anomico (per sé) e un desiderio normativo (per gli altri), la perdita della socialità e una mancanza di reattività (anche da parte della stessa gerarchia cattolica) alla "deriva neopagana" della Lega.

Se così stanno le cose, in questa cultura gelatinosa un Berlusconi che produce una legislazione penale e civile ormai ignara di ogni memoria di solidarismo e di mansuetudine cristiani, e nello stesso tempo si proclama "anarchico nell'etica", va benissimo.

Così, al culmine del processo volto a creare un'Italia apolitica e a bipartitismo perfetto, la qualità cristiana di una parte consistente dell'elettorato è pervenuta alla perfetta irrilevanza, sicché i partiti residui rimasti sulla scena la possono tranquillamente ignorare. Non che ci sia una irrilevanza della Chiesa come istituzione, a cui infatti sono molto attenti atei devoti e laici bigotti; ma secondo le statistiche riferite in questi studi il 74 per cento dei praticanti "ascolta la Chiesa e poi decide in base alla propria coscienza".

In effetti dopo tanti conflitti al calor bianco tra Chiesa e società politica sulla difesa della vita "dal concepimento alla morte naturale", sulle coppie non sposate e sulla fecondazione assistita, in cui ai cattolici sono stati chiesti soprattutto comportamenti oppositivi o astensionistici, anche dal voto, un'era di glaciazione sembra essere scesa tra Chiesa e società italiana. Alle generazioni dei cattolici della speranza succede ora una generazione di cattolici tristi. Sembra che non ci sia più niente da osare, la vita di trincea è una vita di cupa tristezza, e nei rifugi si asfissia. La realtà che si offre al nostro sguardo è avara di segni dei tempi. Non molti decenni fa si potevano scrutare dei segni che annunciavano un mondo più umano, dove la guerra era fuori della ragione. Oggi per avere un'idea del futuro che ci attende dobbiamo scrutare con quanta cupidigia Berlusconi afferra il braccio e bacia la mano del Papa.

La cosa non riguarda solo i cattolici. Come la questione cattolica è stata all'origine della democrazia italiana, così la fine della questione cattolica potrebbe anche segnare la fine della questione democratica in Italia. Per questo ci chiedevamo nel numero scorso se, venuta meno come è giusto la funzione politica dei cattolici presi tutti insieme come categoria politica indifferenziata, non si debba richiamare in vita dalla nostra tradizione l'esperienza di quei cristiani che seppero essere parte, e che a nostro avviso, da Romolo Murri a Luigi Sturzo alle Fiamme Verdi, a Franco Salvi e alla Resistenza, alla Costituente e a Moro, seppero stare dalla parte giusta: l'esperienza che sotto diversi nomi è stata quella di una "sinistra cristiana"; per non restare indifferenti alla cacciata e alla morte dei poveri.

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Vauro: "Morti sul lavoro", Il Governo corra al riparo

Vignetta di Vauro



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L’altalena delle emergenze Associazione BayesFor Paolo Brunori, Megachip

L'altalena delle emergenze


Ho sempre avuto l'impressione che in Italia ci fosse sempre un'emergenza. Non ci fosse mai un momento in cui ce n'erano 2 o 3 o un momento in cui non ce ne fosse nessuna, come se avessimo costantemente bisogno di sentire che c'è da preoccuparsi di qualcosa, ma entro certi limiti. Ho memoria di emergenze di tutti i tipi, dalle più serie alle più incredibili: emergenza video-poker, pitbull, baby-gang.

Con il motore di ricerca sviluppato dall'Associazione BayesFor, possiamo quantificare quanto si parla di ciascuno argomento, possiamo anche andar a recuperare gli articoli che hanno generato l'apparire sulle pagine web dei siti di informazione delle parole. Internet, questo flusso continuo di informazioni, può essere ri-letto, studiato...

E spesso un grafico conta più di tante parole.

a

Associazione BayesFir

Paolo Brunori

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Difendiamo le intercettazioni di Nadia Redoglia – Megachip

Difendiamo le intercettazioni

di Nadia Redoglia – Megachip

Secondo alcuni sondaggi proposti da importanti testate, ascoltando alcune interviste ma anche solo chiacchierando con personaggi più o meno competenti, impariamo che le intercettazioni ambientali non sono poi così mal viste e denigrate come i nostri governanti vorrebbero farci credere. Il popolo che ha ben poco o niente da nascondere non teme l'essere, seppur incidentalmente, ascoltato al telefono, così come del resto è già consapevole d' essere comunque a portata di 'spione': tra cellulari, telecamere, carte magnetiche di credito e di debito nessuno riesce a svicolare, questo è certo.

Dal che il cittadino, più o meno accondiscende, a patto che con questo sistema si acchiappino i delinquenti che proprio grazie alle intercettazioni non sono quasi mai per caso, ma spesso abituali. L'italiano apprezza che i maramaldi sociali vengano intercettati e quindi incriminati, ma esulta quando questi sono anche coloro che direttamente lo hanno danneggiato o turlupinato in prima persona.

E' il caso della lombarda clinica S. Rita, in parte ora accasciata a causa di alcuni suoi sanitari malavitosi. Di costoro, con indagine senza intercettazioni, forse avremmo indagato qualcuno, ma difficilmente possederemmo quel materiale probatorio che gli inquirenti hanno invece a loro mani. In quella struttura si agiva, volentieri, in sintonia col 'dr. Jekyll e mr. Hyde' e i suoi utenti/pazienti sopravvissuti - ciascuno di noi avrebbe potuto esserlo - si sono trovati devastati da quelle operazioni. Non è la prima volta: l'ultimo recente caso, quello di 'villa Anya' la casa di ricovero per anziani non autosufficienti di Melito Porto Salvo, altra bottega degli orrori e per lo stesso identico fine: rubare milioni, incuranti di ammazzare, al Ssn grazie agli accrediti da convenzioni. Ebbene, pare che l'ansiogeno ddl governativo - stavano per buttarlo giù in decreto, tanta era l'ansia, appunto - imporrà le ambientali solo per reati che prevedono 10 anni di reclusione (un tempo ci sarebbe stata anche la concussione che ne prevedeva 12, ma la ex Cirielli l'ha declassato. Non divaghiamo), ché siccome non siamo in Cina o zone limitrofe, per arrivare a tanto si necessita d'essere killer più o meno occasionali. Tutti i delinquenti appartenenti ad associazioni malavitose in genere, ma soprattutto mafiose ché noi siamo unici a rigirare l'art. 416bis c.p, non rientrano.

I nostri rappresentanti istituzionali pare abbiano un chiodo fisso: ci vogliono fare risparmiare - ici docet - e dunque è proprio il guardasigilli a dirci che le intercettazioni costano troppo, che siamo il Paese che spende di più, che non possiamo permetterci di impiegare per queste il 33% della spesa complessiva. Vediamo i conti insieme a un addetto ai lavori, il dott. Luigi Ferrarella che del tutto molto ha documentato. Concorda sul fatto che i costi sono elevatissimi, ma ci spiega anche il perché e soprattutto come fare a ridurli e di molto, consentendoci così di proseguire con questo indispensabile metodo. Ci dice che in effetti negli ultimi 5/6 anni si sono spesi 1miliardo e 200milioni, ma non è questa cifra il vero problema, ché il nostro Paese è uso a disquisire su problemi che tali non sono e ignora quelli effettivi e non è neppure vero che gli altri Paesi hanno un numero minore di intercettazioni. Infatti da noi chi vi accede è esclusivamente l'autorità giudiziaria, mentre negli altri Stati l'intercettazione viene espletata anche dalle autorità dei servizi di sicurezza e dall'amministrativa di natura economica.

I costi che noi stiamo supportando sono spesso legati a un malsano federalismo giudiziario. Com'è che, ad esempio, la procura di Bolzano è riuscita ad ottenere gli stessi risultati pagando la metà? Perché a parità di tempo e ad analoghe inchieste una sede giudiziaria spende 1 e un'altra spende 18? Per un semplice motivo: la sede giudiziaria che spende '1', rendendosi conto che deve operare a parità di un centro economico di piccola impresa, sceglie e contratta, negozia coi fornitori - sono aziende private che forniscono il servizio - Basterebbe unificare, centralizzando su tutto il territorio questa strategia. Il ministero precedente stava infatti progettando in tal senso, ma ora pare sia tutto a bagnomaria. Non si può più essere indifferenti ai costi, è vero, ma altrettanto vero è che per ottenere garanzie importanti non si possono subordinare al costo strumenti fondamentali come le intercettazioni. Se si fanno investimenti iniziali costosi e poi, grazie a questi, si superano gli ostacoli, sfruttando al massimo i tempi e metodi degli investimenti sinergici, piuttosto che 'federalisti' dispersivi, in poco tempo sarà la società a guadagnarci e, in civile, ciascuno di noi.

