venerdì 26 febbraio 2010

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ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 26 febbraio 2010

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I responsabili del viaggio del Papa in Portogallo visitano il Paese

LISBONA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- L'équipe del Vaticano responsabile dei viaggi del Papa ha concluso questo giovedì un viaggio di tre giorni in Portogallo per studiare questioni organizzative e di sicurezza in vista della prossima visita di Benedetto XVI.

Il Papa sarà nel Paese dall'11 al 14 maggio e visiterà Lisbona, Fatima e Porto.

Secondo quanto rende noto il sito ufficiale della visita papale, la delegazione vaticana, guidata dal dottor Alberto Gasbarri e che includeva, tra gli altri, un responsabile della sicurezza e una rappresentante dell'Alitalia, si è riunita a Lisbona, vicino alla Nunziatura, con alcuni membri della Commissione Organizzatrice della Visita, diretta da monsignor Carlos Azevedo, Vescovo ausiliare di Lisbona.

Il gruppo del Vaticano ha poi avuto una riunione di lavoro al Ministero degli Esteri con rappresentanti del Protocollo di Stato e delle forze di sicurezza (PSP e GNR).

Mercoledì, l'équipe è stata a Fatima e a Porto, riunendosi con i responsabili locali dell'organizzazione e della sicurezza. Giovedì si è svolta una riunione di bilancio di queste tre giornate in Portogallo.

Celebrazioni

Il responsabile delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, sarà in Portogallo dall'8 al 10 marzo per visitare i luoghi in cui si svolgeranno gli atti liturgici inclusi nel viaggio di Benedetto XVI.

Monsignor Marini accompagnerà la preparazione delle celebrazioni e assisterà ad alcune prove.

Benedetto XVI celebrerà Messe a Lisbona (l'11 maggio alle 18.15 al Terreiro do Paço) e a Porto (il 14 maggio alle 10.15 nella Avenida dos Aliados) e presiederà la Messa del Pellegrinaggio Internazionale dell'Anniversario il 13 maggio alle 10.00 a Fatima.

Il 12 maggio si recherà alla Cappellina delle Apparizioni (alle 17.30); parteciperà inoltre ai Vespri nella chiese della Santissima Trinità (alle 18.00), alla recita del Rosario e alla Processione delle Candele (alle 21.30). L'Eucaristia sarà presieduta dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano.

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Eretta una nuova Provincia ecclesiastica in Madagascar
Monsignor Tsarahazana nominato primo Arcivescovo metropolita
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha eretto la Provincia ecclesiastica di Toamasina (Madagascar), elevando a Chiesa Metropolitana l'omonima sede vescovile, assegnandole come Chiese suffraganee le Diocesi di Ambatondrazaka, Moramanga e Fenoarivo-Atsinana.

Lo rende noto la Sala Stampa della Santa Sede in un comunicato diffuso questo venerdì, nel quale si afferma che il Papa ha nominato primo Arcivescovo Metropolita di Toamasina monsignor Désiré Tsarahazana, finora Vescovo della stessa Diocesi.

La nuova Provincia ecclesiastica è formata da quattro Diocesi suffraganee: due, Toamasina e Fenoarivo-Atsinanana, vengono distaccate dalla Provincia ecclesiastica del Nord (Antsiranana); altre due, Ambatondrazaka e Moramanga, sono distaccate dalla Provincia ecclesiastica del Centro (Antananarivo).

La Diocesi di Toamasina, creata il 14 settembre 1955, ha una superficie di 23.690 chilometri quadrati e una popolazione di circa 2 milioni di abitanti.

I cattolici sono più di 600.000, rappresentando il 31% degli abitanti. I cristiani non cattolici sono 500.000 (il 25%) mentre i non cristiani sono 850.000 (43%).

Toamasina ha 18 parrocchie, 8 delle quali in città; 42 sacerdoti, di cui 19 diocesani e 23 religiosi; 88 suore, provenienti da 9 Congregazioni religiose; 1.250 catechisti.

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Notizie dal mondo


Pakistan: "letargo del Governo" di fronte all'oppressione delle minoranze
Inattività dei poteri pubblici verso i crimini commessi dai talebani
ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Un'inattività tale da trasformarsi in "letargo". E' questa la visione che la Chiesa cattolica ha dell'azione del Governo del Pakistan di fronte alle continue vessazioni nei confronti delle minoranze religiose da parte dei talebani.

L'Arcivescovo Lawrence Saldanha, presidente della Conferenza Episcopale Pakistana, ha firmato e inviato all'agenzia Fides un comunicato della "Commissione Giustizia e Pace" in cui si condanna "il letargo del Governo" che lascia mano libera ai talebani.

In questo modo, spiega, si incoraggiano "l'imposizione della jazia (la tassa islamica richiesta ai non musulmani) da parte dei militanti integralisti", "i sequestri a scopo di estorsione, gli omicidi mirati e il fenomeno degli sfollati interni", di cui sono vittime le minoranze non musulmane in varie province.

La Chiesa è intervenuta in seguito a fatti gravissimi che hanno colpito la comunità sikh nei giorni scorsi. Nelle aree tribali ai confini con l'Afghanistan, due fedeli sikh sono stati minacciati, sequestrati e poi decapitati, visto le loro famiglie non avevano la possibilità di pagare il riscatto che era stato richiesto.

"Si tratta di violenze, crimini e gravi minacce alla libertà e ai diritti di proprietà, subite dalle minoranze religiose", ha confessato a Fides l'Arcivescovo Saldanha.

"Quelli avvenuti contro i sikh non sono episodi di violenza isolati, bensì frequenti ai danni dei credenti non musulmani. I Governi locali delle province e il Governo federale del Pakistan dovrebbero trattare questi incidenti come campanelli di allarme e adottare misure urgenti per prevenirli, assicurando la legalità e il pieno controllo della situazione", ha sottolineato.

"La Chiesa cattolica chiede che la protezione delle minoranze diventi una priorità nell'agenda di Governo".

A questo scopo, ha osservato, "occorre agire per tutelare la sicurezza, eliminando anche "tutte le leggi discriminatorie" esistenti, come quella sulla blasfemia, "per promuovere tolleranza armonia sociale in Pakistan".

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Spagna: la legge sull'aborto approvata al Senato, "grave passo indietro"
Secondo il portavoce della Conferenza Episcopale Spagnola

di Patricia Navas

MADRID, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- La nuova legge sull'aborto, approvata questo mercoledì al Senato, "presuppone un grave passo indietro nella difesa del diritto alla vita dei concepiti, un maggiore abbandono delle madri gestanti e, in definitiva, un danno molto serio al bene comune".

Lo ha affermato questo giovedì il portavoce della Conferenza Episcopale Spagnola (CEE), monsignor Juan Antonio Martínez Camino, nel corso di una conferenza stampa successiva alla riunione quadrimestrale della Commissione permanente della CEE.

Il presule si è riferito anche alle implicazioni del provvedimento nell'ambito educativo come a "uno degli aspetti più preoccupanti di questa nuova legge, che strumentalizza l'educazione al servizio dell'ideologia abortista".

Ha anche respinto l'"educazione volta a oscurare la coscienza sul diritto alla vita", e ha considerato che la legge propone una "triste prospettiva".

Il testo approvato, ha aggiunto, "pone restrizioni all'obiezione di coscienza dei professionisti".

