martedì 14 dicembre 2010

Quella notte a San Francisco è morto Gesù Igor Man (1922-2009)

Era il 1953. Tra regolamenti di conti e vecchi vagabondi un "Giovine Cronista"
alla scoperta degli States
IGOR MAN

Un anno fa, il 16 dicembre, moriva a Roma Igor Man, una delle firme più
prestigiose e popolari della Stampa, dove era stato chiamato da De Benedetti
nel 1963. Era nato a Catania nel 1922. Giornalista e scrittore, acuto
conoscitore del mondo mediorientale nelle sue complesse sfumature, nel corso di
una straordinaria carriera aveva intervistato i protagonisti dell'ultimo mezzo
secolo, da John Kennedy a Krusciov, da Che Guevara a Arafat, Gheddafi e
Khomeini, e aveva raccontato in prima persona i grandi eventi, dal Vietnam alla
rivoluzione iraniana, dalla Guerra dei Sei giorni al golpe cileno. In questa
pagina riproponiamo un articolo pubblicato sulla Stampa del 5 aprile 1996,
Venerdì Santo, in cui il Vecchio Cronista, come amava definirsi, rievoca un'
esperienza giovanile nell'America del 1953.

Una volta, tanto tempo fa, Prima dell'Aids, poiché la nostra povera storia
contemporanea va così divisa: Prima e Dopo l'Aids; nell'estate del 1953 un
giovine cronista viaggiava gli Stati Uniti d'America per raccontarli sul
giornale. Ovviamente quel giovine cronista era innamorato dell'America e tutto
quel che c'era di disponibile, in fatto di libri eccetera, aveva letto e
chiosato, prima di partire per quello ch'egli credeva fosse il Paese della
Libertà. Il viaggio sarebbe durato tre mesi ma già dopo i primi, intensissimi,
trenta giorni, il giovine cronista aveva scoperto che l'America era un Paese
«relativamente libero» perché c'era il senatore McCarthy e il razzismo c'era e
tante altre cose non proprio buone. E tuttavia a mano a mano che passavano i
giorni, tessuti di incontri con personaggi importanti e non il giovine cronista
scopriva altresì che la sua era stata soltanto una cotta. Una banalissima cotta
provinciale cui subentrava, giorno dopo giorno, grazie alla «conoscenza
diretta» di uomini e luoghi e cose, un amore serenamente profondo per gli
americani.

Essi, infatti, gli americani, a dispetto del maccartismo eccetera gli si
rivelavano sempre più «uomini liberi», padroni di spazi immensi: fisici e
spirituali. Viaggiando l'America di Eisenhower, il giovine cronista scoprì che
«il problema (per l'uomo americano) non consiste nel trovare il modo di essere
se stessi al di fuori della società, né nello scegliere fra Boston e Walden
Pond, ma consiste nel rimanere se stessi entro la società» (cfr. L.
Kronenberger, Company Manners, 1952). E scoprì inoltre, quel giovine «inviato
speciale», che l'americano qualunque - conformista, arrivista, spietatamente
pragmatico - custodisce nel suo profondo l'amore verso l'Altro, specie se
derelitto.

A San Francisco il giovine viaggiatore, che chiameremo Emme, volle verificare
se la Centrale di polizia era come l'aveva vista al cinema, se i cronisti
fossero come quelli dei film. Gli avevano dato il telefono di Stuart McClure,
cronista dell'Examiner, ed Emme non appena arrivato lo chiama e quello gli dice
di venire subito perché è lunedì ed è una giornata buona, il lunedì, per vedere
cosa fanno i piedipiatti e quant'è bestiale la gente eccetera. Emme va e questo
è il riassunto di quella serata. La press room sta a ridosso della Centrale, la
Centrale è nella Hall of Justice dove han sede il tribunale e l'ufficio del
Coroner. Stuart McClure: alto, robusto, capelli rossi scarruffati, lentiggini
sul viso illuminato da un sorriso vero. Un lapis dietro l'orecchio, camicia a
scacchi con cravattino a farfalla. Gli tremano le mani: un tremito continuo,
leggero ma convulso. Stuart ha 36 anni e quattro figli. Ha fatto sempre il
cronista di nera interrompendo il suo lavoro soltanto in due circostanze: la
seconda guerra mondiale, la Corea. Quel tremito glielo ha regalato una granata
esplosa a pochi passi da lui. Stuart lavora quattro ore al giorno: dalle 22
alle 2, quattro giorni la settimana. Venerdì, sabato, domenica riposa.
Controlla, via radio e col telefono, tutti i fatti di nera, li valuta, decide
sul da farsi: se telefonarli o non al giornale, se disporre l'invio di un
cronista e di un fotografo. Se il fatto è grosso, è lui stesso a muoversi in
modo da poter scrivere un pezzo firmato, the story, come dice. In pratica è un
capocronista distaccato, sicché prende ordini direttamente dal redattore capo.
Guadagna sui 200 dollari la settimana.