Altro esempio? Milano ha investito nella telematica. I decreti ingiuntivi ora si ottengono in 15/20 giorni, invece che in tre mesi. I creditori nei tre mesi di attesa erano costretti a chiedere finanziamenti da bolla di ossigeno. In un solo anno, dati alla mano, hanno recuperato 12/14 milioni di euro. Sarà il caso di tirar fuori dalla naftalina quel vecchio detto del "chi più spende, meno spende" e accantonare outlet e batteur?



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Gomorra, il film di Matteo Garrone, incontro con Maurizio Braucci, lo Straniero

Gomorra, il film

di Matteo Garrone, incontro con Maurizio Braucci

Da ottobre 2006, per quattro mesi, abbiamo lavorato alla stesura della sceneggiatura dell'ultimo film di Matteo Garrone, tratto dal best seller "Gomorra" di Roberto Saviano. Insieme al regista e all'autore del libro, io, Massimo Gaudioso, Ugo Chiti e Giovanni Di Gregorio abbiamo scritto le sei storie che componevano la sceneggiatura originaria. Matteo ha svolto un ruolo quasi da allenatore – credo che il suo passato da tennista professionista lo aiuti in questo – allestendo un grosso cartellone con lo schema delle tracce narrative, come nello studio tattico di una partita, per mettere ordine tra la massa di spunti che venivano dal libro. Durante le prime settimane di lavoro, abbiamo vissuto il drammatico inizio della messa sotto scorta di Roberto Saviano a causa delle intimazioni di morte da parte della camorra. Da un certo punto in poi, i suoi arrivi a casa di Matteo, dove lavoravamo, erano sempre preceduti da un carabiniere in borghese che perlustrava le scale per cui Saviano sarebbe passato. Sono stati giorni di tensione, anche nel lavoro; Roberto, chiamato a colloquio da magistrati e alti ufficiali, non sempre ha potuto partecipare ai nostri incontri e, per un certo periodo, abbiamo dovuto fare a meno di lui. Sebbene la ricordi come un'esperienza molto positiva, abbiamo attraversato molti momenti di difficoltà, quando non si riusciva a trovare una scena finale, a mettere a fuoco un personaggio o a scrivere un dialogo cruciale, ma credo che sia andata bene e che il film, piaccia o meno, si basi su un grande sforzo di onestà e ricerca. Mi soffermo su questi aspetti, perché in tanti mi hanno chiesto come avessimo fatto a lavorare in sei a una sceneggiatura – una cosa oggi abbastanza rara – e, come al solito, quello che ha funzionato è stata la volontà di ciascuno di mettersi in gioco.

 

Da febbraio 2007 Matteo è venuto a Napoli per la fase di preparazione e lì c'è stata una successione di incontri e sopralluoghi, a cui in parte ho assistito, che hanno modificato l'idea del film che avevamo scritto. Pian piano si è capito che il regista stava scavando nei personaggi e che alcune ipotesi iniziali di attori, ritenute ormai certe, cadevano dietro i colpi di una nuova scoperta o ipotesi. Le due amiche addette al casting, gli scenografi e quanti lavoravano alla preparazione, hanno attraversato momenti di crisi, talvolta di tensione, ma col senno di poi penso che sia stato tutto necessario per non cadere nelle trappole degli stereotipi e del compiacimento. Dopo il libro di Roberto, che ha cambiato l'immagine oscura della camorra, non si poteva tornare a certi clichés sul sud e le sue comunità di cui abbondano film e tv. Da questo punto di vista, sono certo che si tratti di una sfida vinta, anche se alcuni aspetti restano uguali perché uguale è rimasto il contesto di disagio e marginalità che raccontavamo. Riguardo alla condanna di Roberto da parte del Sistema, all'inizio si era molto timorosi delle reazioni alla nostra presenza a Scampia o a Casal di Principe, tant'è che il titolo adottato, e che è rimasto fino alla fine sul ciak, era quello provvisorio di "Sei storie brevi", la sesta non è mai stata girata, malgrado una scommessa tra me e Matteo se poi avrebbe funzionato o meno.

 

Un aspetto importante, è quello relativo alla capacità di essere entrati nei territori per girare il film. Il caso di Scampia è emblematico e forse il più arduo tra gli altri che pure hanno richiesto grande determinazione a Matteo e alla sua troupe – tra cui il pittore Gianluigi Toccafondo, che ha sempre mantenuto uno sguardo ironico e luminoso sull'intorno. Premetto che il modo di lavorare di Matteo è fatto, oltre che del "typage" per cui molti attori sono presi dalla realtà, da un approfondimento della conoscenza dei territori, attraverso lunghe chiacchierate con gli abitanti o semplicemente stando lì per qualche tempo. A Scampia, dopo un'assidua frequentazione, la troupe è rimasta a girare per un mese e mezzo in una delle Vele, occupandola e, secondo me, creando delle relazioni molto positive con gli abitanti. Era la prima volta che una cosa del genere accadeva lì, i malumori non sono mancati, ma a ben guardare provenivano da quelli inevitabilmente esclusi dal film o che hanno fatto richieste assurde. Ricordo due casi per tutti: un salumiere che, alla notizia che il suo locale non serviva più per una scena ha richiesto il triplo del pagamento pattuito (che pure gli sarebbe stato versato), e un uomo che, infastidito dal lavoro della troupe, ha reclamato che gli riattaccassero l'elettricità sul pianerottolo che, invece, non c'era mai stata. La possibilità di stare lì tanto tempo è stata coltivata attraverso contatti con alcuni componenti della comunità locale, un fotografo di matrimoni, un piccolo impresario, un'associazione che lavora con i bambini, i quali hanno interceduto all'inizio per il film. Si è scelto di non avvalersi, come spesso si fa, della polizia come guida e protezione, perché questo avrebbe creato subito un filtro con la gente, abituata purtroppo al disinteresse da parte delle istituzioni, cosa che ha fatto di Scampia quello che è oggi.

 

Il ricorso ad attori e comparse prese sul luogo, ha significato anche la partecipazione di pregiudicati e spacciatori al film, e credo che sia stata una delle poche volte in cui qualcuno ha chiesto loro di collaborare a un'esperienza legale e io, personalmente, come Matteo, non ho pregiudizi o capri espiatori da mettere al bando. In pratica, il film ha ereditato molte delle contraddizioni che esistono a Scampia e si è dovuto barcamenare tra esse, a volte sbagliando, a volte facendo bene, ma senza quel cinico moralismo con cui, dall'esterno, si giudica della gente che, in definitiva, è stata abbandonata a se stessa per più di vent'anni. Ponendosi da una prospettiva così interna – come accade nei film con un forte rapporto dialettico con i mondi che raccontano – Gomorra è andato a scrutare nell'oscuro, scavando oltre l'apparenza e i luoghi comuni. Altra questione è stata la camorra che, dopo i primi sopralluoghi, ha chiesto ragione ai nostri mediatori di cosa stesse accadendo – in fondo sono loro che comandano lì e, di questo, le autorità italiane dovrebbero prendere atto. I camorristi, quando hanno appreso cosa e chi stesse per istallarsi a Scampia, hanno dato il loro silenzio assenso, qualcuno di loro si è presentato in seguito sul set con l'aria di voler ribadire che era grazie a lui che si potesse girare il film o, semplicemente, per curiosità. Gomorra non ha pagato tangenti per poter agire su un territorio controllato dalla criminalità organizzata, ma la sua troupe non ha mai subito furti o intimidazioni durante la lavorazione, e perché questo sia accaduto è, secondo me, un argomento di politica criminale. Scampia veniva fuori da una guerra cruenta di camorra e, posti sotto l'occhio del ciclone mediatico, i suoi controllori, che stupidi non sono, hanno ritenuto che gli facesse gioco permettere che qualcuno si aggirasse liberamente lì per girare un film – un po' come fanno certe dittature quando permettono l'ispezione di una delegazione dell'Onu – e, del resto, il cinema, con la sua spettacolarità, ottiene sempre un lasciapassare. L'entusiasmo e la disponibilità di tanti abitanti di Scampia, il loro essere coinvolti, lavorativamente o sul piano emotivo, nel film, è stata la vera, grande protezione per Garrone e i suoi in una periferia vittima del pregiudizio a volte più che del disagio. La sola repressione, con le sue semplificazioni tra buoni e cattivi, non l'avrà mai vinta nei territori dove la criminalità è radicata, serve anche altro, specie dal punto di vista culturale. Il film racconta anche questo e se, per farlo, ha dovuto farsi carico di alcune contraddizioni, sarà sempre un buon prezzo da pagare. (Maurizio Braucci)

 

