Il ministro Al Mahmood (a sinistra) con l'ex campione Edwin Moses
ABU DHABI - Prima o poi la grande crisi petrolifera arriverà. Tra qualche decennio magari, ma arriverà: l'oro nero comincerà a sgocciolare dalle viscere del deserto, non più a zampillare, e a quel punto il mondo cambierà, il medio Oriente cambierà, la vita di tutti sarà diversa. Così persino gli Emirati Arabi, sotto la cui sabbia scorre il 10% delle riserve mondiali di petrolio, potrebbero andare in crisi. Per questo l'emiro Mohammed bin Zayed Al Nahyan, non più tardi di cinque anni fa, ha disegnato un piano di sviluppo con scadenza nel 2030: entro quella data Abu Dhabi, il più importante dei sette Emirati Arabi, dovrà diventare uno dei cinque paesi più ricchi del mondo, un polo mondiale del business, della cultura, dello sport. Insomma bisognerà sganciarsi dalla dipendenza dal petrolio e per quell'epoca l'Emirato dovrà marciare coi propri mezzi, non solo quelli che sbucano dalla sabbia. Diversificare gli investimenti, si chiama. E' accaduto allora che facendo leva sugli 850 miliardi di dollari del fondo sovrano più ricco del pianeta di cui dispone, Al Nahyan abbia iniziato un massiccio piano di investimenti in infrastrutture (Abu Dhabi pullula di grattacieli in costruzione), cultura (qui ci sono già le "dependance" del Louvre di Parigi e del Guggenheim di New York) e sport. La gestione degli eventi sportivi è stata affidata da quattro anni al segretario dell'Abu Dhabi Sport Council (di fatto il ministero dello Sport), un giovane uomo
ora di 34 anni, Mohammed Al Mahmood, che ha studiato per cinque anni a Lugano, parla un italiano perfetto con lieve accento lombardo e dal 1990 è tifoso dell'Inter
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