Nella sua Cesena, dove ha iniziato a giocare a pallone da bambino, lo chiamano l'Airone delle Vigne, in virtù del suo metro e 93 di altezza per 70 chili di peso, e della sua provenienza dal quartiere Vigne, dove ha vissuto fino a poco tempo fa a casa della madre prima di trasferirsi in centro con la ragazza. Qui lo descrivono come un tipo tranquillo e riservato, senza le solite fisse dei calciatori professionisti per auto de luxe e vestiti firmati, ma soprattutto negano che la sua fuga sia dovuta a disagi psicologici: «E' venuto a mangiare nella mia pizzeria anche l'altra sera e abbiamo parlato di quello che è successo – racconta Filippo Antoniacci, anche lui classe 1983, amico di Bernacci fin da quando giocavano insieme negli esordienti del Cesena – Mi ha detto che si è stancato, che non ha più voglia di andare a fare gli allenamenti e che gli mancano gli stimoli giusti per continuare a giocare. In altre parole non ha più voglia di fare le cose che ha fatto finora: mi ha confermato che ha voluto smettere perché si sentiva troppe pressioni addosso. Allo stesso tempo però è contento, perché ha ricevuto più di 350 messaggi di gente che lo invita a non smettere». Antoniacci aveva saputo della decisione dell'amico già il giorno prima dell'annuncio, ma lì per lì non gli aveva dato peso: «Mi aveva detto che voleva smettere, ma siccome era una cosa che diceva spesso, scherzando, non ci ho fatto caso. Anche al mister Stefano Piraccini, che ci ha allenato da ragazzini nel Cesena, chiedeva di trovargli una squadra qui vicino, perché si era stufato di girare».
Pensavano scherzasse e invece faceva sul serio, anzi, magari ci rimuginava su da un pezzo, anche perché la sua vita di giocatore non è stata proprio semplicissima: a Cesena i suoi ex tifosi non lo sopportano più, da quando ci tornò da avversario col Mantova, segnò e commise l'errore più imperdonabile, cioè esultare contro la propria squadra di un tempo. Poi giocò di nuovo al Manuzzi, stavolta con la maglia dell'Ascoli, e fu contestazione vera: «Quel giorno i tifosi avevano comprato persino i fischietti apposta per lui…». E dire che Bernacci alla sua città è legato a filo doppio: «Lo aveva chiesto la Reggina in serie A, ma lui rifiutò per la lontananza», spiega Antoniacci. Al Bologna, dove aveva militato prima di essere ceduto in prestito prima all'Ascoli e poi, quest'anno, al Torino, non era andata molto meglio: raccontano di un lungo pianto nello spogliatoio dopo un gol sbagliato contro l'Udinese. La buona stagione disputata ad Ascoli l'anno scorso evidentemente non è servita a guarirlo dal mal di calcio, se alla prima partita col Torino e alle prime insufficienze in pagella ha scelto di farla finita col pallone. Eppure non ci sarebbe niente di patologico, niente di grave, come tiene a sottolineare l'amico: «Io non credo assolutamente che la sua sia depressione: l'avevo sentito una decina di giorni fa ed era contento di andare a giocare a Torino. Poi alla prima parita si è trovato in un vortice e ha deciso di smettere. Gli ho detto aspetta un attimo, pensaci, però lui è uno molto istintivo e quando prende una decisione non cambia idea. E comunque la depressione non viene certo da un giorno all'altro: è vero che gli è morto il papà quando eravamo negli esordienti, ma non è affatto vero che stia male. E' un pezzo che dice che vuole venire a casa, senza gente che lo giudica».
Stefano Piraccini, che ha allenato Bernacci negli esordienti del Cesena e ha mantenuto ottimi rapporti con lui, ricorda che il ragazzo «ha sofferto moltissimo per la morte del padre, cui era legatissimo». Del carattere di Marco dice che, pur essendo gioviale e pronto alla battuta, «è sempre stato chiuso, in questo ultimi periodo in maniera particolare». Riguardo ai suoi consigli in materia di calcio era «poco propenso ad ascoltare ma sempre pronto a ridere e scherzare dei suoi difetti di calciatore». E ancora: «Marco è poco propenso a crescere nel suo modo di calciatore, così come a sacrificarsi negli allenamenti. Il suo carattere è questo: forse gli manca un po' di voglia di disciplina, perché lui poteva militare già da tempo in serie A, ma ha fatto poco per aiutarsi da un punto di vista fisico, quando invece per giocare a quei livelli la forza fisica è fondamentale, perché il gioco è diventato molto più fisico».
Secondo Piraccini, il ragazzo ha sempre preso il calcio come un gioco, senza mai montarsi la testa. Sulla sua presunta fragilità aggiunge che «si era costruito una membrana intorno per cui rispondeva sempre scherzando: oggi mi rendo conto che forse questo suo modo di fare nacondeva delle debolezze». Il resto è storia di ieri: preoccupato per la piega presa a Bologna, dove i tifosi non lo volevano più, e poi sballottato a Torino, dove c'è grande passione, alla prima partita si è mangiato un gol ed è stato sommerso dai fischi. «Questa può essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Il procuratore Giovanni Sama chiude tutti discorsi: «Non lo rendono felice né i soldi né il pallone, non sono stati i fischi o i voti rimediati dopo l'ultima partita a farlo smettere, stava male già prima per l'ansia e lo stress. E' molto consapevole che la sua carriera è a rischio, però preferisce stare meglio».
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