Parliamo del tuo metodo di lavoro. Io l'ho visto da vicino e secondo me, per quanto si rifaccia a una certa tradizione cinematografica, ha delle caratteristiche molto personali.
In realtà si può dire che da quando ho girato il primo film "Terre di mezzo", fino a oggi, il mio metodo di lavoro non è cambiato molto. Già da allora ero mosso dal desiderio di perlustrare dei territori alla ricerca di un'idea figurativa del film, attraverso i luoghi e attraverso i volti. Allora non partivo da una sceneggiatura e quindi il territorio, le facce e le persone erano dei percorsi per trovare il film. Solo con "L'imbalsamatore" ho iniziato da una sceneggiatura, ma, mentre scrivevamo, io me ne andavo nei luoghi in cui era ambientato il film, e facevo delle foto o vedevo degli attori. Nel caso di "Gomorra" il lavoro di scrittura ha preceduto quello sui territori, a Napoli ci siamo andati solo dopo aver scritto la sceneggiatura. Lì, all'inizio, abbiamo trovato dei volti non strettamente legati ai luoghi in cui si ambientava la storia, ma poi, andando in giro, abbiamo dovuto rivedere le nostre idee e la realtà intorno ci ha aiutato a scegliere.
E' un metodo, questo, che certamente ha origine dal documentario – anche se queste categorie, fiction e documentario, sono sempre un po' approssimative – che diventa un'ideazione di personaggi che vengono verificati continuamente, a volte anche con dei cambiamenti dolorosi in corso d'opera. Durante le riprese di "Gomorra" ci siamo accorti che alcune ipotesi di scrittura non coincidevano con la psicologia di un personaggio o con certi sviluppi della drammaturgia. Spesso anche gli attori ci hanno segnalato se c'erano delle incongruenze, perché sono loro i primi a rendersene conto. Io giro sempre sequendo la sequenza temporale della storia e, in tal modo, do all'attore la possibilità di seguire lo sviluppo drammaturgico del personaggio e, quindi, grazie anche alle sue impressioni, possiamo verificare se le scelte fatte in sceneggiatura siano da mantenere o cambiare. In questo modo, quello che è stato scritto viene di continuo messo in discussione, la storia prende vita entrando in una dimensione più buia ma in cui tutto poi si svela pian piano. Per me è importante poter lavorare in maniera artigianale, confrontarmi con gli sceneggiatori per riscrivere dei pezzi della storia, tornare con loro sul montaggio per capire quali sono i personaggi che si potrebbero sviluppare meglio, le scene che vanno arricchite o quelle che ci sembrano stonate, per poi tornare a girarle. Tutto questo non ha niente a che fare con l'improvvisazione, anzi. Un paragone lo si potrebbe fare con la tecnica delle velature utilizzata in pittura. Nella pittura a olio, per arrivare a una particolare tonalità, si usano tanti strati di colori sovrapposti, le velature appunto, che poi danno vita all'effetto finale. Per ottenere un rosso denso, puoi usare una base di marrone scuro e poi aggiungere vari strati di rosso, per dare più profondità, più spessore. è chiaro che il mio è uno dei metodi possibili, di metodi ce ne sono diversi. Ci sono registi che non amano affatto inventare sul set e hanno bisogno dello story board per avere tutto chiaro prima di girare, altri invece sono insofferenti rispetto a ciò che è stato scritto e fanno entrare nel film quello che accade anche dietro la macchina da presa. Io appartengo più a questa seconda categoria.

 

Cosa pensi del fatto di essere considerato un regista che nei suoi film ha sempre affrontato dei temi sociali?
Già a partire dai miei primi film, c'è sempre stato un equivoco, perché sembrava che da parte mia ci fosse un impegno sociale, cosa che in realtà, pur non disdegnandolo, non ho mai messo al centro delle scelte che mi hanno portato a realizzare un particolare progetto. Invece l'aspetto più forte per me è sempre stata l'immagine, la curiosità per dei luoghi che in qualche modo mi avevano sorpreso visivamente e per dei personaggi che mi avrebbe fatto piacere approfondire. Con "Terre di mezzo" che ha come protagoniste delle prostitute nigeriane, più che la questione della prostituzione, che m'interessava fino a un certo punto, mi affascinava quella realtà così onirica che si creava tra loro e i contadini che pascolavano le pecore lì in campagna, o i ciclisti che passavano indossando delle tute quasi spaziali. Non avrei mai raccontato tre prostitute in una strada di notte sulla Colombo a Roma, visivamente non mi avrebbe attratto. Invece quell'atmosfera divertente e un po' arcaica mi fece venire voglia di raccontare una loro giornata qualsiasi. Non so bene perché, ma da allora si è creato un equivoco sull'importanza per me della denuncia o dell'impegno. Sono sempre stato dell'idea che sia più importante l'espressione che l'informazione, tutto questo discorso vale anche per "Gomorra" che rischia di essere frainteso, perché ha una componente di denuncia sociale ma questa rappresenta solo un aspetto delle sue varie motivazioni.

 

Tu hai una particolare passione per il reale, eppure dai tuoi film viene fuori sempre qualcosa di un po' onirico, sottilmente visionario ma al contempo concreto.
Nel cinema la realtà è legata allo sguardo con cui la rappresenti e quindi alla capacità che hai di trasformarla, di reinventarla. In questo modo non si può parlare di realtà oggettiva, tutto dipende da dove scegli di porre il tuo sguardo e lo sguardo è sempre soggettivo, ha sempre a che fare con un processo creativo. Il rapporto con la rappresentazione è molto più complesso nel cinema, che è comunque una tecnica legata alla fotografia, anziché nella pittura o in altre forme d'arte che sono slegate dall'aspetto imitativo della realtà. Per il cinema, la questione è di riuscire a liberarsi dall'imitazione del reale e andare oltre, procedere verso un'altra direzione e, infine, riuscire a farlo. La partita si gioca tutta lì: riuscire a farlo in una maniera che sorprenda, che abbia anche un impatto emotivo.

 

Ma la tua ricerca di emotività ha anche delle esigenze tecniche molto forti.
Qualsiasi immagine, qualsiasi inquadratura deve essere rigorosa. In "Gomorra" questo rigore è servito a rendermi invisibile. Così ho potuto mettermi in disparte, come uno spettatore capitato lì per caso, cercando in tutti i modi di non far sentire la mia presenza attraverso un'inquadratura particolare o un movimento di macchina che non fossero strettamente necessari. Essere rigoroso è stato molto importante per evitare il compiacimento e l'invadenza da parte mia, per riuscire a creare un impatto emotivo in chi avrebbe poi guardato il film, non mettendo nessun filtro tra lui e l'immagine. Lo stesso è accaduto con la musica in postproduzione, ne ho usata pochissima perché, quando abbiamo provato a inserire una colonna sonora, tutto si trasformava in commedia o in una presa di posizione verso le immagini. Con la musica, il bambino che spaccia ne veniva fuori con un commento didascalico, quasi a volere che lo spettatore si commuovesse. Lo stesso vale per il montaggio, lì ho quasi sempre prediletto i piani sequenza.

 

Il fatto che sia direttamente tu a filmare è importante?
Essere alla macchina da presa per me è fondamentale anche per un altro motivo, perché quando giro cerco dei momenti unici, degli attimi irripetibili, e questa ricerca c'è sempre stata in me, anche se prima ne ero meno consapevole. La scrittura mi interessa come punto di partenza, però poi sento di doverla superare. Quello che cerco non accade facilmente, puoi fare venti ciak e non succede nulla, con "Gomorra" i ciak non sono mai stati uno uguale all'altro, il modo in cui veniva detta una cosa, la gestualità, cambiavano di volta in volta. Poi d'un tratto accadeva un miracolo, quel momento unico che ti dicevo, e dovevo essere pronto a coglierlo con la macchina da presa, perché magari era solo un gesto, una piccola sfumatura che non ricapita. Se ci fosse stato un operatore, avrei dovuto dirgli, "Vai sulla mano che sta poggiata in quel punto" e lui probabilmente sarebbe arrivato in ritardo, oppure non si sarebbe preso mai la responsabilità, durante un dialogo, di soffermarsi sul movimento di un dito. Invece, poiché sono io a filmare, mi viene istintivo di cercare una simbiosi con gli attori: loro inventano, io invento, inventiamo insieme. Ma è necessario che si crei un'alchimia tra di noi, altrimenti io vado per conto mio, loro vanno in un'altra direzione e non nasce niente. è questo il motivo per cui sto in macchina, spesso le idee mi vengono a seconda dei movimenti che fanno gli attori e gli attori spesso arrivano a dei movimenti inconsapevolmente. Non sono mai io a farmi seguire dagli attori come spesso accade con i registi che mettono dei segni per terra perché l'attore sappia che deve arrivare in quel punto e poi guardare fuori dalla finestra, in una precisa direzione, altrimenti non prende bene la luce. Queste cose per me non hanno senso, io cerco di creare le premesse perché possa accadere qualcosa, poi mi metto a osservare attraverso la cinepresa. In pratica è lì che cerco delle idee di racconto, in fase di sceneggiatura non sono mai riuscito a farmele venire. Ma il rapporto con gli attori è bello averlo anche in fase di scrittura, anche lì possono darti un sacco di suggerimenti su un personaggio, oppure puoi trovarli tu stesso, guardando come si comportano. Con "Gomorra", sui luoghi d'ambientazione ci sono andato solo dopo che abbiamo finito la sceneggiatura, e infatti da lì sono cambiate molte cose. La scena iniziale del solarium, quella specie di prologo del film, è nata stando a Scampia e scoprendo, durante le riprese, che un luogo del genere, oltre che suggestivo, era molto emblematico dell'immaginario della camorra.