Il re, caso unico

Dopo l'approvazione da parte del Governo, del Congresso e del Senato spagnoli, il processo per approvare la Legge sulla Salute Sessuale e Riproduttiva e l'Interruzione Volontaria di Gravidanza passa per la sanzione del testo da parte del re.

In risposta a varie domande dei giornalisti sulla questione, monsignor Martínez Camino ha spiegato che "la CEE non vuole pronunciarsi sulla responsabilità e sull'atto unico che esercita il re sanzionando la legge".

Il portavoce dei Vescovi spagnoli ha differenziato la situazione di Juan Carlos I da quella dei politici di fronte alla votazione della legge. "Sanzionare la legge è diverso dal votarla", ha affermato.

"Visto che l'atto de re è unico, molto diverso da quello di un politico che dà il suo voto a questa legge potendo non darlo, la CEE non darà consigli - ha aggiunto -. Non sono possibili principi generali".

Non è un diritto

Il portavoce dell'episcopato spagnolo ha consigliato di rileggere il testo integrale della Dichiarazione del 17 giugno scorso della Commissione permanente intitolata "Sulla bozza del disegno di legge sull'aborto: attentare contro la vita dei concepiti trasformato in 'diritto'".

Richiamandone il contenuto, il Vescovo ha definito "triste" e "grave" l'approvazione di "una legge che trasforma l'aborto in un presunto diritto", "una legge che dà licenza di uccidere i figli".

Monsignor Martínez Camino ha sottolineato "la volontà della Chiesa di continuare a difendere il diritto di vivere dei concepiti". Allo stesso tempo, ha indicato che la Chiesa comprende "i problemi che la madre gestante può trovare nella vita" e offre "alternative al dramma e al crimine dell'aborto".

Risposta cittadina

Sulla risposta civile alla legge, il portavoce della CEE ha dichiarato che "tutto ciò che si fa per promuovere la consapevolezza di mantenere il diritto alla vita dei concepiti, per vie legittime, è benvenuto, chiunque ne sia l'autore".

A suo avviso, c'è sempre più sensibilizzazione sociale per l'ecologia dell'essere umano e l'ecologia in generale.

Ha anche ricordato che il 25 marzo si celebrerà la prossima giornata a favore della vita, che i Vescovi sperano "sia un momento importante per rivitalizzare questa coscienza cittadina che esiga l'abolizione di questa legge quanto prima".

Pollice in basso

Nel frattempo, la Federazione Spagnola delle Associazioni Pro-vita ha espresso il suo "dolore per i concepiti, che sono privati per legge di tutto il loro valore e dei loro diritti", e "per le donne incinte in difficoltà".

Ha anche rivolto parole dure ai politici che "hanno girato il pollice verso il basso, tra tante menzogne e prepotenze".

Il presidente della Federazione, Alicia Latorre, afferma che "questo giorno terribile, lungi dallo scoraggiarci, dobbiamo agire con più forza, affetto e dedizione nei confronti dei concepiti e delle loro madri e verso tante persone che hanno bisogno di curarsi dalle ferite dell'aborto".

Anticostituzionale

Dal canto suo, l'Istituto di Politica Familiare (IPF) ha definito la legge "regressiva e aberrante" e ha avvertito che farà aumentare il numero di aborti in Spagna.

Il suo presidente, Eduardo Hertfelder, ha denunciato che il provvedimento è contrario alla Costituzione spagnola perché considera l'aborto un diritto della donna e impone questa considerazione nell'educazione.

"Secondo questa legge non ho più il diritto di vivere perché sono una persona, ma perché c'è un'altra persona che mi dà o mi toglie questo diritto", ha dichiarato.

Oltre a questo, "non saranno più i genitori a decidere l'educazione morale che vogliono per i propri figli, ma lo Stato".

L'IPF denuncerà martedì prossimo nella sede del Parlamento Europeo di Bruxelles ciò che questa legge rappresenterà per l'Europa.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Premier moldavo: "Essere una minoranza religiosa non rende meno importanti"
"E' come essere un Paese piccolo", afferma
ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- "Come un Paese per il fatto di essere piccolo o grande non è più o meno importante, così una Chiesa minoritaria non è meno importante", ha affermato il Primo Ministro moldavo Vlad Filat.

Il premier ha accolto nella sede del Governo i presidenti delle Conferenze Episcopali del Sud-Est europeo durante il loro 10° Incontro, in svolgimento nella capitale moldava Chişinău da questo giovedì fino a domenica.

"Siamo coscienti del lavoro che dobbiamo fare e speriamo che la Chiesa si impegni nel sostegno alla formazione di un popolo che abbia alla sua base i migliori principi morali sui quali costruire la nuova società", ha affermato, come riporta un comunicato del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE).

"I problemi in Moldova sono numerosi - ha ammesso -, però all'origine di tutti questi problemi c'è la crisi morale. Per questo dobbiamo tornare alla radice dei problemi. Soltanto sapendo da dove veniamo, sapremo dove andremo. La Chiesa deve giocare un ruolo decisivo nel cammino della Moldova verso l'Europa".

Il Vescovo di Chişinău, monsignor Anton Cosa, ha affermato a questo proposito: "Ci sentiamo parte viva di questa terra per la quale ogni giorno spendiamo le nostre risorse di fede e di carità perché il popolo moldavo possa crescere e ritrovare, nella solidarietà del mondo cattolico, motivo di grande speranza".

"La Chiesa, attraverso le sue strutture, continuerà a realizzare quanto necessario perché si superi ogni situazione di disagio sociale", dando "il suo contributo determinante alla costruzione di una società riconciliata e solidale, capace di far fronte al processo di secolarizzazione in atto".

Luci e ombre

In un'intervista al Sir, monsignor Cosa ha affermato che la Moldova attraversa una fase di crisi come la gran parte dei Paesi europei.

Anche se l'economia locale trae forza dalle rimesse degli emigrati - un quarto della popolazione è all'estero -, "ciò non è servito ad abbattere la soglia della povertà, che vede ancora oggi un altro quarto del Paese in condizioni di forte disagio sociale".

Un grave problema, ha aggiunto il presule, è "il fenomeno del traffico degli esseri umani, e in particolare per scopi sessuali", che ha visto "tante giovani ragazze vittime di sistemi criminali e svendute lungo le strade dell'Europa da parte di uomini senza scrupoli".

Grazie all'azione della Chiesa cattolica, "il fenomeno si è molto ridimensionato". Ad ogni modo, il Vescovo ha rivolto un appello all'Europa: "Non aspettiamo che queste ragazze diventino vittime lungo le strade per ricordarci di loro, ma andiamo loro incontro in Moldova per dare loro la speranza che non muore mai".

"Al ridimensionamento del fenomeno della tratta - ha lamentato - ha fatto seguito la crescita del turismo sessuale, che vede la Moldova Paese meta di personaggi che fanno un uso personale, oggetto di mercato, della donna". Di fronte a questo problema, la Chiesa cattolica "sta lavorando molto sul concetto della dignità della donna e sulla rivalutazione della sua femminilità come valore".

