Torri: «Tutti i ciclisti barano, perchè fermare 1 su 100?»
STEFANO SEMERARO
«Se non fosse dannoso per la salute degli atleti il doping andrebbe legalizzato». Non lo sostiene uno dei tanti stregoni dell'aiutino farmacologico, ma Ettore Torri, capo della procura antidoping del Coni, e capirete che l'effetto è stupefacente.
Come se l'ispettore Gimko caldeggiasse l'impunità di Diabolik, o Maigret mollasse l'indagine con le prove dell'omicidio in mano. «Non sono l'unico che la pensa così», ha dichiarato Torri in una intervista all'Associated Press sugli sviluppi della positività di Contador. «I ciclisti che ho interrogato (Torri sta seguendo per la procura anche il recente caso Petacchi, ndr) hanno detto che tutti si dopano. E non è giusto quando si trova positivo un atleta su cento. Più lavoro in questo campo e più mi meraviglio della diffusione del doping. Non credo che verrà mai estirpato». Frasi sconfortate, sconfortanti e pesanti, soprattutto perché arrivano dalla centrale stessa della lotta all'industria dell'inganno, dal cuore del Coni che del suo impegno contro il doping ha sempre fatto un vessillo, scovando e punendo bari, anche eccellenti. Il Presidente Petrucci qualche tempo fa ha persino alzato una taglia di 100.000 euro su chi viene beccato con le mani sulla fialetta; la mezza diserzione, o provocazione, se vogliamo usare un eufemismo, di Torri, sicuramente lo amareggerà e imbarazzerà.
Su una cosa però Torri ha ragione: non è il solo a pensare che quella contro il doping è una gara persa. Ieri l'Ap ha rivelato che Alberto Contador sarebbe risultato positivo anche a un secondo test, effettuato all'ultimo Tour de France il 20 luglio, il giorno prima di quello che ha evidenziato la presenza nel suo organismo del clenbuterolo, e che confermerebbe che il ciclista spagnolo avrebbe fatto ricorso ad una (proibitissima, ma negata dal suo clan) trasfusione di sangue. «Senza doping non si vince al Tour», ha gettato benzina sul fuoco Bernhard Kohl, ciclista austriaco squalificato per una positività al Cera, una evoluzione dell'Epo, dopo essere arrivato terzo al Tour nel 2008. «Per capirlo basta guardare alla velocità media delle ultime edizioni: 40 chilometri all'ora, come quando c'ero io e vinse Floyd Landis (altro squalificato per doping, ndr). I ciclisti si dopano ancora». Scontato ricordare come sui sette successi di Lance Armstrong alla Grand Boucle da anni si agitino (giustificati) sospetti e veleni. Ma non sono solo i «ladri» a essere scettici sulle chance della Wada e delle altre organizzazioni nazionali di arginare il fenomeno. Anche le «guardie», come Torri, si sentono ormai accerchiate e impotenti davanti a una Gomorra sportiva in camice bianco capace di spostare sempre più avanti la frontiera dell'illecito.
Proprio alla vigilia dei Giochi del Commonwealth il grande capo dell'anti-doping neozelandese, David Howman, aveva alzato bandiera bianca: «Nulla più mi sorprende. Continuiamo a beccare qualche atleta positivo perché ci sono atleti così stupidi da rischiare anche quando sanno che verranno testati in maniera approfondita. Non li capisco, ma evidentemente è la natura umana. Stiamo facendo dei progressi, purtroppo però non esisterà mai un mondo senza giornalisti che copiano, avvocati che corrotti, e atleti che barano». Il tutto mentre dai protagonisti del cricket e dal calcio britannico arriva la richiesta alle autorità mondiali di togliere cocaina, marijuana e altre droghe sociali dall'elenco delle sostanze proibite. Giustificare Torri è difficile. Capirlo molto meno.
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