lunedì 23 giugno 2008

Effetto Obama l’America vuole ridiscutere le ‘quote’ - "affirmative action" politiche che da mezzo secolo hanno difeso le minoranze in particolare i neri

Effetto Obama l'America vuole ridiscutere le 'quote' - "affirmative action"
politiche che da mezzo secolo hanno difeso le minoranze in particolare i neri


DI ARTURO ZAMPAGLIONE

La marcia trionfale di Barack Obama, che ora è in testa ai sondaggi per le presidenziali, ha fatto riesplodere negli Stati Uniti le polemiche sulla "affirmative action", cioè su quelle politiche che da mezzo secolo hanno difeso le minoranze in particolare i neri creando corsie preferenziali negli appalti pubblici, nelle assunzioni e nelle iscrizioni universitarie. Avviate da John Kennedy nel 1961, perfezionate da Lyndon Johnson, avallate dalla Corte Suprema, queste politiche avevano l'obiettivo di ovviare alle discriminazioni della storia. Ma se un afroamericano come Obama riesce ad arrivare alle soglie della Casa Bianca – questa è la tesi che si sente ripetere sempre più spesso – vuol dire che la società americana si è finalmente liberata dai fardelli del razzismo e quindi che non c'è più bisogno della "affirmative action".
E' così? E' tempo di voltare pagina eliminando quella che molti considerano un "razzismo all'inverso"?

La comunità afroamericana risponde di no: secondo un sondaggio del Pew Research Center, un thinktank di Washington, il 57 per cento dei neri sostiene che le minoranze hanno ancora bisogno di un trattamento preferenziale. E semmai il caso di Obama dimostra che l'"affirmative action" funziona bene e che va quindi mantenuta.
Ma i bianchi sono molto più scettici, specie in quelle zone d'America in cui la recessione e la delocalizzazione hanno avuto effetti socioeconomici devastanti. Il 48 per cento di loro, sempre secondo il sondaggio del Pew, sono convinti che gli Stati Uniti abbiano "esagerato" nel favorire le minoranze. E anche il mondo del business vuole liberarsi dai vecchi lacciuioli, come conferma una recente inchiesta del "Wall Street Journal".

E' probabile che dietro alla rabbia di tanti bianchi, di cui si fa interprete il repubblicano John McCain, ci sia inconsciamente qualche strascico di razzismo, ma sono soprattutto frustrati per un sistema che li penalizza e che ha motivazioni sempre meno convincenti.

Prendiamo l'esempio delle grandi università americane, dove per entrare la selezione è impietosa: a parità di merito, per gli studenti afroamericani (specie se maschi) è molto più facile essere ammessi dei loro colleghi bianchi. Nel 2005 l'Mit (Massachusetts Institute of Technology) ha accolto solo il 15,9 per cento delle domande di iscrizione, ma la percentuale era doppia (31,6) per i giovani neri. Una preferenza, questa – dicono i critici – che poteva forse essere valida in altri tempi, quando le differenze economiche tra gruppi razziali erano fortissime, ma finiscono ora per dare un indebito vantaggio ai figli della crescente borghesia nera. Michelle Obama – ricordano – guadagna più di 14 mila euro al mese, mentre Stan O'Neal, l'exchief executive, anche lui afroamericano, incassò nel 2006 48 milioni di dollari tra bonus e stipendio.

Già prima di queste elezioni l'"affirmative action" era nel mirino di iniziative politiche e referendum, come quello che l'ha sostanzialmente abrogata in California. Per Barack Obama rischia ora di diventare un problema esplosivo. Il candidato democratico ne ha sempre difeso la filosofia, ma si rende anche conto che l'opposizione al sistema delle preferenze è molto forte in stati come il Michigan e West Virginia, che hanno un ruolochiave per la Casa Bianca e dove gli elettori si chiedono se non sia l'ora di sostituire un sistema di preferenze basate sul colore della pelle con aiuti alle fasce di reddito più basse.
a.zampaglione@repubblica.it

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