sabato 20 febbraio 2010

ZI100220

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 20 febbraio 2010

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Democrazia e Chiesa

ROMA, sabato, 20 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lectio magistralis svolta l'11 febbraio scorso dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte della Pontificia Facoltà Teologica dell'Università di Wrocław, in Polonia.




* * *

I
DEMOCRAZIA E DOTTRINA SOCIALE
DELLA CHIESA

Innanzitutto, una premessa. Il tema della democrazia è entrato nella riflessione della Chiesa, più tradizionalmente abituata ai rapporti con gli Stati a regime monarchico, dal sec. XIX, con la nascita e lo sviluppo delle moderne democrazie elettive. Il dato di fatto ha spinto il Magistero ad elaborare una dottrina sociale coerente, anche se già san Tommaso, in qualche modo, aveva espresso la preferenza a un tipo di ordinamento più vicino al diritto naturale, in quanto espressione della sovranità popolare.

A proposito del diritto naturale mi sia permesso di fare una rapida digressione. Oggi si parla spesso più che di diritti “umani” di diritti “individuali” trasformando desideri da soddisfare in diritti senza un vero fondamento ontologico e quindi universale. Ecco perché mi pare quanto mai opportuno sottolineare che i diritti umani sono universali non perché approvati e riconosciuti da maggioranze parlamentari o della pubblica opinione, bensì perché poggiano sulla natura dell’essere umano, che resta inalterata pur nel mutare delle condizioni sociali e storiche. Cito quanto disse Benedetto XVI all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York il 18 aprile 2008: “Questi diritti trovano il loro fondamento nella legge naturale inscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e l’interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e anche religiose”. Sono considerazioni che valgono non solo per i diritti dell’uomo, ma per ogni intervento dell’autorità legittima chiamata a regolare secondo vera giustizia la vita della comunità mediante leggi che non siano frutto dell’adesione ad un mero proceduralismo, ma che discendano dalla volontà di tendere all’autentico bene della persona e della società e per questo facciano riferimento alla legge naturale. Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ci spinge ad un’ulteriore profonda considerazione, avvertendoci che “i diritti umani rischiano di non essere rispettati” quando “vengono privati del loro fondamento trascendente” (n. 56), cioè quando si dimentica che “Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità”(n. 29).

Ritornando ora al tema delle moderne democrazie elettive, bisogna dare atto che la loro struttura è fondata sul principio della sovranità popolare e si basa sul presupposto dell'essenziale uguaglianza di tutti gli uomini [1]. Di qui deriva l'imperativo di instaurare un ordine politico-giuridico nel quale siano meglio tutelati i diritti della persona [2] e il suo adeguato sviluppo sociale.

I principi animatori delle moderne democrazie sono fondamentalmente tre: i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità, ampiamente descritti e sviluppati nei documenti del Magistero sociale del Papa e dei vescovi. Ma ciò che fin qui ho sinteticamente esposto riguarda la Comunità Politica. Si può applicare tutto questo anche alla Chiesa?

La struttura della Chiesa

La Chiesa ha un proprio diritto, denominato diritto ecclesiale o canonico, la cui funzione è far sì che i fedeli attuino la loro vocazione nello stesso tempo personale e comunitaria, con un duplice fine: tutelare la comunione ecclesiale e proteggere i diritti dei singoli fedeli, fini che dipendono l’uno dall’altro, in quanto solo nel promuovere e tutelare il bene comune, cioè la comunione ecclesiale, si realizza la sempre più piena dignità dell’uomo come persona umana e come fedele. La Chiesa cattolica ha su questa terra una duplice struttura: a) intima e spirituale, perciò è una comunità di fede, di speranza, di carità [3]; b) esterna e visibile, perciò è nello stesso tempo un organismo sociale e giuridico, ordinato gerarchicamente. Si presenta quindi come istituzione dotata di un fine e di mezzi adatti per conseguire il fine. E’ senz’altro un modello tipico di società religiosa che ha rivendicato e formulato un proprio ordinamento giuridico sovrano e indipendente dal potere civile, fondato sulla pretesa di avere una missione propria ed esclusiva verso tutti gli uomini, ricevuta da Dio stesso, la cui finalità propria ed esclusiva è la salvezza delle anime.