Dal punto di vista della fede, ha aggiunto il Vescovo, i moldavi oggi "vogliono conoscere il Vangelo e cercano la catechesi o il dialogo con preti preparati; vogliono gli oratori perché i loro ragazzi non stiano per le strade, ma in ambienti sicuri; vogliono le azioni di carità per trovare pane e speranza; vogliono le scuole materne con progetti educativi e forme educative nuove; vogliono certezze e ben sanno che la Chiesa cattolica, con l'impegno costante di sacerdoti e religiosi, può dare queste certezze, senza necessariamente chiedere di lasciare il credo ortodosso".

Essere "il seme che muore"

I cattolici in Moldova rappresentano appena l'1% su una popolazione di 4 milioni di abitanti, ma questa condizione di minoranza "è anche una grande opportunità e certamente un grande dono di Dio, perché educa all'umiltà della pastorale, dove l'efficacia dell'azione è data dalla capacità di far valere la personale credibilità", ha affermato il Vescovo.

"Chi si avvicina alla Chiesa cattolica, e forse sceglie di esserne parte, lo fa per la novità della proposta, per la concretezza dell'impegno, per la coerenza che ben si coniuga con le scelte evangeliche".

"Non dobbiamo aver paura di essere minoranza, perché questo è un grande dono che Dio ci ha fatto, ma dobbiamo aver paura di non essere il 'seme che muore', cioè di non dare al popolo moldavo quanto è giusto che riceva da noi, per crescere nella dimensione umana e cristiana", ha osservato.

All'Incontro sono rappresentate nove Conferenze episcopali: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Cipro, Grecia, Moldavia, Romania, la Conferenza Episcopale Internazionale Ss. Cirillo e Metodio e la Turchia.

Interverranno ai lavori anche anche il Presidente del CCEE, il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, il Nunzio Apostolico in Romania e nella Repubblica Moldava, monsignor Francisco-Javier Lozano, e l'Osservatore Permanente della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa, monsignor Aldo Giordano.

La Chiesa cattolica è ufficialmente in Moldova dal 1993 e ha il suo Vescovo dal 2000. I cattolici sono organizzati in 17 parrocchie e un'efficiente "pastorale sulla strada" fatta di disponibilità verso i bisognosi, servizi socio-assistenziali competenti e dialogo con la gente comune.

I fedeli sono seguiti da 18 sacerdoti diocesani e 16 sacerdoti religiosi. I religiosi e le religiose sono 422.

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Il destino affine delle immagini della Madonna di Nagasaki e Guernica
Le teste delle "Marie bombardate" verranno esposte al Museo della Pace

di Patricia Navas

GUERNICA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il 26 aprile 1937, il primo bombardamento a tappeto contro una popolazione civile, ad opera della Legione Condor su Guernica, raggiungeva la cappella dell'Immacolata della chiesa di Santa María della città spagnola.

Dell'immagine della Vergine che vi si venerava rimasero solo resti della testa, ha spiegato a ZENIT il parroco di Guernica, Iñaki Jáuregui.

Otto anni dopo, il 9 agosto 1945, la bomba atomica distrusse la Cattedrale di Urakami, nella città giapponese di Nagasaki.

La scultura lignea ispirata all'Immacolata Concezione di Murillo che si trovava al centro dell'altare subì un destino simile a quello della Vergine di Guernica.

Tra le macerie in cui venne ridotto il tempio, venne ritrovata la testa dell'Immacolata con le orbite vuote, le guance e i capelli carbonizzati e una crepa accanto all'occhio sinistro che molti interpretarono come una lacrima. Oggi è nota come “Maria bombardata”.

Le due “Marie bombardate” si incontreranno ad aprile e verranno esposte insieme temporaneamente al Museo della Pace di Guernica.

L'incontro sarà possibile grazie a un “pellegrinaggio della pace” della Vergine di Urakami alla città basca in occasione del 65° anniversario del bombardamento del Giappone.

L'Arcivescovo di Nagasaki, monsignor Mitsuaki Takami, guiderà il pellegrinaggio e presiederà la Messa per i defunti nella parrocchia di Guernica il 26 aprile, anniversario del bombardamento della città basca, ha riferito a ZENIT un responsabile dell'organizzazione degli atti di Guernica, Luis Iriondo.

Sono previsti anche un'esibizione di musicisti del gruppo di pellegrini giapponesi in un teatro della città, un atto al cimitero e un'esposizione sui bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki al Museo della Pace.

Guernica fu distrutta durante la Guerra Civile spagnola quando venne bombardata da aerei tedeschi, evento che Pablo Picasso rappresentò in uno dei suoi dipinti più famosi.

Per Iriondo, sopravvissuto a quel bombardamento, ora tutti – aggressori e vittime – “possiamo comprenderci e camminare insieme e in pace”.

Dal canto suo l'Arcivescovo Takami, i cui familiari più stretti sono morti a causa della bomba atomica, ha dichiarato all'agenzia Ucanews che “la pace non si può mai creare con la violenza”.

“L'eliminazione delle armi nucleari non ha fatto grandi passi avanti – ha lamentato –. Spero che il pellegrinaggio non solo permetta che più persone conoscano la sofferenza provocata dal bombardamento atomico, ma diventi anche un appello alla pace con l'uso di metodi non violenti”.

In riferimento alla testa della Vergine danneggiata dal bombardamento di Guernica, l'Arcivescovo ha esclamato: “Anche noi ne abbiamo una qui: è incredibile!”.

La Madonna di Urakami è uscita dal Giappone due volte, ma quello di quest'anno sarà il suo primo pellegrinaggio.

Anche se il programma non è ancora stabilito definitivamente, è previsto che il gruppo di fedeli giapponesi che accompagnerà l'Immacolata visiti anche altri luoghi spagnoli, come la Basilica del Pilar a Saragozza e il tempio della Sagrada Familia di Barcellona.

Il pellegrinaggio, suggerito da un cattolico giapponese, potrebbe includere anche visite a Londra e a Roma, così come la partecipazione a un'udienza con Papa Benedetto XVI in Vaticano.


[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Italia


Mons. Superbo: una nuova coscienza per formare politici nuovi

ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Per rilanciare la speranza in Italia occorre creare i presupposti per una nuova classe politica. E' quanto sostiene mons. Agostino Superbo, Arcivescovo di Potenza e Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana per l'Italia meridionale.

Nel commentare alla Radio Vaticana alcuni passaggi del recente documento della CEI dal titolo “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno” il presule ha spiegato che “i politici non si improvvisano dall’oggi al domani, ma si tratta di una coscienza profondamente cristiana, radicata nella comunità, che si affaccia sul mondo civile e sente come sua responsabilità la costruzione di una città terrena a misura d’uomo”.

Questa coscienza, ha aggiunto, “crea poi – secondo le vocazioni del Signore e le qualità di ognuno – uomini politici seri e nuovi nel modo di porsi, che è un modo di porsi unico: servizio umile al bene comune e senza altre prospettive né di gruppo né di parte né di interesse personale”.

Nel documento, i Vescovi italiani pongono l'accento sulla necessità di investire nella educazione e nella formazione delle persone, perché “lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune”.

Oltre a questo, aggiungono, occorre “favorire in tutti i modi nuove forme di partecipazione e di cittadinanza attiva, aiutando i giovani ad abbracciare la politica, intesa come servizio al bene comune ed espressione più alta della carità sociale”.

“Noi desideriamo che l’Italia non solo si preoccupi per il Sud, ma che accolga anche quanto di bene il Sud può dare a tutta l’Italia”, ha concluso mons. Agostino Superbo.



