mercoledì 8 dicembre 2010

CULTURA Tabucchi: "I miei mondi da scoprire"

QUALCOSA hanno in comune l'Australia e Mumbai, il Jardin des Plantes di Parigi
e la Cappadocia, Creta e Washington. Sono alcuni dei luoghi richiamati nella
mappa ideale e singolare disegnata da Antonio Tabucchi. Che ha molto viaggiato
e molto dei suoi viaggi ha raccontato. Scoperte, bellezze e differenze che
ritroviamo in Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli), in cui l'autore mette
insieme i luoghi visitati e le parole, non solo le sue, che li hanno descritti.
Lisbona e Pessoa. L'Egitto di Ungaretti. L'Amazzonia e Il ventre dell'universo.
Tutto narrato da chi, come lui, dice di muoversi "portando con sé due
caratteristiche della cultura contadina: la diffidenza e la curiosità".

Antonio Tabucchi, a che cosa è legata la sua prima esperienza di viaggio?
"A un mio zio che da Pisa mi portava in gita a Firenze, in treno. Ero bambino,
un'avventura totale. Il viaggio verso la grande città, poter andare a zonzo, i
musei, i dipinti che per me erano opere stupefacenti, più grandi di quanto
siano realmente. Di fronte al Cristo di Cimabue rimasi annichilito".

Viaggi e scrittura. In che modo si intrecciano nella sua vita?
"Io non ho mai viaggiato per scrivere. A volte porto con me un taccuino ma
altre non ho scritto nulla. Però i luoghi sono prepotenti. Ti restano addosso
come certi odori e ne viene assorbita anche la scrittura. E' il materiale reale
delle cose, io la chiamo la crosta del mondo, ha una sua forza che s'impone sui
pensieri. La descrizione prende il sopravvento anche sull'ego dello scrittore".

Un esempio che le è caro: in che modo arrivò a scoprire il Portogallo?
"Ero studente a Parigi. Dopo il liceo, spinto da mio padre, andai alla Sorbona
come auditore libero. Per vivere facevo il lavapiatti. In un negozio alla Gare
de Lyon vidi un piccolo libro, un po' usurato. Mi serviva qualcosa per passare
il tempo in treno e quello costava poco. Il titolo era Bureau de Tabac, lo
aprii e vidi che era di poesie. Sulla sinistra una lingua che non conoscevo,
sulla destra la traduzione francese. Era la prima traduzione in assoluto di
Fernando Pessoa, fatta da un certo Pierre Hourcade, addetto culturale
dell'ambasciata di Francia a Lisbona negli anni Trenta. In quella poesia
meravigliosa ci cascai dentro e pensai: come mi piacerebbe imparare la lingua
di quel poeta. Tornato in Italia mi iscrissi a Lettere e scoprii che c'era un
corso di Lingua e letteratura portoghese. Ebbi ottimi voti, vinsi una borsa di
studio e mi dissero: vuoi andare in Portogallo? Così partii. Era il 1965".

Che paese scoprì, all'epoca?
"Un paese chiuso, che aveva voltato le spalle all'Europa, soffocato dalla
dittatura. Ebbi l'incarico di portare qualche lettera a poeti e scrittori che
vivevano da perseguitati. Diventai loro amico. Mi affascinò quel paese che
aveva avuto un rinascimento straordinario, circumnavigato il mondo, conquistato
terre e ricchezze e ora era ridotto così. Ma attenzione: se fu un libro a
portarmi in Portogallo, la letteratura non è sufficiente a farci restare. Per
quello, ci vogliono le persone".

Lei a volte ha viaggiato spinto da un libro, oggi prima di partire si
consultano guide dettagliatissime. E' meglio limitarsi alle atmosfere, magari
vaghe, di un romanzo, o documentarsi prima?
"Si può usare uno scrittore come un tour operator. Si va a Buenos Aires e si
vede solo la città di Borges o a Dublino quella di Joyce. Se si riesce a fare
la commistione tra il viaggio letterario e quello concreto, delle persone e
della storia di un paese è meglio, c'è il materiale e l'immaginario come
dicevano Cesarani e De Federicis nel loro manuale. Ecco, Bloom cammina per la
città e beve una birra? Beviamola anche noi, una birra...".