Don Sturzo afferma: «La forma religiosa è una forma fondamentale del vivere sociale. Non si può concepire una società in concreto - proiezione e risultante delle tendenze finalistiche individuali - senza una forma religiosa. La “forma religiosa” può dirsi: la necessaria realizzazione concreta sociale del bisogno dell'Assoluto» [4]. Questa forma, anche nelle religioni precristiane o non cristiane tende ad affermare la sua autonomia, benché sia incontestabile che nei vari stadi del periodo precristiano non si è mai giunti ad avere piena coscienza di una forma religiosa autonoma ed universale rispetto ad ogni altra forma di socialità. Fino all'avvento del Cristianesimo gli uomini pensarono sempre ad un vincolo inscindibile di rapporti tra religione e famiglia, tribù, razze, nazione, impero. Fu con l'avvento del Cristianesimo che la forma religiosa divenne una Chiesa tra le nazioni, liberandosi da ogni legame mondano-temporale-materialistico, e si stabilì definitivamente su una base personale e di coscienza.

Della Chiesa come società visibile fanno parte a pieno titolo tutti i battezzati, i quali, proprio in forza del battesimo che li ha incorporati a Cristo [5], condividono una stessa dignità e missione e partecipano alla triplice funzione di Cristo profeta, sacerdote e pastore. La fondamentale e uguale dignità e partecipazione che tutti hanno in forza dell’unico battesimo viene esercitata, secondo una diversità di funzioni, carismi e vocazioni che determinano la “condizione” propria di ciascuno [6]. Espressione essenziale delle diverse funzioni che si danno nella Chiesa sono quelle proprie del ministero gerarchico. La gerarchia si perpetua attraverso il sacramento dell’Ordine sacro, la cui ricezione conferisce all’ordinato l’abilitazione ad esercitare l’autorità che Cristo ha, come Capo, su tutto il corpo della Chiesa, mentre i fedeli laici possono cooperare al ministero gerarchico in quelle funzioni che non richiedono necessariamente l’Ordine sacro [7].

Non tutto il governo della Chiesa spetta ad ogni membro della gerarchia, in quanto le diverse mansioni sono distribuite attraverso un’organizzazione stabile ed ordinata di funzioni pubbliche. Esistono poi due livelli fondamentali di organizzazione, quello universale e quello particolare. Tuttavia, l’insieme delle Chiese particolari che formano la Chiesa universale non deriva dalla semplice aggregazione o federazione di soggetti autosufficienti. Le Chiese particolari, nelle quali e dalle quali esiste la sola Chiesa cattolica, sono formate a immagine della Chiesa universale, il cui governo supremo è affidato a due soggetti, il Papa e il Collegio dei Vescovi; quest’ultimo però non ha autorità se non in comunione con il Romano Pontefice, che conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli [8]. Ed il Papa, per svolgere il suo ministero di pastore universale, si avvale di vari organismi e persone: sinodo dei Vescovi, collegio dei Cardinali, Curia romana, Legati pontifici, ecc.

I Vescovi, da parte loro, ricevono con la consacrazione episcopale la potestà di santificare, di insegnare e di governare. Nel compiere il proprio ufficio pastorale il Vescovo diocesano conta a sua volta sulla collaborazione dei sacerdoti e sull’impegno, che si fonda nel battesimo, di tutti i fedeli. Vi sono diversi uffici e organismi che lo aiutano in tale sua funzione pastorale: Vescovi ausiliari, Vicari episcopali, sinodo diocesano, Curia diocesana, Consigli di partecipazione (collegio dei consultori, consiglio presbiterale, consiglio per gli affari economici, consiglio pastorale diocesano). Esistono poi strutture e organismi sovradiocesani: come ad esempio, le Province ecclesiatiche, i Metropoliti, i Concili particolari, le Conferenze episcopali. Parallelamente alla Chiesa latina, regolata dal Codex Iuris Canonici vigente, promulgato nel 1983, le Chiese Orientali hanno la loro propria tradizione e configurazione, e sono regolate dal Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgato nel 1990.