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Interviste


In Medio Oriente musulmani e cristiani condividono lo stesso futuro
Intervista con il Consigliere politico del Gran Mufti del Libano

di Tony Assaf

ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- “Il futuro è vivere insieme: cristiani e musulmani in Medio Oriente in dialogo”. E' stato questo il tema del convegno organizzato a Roma da Sant'Egidio il 22 febbraio scorso.

A margine dell'incontro ZENIT ha intervistato Mohammad Al-Sammak, Segretario generale del Comitato cristiano-musulmano per il dialogo e Consigliere politico del Gran Mufti del Libano.

Al-Sammak è stato il primo musulmano ad aver partecipato – e in qualità di membro attivo – a un Sinodo. Correva allora l'anno 1995 e Giovanni Paolo II aveva deciso di convocare un'assemblea speciale dei Vescovi sul Libano.

Al-Sammak è anche uno dei 138 leader musulmani che hanno firmato la lettera “Una parola comune tra voi e noi”, indirizzata a Benedetto XVI e ai diversi capi delle Chiese e confessioni cristiane.

Inoltre, ha lavorato per tre anni a un progetto insieme al governo libanese per arrivare a dichiarare la festa dell'Annunciazione, che cade il 25 marzo, festa nazionale per i cristiani e i musulmani. Il progetto ha avuto, recentemente, un riscontro positivo e un sostegno da parte del governo libanese che ha emesso un decreto la settimana scorsa dichiarando questa festa giornata nazionale.

Cosa pensa della crisi delle relazioni islamo-cristiane nel Medio Oriente e del fatto che dopo quattordici secoli di convivenza partecipiamo ancora a conferenze sul dialogo?

Al-Sammak: Fondamentalmente i musulmani e i cristiani in Medio Oriente sono condannati a scegliere di vivere insieme. Non esiste una terza via o si sceglie di vivere insieme o ci si impone di vivere insieme. Diciamo che la convivenza tra cristiani e musulmani non è un qualcosa di premeditato ma è una scelta. E poiché abbiamo costruito una vita in comune sulla base di una scelta, dobbiamo prendere coscienza del fatto che ci sono delle differenze tra di noi e creare una culura fondata sul rispetto di queste differenze e sull'accettazione e la convivenza con esse. Nessuno di noi può abolirle né imporre il proprio stile di vita sugli altri. La diversità e la pluralità nelle nostre società arabe, cristiane e musulmane, sono una componente vitale e fondamentale e anche una componente storica. Allo stesso tempo, sono però anche una formula per il futuro se vi è un futuro per questa regione.

Quale potrebbe essere il futuro del Medio Oriente se scomparissero i cristiani?

Al-Sammak: Non c'è futuro per la regione araba se musulmani e cristiani non coesistono insieme. Quello che sta accadendo ora in quella regione, per quanto riguarda la diminuzione del numero e del ruolo dei cristiani, è un disastro non solo per i cristiani ma anche per i musulmani e porta alla disintegrazione di quella società e alla mancanza della ricchezza della diversità e delle competenze di carattere scientifico, economico, intellettuale e culturale dei cristiani che emigrano. L'emigrazione non è una perdita solamente per i cristiani quanto piuttosto una perdita per i musulmani e allo stesso tempo una sconfitta della convivenza islamo-cristiana.

Fino a che punto i musulmani si rendono realmente conto del rischio di una possibile scomparsa dei cristiani dal Medio Oriente?

Al-Sammak: Devo ammettere che la preoccupazione cristiana per il futuro è ora come ora più grande della coscienza che l'Islam ha di questo pericolo. Deve essere per noi un imperativo quello di allargare il cerchio delle conoscenze islamiche circa l'emigrazione dei cristiani e la gravità dell'esodo dei cristiani per l'Islam in quella regione e nel resto del mondo. Perché l'esodo dei cristiani reca un messaggio indiretto al mondo: e cioè che l'Islam non accetta l'altro e non può vivere con gli altri. A questo punto, l'altro mondo o il mondo occidentale in generale, seguendo questa logica, avrebbe pure il diritto di dire: se i musulmani non accettano la presenza cristiana tra di loro, praticamente una presenza autentica e storica, perché dobbiamo accettarli noi nelle nostre società? Questo si riflette negativamente sulla presenza islamica nel mondo e quindi è nell'interesse dei musulmani, per l'immagine dell'Islam nel mondo e per l'interesse dei musulmani sparsi nel mondo, mantenere la presenza dei cristiani nel mondo arabo e proteggerla fino in fondo non per solo per amore dei cristiani ma perché questo è un loro diritto come cittadini e abitanti della regione, ben prima dei musulmani.

Parlando dei musulmani nel mondo, specialmente nel mondo occidentale, spesso si sente parlare di islamofobia. Secondo lei quali sono le cause e le soluzioni di questo fenomeno?

Al-Sammak: Alcuni di questi motivi sono dovuti a circostanze storiche ereditate dalla cultura occidentale, che ha una visione negativa dei musulmani che affonda le sue radici nella letteratura e si riflette giorno dopo giorno nei media in un modo o nell'altro. Ma ciò che alimenta questo fenomeno è il comportamento di alcuni estremisti islamici nelle società occidentali e quando parlo di cattivo comportamento non parlo necessariamente di terrorismo, che è di per sé pericoloso, negativo e catastrofico ma parlo anche della confusione tra religione e tradizione. La tradizione non è la religione e alcune di queste persone di cui parlo, purtroppo, provengono da società musulmane e da costumi e tradizioni locali e ritengono che esse siano parte della religione anche se non lo sono e magari sono contrari alla religione stessa.

Costoro agiscono nelle società occidentali aggrappandosi a quelle tradizioni perché tramite queste tradizioni pensano di esprimere le loro personalità indipendenti. E quindi vengono nelle società occidentali che non li accettano, capiscono di essere diversi nella cultura, nella lingua, nella religione, nel cibo, nell'halal e nell'haram etc. e cominciano a sentirsi come emarginati dalla vita sociale e per sviluppare la propria personalità si aggrappano alle tradizioni che hanno praticato nei loro paesi e le santificano, cioè le elevano al livello di santità della religione, così da dare l'impressione agli occidentali che se questo è l'Islam non si può convivere con esso. Ma questo non è l'Islam, queste sono tradizioni locali provenienti da paesi africani, dal Pakistan, dall'Afghanistan, dall'India, etc. la confusione tra ciò che è veramente religioso e ciò che è invece una tradizione sociale alla quale viene data un'identità religiosa porta ad alimentare questa islamofobia, intesa come odio per l'Islam fondato sull'ignoranza perché l'ignoranza sull'Islam deriva da due aspetti: la prima è una errata interpretazione dell'Islam da parte di alcuni musulamni e la seconda è la scarsa comprensione dell'Islam da parte di alcuni non musulmani. La base di questo comportamento sociale praticato da parte di alcuni musulmani che provengono da società sottosviluppate o bisognose o incolte sta nel fatto che queste persone non soltanto ignorano le tradizioni sociali occidentali nelle società in cui vanno a vivere ma ignorano anche e soprattutto gran parte delle costanti della loro fede e le proiettano in modo negativo tale da condurre a questa situazione di islamofobia.

Vi è una crescita delle correnti islamiche estremistiche. Qual è l'impatto di questa crescita sui cristiani nel Medio Oriente?