 

Che impressione hai avuto dopo la tua lunga permanenza in Campania, dopo essere stato in luoghi come Scampia e il casertano, così stigmatizzati dalla cronaca?
In genere, si ha un'idea molto più schematica di certi mondi, del tipo o bianco o nero. Invece se provi a conoscerli, trovi una situazione più complessa, l'esistenza di una zona grigia dove tutto si mescola, e che però ti confonde, rendendo meno netti i giudizi che potresti dare. Io, dopo sei mesi di permanenza nel napoletano e nel casertano, ho le idee molto meno chiare di quando ho iniziato! è stata un'esperienza forte, allo stesso tempo umana e disumana per le situazioni e la gente che ho conosciuto. Lì osservavo tutto quello che mi circondava, dovevo capire cosa poteva diventare parte del film, in un certo senso il mio scopo era rubare. Così cercavo un modo per restituire l'anima di quell'umanità che incontravo, ma anche per trasfigurarla, evitando l'imitazione del reale. Rifare la copia di come la gente vive è sempre un rischio, io invece volevo una realtà che fosse anche altro. Alla fine, da quando sono tornato a casa, ho la sensazione di essere stato al fronte, su un luogo di guerra dove ho incontrato dei soldati, le loro compagne, i loro figli, persone comuni che vivono in un territorio di guerra e che mi hanno raccontato la loro esperienza. C'è chi mi ha parlato in modo sincero, chi meno, ma, come dice Rossellini nel prologo di "Germania anno zero": tutti, lì, vivono nell'incoscienza della loro condizione. All'inizio c'erano cose che mi lasciavano di stucco, poi pian piano mi sono accorto che mi abituavo, non mi sorprendeva più niente, come accade alla gente che vive lì. Ci si abitua a tutto, credo. In quelle zone ho notato tante contraddizioni e ho cercato di parlarne nel film, di raccontare una popolazione che vive circondata da solarium e profumerie mentre ha l'immondizia che la sommerge, mentre intorno accadono omicidi brutali. Una situazione molto complessa, e infatti il primo problema del film è stato quello di mettere ordine, il materiale intorno era così tanto che spesso la sera tornavo con un senso di gran confusione, c'era troppa roba e non riuscivo a organizzarmi. Bisognava mettere ordine e, allo stesso tempo, eliminare il superfluo, lavorare in sottrazione. C'era una grande ricchezza di suggestioni, a livello sonoro, visivo, e il rischio era quello di girare a vuoto. Così, a un certo punto ho deciso di concentrarmi solo su alcuni temi, lasciando fuori tante altre cose.

 

Noi ci dicevamo sempre, mentre scrivevamo, che un errore sarebbe stato fare un film che riproponesse oggi certi stereotipi su Napoli e dintorni.
Quando sono stato negli Stati Uniti per mixare il suono del film, mi sono accorto che "Gomorra" propone un immaginario diverso da come se lo aspettano all'estero. Spesso, già nell'immaginario del gangster movie prevale una dimensione un po' glamour, invece il nostro film è apparso totalmente privo di qualsiasi fascinazione legata al crimine, risultava molto brutale, molto crudo. è chiaro che parliamo di una rappresentazione della realtà, dove non è tanto importante che esistano davvero dei ragazzini che si fanno sparare sui giubbotti antiproiettili o un sarto che si nasconde nel portabagagli di un auto o dei bambini rom che guidano dei tir in una cava. Quello che è importante è la verosimiglianza, ridare quel senso di invenzione continua che sta alla base della realtà. La vicenda dei ragazzini con i giubbotti antiproiettili è vera perché è vero il principio, cioè che ci sono dei rituali di coraggio, di iniziazione attraverso cui si diventa uomini del Sistema. La storia del traffico dei rifiuti tossici è vera, come il fatto che c'è chi rimane ferito trasportandoli e chi poi utilizza degli incoscienti disposti a rischiare la vita, così i bambini rom sui tir rappresentano le vittime di una crudeltà che è molto reale. è la stessa cosa che accade in alcune pagine del libro di Saviano, che è a metà tra documento e romanzo. Questo è un tema molto complesso da spiegare, a volte è quasi come se l'autore diventasse strumento di una realtà talmente forte che viene fuori da sola. Io credo che le scene di maggiore invenzione del film sono, per certi versi, quelle più vere perché comunicano un sentimento che va più in profondità, che svela molte più cose.

 

Sia in periferia che in provincia, in Campania, il luogo comune dell'arretratezza, a ben guardarlo, si sfata. C'è invece una presenza del moderno quasi asfissiante.
Sicuramente c'è stato un grande cambiamento antropologico tra la gente che vive nella periferia di Napoli o nel casertano, lo avverti già sul piano fisico, sui corpi. Così come sono cambiati i calciatori, sono cambiati anche i criminali, è l'effetto dei nuovi modelli che, attraverso la televisione, entrano nelle case dei ricchi come in quelle dei poveri. A Scampia, ogni famiglia tiene il televisore sempre acceso e tutti sono sintonizzati sugli stessi programmi: "Amici", "C'è posta per te", "Il Grande Fratello", quello è il modello, quello è l'immaginario. Anche se sono estremamente poveri, hanno un modo particolare di prendersi cura di sé, di pettinarsi, di vestirsi con abiti firmati. Invece, nel casertano senti che la gente viene da una tradizione più contadina, hanno anche altri riferimenti, sono molto meno attenti alla moda o la usano in maniera diversa. Tuttavia, anche nella più grande povertà, la gente cerca di vivere con dignità, sebbene sia rassegnata nei confronti dei problemi che la circondano. Inoltre, ti accorgi di come sia facile cadere in certe dinamiche criminali, perché esiste un meccanismo intorno a te, degli ingranaggi che ti stritolano senza che tu te ne renda conto.

 

Trovo che il film abbia un grande tema: quello dei giovani che vivono in un mondo sempre più assurdo. Ciò che li mortifica o distrugge, nel film, non sembra essere solo la camorra, ma un sistema socialmente ben più grande.
L'infanzia, l'adolescenza, hanno un ruolo importante nel film. Quando pensammo alla storia del ragazzino che entra nel Sistema e a quella della coppia di ragazzi che vengono puniti dai clan, già le immaginavamo come speculari. La prima è in fondo la storia di uno che entra in un esercito, che impara la disciplina, la sua struttura gerarchica e ne ottiene una specie di tutela, di protezione. L'altra storia, invece, va nella direzione opposta, racconta di due personaggi anarchici, che contravvengono alle regole della criminalità. Sono due punti di partenza diversi ma che arrivano alla stessa, drammatica, conclusione. Non so fino a che punto eravamo consapevoli di questo tema durante la scrittura, ma mi sembra che sia questo il tema centrale del film: il fatto che ci sia un sistema che condiziona, che stritola e che in particolare lo faccia con i più piccoli. Uno crede di esserne consapevole, di potersi gestire e invece, quando si accorge che non è così, è ormai troppo tardi. Tutto questo io l'ho capito dopo, vedendo il film. Di ogni cosa, non abbiamo dato un giudizio morale, e questo mi sembra interessante, ma abbiamo mostrato le conseguenze. D'altra parte, mi sono accorto che ognuno poi, vedendo un film, trova delle affinità con un certo personaggio o con un altro, nota un tema più di un altro. Quindi il discorso del tema centrale è abbastanza relativo.

