La catastrofe, va da sé, è appostata dietro ogni angolo, le insidie sono migliaia. Ma le cose sembrano marciare, e nella direzione di una possibile, positiva, quasi sorprendente intesa. Ovviamente, tutto questo edificio può crollare in un istante. Allora avrebbe ragione il ministro del Climate Change britannico, Chris Huhne, a dire che a quel punto le COP sarebbe meglio chiamarle "ZombieCOP". Nella mattinata era circolata la voce di un testo negoziale, messo a punto dall'Unione Europea e sostenuto dalla presidenza messicana della Conferenza, che sostanzialmente non prevedeva una conferma dal 2013 del protocollo di Kyoto, all'interno di un unico accordo complessivo sulla riduzione delle emissioni di gas serra che non prevedesse più i due binari separati, uno per i paesi sviluppati con vincoli e penalità e un altro per tutto il resto del mondo.
Una soluzione contro cui sono insorti i paesi del gruppo BASIC, di cui fanno parte Cina, India, Sudafrica e Brasile. La Commissaria Europea per l'ambiente, la danese Connie Hedegaard, ha dovuto fare una dichiarazione per negare ogni volontà dell'Europa di far saltare Kyoto. E fatto sta che nel primo pomeriggio di ieri l'Unione Europea (sotto la spinta proprio della Gran Bretagna), d'intesa con i piccoli Stati-isola del gruppo AOSIS e con il Costarica ha presentato una nuova proposta che dice che lo sbocco finale del secondo tracciato negoziale (quello che prevede gli impegni di lungo periodo) deve portare a un trattato dalla forma legalmente vincolante, e che contemporaneamente i paesi sviluppati si impegneranno per il rinnovo del protocollo di Kyoto.
Tutte cose che si faranno l'anno prossimo alla COP17 di Durban, in Sudafrica. Una soluzione che non piace ai paesi dell'alleanza bolivariana ALBA (Cuba, Bolivia, Venezuela e altri), è gradita agli africani, e spiazza un po' Cina e India, che pure in questi giorni hanno aperto alla possibilità di inserire all'interno di un protocollo legalmente vincolante i loro impegni di riduzione delle emissioni, impegni volontari e autodefiniti. Se questa linea passasse, un'intesa finale (e non virtuale) da raggiungere sabato potrebbe essere davvero alla portata, in una sorta di rush finale ad alta tensione. In pratica un'intesa sul protocollo REDD+ per bloccare la deforestazione delle aree tropicali è già pronta, e lo stesso discorso vale per i cosiddetti LULUCF, ovvero il contributo al taglio delle emissioni del settore agricolo e forestale (industriale) dei paesi temperati e sviluppati. Non c'è una distanza siderale nemmeno su altri temi fondamentali, come le regole di monitoraggio del taglio delle emissioni, i trasferimenti di tecnologia e i finanziamenti necessari per adattamento e mitigazione del cambio climatico, i 30 miliardi del "fast-start" fino al 2012 e i 100 miliardi annui da allora al 2020.
Possibile anche l'inserimento (attraverso bizantinismi linguistici sofisticatissimi) degli impegni volontari dei vari paesi al taglio delle emissioni allegati all'accordo di Copenhagen (sostenuto solo dagli americani e odiato da tutti gli altri) all'interno del documento finale. Insomma, in un globale "prendere o lasciare" finale l'intesa di Cancun potrebbe esserci. Un'intesa che vedrebbe sostanzialmente impegni per tutti, anche se in una forma un po' annacquata. Tramonterebbe certo la prospettiva (allo stato, non realistica) di "kyotizzare" a livello planetario il meccanismo di taglio delle emissioni (Kyoto varrebbe solo per i paesi ricchi ma non per gli USA). Ma questo passa il convento oggi. E non è nemmeno detto che vada in porto.
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