Si chiamano viaggi ma di fatto è turismo, un'esperienza predefinita che si
acquista a pacchetto chiuso...
"Il turismo è un'altra cosa ma del resto siamo tutti turisti. Anche in quel
caso c'è un mondo da osservare. A Cancun mi sono trovato per sbaglio in un
hotel di comitive tedesche e americane. Alla fine ho scritto di loro, più che
del Messico che avevo intorno. Molti, come Chatwin, avevano cercato sentieri
non battuti ma da almeno vent'anni è impossibile trovare posti nuovi. Ma basta
stare un po' attenti e si possono scoprire cose che altri non hanno visto. In
un viaggio, la cosa più importante sono le persone che si incontrano. Se si fa
finta di non vederle e si osservano solo i paesaggi, è finita. Se si scambiano
anche poche parole, ogni viaggio è diverso e si esce dal preconfezionato.

C'è un luogo dove non è stato mai e dove pensa di andare?
"C'è ma temo di non farcela fisicamente. Più che una località, è una precisa
tipologia di luogo: mi piacerebbe visitare gli osservatori astronomici in alta
quota per conoscere le persone che stanno lì per mesi a guardare l'universo di
fronte alle montagne. Ce n'è uno in Perù, sulle Ande, a 4-5 mila metri
d'altezza. Mi piacerebbe capire che cosa pensa una persona che sta isolata per
mesi a guardare le stelle".

Prendiamo l'archetipo dei viaggi e della letteratura per eccellenza:
l'Odissea. Un viaggio è tale anche perché c'è un' Itaca dove si deve tornare.
Lei viaggia, vive a Parigi e Lisbona. Qual è la sua Itaca?
"Aveva ragione Kavafis nella sua poesia Itaca: il viaggio conta in sé e non va
comparato a Itaca perché poi, quando si torna, ci sia annoia. Io invece credo
che il "nostos", la nostalgia del ritorno, quello che Dante definisce per il
suo Ulisse "il desìo", lo struggimento per il ritorno, sia un sentimento utile.
La mia Itaca è la Toscana. Mi trovo bene anche a vivere altrove ma non credo ad
affermazioni tipo "la mia casa è il mondo". I latini dicevano "ubi bene ibi
patria" ed è vero, però c'è un posto che uno sente suo. C'è un verso di Rilke
che cito nel libro, è nei Sonetti a Orfeo, si rivolge all'aria e dice: "aria,
mi riconosci tu che conoscevi le cose che una volta erano mie?".

Quando torna in Italia, la osserva da straniero?
"Credo che uno scrittore sia sempre un viaggiatore straniero perché il suo
occhio da osservatore si pone da fuori, estraniato. E' inevitabile che io,
essendo scrittore, sia anche un osservatore".

In che modo osserva, allora, l'Italia di oggi, quella - al di là della classe
politica - berlusconiana? Si riconosce in questo Paese?
"C'è una stampa internazionale molto critica verso Berlusconi e ora stiamo
scoprendo anche il giudizio delle diplomazie nei documenti riservati, la mia
voce critica sarebbe minima rispetto a tutto ciò. Quanto al Paese, credo che
uno scrittore debba essere sempre critico, si critica un paese perché lo si
ama, si vorrebbe fosse migliore. Verso Berlusconi sono sempre stato molto
critico, da quando è apparso: un figurino milionario percepito come un clown
ovunque si vada. Parlano di lui e dell'Italia e sghignazzano, questo fa male,
da italiano, è umiliante. Anche alla Germania è capitata la stessa cosa, era il
paese di Goethe e della filosofia e in pochi anni si è trasformato nel paese di
Hitler. I modelli peggiori sono quelli facilmente imitabili e funzionano,
quelli migliori hanno bisogno di sforzo e cultura. La civiltà è fatta di
sforzo, altrimenti se si lascia tutto all'istinto, il peggio prevale".

Visto che cita Goethe, l'autore del Viaggio in Italia, un'esperienza come
quella quella del Grand Tour che ha formato le coscienze europee dell'epoca,
chiudiamo con una analogia: oggi dove si dovrebbe fare il Grand Tour per
formare le coscienze dei giovani?
"Quanto all'educazione al bello, ci sono certe opere dell'umanità
miracolosamente conservate e un nuovo Grand Tour potrebbe cominciare dalle
piramidi d'Egitto. Per la coscienza, però, bisogna andare nei paesi più poveri
dei nostri. Credo ci sia molto da imparare e da riflettere nel paragone fra la
nostra ricchezza e quelle privazioni. Lo stesso vale per i Paesi in cui c'è
stata la guerra. Certo, non è un bel tour, sono esperienze negative, forti, non
hanno a che fare con la cultura e l'arte come per il Grand Tour di due secoli
fa. Ma lì un giovane imparerebbe molto".

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