 

Come è stato il rapporto con gli abitanti dei luoghi in cui hai girato? Come reagivano al fatto che si stesse realizzando un film che li riguardava?
Sicuramente, le persone erano affascinate dal fatto che dovessimo girare un film, indipendentemente da quale fosse. Quando arrivi con i riflettori, molte persone ti accolgono bene, è il cinema. Io credo che però anche noi siamo stati bravi a non tradire questa loro apertura, cosa non sempre facile perché la presenza di un set può creare problemi, la troupe può risultare ingombrante o dare fastidio, soprattutto quando ci stai per lungo tempo come è stato nel nostro caso. Ma c'è un'altra cosa che bisogna dire, che le persone del posto hanno collaborato non soltanto come interpreti ma anche come spettatori. Quando filmavamo c'era sempre un monitor e, a guardarlo, c'erano sempre tantissime persone che vivevano l'emozione della scena, se funzionava, o, in caso contrario, la criticavano e ci dicevano quello che secondo loro non andava. Erano i nostri primi spettatori e per me era molto importante sentire cosa ne pensavano. Una volta, tra la gente, c'è stata una discussione molto accesa su una scena in cui si spacciava mentre, al piano di sotto, una sposa usciva di casa per andare in chiesa. Alcuni dicevano che, siccome il matrimonio è una cerimonia molto sentita, gli spacciatori in un caso del genere avrebbero spostato la vendita in un altro posto, e quindi vedevano quasi come un sacrilegio la nostra rappresentazione. Altri invece sostenevano il contrario, anzi, era stato uno di loro a suggerirmi la scena, perché era capitato proprio a lui. Così, alla fine, si sono messi a litigare tra loro. Davanti al nostro monitor c'era un dibattito continuo su come veniva rappresentata la realtà. Comunque sarebbe inesatto dire che tutti avevano voglia di partecipare, alcuni lo facevano solo per soldi, altri perché avevano problemi con la giustizia e per loro era un occasione per riabilitarsi, e così in pratica ci strumentalizzavano. In genere si pensa che sia solo il cinema a strumentalizzare, che vada in un luogo per rubare dalla realtà; invece fa piacere vedere che, a volte, i ruoli vengono ribaltati. Inoltre, c'era chi ci avrebbe tenuto a fare un'esperienza cinematografica ma ha avuto problemi con i familiari, i quali pensavano che "Gomorra" non fosse un film da sostenere. Il cinema non affascina tutti, mentre altri ti tormentano pur di esserci. Ma io sono d'accordo con Roberto Saviano quando dice che il cinema è il modello di riferimento principale, che è la realtà a prendere spunto dal cinema e non il contrario.

lo Straniero

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Anime nere ...dentro l’urne, è forse il sonno della morte men duro?, lo Straniero - Piergiorgio Giacchè

Anime nere

...dentro l'urne, è forse il sonno della morte men duro?

Com'era, "O Roma o morte"? Stavolta è andata male. Sarà che Veltroni non è Cavour e che Rutelli non è Garibaldi. Sarà che a sinistra non si ode da tempo nessuno squillo di tromba. Sarà che l'assalto dei nostri Prodi è andato come è andato… Ma ormai non si può più sparare sulla croce bianca e la bandiera rossa. Ci hanno fatti neri, e non è più questione di camicia ma di anima.
Dire "lo sapevamo" davvero non si può, perché in realtà lo sapevano tutti. Non c'è nel corpo elettorale nessuno, votante o astenuto, che non lo sapesse. Da noi si vota o non si vota con la stessa identica consapevolezza: vince chi ha già vinto e comanda chi già comanda. E non vuol dire che la gente sia scoraggiata, ma invece proprio su questa certezza si basa e si incoraggia perfino l'indecisione elettorale. Chi non vota non lo fa per protesta ma per carattere: si tratta soltanto di farsi gli affari propri in latitanza invece che mettendosi in evidenza. Nessuno più si astiene per mandare un messaggio diverso, per dichiarare la sua disaffezione o la sua disillusione. Da tempo, da noi, nessun elettore si può dire affezionato e nessuno si è mai ragionevolmente illuso.

Tutti dunque sapevano come sarebbe andata a finire, perché era già finita, con tanto di risultati scontati prima della conta. E non si sta parlando dei sondaggi ma dell'assenza di miraggi (già prospettive o addirittura utopie) che caratterizza il mercato e lo spettacolo della politica. Un mercato e uno spettacolo reali e non metaforici che, frequentati dal cliente che ha sempre ragione e dallo spettatore che ha sempre il telecomando, sono per davvero le forme e le norme della più avanzata democrazia. E avanzare oltre l'attuale democrazia è difficile oltre che rischioso. Un altro modo o mondo sarà anche possibile ma al corpo elettorale decisamente non piace. Il corpo elettorale è sazio per quanto è saggio, e ahimè viceversa. Sta coi piedi per terra e la testa sotto terra, lui, e si è stufato in ogni senso di partecipare. Preferisce vincere.

Nessuna novità da questa "ritornata" elettorale. Berlusconi aveva già da tempo sdoganato gli italiani e la Lega li aveva già convinti che era ora di mettere i dazi. Quella maggioranza che ieri la pensava esattamente come oggi, ma che era silenziosa e soprattutto obbediente, è stata liberata dalle ideologie e dalle filosofie, dalle chiese e dalle accademie, dalla cultura alta e dalla politica altra, e finalmente vota per quello che è e soprattutto per quello che ha. Dice quello che pensa e sceglie chi gli piace e chi davvero la rappresenta nelle sue palesi aspirazioni e nelle sue esplicite ambizioni. Italia fatta, un Capo ha. Ed è l'uomo più ricco e felice d'Italia. Un ometto che – con l'aiuto di tutti e approfittandosi di tutto – si è fatto e si è rifatto da solo. Un capetto di simpatica ignoranza e di popolana protervia, che non ha complessi quando gira per il mondo, che non ha timori quando decide le cose da fare. Che addirittura non abbia pensieri? L'elettorato più devoto sospetta che sia proprio così, ed è questa la cosa che ammira e che gli invidia di più.

Dalla seconda repubblica si sta passando così a una seconda monarchia. è il piccolo Re che l'ha detto, e ha ragione: la sua e quindi la nostra è una monarchia anarchica, intesa come l'autorità sovrana di un solo Capo che lascia discutere i suoi ministri e – democraticamente e familiarmente – divide con loro le sue minestre. Nel suo regno di Sardegna accoglie tutti i nani e le ballerine, da Putin al Bagaglino; la sua villa di Arcore è aperta da sempre a tutti i suoi amici, che in numero ormai illimitato gli fanno la corte.

E' davvero superfluo cercare le ragioni della sua vittoria, perché non era annunciata ma già avvenuta. Per una volta la cultura ha anticipato la politica: non si tratta di pubblicità televisiva e di commercio elettorale, ma della trasformazione o meglio della liberazione della vera mentalità degli elettori italiani.

La campagna elettorale ovvero la demagogia non è fatta più di esagerate promesse ma di sperticati riconoscimenti: guai a chi si lascia sfuggire la constatazione della scarsa intelligenza o peggio della nulla generosità dell'elettorato. Non c'è niente di peggio che parlare della tragica situazione del mondo e dei mille problemi che affliggono l'umanità. Il condominialismo è di rigore, e non perché affronta i problemi della gente ma perché finge che quelli siano i temi veri dell'esistenza. E così l'immagine della monnezza sta al posto della catastrofe dei rifiuti, l'aumento dei prezzi al posto della piaga della miseria, la pubblica sicurezza al posto della giustizia e perfino della libertà. Più in alto, verso i valori trascendenti, l'embrione ha preso il posto della vita, la famiglia ha preso il posto dell'amore e il mercato quello della fede, visto che è da tutti interrogato e obbedito come un dio.
Se questo è vero anche solo un po', non vale nemmeno la pena di commentare i dettagli e i ritagli dei risultati elettorali, su cui il giornalismo nostrano sta cercando di ricamare valutazioni e consolazioni di ogni genere. I fatti sono due e magari non erano scontati, ma francamente non potevano più essere scongiurati. Da troppo tempo le azioni e i pensieri dei due partiti rivoluzionari italiani (quello del risorgimento e quello della rifondazione) sono in marcia e sono marci. Così, sulla vittoria della Lega c'è molto da capire ma non c'è nulla da imparare. Sulla sconfitta della sinistra cosiddetta radicale c'è invece molto da imparare, ma non c'è davvero niente da capire.

L'esatto contrario di quello che i personaggi e gli interpreti delle due estremità (già estremismi) della politica italiana stanno pensando e dicendo: la sinistra sta già scegliendo la Lega come modello di cultura politica e la Lega comincerà presto a copiare dalla sinistra la sua politica culturale. Già ci immaginiamo i nuovi festival del teatro lombardo-veneto, mentre ronde rosse batteranno le strade per organizzare la prostituzione clandestina in cooperative. Ma davvero non si può continuare a recensire la commedia politica all'italiana. Non è solo per mancanza di battute ma anche perché ci sentiamo i più malridotti. Quelli che si sono fin qui arrogati il dovere dell'apertura sociale e si sono sottomessi al diritto del lavoro culturale, davanti alla sinistra morta non si sentono tanto bene.