II
COMUNITÀ POLITICA
E CHIESA COMUNIONE

È evidente, da una semplice comparazione delle esposizioni precedenti, quanto sia differente la natura dello "Stato democratico" dalla natura della Chiesa. La stessa origine delle due rispettive strutture, i fini loro assegnati, e la loro successiva articolazione ne confermano la radicale diversità.

Eppure anche nella struttura della Chiesa non mancano elementi analoghi, di forte affinità, che la fanno "respirare" democraticamente: la centralità della persona umana, l'unica creatura da Dio voluta e amata per se stessa[9], ed ordinata alla salvezza eterna; l'uguaglianza fondamentale dei membri della Chiesa, in forza della Cristoconformazione battesimale; la collegialità e la sinodalità come principi-motori della vita della Chiesa, sia a livello di Chiesa universale, sia a livello di Chiesa particolare; la partecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo e alla missione della Chiesa; le forme concrete di tale cooperazione nella varietà dei consigli a livello diocesano e parrocchiale, con la distinzione del voto deliberativo o consultivo, a seconda delle materie da trattare e dei ruoli che vi sono implicati. Non c'è dubbio che un impulso decisivo in questo senso sia stato dato dal Concilio Vaticano II e dalla legislazione successiva stabilita nei due Codici, quello latino e quello orientale.

Il ruolo dei laici nella Chiesa

Mi domando ora quale siano lo specifico ruolo dei laici e la loro partecipazione alla missione della Chiesa. In merito, non mancano i punti di riferimento nei documenti del Magistero, e in particolare nel Concilio Vaticano II e nell’Esortazione post-sinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II (1988), che al n. 2 lancia una sfida: occorre «individuare le strade concrete perché la splendida "teoria" sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un'autentica "prassi ecclesiale". Ed il testo prosegue segnalando i problemi emergenti: i ministeri e i servizi ecclesiali da affidare ai laici; la diffusione dei nuovi "movimenti", il posto e il ruolo della donna. Ma per aprire strade nuove occorre uno stile nuovo e nuovi spazi per i christifideles. Lo stile nuovo non può essere che quello sinodale, valido non soltanto per la celebrazione del Sinodo, ma anche come metodo per l'approccio ai problemi.

La celebrazione dei Sinodi diocesani più recenti, rispetto a quelli del passato, si caratterizza precisamente per il fatto che non si tratta più solo di un’istituzione quasi esclusivamente clericale a carattere legislativo, in cui si procede all’adattamento della legislazione universale alla concreta situazione locale [10], ma è piuttosto un evento spiritualmente e teologicamente denso nel quale le varie componenti del Popolo di Dio, sotto la guida del Vescovo, esprimono e danno il loro contributo per meglio manifestare il mistero della Chiesa. Quello sinodale è allora uno stile che ha il pregio di coinvolgere tutte le comunità, chiamandole alla partecipazione attiva e responsabile; uno stile che esige ricerca e dialogo, elaborazione di proposte con risposte non prefabbricate; uno stile che domanda l'ascolto di tutti, o quanto meno delle rappresentanze delle comunità, come prevede il Diritto Canonico.