Al-Sammak: Credo che questi movimenti abbiano ormai superato la fase di crescita e che forse oggi stiamo assistendo all'inizio della loro fase di decadimento. Questa crescita poco tempo fa ha raggiunto il suo apice ma il conto alla rovescia è cominciato. Questi movimenti non hanno un impatto solamente sui cristiani del Medio Oriente ma colpiscono soprattutto e in modo diretto i musulmani. L'estremismo è un tentativo di monopolizzare la verità e un tentativo di monopolizzare Dio e di monopolizzare il sacro; ed è anche un tentativo di interpretare la religione a seconda degli interessi e delle concezioni di certi movimenti e quindi il modo di rapportarsi ai musulmani risente di queste interpretazioni che sono pericolose per l'Islam, per i musulmani e anche per i cristiani. Pertanto serve un processo di correzione di questi concetti tramite progetti culturali ed educativi e posso dire che i Paesi arabi ormai sono consapevoli di questo aspetto dopo aver pagato a caro prezzo la diffusione dell'estremismo che ha inziato a ritirarsi grazie ai passi coraggiosi compiuti da diversi Paesi come l'Arabia Saudita, la Giordania, l'Egitto, l'Algeria e altri. Tutti questi Paesi hanno dato vita a una nuova e coraggiosa riflessione per rilanciare la pratica della vera fede in modo corretto e positivo.

Cosa si aspettano i musulmani del Medio Oriente dal prossimo Sinodo dei Vescovi. Lei vi parteciperà?

Al-Sammak: Abbiamo partecipato al Sinodo precedente e siamo grati a Sua Santità Govanni Paolo II non solo per aver invitato dei musulmani a un Sinodo ma anche per aver insistito sul fatto di farci partecipare come membri attivi e non in qualità di osservatori. Io, personalmente, ero membro delle commissioni di lavoro e questo è un fatto senza precedenti nela storia del Sinodo in generale e nella storia della partecipazione dei musulmani a incontri cristiani. In realtà, il prossimo Sinodo è molto importante perché discuterà il tema dei cristiani dell'Oriente e questo non è un argomeno che riguarda solo i cristiani ma è un argomento di interesse anche per i musulmani perché hanno la stessa sorte in Oriente. Quello che colpisce i cristiani nel Medio Oriente colpisce anche i musulmani. Pertanto siamo veramente interessati a ciò che accadrà e a ciò che sarà deciso nel prossimo Sinodo. Finora non abbiamo ricevuto alcun invito a partecipare ma mi auguro che ciò avverrà e mi auguro anche che la partecipazione islamica ricalcerà quanto avvenuto già al Sinodo sul Libano. Anche perché partecipando noi musulmani ci assumeremo la responsabilità dell'attuazione di ciò che verrà deciso al Sinodo, in vista di una responsabilità cristiano-musulmana comune. Lo abbiamo detto più volte perché siamo responsabili dell'attuazione di quanto stabilito dalla Dichiarazione post-sinodale, almeno per quanto riguarda il Libano. Uscirà una Dichiarazione simile anche da questo Sinodo e quindi i musulmani potrebbero avere una responsabilità nell'attuarla.

A suo avviso, c'è una continuità tra il cammino intrapreso da Giovanni Paolo II e quello di Benedetto XVI?

Al-Sammak: Penso che nel ripristinare il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, un tempo annesso al Pontificio Consiglio per la cultura, Papa Benedetto XVI abbia voluto tornare a dialogare con le altre religioni, compresi i musulmani. In effetti, abbiamo tutti visto in che modo il Papa ha accolto l'iniziativa islamica “Una parola comune tra voi e noi”, che riguarda l'amore nell'Islam e nel Cristianesimo e di cui ho avuto l'onore di essere uno dei primi firmatari. La visita del Papa in Palestina e in Giordania e i suoi colloqui con i leader musulmani hanno spalcanto prospettive nuove e ampie per riattivare il dialogo lanciato da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986. Abbiamo seguito questo lavoro e lo consideriamo tra le più importanti missioni che il Vaticano sta portando avanti nei confronti del mondo islamico. Non possiamo però non prendere atto di ciò che sta accadendo in alcuni Paesi musulmani come la Nigeria, l'Indonesia e anche la Malesia. Ci sono degli aspetti patologici nelle relazioni islamo-cristiane che possono essere affrontati solo attraverso una cultura del dialogo e una cultura del rispetto per le differenze. Da qui il ruolo che il Vaticano può svolgere nel processo di apertura verso il mondo islamico per incoraggiare e promuovere questa cultura e radicarla nelle società islamiche.

Il governo libanese ha decretato la festa dell'Annunciazione come festa comune cristiano-musulmana. In che misura tali iniziative, specialmente quando vengono promosse dallo Stato, possono promuovere la convivenza?

Al-Sammak: Questo è uno dei risultati di cui andiamo orgogliosi e su cui abbiamo lavorato negli ultimi tre anni. Da tre anni organizziamo, infatti, ogni 25 marzo un incontro islamo-cristiano su Maria, in occasione del quale recitiamo versetti del Vangelo e versetti del Corano che riguardano Maria cercando di evidenziare ciò che accomuna l'Islam al Cristianesimo. L'anno scorso dal podio dell'ex Primo Ministro Fouad Siniora, ho personalmente dichiarato il suo consenso e la sua approvazione per la dichiarazione del 25 marzo come festa in comune dei musulmani e dei cristiani. L'idea allora era che in questa giornata tutti dovessero continuare a lavorare perché l'ex Primo Ministro affermava: “Voglio che i libanesi lavorino un giorno di più non un giorno di meno. Sono d'accordo per la festa ma senza interrompere il lavoro”. Abbiamo accettato la decisione perché i miei fratelli ed io del Comitato cristiano-musulmano per il dialogo, di cui sono Segretario genereale, volevamo comunque dedicare questo giorno ai musulmani e ai cristiani. La settimana scorsa ci siamo incontrati con il Primo Ministro Saad Hariri e gli abbiamo riproposto nuovamente questa idea e lui l'ha appoggiata immeditamente e dopo quarantotto ore è stato emesso un decreto che dichiara il 25 marzo giornata nazionale e giorno festivo: un giorno di lavoro islamo-cristiano comune.

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La storia dell'oste tirolese che sfidò Napoleone
Intervista al medico e scrittore, Paolo Gulisano

di Antonio Gaspari

ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Molte strade e piazze in Tirolo e nell'Alto Adige portano il suo nome ma in Europa è quasi sconosciuto. Nella sua regione è ricordato come un eroe nazionale, eppure le sua storia è poco nota. Ha combattuto per la libertà e per la fede cristiana, per questo è stato ucciso.

Stiamo parlando di Andreas Hofer, un oste tirolese che, in nome della fede e della libertà, sfidò Napoleone.

Tra i suoi più insigni estimatori c'è anche il Pontefice Giovanni Paolo I (Albino Luciani) che ammirava la suea “fede cristiana, tutta d’un pezzo”.

Paolo Gulisano, medico e scrittore, autore di saggi su aspetti poco noti della storia europea, ha appena pubblicato per le edizioni Ancora, un saggio dal titolo “Andreas Hofer. Il Tirolese che sfidò Napoleone”.

Per conoscere la storia di questo uomo coraggioso, ZENIT ha intervistato Gulisano.

Chi era Andreas Hofer?