Bisognerà mettere sul serio l'arte da parte e i sogni nel cassetto. Bisognerà passare dall'assenza di dibattito all'impotenza di un qualunque discorso. La critica della politica era già inascoltata e inefficace contro il veltronismo degli stenterelli, ma adesso rischia di diventare un esercizio spirituale. La cosa non ci spaventa ma in questa prospettiva è ora che un cambiamento lo facciamo anche noi, "minori" per vocazione e "minoranze" per convinzione. Minori siamo e resteremo, ma non più "frati": in questa Italia del voto elettorale e del vuoto politico non ci sentiamo fratelli di nessuno. Smettiamo di pensare che si somiglino tutti (perché non è vero) e che poi ci somiglino (perché è vero ma non è giusto). Smettiamo di credere che sia inevitabile fare i conti con le loro maggioranze e le loro alternanze. Noi minori non ci possiamo permettere di fare i conti con nessuno, tanto più che non sappiamo far di conto e a mala pena riusciamo a leggere e scrivere. Arrendiamoci all'evidenza, ma non all'acquiescenza: siamo di nome e di fatto "stranieri". Da oggi abbiamo un problema sentimentale in meno e purtroppo un tema intellettuale sempre più vasto e più alto, e quindi impossibile da svolgere. E però in questa rivista ci ostiniamo, in brutta calligrafia e bassa filosofia, di portarlo avanti di qualche stentata riga…

lo Straniero - Piergiorgio Giacchè

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Chi tocca le Camere muore: la Cassazione condanna lo scoop delle Iene, di Antonello Tomanelli - da difesadellinformazione.com

Chi tocca le Camere muore: la Cassazione condanna lo scoop delle Iene

di Antonello Tomanelli - da difesadellinformazione.com

Che un terzo del Parlamento faccia uso abituale di sostanze stupefacenti è una cosa che non si può dire, anche se è vera. Rischia in sostanza di diventare questo il messaggio contenuto nella sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna (a una pena pecuniaria) delle "Iene" Davide Parenti e Matteo Viviani per violazione della legge sulla privacy.

I fatti sono noti. Le Iene si appostano all'uscita di Camera e Senato per intervistare un buon numero di parlamentari. Ogni intervista è sistematicamente interrotta dall'intervento di una truccatrice che asciuga la fronte dell'intervistato. Il parlamentare non sa che con quel gesto le Iene stanno eseguendo il drug wipe, un test che rivela l'assunzione di stupefacenti nelle ultime 36 ore, usato da diverse polizie europee a fini di prevenzione degli incidenti stradali.

Attraverso i consueti canali informativi, il 9 ottobre 2006 le Iene annunciano il risultato, che è sorprendente. Ben 16 parlamentari su 50 (il 32%) sono positivi al test, di cui 12 alla cannabis e 4 alla cocaina. Ma non fanno in tempo a trasmettere il servizio nella puntata serale. Con una solerzia senza precedenti, il Garante della Privacy blocca tutto, nonostante l'anno prima ci abbia messo tre mesi per riscontrare la violazione della privacy di Lapo Elkann, massacrato agli occhi del pubblico per essere finito in overdose da cocaina dopo una notte trascorsa in casa di amici trans.

Ora è terminata la causa penale. Intendiamoci, la decisione è giusta. Ma sicuramente non per i motivi esposti in sentenza, che rischiano di trasformare i rappresentanti del popolo in un gruppo di intoccabili per definizione. Vediamo perché.

La difesa delle Iene aveva sostenuto che non poteva esserci violazione della privacy perché il servizio forniva un risultato espresso in percentuale sul campione selezionato, garantendo l'anonimato dei parlamentari. Nessuna identificazione dei parlamentari, quindi nessun dato personale portato a conoscenza.

Ma il ragionamento è errato perché non tiene conto delle varie fasi in cui si articola il "trattamento" di un dato personale, come si ricava dall'art. 4, comma 1° lett. a), codice della privacy. Sinteticamente, c'è la raccolta (il sudore appreso dal tampone), la registrazione (il sudore introdotto nell'apparecchio rilevatore delle sostanze stupefacenti), la consultazione (il rilevamento eventuale delle tracce di sostanze stupefacenti), infine l'elaborazione (il calcolo della percentuale di rilevamenti con esito positivo).

Poco importa se nel caso delle Iene il dato personale non arrivi mai alla diffusione. In realtà, il dato personale esiste ed è rilevante per il codice della privacy dal momento in cui viene prelevato il sudore dalla fronte del parlamentare al momento in cui il campione biologico viene distrutto, anche se ciò avviene immediatamente dopo il rilevamento di tracce di stupefacenti (ossia subito dopo la "consultazione"). Quindi, durante le fasi della "raccolta", della "registrazione" e della "consultazione" il dato è personale, quindi tutelato dalla normativa sulla privacy. Per la precisione, un dato personale "(super)sensibile", poiché di tipo sanitario, ossia idoneo a rilevare uno stato di salute.

Bisogna però considerare la posizione privilegiata in cui la legge colloca il giornalista, che informa il pubblico. Il giornalista non sempre è tenuto a rendere l'informativa di cui all'art. 13 del Codice della Privacy. Secondo l'art. 2 del codice di deontologia, al momento della raccolta dei dati personali il giornalista deve indicarne la finalità, "salvo che ciò […] renda altrimenti impossibile l'esercizio della funzione informativa". Ora, che le Iene esercitassero una funzione informativa non può esserci alcun dubbio, visto l'interesse pubblico a conoscere se e in che percentuale i parlamentari da noi eletti facciano uso di sostanze stupefacenti. E nessun dubbio può esserci pure sull'impossibilità di realizzare il servizio (o, quantomeno, sull'attendibilità del campione selezionato) se le Iene avessero reso noto ai parlamentari la finalità perseguita attraverso la finta intervista.

Ma una violazione c'è. E' di quella parte dell'art. 2 del codice di deontologia secondo cui il giornalista, nel raccogliere dati personali, "evita artifici". In effetti, è difficile negare che il prelevamento del sudore dalla fronte del parlamentare, effettuato con la scusa di farla asciugare dalla sedicente truccatrice, costituisca "artificio". Qui le Iene hanno adottato un metodo indubbiamente invasivo della persona. Ogni metodo di raccolta di dati personali basato su un inganno che si concreta in una invasione della sfera privata va considerato "artificio" (sulla questione si veda il trattamento dei dati personali nell'attività giornalistica). Ed è a questo che pensa la Corte di Cassazione quando nella sentenza parla di "comportamento ingannevole e fraudolento" da parte delle Iene.

Tuttavia, nel motivare la condanna, la Corte di Cassazione dice che il test antidroga ha fatto sì che "tutti i parlamentari potessero essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché l'istituzione parlamentare, ha subìto nocumento alla sua immagine pubblica ed alla sua onorabilità".

Ebbene, l'errore è proprio qui. L'unica violazione commessa dalle Iene riguarda il momento della raccolta del dato personale, effettuata dalla sedicente truccatrice per mezzo del tampone. Fare leva su un presunto danno alla onorabilità dei parlamentari significa, invece, valorizzare un'attività di trattamento di dati personali qui del tutto assente, ossia la diffusione, essendo stato pubblicato unicamente un dato statistico, che rende impossibile l'identificazione di qualsiasi parlamentare. Un'attività di diffusione che temporalmente si colloca, nell'iter del trattamento, proprio agli antipodi dell'attività di raccolta, che costituisce l'unica violazione commessa dalle Iene e che mai potrebbe di per sé ledere l'onorabilità di chicchessia.

Se quindi la decisione finale va condivisa, le motivazioni in parte addotte rischiano di legittimare in futuro una sorta di impermeabilità della funzione del parlamentare. Nel nome della privacy e dell'onorabilità, si potrebbe liquidare come indebita ingerenza qualsiasi tentativo di relazionare la collettività a fatti in astratto idonei a ledere il decoro e la reputazione di chi ricopre importanti cariche pubbliche, ma la cui divulgazione è pienamente tutelata dal diritto di cronaca, riguardando circostanze di indubbio interesse pubblico.


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Giappone, brevetto industriale per l'auto ad acqua

Giappone, brevetto industriale per l'auto ad acqua

Ah se le auto potessero viaggiare ad acqua invece che a benzina benzina! In molti ci hanno pensato, specie di questi tempi, con i prezzi dei carburanti schizzati a livelli sempre più alti. Detto e fatto. La società giapponese Genepax ha depositato la domanda per ottenere il brevetto di un motore elettrico alimentato ad acqua. Qualsiasi tipo di acqua: dolce, salata o piovana.

Se una innovazione del genere diventasse una realtà produttiva e di consumo sarebbe una vera rivoluzione. E in tempi di prezzi alle stelle per il petrolio una notizia come questa, naturalmente, ha una risonanza mondiale. Anche se dall'ideazione alla sua traduzione industriale il cammino è ancora lungo.

UN LITRO - Kiyoshi Hirasawa, amministratore delegato della Genepax, in un'intervista a una tv locale giapponese ha detto che il motore, con un solo litro di acqua, sarebbe in grado di far viaggiare un'auto per circa un'ora alla velocità di 80 km all'ora. «Non c'è bisogno di costruire un'infrastruttura per ricaricare le batterie, come avviene di solito per la maggior parte delle auto elettriche», ha aggiunto Hirasawa.