«Hello, George, novità?», e la voce dell'agente, monotona, senza inflessioni
risponde alla radio: «Una rissa in Stockton Street, angolo Pacific Avenue, un
negro ne ha fatti fuori tre, sembra che sia piovuto sangue, dicono i ragazzi».
Per tenerlo fermo, il negro, non bastano tre agenti tanto che debbono
avvolgerlo di catenelle. È un uomo bellissimo e furente, volevano ammazzarmi,
dice, ma io sono stato più svelto, legittima difesa, protesta, ma i poliziotti
lo cacciano dentro l'automobile a ginocchiate, e così facendo, apertamente
brutali, s'accorgono che anche lui, il negro furente, è ferito. E ridono, non
più incazzati, e un piedipiatti gli ficca un dito nell'occhio al negro e quello
ulula più della sirena. Dei tre «sistemati» dal negro, uno ce n'è che respira
ancora. Stuart se ne accorge e invoca l'ambulanza ma arriva un sergente (è
proprio come se si materializzasse un film sui bassifondi di San Francisco,
prodotto dalla Metro nei Trenta) e dice a Stuart di farsi i cavoli suoi. Emme è
sconvolto, da dietro le spalle di Stuart guarda quello che respira ancora. È
bello come un angiolo caduto dalle nuvole, biondo e di gentile aspetto; dal
torace imbottito di proiettili spiccia inesorabile il sangue. È una vecchia
conoscenza della polizia, un pusher. Tutto proprio come nelle pellicole in
bianco e nero, con il latrare delle voci poliziesche e le sirene che muggiscono
a far da sottofondo. Un improvviso colpo di vento porta l'odore del mare
sporco, sospinge lattine vuote di birra, e persino un gatto terrorizzato. Il
vento arriva dall'antica Portsmouth Square dove, il 9 di luglio del 1846, il
capitano John B. Montgomery, comandante della fregata Portsmouth, alzò la
bandiera stellata prendendo possesso di Yerba Buena in nome del governo degli
Stati Uniti.

Che notte quella notte nella downtown di San Francisco. Una corsa rovente,
interminabile a bordo dell'auto numero 7 della Polizia municipale. L'agente
Roger T. Moore al volante, il sergente Oscar Tiboni accanto. Moore è entrato in
Roma il 4 di giugno del '44 a bordo d'un carro armato che forse avrà guidato
con la stessa determinazione con cui guida la Pontiac della Polizia. Tiboni ha
la faccia seria degli oriundi, la sua famiglia viene da Trieste. Che notte: una
vecchia, Lizzie A., aggredita dalla sua governante, al numero 600 di Green St.
In una cantina della Columbus Ave., sorpresi otto minorenni mentre fumano
oppio. E ancora uno stupro nel cesso d'un bar, e teppisti allineati a mani
alzate contro il muro, le gambe divaricate, davvero come al cinema. La notte
del lunedì è quasi sempre questa, spiega Stuart a Emme. E Tiboni annuisce ma d'
un tratto, imperioso, azzitta il cronista. La Centrale: «È morto Contrabbasso»,
comunica e Tiboni urla all'agente di correr là dov'è successo che poi sarebbe a
un passo dalla Centrale, proprio sotto il monumento a Robert L. Stevenson.

Contrabbasso, spiega Stuart a Emme, parlando piano altrimenti Tiboni s'
arrabbia, Contrabbasso è il nickname, insomma il soprannome d'un vecchio
vagabondo messicano al quale i piedipiatti si sono affezionati. Per anni, notte
dietro notte, sono andati a scovarlo nei posti più impensati di San Francisco,
se lo sono caricato sulle spalle e nel cellulare badavano a che non cadesse dal
sedile. Una volta alla Centrale, lo mettevano a letto come un bambino, attenti
a fargli avere una bella cella imbottita, singola, per ubriachi. Al mattino gli
regalavano sigarette, tabacco da masticare. «Siete la mia famiglia, vi voglio
bene», diceva Contrabbasso ai piedipiatti, «voi: razza di bastardi
rompiscatole», e loro, i bastardi, ridevano contenti. Ma quella notte di sangue
e dolore, con tutti quei servizi urgenti, Contrabbasso era finito fuori
controllo ed era morto: cadendo da una panchina aveva battuto l'occipite.

Emme non pensava che esistessero messicani biondi. Sia come sia, Contrabbasso
biondo lo era. I capelli incolti sul collo, una barba non curata ma piena, il
profilo da medaglia. Lì all'obitorio, il corpo magro, d'un candore accorato,
coperto dal lenzuolo con sopra il numero 299 stampigliato, guardandolo -
rifletteva Emme -, si poteva immaginare una versione aggiornata della Lezione d'
anatomia del professore Nicolas Tulp con gli sbirri al posto degli allievi e il
sergente Tiboni in luogo del Professore. «È morto bevuto», bisbiglia Moore,
«non avrà sofferto». «È morto felice», soggiunge Stuart, «e io ho trovato la
story, mi ha fatto un grosso favore Contrabbasso, un amico fino all'ultimo. E
che titolo, ragazzi: "Poliziotti senza Contrabbasso"». Ma: «Zitto», intima il
sergente Tiboni e: «Contrabbasso è solo uno stupido nickname», scandisce, «lui
si chiamava Mendoza. Jesus Mendoza. Era stato ricco, è morto povero: come quell'
altro. Mendoza si chiamava Jesus, insomma Gesù. Stanotte, a San Francisco, è
morto, senza conforti religiosi, un povero chiamato Gesù. Scrivetelo, voi
imbrattacarte, scrivetelo». Lo abbiamo scritto, sergente Tiboni. Esattamente il
Venerdì Santo del '96. Dopo l'Aids.
con lastampa.it

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