Gulisano: Andreas Hofer, un oste della Val Passiria, in Tirolo, fu il capo e l’anima dell’insurrezione popolare tirolese contro i giacobini francesi e i loro subalterni bavaresi nel 1809. La conduzione incredibilmente abile e coraggiosa di questa guerriglia, strappò ammirazione agli stessi generali napoleonici e lo fece entrare per sempre come eroe nel cuore del popolo tirolese.

Tutto cominciò quando il marchese di Montgelas, ministro del regno di Baviera, un regno-fantoccio controllato dal Bonaparte, massone dichiarato, mise in atto una serie di misure vessatorie nei confronti della Chiesa: soppressione di tutte le cerimonie del culto cattolico: niente più processioni, matrimoni e funerali religiosi, niente più suono di campane.

Montgelas tuttavia non immaginava fin dove potesse arrivare il sentimento religioso del cattolicissimo popolo tirolese. Questi inoltrò al re di Baviera rispettose istanze, perché fosse ritirato il "decreto empio e liberticida".

Invano. Allora fu l’insurrezione in massa. Mentre le campane suonavano a stormo e il loro suono si ripercuoteva di valle in valle, si videro i contadini accorrere da ogni villaggio, armati chi di falce, chi di forche, chi di vecchi fucili: li dominavano la vostra statura gigantesca, la voce possente e decisa, la imponente barba nera di Hofer. Alla fine l’insorgenza venne schiacciata nel sangue da Napoleone, Hofer arrestato e fucilato a Mantova.

Perchè ha scelto di raccontare questa storia? Qual è la sua attualità oggi?

Gulisano: Possiamo interpretare gli eventi del 1809 nel segno della libertà: come tentativo di conquistare la libertà politica dalla Baviera, che era alleata con i francesi, e anche come protesta contro la repressione illuministica delle più amate tradizioni religiose.

In questo senso ho voluto raccontare di Hofer perché è un personaggio straordinario che merita di essere conosciuto e apprezzato, sia per far conoscere l’epopea di Fede e di Libertà del Tirolo. Un’epopea che ricorda molto quella della Vandea o dei Cristeros messicani. L’attualità di questa testimonianza sta nel fatto che anche oggi c’è un neo-giacobinismo in Europa che preme per eliminare la realtà religiosa dalla vita pubblica, oppure per renderla ridicola e sorpassata.

Nel libro lei sostiene che è un eroe della libertà e un difensore della fede cristiana. Perchè?

Gulisano: I tirolesi che nel 1809 presero le armi contro l’Imperatore Bonaparte guidati da Andreas Hofer, che non era un militare, non un politico, ma un semplice padre di famiglia, un oste della Val Passiria che aveva a cuore più di ogni altra cosa la fede e la libertà, combatterono, soffrirono e morirono non per un vago ideale, ma per difendere qualcosa di molto concreto, a cominciare dalla libertà religiosa, ossia - detto in termini pratici -, la possibilità stessa di accedere ai sacramenti, di avere, per sè e i propri figli un'istruzione cristiana, di poter trasmettere e comunicare liberamente la fede stessa.

Hofer si oppose a Napoleone e per questo venne ucciso. Eppure, furono tanti gli italiani che credettero a Napoleone, e ancora oggi nei manuali di storia utilizzati nelle scuole, il dittatore francese gode di buona fama. Qual è il suo parere in proposito?

Gulisano: Napoleone era l’esito ultimo di una rivoluzione, quella francese, che ha goduto di ottima (e immeritata) fama, di vasta pubblicistica. La "Revolutiòn" ha sempre goduto di una stampa favorevole, da est a ovest; presentata come il riscatto degli oppressi contro una società ancora pressochè feudale, come l'avanzare della modernità e del progresso.

Non molti hanno voluto rendersi conto che, al contrario, fu l'affermarsi di un tentativo oligarchico di conquistare e reggere il potere ai danni degli stessi poveri, di cui principalmente la Chiesa si fece voce.

In che modo Hofer ha servito e testimoniato la fede cristiana? Quali sono i suoi rapporti con la Chiesa cattolica?

Gulisano: Rispondo con le parole di Albino Luciani, grande ammiratore di Hofer, che nel 1975 gli si rivolse in una lettera immaginaria, dove scriveva: “Al tempo della Vostra insurrezione tirolese parecchi vescovi, per timore od interesse, passavano dalla parte di Napoleone strapotente. Voi invece dal Tirolo resistevate a Napoleone e ai suoi amici, stando dalla parte del Papa Pio VII, che, proprio in quel 1809, lanciava contro Napoleone la scomunica e, arrestato dai francesi, da Roma veniva tradotto in esilio a Savona. Sono tutte cose da ricordare. Da attuare. Per mettere fine alle innumerevoli risse che stancano e scandalizzano. Per restaurare l’unione degli animi, l’unità della Chiesa e del Paese”. E ancora: “vorrei che il vostro eroismo, gentile e cristiano insieme, ispirasse qualcuno. Intendiamoci: non auspico nessuna guerriglia, ma la Vostra fede cristiana, tutta d’un pezzo, (…) queste sì le desidererei con tutto il cuore”.

La vicenda di Hofer è strettamente legata al Tirolo, un legame con la comunità e la terra che è stato a volte equivocato. Può spiegarci qual è il rapporto tra Hofer e la cultura identitaria del Tirolo?

Gulisano: Nel mondo mitteleuropeo c’è da sempre una parola che esprime il concetto di “piccola patria”: «Heimat», un concetto molto importante, collegato con l’identità e la cultura e che entra nel profondo dei sentimenti. Un concetto che non ha nulla a che vedere con i nazionalismi aggressivi, di cui anzi il Tirolo fece le spese nel 1809 e un secolo dopo con la Prima Guerra Mondiale.

A duecento anni dal suo sacrificio, Andreas Hofer resta l’esempio di come si possa e si debba amare la propria terra e la propria identità, senza contrapporla a quella degli altri, ma rivendicando ogni diritto a vivere secondo le proprie usanze, i propri sentimenti, la propria cultura, la propria lingua, la propria fede.

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Spiritualità


La Quaresima, tempo per la riflessione cristiana e la conversione del cuore
Il Cardinale Eugenio Sales commenta questo tempo liturgico
RIO DE JANEIRO, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il periodo della Quaresima "pone davanti ai nostri occhi, come imperativo della vita cristiana, la conversione - attraverso la penitenza", ha affermato l'Arcivescovo emerito di Rio de Janeiro (Brasile).

"Al giorno d'oggi respiriamo un'atmosfera visceralmente contraria", riconosce il Cardinale Eugenio Sales in un articolo diffuso dal portale dell'Arcidiocesi di Rio.

"Tutto intorno a noi suggerisce il piacere senza limiti, esente da impegni, un comportamento al margine delle esigenze che derivano dalle determinazioni del Vangelo".

Secondo monsignor Sales, questo modo di essere si è ormai diffuso anche negli ambienti religiosi. "Si parla poco del peccato, dei doveri, che vengono sostituiti da diritti senza barriere, da un Cristo spogliato dei suoi insegnamenti, che limitano la sete illimitata di libertà".

"Questo tempo liturgico è molto simile all'appello dei profeti alla conversione, partendo dal cuore".

Il cristiano, ha aggiunto il porporato, "sarà sempre qualcuno che rema controcorrente".