Il motore funziona grazie a un generatore che la scompone l'acqua e la utilizza per creare energia elettrica. Hirasawa ha ammesso però che l'applicazione pratica non è nel futuro immediato e spera che il brevetto sia di interesse delle grandi case automobilistiche giapponesi.

Serve ancora una fase di sviluppo e bisogna sperare che almeno uno dei grandi produttori creda in questa prospettiva. Anche perché al momento i progetti fanno in direzione opposta: motori a cellule di idrogeno che producono acqua nel processo, e non che la consumano. Lì i produttori hanno investito ingenti capitali. Avranno il coraggio di puntare e scommettere su un motore che utilizza il carburante più diffuso sul pianeta?

da www.corriere.it


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"Come se questi lavoratori fossero clandestini per scelta"

Quei «fantasmi» da 3 euro all'ora

Ogni mattina all'alba il reclutamento dei clandestini nelle principali piazze di Milano. Poi via al cantiere.

MILANO — Sulla sicurezza sul lavoro c'è un'idea che mette d'accordo il sindaco di Roma di An, Gianni Alemanno, con il segretario generale della Cgil lombarda, Susanna Camusso. Poco prima di conquistare il Campidoglio, Alemanno si era appellato a Confindustria: «L'associazione estrometta le imprese che non rispettano le norme di sicurezza. Proprio come accade con chi paga il pizzo». «Una strada interessante — approva oggi Camusso —. Non vedo perché le aziende non l'abbiano ancora seguita: dopotutto così si combatte chi fa concorrenza sleale».

L'ennesima giornata nera del lavoro spinge a fare autocritica e a proporre modi nuovi di affrontare il problema. «Ogni morto è una sconfitta », ammette Camusso. «Certo, il fatto che a Settimo Milanese l'incidente mortale sia avvenuto in un cantiere in cui l'impresa all'inizio della catena degli appalti è controllata dai vertici Assimpredil (l'associazione dei costruttori milanesi, ndr) è una tragedia nella tragedia — continua la sindacalista —. Sorge il sospetto che troppi predichino bene e razzolino male. Chi guida le associazioni di categoria dovrebbe dare l'esempio».

La lunga giornata del muratore clandestino a Milano inizia alle 4,30 del mattino. Sveglia nel cuore della notte per arrivare all'appuntamento col caporale. In piazzale Loreto, come Hassan e Omar, gli egiziani che ieri hanno perso la vita. Ma anche in piazzale Lotto, a Famagosta, al Corvetto, in Maciachini. O alle fermate della metropolitana di Bisceglie, Inganni, San Donato. Il caporale porta i lavoratori in cantiere alle prime luci del giorno. Paga: 3,5-4 euro l'ora per i clandestini, il doppio per i regolari. Considerando una media di 250 ore lavorate al mese (200 d'inverno, 300 d'estate) il clandestino in nero guadagna 600-650 euro. Di questi, 200-300 vanno al caporale. Altri 150-200 servono a pagare un posto letto: otto- dieci persone in 50 metri quadrati.

«Di fronte a un quadro così drammatico, in Italia si discute del reato di clandestinità. Abbiamo perso di vista la realtà — attacca Susanna Camusso —. Come se questi lavoratori fossero clandestini per scelta». Non è l'unica frecciata al governo: «Il ministro Sacconi non alleggerisca le sanzioni alle imprese introdotte da Prodi. Le leggi si fanno rispettare anche punendo chi trasgredisce». Secondo la sindacalista della Cgil il punto è «rimettere al centro il lavoro»: «Per troppo tempo si è privilegiato il fatturato al punto da trascurare la vita umana. Ora tutto il Paese dovrebbe porsi l'obiettivo "incidenti zero"». A Milano, poi, presto i cantieri si moltiplicheranno in vista dell'Expo 2015. «Arriveranno migliaia di manovali e carpentieri migranti, serve un piano per affrontare la situazione», sollecita Camusso. Veramente negli ultimi tempi le ricette (e gli interventi) si sono moltiplicati. Ma nei cantieri si continua a morire. «Bisogna aumentare gli ispettori delle direzioni provinciali del lavoro e dare più personale alle Asl per le ispezioni. E poi basta con gli appalti al massimo ribasso».

Rita Querzé
14 giugno 2008

venerdì 13 giugno 2008

Italiano aggredisce e violenta rumena. Aspettiamo tg, gr e giornali...

di Onofrio Dispenza

La notizia è questa : a Roma, una giovane rumena è stata aggredita e stuprata da un 39enne italiano. La ragazza faceva le pulizie in un call center. Ad aggredirla alle spalle è stato il convivente della responsabile della cooperativa dove la giovane rumena lavora. Maria - chiamiamola così - aveva appena iniziato a fare le pulizie quando il suo violentatore l'ha aggredita.

Minacciandola con un taglierino, l'ha costretta a subire violenza sessuale. Dopo la violenza, Maria ha chiesto aiuto in un bar vicino, è arrivata la polizia, l'aggressore è stato facilmente individuato ed arrestato. Questa la notizia. Adesso aspettiamo, vogliamo vedere quanto spazio avrà nei tg, nei gr e nei giornali che troveremo domani in edicola.
Una ragazza rumena violentata da un italiano, non una italiana violentata da un rumeno. Si accettano scommesse sullo spazio che sarà riservato alla notizia di Roma. Se finirà come pensiamo, chiediamo scusa a Maria.

15/05/08

giovedì 12 giugno 2008

vite da sfruttare, vite da gettare

Vite da sfruttare, vite da gettare

di Beppe Muraro

Per i giornali e le tv locali di Verona sono "la coppia diabolica". Ma l'omicidio di Adrian Cosmin compiuto venerdì sera dai suoi datori di lavoro Tancredi Valerio Volpe e Cristina Nervo nel veronese non ha nulla di diabolico. Di criminale, assurdo, terribile, crudele e feroce sì. Ma di diabolico proprio nulla. C'è chi un tempo ha detto che "il denaro è lo sterco del demonio", ma in questa vicenda il diavolo proprio non c'entra. Qui conta solo il denaro.
Quelle 900 mila euro della polizza vita fatta sottoscrivere dai due a Cosmin poche settimane fa e che – una volta intascata – avrebbe potuto risollevare le sorti della loro ditta di autotrasporti, che è sull'orlo del fallimento.
"Cos'è la vita di un ragazzo rumeno di fronte alla nostra sopravvivenza, al nostro decoro, al nostro ruolo in una società che non tollera fallimenti, ma solo successi" devono aver pensato i due veronesi.
E così ci avevano provato già un anno fa Tancredi e Cristina a obbligare il loro camionista a firmare l'assicurazione sulla vita, ma il giovane rumeno allora aveva detto no.
I due non si sono scoraggiati, avevano bisogno di quei soldi e così sono tornati all'assalto fino alla firma di Cosmin. Primo atto di un piano che prevedeva fin dall'inizio la sua morte. Una morte terribile: narcotizzato e poi bruciato al volante della sua auto portata in una stradina di campagna nell'entroterra del lago di Garda, sistemando tutto come se si fosse trattato di un incidente.
Un incidente sul lavoro, in fondo, anche questo.
In una società dove i lavoratori molto spesso vengono considerati alla stregua di merce da sfruttare, anche la vita di Adrian Cosmin poteva essere sacrificata in nome e per conto di un bilancio aziendale che non andava.
E lo si fa fedeli fino in fondo alla filosofia di chi pensa e dice che i lavoratori non sono persone, con nomi cognomi storie e affetti, ma solo una risorsa da usare per il bene dell'Azienda. Vite da sfruttare per una paccata di euro.
Un destino poco diverso da quello di chi viene mandato su un'impalcatura, in un laminatoio, a tagliare marmi, a pulire cisterne o nella stiva di una nave.
Vite precarie, vite sempre appese ad un filo, vite da sfruttare e poi gettare via.
Tanto meglio se alla fine c'è un'assicurazione da incassare.

