martedì 14 giugno 2011

Primavera Araba: La scommessa democratica “Voglio essere ottimista”

Sappiamo di essere testimoni della Storia, ma di una storia scritta in avanti, non all’indietro. Cerchiamo disperatamente un esito felice, ma non siamo pronti a scommettere la fattoria di famiglia sulla sua riuscita.
Voglio essere ottimista circa lo sconvolgimento del mondo arabo e sui suoi esiti.
In effetti, voglio essere disperatamente fiducioso. Dopo tutto, se le cose dovessero davvero andare nella direzione giusta, un’intera regione potrebbe finalmente iniziare a godere delle benedizioni delle democrazie fiorenti e della tutela dei diritti umani. Come Immanuel Kant affermava nella sua opera “La pace perpetua”, le società “rappresentative” o “repubblicane” tendono a non muoversi guerra a vicenda.
Il migliore esempio moderno di questo fenomeno è l’Europa del dopoguerra. L’Unione Europea, nonostante tutti i suoi problemi ha dimostrato di essere il progetto di pace più ambizioso e di successo della storia contemporanea.
Guardando al mondo arabo negli ultimi sei mesi, stiamo assistendo all’inizio di un processo che potrebbe portare nella stessa direzione generale, o a qualcos’altro?
Francamente, nessuno può ancora dirlo.
Ricordiamo, per cominciare, che nessuno prevedeva la rivolta, iniziata in Tunisia. E anche quando gli eventi hanno cominciato a svolgersi, sono stati fatti molti passi falsi. Nel frattempo, i media cercavano di dare un senso a eventi che non avevano in alcun modo previsto, e avevano bisogno di sfornare analisi e spiegazioni agli utenti affamati di notizie a ciclo continuo.
Troppo spesso, i media hanno ceduto alla tentazione, incredibilmente semplicistica, di quella che io chiamerei “informazione binaria”. Quando il presidente egiziano Mubarak è stato infine ritenuto “cattivo”, per definizione, coloro che si opponevano a lui erano presunti “buoni”.
Stessa storia in Libia: se il colonnello Gheddafi era “un peccatore”, poi ovviamente chi cerca di scacciarlo, chiunque essi siano, devono essere per forza dei “santi”.
Ma col tempo si scopre che non è poi così semplice. Il contrario di “despota”, in situazioni del genere, potrebbe essere “democratico”, ma non necessariamente.
L’esempio più eloquente è l’Iran. Agli inizi del 1979, gli Stati Uniti e altri avevano concluso che lo scià, che il presidente Carter aveva in precedenza lodato come “un’isola di stabilità”, doveva andarsene. L’ipotesi era che chiunque l’avesse sostituito, sarebbe stato sicuramente migliore.
Salvo poi scoprire che non era così, ma il costo del giudizio sbagliato, per sottolineare ciò che è dolorosamente ovvio, si è rivelato molto alto.
Questo aiuta a spiegare perché Israele ha assunto un profilo insolitamente basso, adottando un atteggiamento attendista.
L’Egitto è lo scenario più grande. C’è molto in bilico: un accordo di pace in vigore dal 1979; le importazioni di gas egiziano; la politica nei confronti dei vicini di Gaza governata da Hamas; il ruolo dei Fratelli Musulmani nella politica egiziana, e più ampie considerazioni strategiche.
La Siria è un altro scenario di primario interesse strategico, naturalmente.
Se il presidente Assad riuscirà a mantenere il potere con la sua forza micidiale, che cosa desumerà dagli ultimi mesi? Accoglierà la necessità di una riforma, come qualcuno potrebbe ancora sperare vanamente, o forse tenterà di creare dei diversivi, come abbiamo visto il 15 maggio scorso e ancora pochi giorni fa, coinvolgendo, per esempio, Israele, nel tentativo di reindirizzare la rabbia nazionale? E se perderà il potere, chi lo sostituirà? Ci sono dei democratici jeffersoniani in attesa dietro le quinte tra la maggioranza sunnita? Ne dubito.
E l’elenco potrebbe continuare. Soprattutto, la Giordania, con cui Israele condivide la sua frontiera più lunga, la cooperazione per la sicurezza e un patto di pace, sarà capace di restare stabile, o affronterà anch’essa diffuse proteste destabilizzanti? La democrazia non è un processo che si esaurisce in una notte.
Richiede anni, in realtà decenni, di paziente e tenace coltivazione. Ha bisogno di penetrare ogni aspetto di una società - dalle scuole alla magistratura, dai media alla società civile, dalle urne ai militari. Sì, deve pur cominciare da qualche parte, ma pensare che possa essere trapiantata immediatamente in società che non hanno familiarità con i suoi principi fondamentali, o che possa realizzarsi mediante un processo lineare che salti allegramente di pietra miliare in pietra miliare, significa sottovalutare il percorso o il suo attuale punto di partenza.
I gruppi ebraici americani possono contribuire a nutrire questo processo, soprattutto, sollecitando un impegno americano continuo, non episodico, e l’analisi realistica dei comportamenti.
Ma, per quanto strano possa sembrare, l’unico paese nella regione più pronto a fare il salto potrebbe essere l’Iran.
Oggi suona inverosimile, ma forse non è proprio così. L’Iran ha una forte comunità di uomini d’affari, una classe media vibrante, un’esplosione demografica di giovani irrequieti, un forte movimento femminista e una diaspora attiva. Quanto potrà ancora andare avanti il regime teocratico corrotto, venale e repressivo prima che cada? Prima o poi cadrà, così come cadde l’Unione Sovietica.
E questo potrebbe davvero cambiare i giochi.
E allora guardiamo, aspettiamo e ci interroghiamo.
Sappiamo di essere testimoni della storia, ma di una storia che viene scritta in avanti, non all’indietro.
Stiamo disperatamente cercando un esito felice, ma non siamo ancora pronti a scommettere la fattoria di famiglia sulla sua riuscita.
Vogliamo essere coerenti nel nostro approccio, ma ci rendiamo conto che la coerenza potrebbe farci finire nei guai. Vogliamo, per esempio, difendere le vittime della repressione di stato, ma temiamo un maggiore coinvolgimento in Libia o, similmente, qualsiasi coinvolgimento diretto in Siria. Vogliamo essere dalla parte della democrazia, ma sappiamo che se, per esempio, oggi il Bahrain cedesse alla sua maggioranza sciita, l’Iran potrebbe uscirne vincitore.
Così come auspichiamo una nuova era in Egitto, ma temiamo che ciò stravolga le politiche fondamentali di Mubarak su Israele e sugli Stati Uniti, e che l’islamismo prevalga.
Tutto questo ha bisogno di una diplomazia agile da parte degli Stati Uniti, dell’eterna vigilanza da parte di Israele e di una riflessione approfondita da parte degli ebrei americani.
E anche se non è una strategia, se qualcuno volesse metterci un extra di speranza per buona misura, io, per esempio, non mi opporrei.

di David Harris
Direttore esecutivo American Jewish Committee
www.ajc.org

(traduzione di Carmine Monaco)

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