"Quando incontriamo un predicatore o un agente pastorale che teme di insegnare la dottrina di Gesù Cristo o preferisce attenuarla per non allontanare i fedeli, sappiamo che non è un vero pastore", ha dichiarato.

Per monsignor Sales, la Quaresima "è un periodo propizio alla riflessione cristiana, a una conversione del cuore, a una pratica della penitenza".

"Vivendo gli insegnamenti della Chiesa in questo tempo liturgico, ci disponiamo a ricevere le grazie della Pasqua di Resurrezione".

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Parola e vita


Quaresima: dove l'Amore trasfigura la vita
II Domenica di Quaresima, 28 febbraio 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- “Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco: due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: 'Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia'. Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: 'Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!'. Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto” (Lc 9,28-36).

Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.(…) La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore nostro Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!” (Fil 3,17-4,1).

La Trasfigurazione è un evento che Gesù vuole per soccorrere la debolezza della fede dei discepoli, ormai prossimi allo scandalo del fallimento totale del loro Maestro, fine ignominiosa dei loro sogni messianici. Questo collegamento con la Passione del Signore è evidente in Luca, se si confrontano i fatti del Monte degli Ulivi (Lc 22,39-46) con quelli del Monte Tabor: in entrambi i casi Gesù sale sul monte a pregare portando con sé Pietro, Giacomo e Giovanni; sull’uno e sull’altro monte il suo aspetto subisce una trasfigurazione inaudita: gloriosa sul Tabor, angosciosa sul Monte degli Ulivi; e in ambedue i casi, sorprendentemente, i discepoli, anziché star svegli, cadono in un sonno profondo. Luca mette in parallelo Monti così opposti per farci comprendere la verità di ognuno dei due, quella definitiva del Monte di Gerusalemme, da dove il Signore Risorto sale al Cielo per entrare vincitore nella sua gloria, e noi con Lui.

Il messaggio fa parte dell’esperienza quotidiana: viene l’ora, sull’orologio della vita di tutti, in cui il cuore si ritrova nel buio del dramma pasquale, una notte talmente oscura da far pensare, con ogni evidenza, che Dio e la sua luce ci hanno abbandonato. Ma ecco che qualcosa o qualcuno spunta nelle tenebre, ed esse vengono rischiarate come uscendo da un tunnel. Allora il cuore s’accorge che si trattava solo di un’eclissi nei propri occhi, e scopre che il Sole divino stava sempre là, e ora vede la verità, e tutto è cambiato e trasfigurato in una gran pace.

A differenza di Marco e di Matteo che scrivono: “fu trasfigurato davanti a loro” (Mc 9,2 - Mt 17,2), Luca descrive il Signore sul Tabor dicendo semplicemente che: “il suo volto cambiò d’aspetto”; espressione più familiare alla nostra esperienza. Anche lui accenna poi allo splendore incomparabile delle vesti di Gesù, simbolo della sua persona, ed è il solo a precisare che questa intera Trasfigurazione accade durante l’incontro con il Padre nella preghiera, allo stesso modo in cui si illumina il volto di chi apre la porta, quando vede sulla soglia la persona amata.

La Trasfigurazione, oltre a dimostrare la natura divina di Gesù, è così anche il segno visibile della sua relazione filiale con il Padre, relazione che è luce del suo volto e sostanza della sua divinità, come rivela Giovanni nel Prologo: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso (=rivolto a) Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).

Il discepolo che Gesù amava, che era presente sul Monte Tabor, nel suo Vangelo non racconta la Trasfigurazione, ma già nel Prologo sembra farci volgere lo sguardo al Tabor con queste parole: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4-5). La vita divina nascosta corporalmente nella persona del Signore, Giovanni l’ha vista come il sole in una stanza che abbia le pareti di cristallo.

E’ la “prova” dell’incarnazione del Verbo: con essa, per il tramite della natura umana assunta dal Figlio di Dio, la Luce è entrata nella creazione ottenebrata dal peccato, vi ha portato la vita stessa di Dio-Amore, e ci ha fatto partecipi della relazione che unisce come in un abbraccio le tre divine Persone. Per entrare nel vortice ineffabile di questo flusso amoroso, a ognuno di noi è chiesta l’obbedienza filiale della fede, cioè l’ascolto fiducioso del bambino che pende dalle labbra del genitore che lo tiene in braccio: “Questo è il Figlio mio, l’eletto: ascoltatelo!” (Lc 9,35).

Tutto ciò non è davvero troppo lontano dalla nostra esperienza, se solo volgiamo lo sguardo alla relazione tra una mamma e il suo bambino, punteggiata com’è, sin dal primo giorno, da momenti di reciproca, amorosa “trasfigurazione”. Non c’è nulla di più puro su questa terra della luce che promana dal volto sorridente di un bambino nel momento in cui quello radioso della mamma si china su di lui: è il riflesso della luce purissima di Dio, Creatore di ogni uomo.

Quest’icona materna, così semplice e familiare nella sua bellezza, è anche immagine della verità profonda della preghiera. La natura della preghiera, infatti, è di essere vero e proprio incontro con il Dio trinitario che ci ha creato, e com’è vero che non esiste dialogo se uno se ne sta da solo, così non c’è vera ed efficace preghiera senza incontro. E come un uomo non può incontrare un altro uomo senza la mediazione del proprio corpo (il sorriso del volto, la voce amica, il contatto della mano), così è solo lungo la via della sacra Umanità di Cristo che ci è dato incontrare il Padre nostro.

Su tutto ciò, il mistero della Trasfigurazione, lungi dall’essere “accessorio” per la nostra vita di fede (quasi una parentesi straordinaria mentre si torna alla vita normale: “Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto” – Lc 9,36), rivela qualcosa di essenziale del nostro rapporto con Dio, e ci consente di fare la stessa scoperta che trasfigurò la vita della carmelitana santa Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa e maestra di preghiera.

Teresa è vissuta quasi cinque secoli fa, ma il suo messaggio è più che mai urgente oggi, in questo nostro mondo che vuole fare a meno del Crocifisso. Un messaggio che deriva anzitutto dalla sua esperienza di preghiera, per la quale ella potrebbe far sua, oggi, l’esortazione paolina: “Fatevi insieme miei imitatori..” (Fil 3,17).

E l’imitazione consiste anzitutto nel far nostra la sua certezza meravigliosa: i Cieli, cioè il regno di Dio, sono dentro di noi, e non solo è possibile entrarvi quando vogliamo, ma anche rimanervi “attendati” in perenne compagnia del “buon Gesù”, com’è vero che ogni battezzato è costituito dimora vivente della santa Trinità.

E’ bello per noi essere qui!”: è l’esclamazione ontologica della persona umana, in compagnia battesimale con il Padre, il Figlio e con lo Spirito Santo; un’amicizia ineffabile e per tutti, nascosta nella nube della fede, ma non per questo anonima al cuore, se accettiamo di perseverare fedelmente e ad ogni costo, con Gesù e con Teresa, nel cammino dell’orazione.

Dico “ad ogni costo” anche perché Teresa è la prima ad aver sperimentato la fatica dell’aridità e della perseveranza nella preghiera. Alla santa riformatrice del Carmelo, infatti, era stato consigliato di rinunciare allo sforzo di pensare il Signore, presente dentro di sé, “come uomo”. Ma è proprio l’umanità di Cristo che ci mette in comunione profonda con Dio e ci permette di contemplare lo splendore della sua Persona divina, come i discepoli sul Tabor!