vite da sfruttare, vite da gettare

Vite da sfruttare, vite da gettare

di Beppe Muraro

Per i giornali e le tv locali di Verona sono "la coppia diabolica". Ma l'omicidio di Adrian Cosmin compiuto venerdì sera dai suoi datori di lavoro Tancredi Valerio Volpe e Cristina Nervo nel veronese non ha nulla di diabolico. Di criminale, assurdo, terribile, crudele e feroce sì. Ma di diabolico proprio nulla. C'è chi un tempo ha detto che "il denaro è lo sterco del demonio", ma in questa vicenda il diavolo proprio non c'entra. Qui conta solo il denaro.
Quelle 900 mila euro della polizza vita fatta sottoscrivere dai due a Cosmin poche settimane fa e che – una volta intascata – avrebbe potuto risollevare le sorti della loro ditta di autotrasporti, che è sull'orlo del fallimento.
"Cos'è la vita di un ragazzo rumeno di fronte alla nostra sopravvivenza, al nostro decoro, al nostro ruolo in una società che non tollera fallimenti, ma solo successi" devono aver pensato i due veronesi.
E così ci avevano provato già un anno fa Tancredi e Cristina a obbligare il loro camionista a firmare l'assicurazione sulla vita, ma il giovane rumeno allora aveva detto no.
I due non si sono scoraggiati, avevano bisogno di quei soldi e così sono tornati all'assalto fino alla firma di Cosmin. Primo atto di un piano che prevedeva fin dall'inizio la sua morte. Una morte terribile: narcotizzato e poi bruciato al volante della sua auto portata in una stradina di campagna nell'entroterra del lago di Garda, sistemando tutto come se si fosse trattato di un incidente.
Un incidente sul lavoro, in fondo, anche questo.
In una società dove i lavoratori molto spesso vengono considerati alla stregua di merce da sfruttare, anche la vita di Adrian Cosmin poteva essere sacrificata in nome e per conto di un bilancio aziendale che non andava.
E lo si fa fedeli fino in fondo alla filosofia di chi pensa e dice che i lavoratori non sono persone, con nomi cognomi storie e affetti, ma solo una risorsa da usare per il bene dell'Azienda. Vite da sfruttare per una paccata di euro.
Un destino poco diverso da quello di chi viene mandato su un'impalcatura, in un laminatoio, a tagliare marmi, a pulire cisterne o nella stiva di una nave.
Vite precarie, vite sempre appese ad un filo, vite da sfruttare e poi gettare via.
Tanto meglio se alla fine c'è un'assicurazione da incassare.

vite da sfruttare, vite da gettare

Vite da sfruttare, vite da gettare

di Beppe Muraro

Per i giornali e le tv locali di Verona sono "la coppia diabolica". Ma l'omicidio di Adrian Cosmin compiuto venerdì sera dai suoi datori di lavoro Tancredi Valerio Volpe e Cristina Nervo nel veronese non ha nulla di diabolico. Di criminale, assurdo, terribile, crudele e feroce sì. Ma di diabolico proprio nulla. C'è chi un tempo ha detto che "il denaro è lo sterco del demonio", ma in questa vicenda il diavolo proprio non c'entra. Qui conta solo il denaro.
Quelle 900 mila euro della polizza vita fatta sottoscrivere dai due a Cosmin poche settimane fa e che – una volta intascata – avrebbe potuto risollevare le sorti della loro ditta di autotrasporti, che è sull'orlo del fallimento.
"Cos'è la vita di un ragazzo rumeno di fronte alla nostra sopravvivenza, al nostro decoro, al nostro ruolo in una società che non tollera fallimenti, ma solo successi" devono aver pensato i due veronesi.
E così ci avevano provato già un anno fa Tancredi e Cristina a obbligare il loro camionista a firmare l'assicurazione sulla vita, ma il giovane rumeno allora aveva detto no.
I due non si sono scoraggiati, avevano bisogno di quei soldi e così sono tornati all'assalto fino alla firma di Cosmin. Primo atto di un piano che prevedeva fin dall'inizio la sua morte. Una morte terribile: narcotizzato e poi bruciato al volante della sua auto portata in una stradina di campagna nell'entroterra del lago di Garda, sistemando tutto come se si fosse trattato di un incidente.
Un incidente sul lavoro, in fondo, anche questo.
In una società dove i lavoratori molto spesso vengono considerati alla stregua di merce da sfruttare, anche la vita di Adrian Cosmin poteva essere sacrificata in nome e per conto di un bilancio aziendale che non andava.
E lo si fa fedeli fino in fondo alla filosofia di chi pensa e dice che i lavoratori non sono persone, con nomi cognomi storie e affetti, ma solo una risorsa da usare per il bene dell'Azienda. Vite da sfruttare per una paccata di euro.
Un destino poco diverso da quello di chi viene mandato su un'impalcatura, in un laminatoio, a tagliare marmi, a pulire cisterne o nella stiva di una nave.
Vite precarie, vite sempre appese ad un filo, vite da sfruttare e poi gettare via.
Tanto meglio se alla fine c'è un'assicurazione da incassare.

vite da sfruttare, vite da gettare

Vite da sfruttare, vite da gettare

di Beppe Muraro

Per i giornali e le tv locali di Verona sono "la coppia diabolica". Ma l'omicidio di Adrian Cosmin compiuto venerdì sera dai suoi datori di lavoro Tancredi Valerio Volpe e Cristina Nervo nel veronese non ha nulla di diabolico. Di criminale, assurdo, terribile, crudele e feroce sì. Ma di diabolico proprio nulla. C'è chi un tempo ha detto che "il denaro è lo sterco del demonio", ma in questa vicenda il diavolo proprio non c'entra. Qui conta solo il denaro.
Quelle 900 mila euro della polizza vita fatta sottoscrivere dai due a Cosmin poche settimane fa e che – una volta intascata – avrebbe potuto risollevare le sorti della loro ditta di autotrasporti, che è sull'orlo del fallimento.
"Cos'è la vita di un ragazzo rumeno di fronte alla nostra sopravvivenza, al nostro decoro, al nostro ruolo in una società che non tollera fallimenti, ma solo successi" devono aver pensato i due veronesi.
E così ci avevano provato già un anno fa Tancredi e Cristina a obbligare il loro camionista a firmare l'assicurazione sulla vita, ma il giovane rumeno allora aveva detto no.
I due non si sono scoraggiati, avevano bisogno di quei soldi e così sono tornati all'assalto fino alla firma di Cosmin. Primo atto di un piano che prevedeva fin dall'inizio la sua morte. Una morte terribile: narcotizzato e poi bruciato al volante della sua auto portata in una stradina di campagna nell'entroterra del lago di Garda, sistemando tutto come se si fosse trattato di un incidente.
Un incidente sul lavoro, in fondo, anche questo.
In una società dove i lavoratori molto spesso vengono considerati alla stregua di merce da sfruttare, anche la vita di Adrian Cosmin poteva essere sacrificata in nome e per conto di un bilancio aziendale che non andava.
E lo si fa fedeli fino in fondo alla filosofia di chi pensa e dice che i lavoratori non sono persone, con nomi cognomi storie e affetti, ma solo una risorsa da usare per il bene dell'Azienda. Vite da sfruttare per una paccata di euro.
Un destino poco diverso da quello di chi viene mandato su un'impalcatura, in un laminatoio, a tagliare marmi, a pulire cisterne o nella stiva di una nave.
Vite precarie, vite sempre appese ad un filo, vite da sfruttare e poi gettare via.
Tanto meglio se alla fine c'è un'assicurazione da incassare.

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di Beppe Muraro

Per i giornali e le tv locali di Verona sono "la coppia diabolica". Ma l'omicidio di Adrian Cosmin compiuto venerdì sera dai suoi datori di lavoro Tancredi Valerio Volpe e Cristina Nervo nel veronese non ha nulla di diabolico. Di criminale, assurdo, terribile, crudele e feroce sì. Ma di diabolico proprio nulla. C'è chi un tempo ha detto che "il denaro è lo sterco del demonio", ma in questa vicenda il diavolo proprio non c'entra. Qui conta solo il denaro.
Quelle 900 mila euro della polizza vita fatta sottoscrivere dai due a Cosmin poche settimane fa e che – una volta intascata – avrebbe potuto risollevare le sorti della loro ditta di autotrasporti, che è sull'orlo del fallimento.
"Cos'è la vita di un ragazzo rumeno di fronte alla nostra sopravvivenza, al nostro decoro, al nostro ruolo in una società che non tollera fallimenti, ma solo successi" devono aver pensato i due veronesi.
E così ci avevano provato già un anno fa Tancredi e Cristina a obbligare il loro camionista a firmare l'assicurazione sulla vita, ma il giovane rumeno allora aveva detto no.
I due non si sono scoraggiati, avevano bisogno di quei soldi e così sono tornati all'assalto fino alla firma di Cosmin. Primo atto di un piano che prevedeva fin dall'inizio la sua morte. Una morte terribile: narcotizzato e poi bruciato al volante della sua auto portata in una stradina di campagna nell'entroterra del lago di Garda, sistemando tutto come se si fosse trattato di un incidente.
Un incidente sul lavoro, in fondo, anche questo.
In una società dove i lavoratori molto spesso vengono considerati alla stregua di merce da sfruttare, anche la vita di Adrian Cosmin poteva essere sacrificata in nome e per conto di un bilancio aziendale che non andava.
E lo si fa fedeli fino in fondo alla filosofia di chi pensa e dice che i lavoratori non sono persone, con nomi cognomi storie e affetti, ma solo una risorsa da usare per il bene dell'Azienda. Vite da sfruttare per una paccata di euro.
Un destino poco diverso da quello di chi viene mandato su un'impalcatura, in un laminatoio, a tagliare marmi, a pulire cisterne o nella stiva di una nave.
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