Perciò Teresa non seguì il consiglio dei teologi del tempo, rimanendo saldamente ancorata al fondamento della presenza “incarnata” del Signore, secondo l’esortazione di Paolo: “Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!” (Fil 4,1). Pensando a Gesù, le pareva, tuttavia, di trovarsi nella situazione di un cieco, che mentre sa di avere davanti qualcuno, non riesce a immaginare il suo volto, dato che non può vederlo. Allora, appoggiando semplicemente il pensiero e l’affetto sui fatti del Vangelo, Teresa fece la scoperta che il punto centrale della preghiera, la sua realtà e verità fondamentale, è l’incontro-comunione della nostra umanità con quella del Signore, al modo stesso degli sposi. Tale sponsalità, in forza del mistero dell’Incarnazione, è un “già” che opera in profondità anche nella fatica della preghiera, affinchè sempre più sia colmata l’infinita distanza del “non ancora” dell’unione perfetta.

Quello che è accaduto nell’incarnazione di Cristo è una sorta di nodo ontologico che nella persona divina del Figlio di Dio è stato stretto indissolubilmente tra la natura umana di ognuno di noi e la natura divina di Cristo. In forza di questa verità e realtà, tutto ciò che appartiene al mio essere è stato trasfigurato, “preso dentro” l’amore della Trinità, come una spugna fa con l’acqua, e la vita di orazione è l’artefice di tale divinizzazione della persona umana, dono e compito dello Spirito Santo.

Alfine, è per questo fine di Amore che siamo stati creati, e solo custodendo il dono della preghiera, cioè ascoltando la Parola di Dio, possiamo sperimentare che in Cristo, uomo come noi, “è bello per noi essere qui”, pur nella tristezza dei nostri tempi.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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Forum


Il senso religioso in Aldo, Giovanni e Giacomo

di Carlo Belllieni*


ROMA, venerdì, 26 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Imparare a giudicare: ecco l’imperativo dei nostri anni fitti di messaggi multimediatici che ci soffocano impedendoci spesso di riflettere; e coprendo con la spazzatura le rare cose buone.

Purtroppo spesso tra le persone “di buona volontà”, di fare una semplice equazione: violenza cinematografica uguale male; assenza di violenza cinematografica uguale bene.

E quante cose pericolose passano in questo modo! Così come altrettante cose buone vengono evitate perché c’è qualche segno di violenza filmica (vedi per esempio i meravigliosi film di Mel Gibson), o qualche parolaccia.

Ma chi l’ha detto che le parolacce siano controindicate chi vuole una visione TV o filmica morale e costruttiva? Aldo, Giovanni e Giacomo sono proprio questo: tante parolacce e tanta arte; ma soprattutto tanto senso religioso.

Impossibile? No, se sappiamo leggere bene. E se non ci fermiamo alla scorza.

Cosa dire di “Così è la Vita”? Un film il cui finale è un’apoteosi di religiosità, con un’immagine serena e dolce della morte.

I tre sono condotti da un angelo fino ad un passaggio a livello oltre il quale c’è il Paradiso, ma che solo Aldo (che poi è il più furfante dei tre nel film) attraversa; ma subito torna indietro dai suoi amici che intanto stanno riconoscendo i loro peccati in un’attesa che è un chiaro ed esplicito Purgatorio, per portarli poi allo stupore del vero Paradiso: il tutto tra battute, sorrisi, qualche parolaccia, ma in un esplicito riconoscimento del soprannaturale.

Aldo: “Qui entra gente solo di un certo livello. A parte che se non era per me voi rimanevate fuori, ve lo siete dimenticati?” Giovanni: “Certo che qui è bellissimo eh?” Giacomo: “Più che bellissimo!” Giovanni: “E’ grandioso” Giacomo: “Più che grandioso!”.

E si sente la commozione, e lo stupore, che riecheggia film memorabili quali “Milagro” di Robert Redford, ove anche lì il finale è l’arrivo in un paradiso dove un angelo traghetta oltre una collina un povero campesino, dicendogli “Non senti? La fiesta!” “Sì, risponde il campesino trasecolato: La Fiesta, La fiesta!!”.

E come fermarsi alla scorza guardando per esempio “I Corti”, raccolta di brevi sketch, in uno dei quali i tre amici impersonano tre feti nella pancia della mamma? Nessun moralismo, ma un messaggio chiaro che vale più di mille conferenze!

Sono tre piccoli feti (anche coi baffi!) ognuno col suo cordone ombelicale: sentire dei feti, vederli, guardarli: quale proclama pro-life è più tenero e forte? E infine l’ultimo film, Il Cosmo sul Comò, in cui tratta la storia di un prete e la tratta con tenerezza e profondità, parlando di confessione e di eucaristia con profondità e allegramente, proprio come ci fa piacere sentire.

Giovanni: “Padre, esiste davvero l’inferno?”Giacomo: “Che domande, certo che esiste l’inferno”. Giovanni: “Ed è eterno?” Giacomo: “L’inferno è un fuoco eterno” Giovanni: “Ma chi ci va dentro?” Giacomo: “L’inferno è frutto del peccato.

Se pecco creo l’inferno e ci entro dentro di mia spontanea volontà” Giovanni: “Come se fosse un autobus!” Giovanni: “Sì, ma se sali sull’autobus del peccato e non scendi alla fermata della confessione, il capolinea sarà la dannazione eterna”.

D’altronde, diceva G.K. Chesterton: chi ride da solo o lo fa con Dio o lo fa col Diavolo; e così, potremmo dire noi che i film con chiese e preti o sono fatti da uno spirito devoto o da chi ha astio verso la Chiesa; e con Aldo, Giovanni e Giacomo siamo nel primo caso. Forse non se ne rendono conto perché magari la loro è solo un’espressione di ciò che hanno respirato da ragazzi, ma vederli è dolce e rassicurante.

E quando trattano nello stesso film la storia della coppia cui una dottoressa (odiosissima nel film)propone la fecondazione eterologa e Giovanni trascina via la moglie inorridito e alla fine, mentre è triste e solo, trova per miracolo due bimbi in un cassonetto e borbotta andandosene, poi torna indietro e ne salva uno, anzi due, siamo davanti ad un giudizio, ancora una volta controcorrente, sereno e forte, chiaro e allegro.

Insomma: viviamo di pregiudizi, e pensiamo che parolacce e & Co. siano male, tutto il resto sia bene. Sbagliato: spesso, come diceva Fabrizio de André “Dai diamanti non nasce niente” e dalle “parolacce”, diremmo noi, “nascono i fior”.

Anzi, talora proprio dove tutto è pulito, troppo pulito, arriva l’inganno. Per Chesterton, in fondo, certi delitti si compiono meglio nella pulizia dei grandi palazzi dove non si lasciano tracce di fango; e dove, come ironicamente diceva il grande autore inglese, “manca un po’ di sana sporcizia cattolica”.

[Parte di questo articolo è stato pubblicato sul settimanale Bologna Sette, il cui Direttore ringraziamo per l’autorizzazione alla riproduzione]

 



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* Il dottor Carlo Bellieni è Dirigente del Dipartimento Terapia Intensiva Neonatale del Policlinico Universitario "Le Scotte" di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

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