Potere, servizio e responsabilità

Potrebbe essere che talora le nuove strutture sinodali, specialmente della Chiesa particolare, siano concepite, e talora persino strumentalizzate, in funzione di una logica mondana di potere: dall'alto verso il basso per la conservazione dello "status quo", dal basso verso l'alto per la scalata al potere, vale a dire in funzione della così detta "democratizzazione" della Chiesa. Proprio all'interno di quest'ultima tendenza si dimentica facilmente che anche la democrazia, come ogni sistema costituzionale, è una struttura di potere, che si pone perciò, lo si voglia o no, al pari di ogni sistema di governo, essenzialmente in termini di ripartizione di potere. Evidentemente tale dinamica del potere, se trasportata nell'ambito ecclesiale, non può non diventare radicalmente equivoca, perché nella Chiesa il rapporto strutturale, anche al livello decisionale-operativo, tra la Gerarchia e il resto del Popolo di Dio, non può mai ultimamente essere posto in termini di ripartizione di potere, a meno di scadere nell'empirismo teologico e perciò anche giuridico. Infatti, il problema non può essere posto né in termini ideologici di lotta di classe, né in quelli più tipicamente politici dell'equilibrio delle forze. All'interno della Chiesa il problema di una necessaria e ordinata ripartizione delle competenze non può mai coincidere, come ultimamente avviene all'interno dell'ambito statale, con il problema del possesso di una porzione più o meno grande del potere, perché il potere - se per potere si intende la responsabilità ultima e perciò il servizio specifico dei Vescovi di fronte alla vita della Chiesa - non è divisibile. La divisione delle competenze dovrebbe servire, nell'ordinamento canonico, solo a regolare, con un legittimo criterio di efficienza, l'intervento operativo delle singole persone e dei singoli organismi, tenendo conto della loro funzione e del loro carisma [11].

La Chiesa può diventare una democrazia?

Diversi movimenti sorti nel nostro tempo reclamano una forma di democratizzazione della Chiesa, nel senso di integrare nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l'illuminismo ha elaborato e che poi è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni politiche. A questi movimenti sembra ovvio servirsi di tali strutture di libertà per passare da una Chiesa considerata paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità, così che nessuno più rimanga fruitore passivo dei suoi doni. Tutti devono invece diventare operatori attivi della vita cristiana. La Chiesa non deve più venire calata giù dall'alto. A queste critiche e a queste aspirazioni corrisponde la formazione di una Chiesa che si costituisce attraverso discussioni, accordi, decisioni e che, nel dibattito, fa emergere ciò che può essere richiesto al fedele come appartenente alla fede o come linea morale direttiva. Anche la liturgia non sfugge a questo processo in quanto essa non deve più corrispondere a uno schema previo già stabilito, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per la quale viene celebrata. Di questo passo può diventare un ostacolo anche la parola della Scrittura, alla quale però non si può del tutto rinunciare e che quindi viene affrontata con ampia libertà di scelta.

Di fronte ad una tale concezione di Chiesa, frutto dell’autodeterminazione democratica, sorgono però precise domande.

A chi spetta il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? E’ ovvio come il confronto con la democrazia politica non regga con la struttura della Chiesa. Nella democrazia politica a queste domande si risponde con il sistema della rappresentanza: attraverso le elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico e comprende solo quegli ambiti dell'azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità rappresentative. A questo proposito, però, rimangono sul tappeto delle questioni: la minoranza deve inchinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre non è sempre garantito che il rappresentante eletto agisca e parli davvero nel senso desiderato dall’elettore, cosicché anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, non può considerarsi affatto del tutto come soggetto attivo dell'evento politico. Al contrario essa deve accettare anche "decisioni prese da altri", onde non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.

Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gesto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può essere abrogato da un'altra maggioranza. Una Chiesa che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, dove l'opinione sostituisce la fede. Effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé spesso il significato dell'espressione "credo" o “noi crediamo”, non va mai al di là del significato "noi pensiamo". La Chiesa fatta da sé (“Religione fai da te”, come dice Benedetto XVI) ha alla fine il sapore del "se stessi", che agli altri "se stessi" non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza, si ritira nell'ambito dell'empirico, e così si dissolve anche come ideale sognato. La domanda che ora sorge spontanea è quali prospettive ecclesiologiche sono necessarie per superare una simile crisi.

La comunione come principio formale della vita ecclesiale

Dobbiamo tornare alla visione del cristiano, l'uomo nuovo, che avendo incontrato Cristo possiede di fatto una struttura, non solo morale ma ontologica, nuova. Egli sa di appartenere a Cristo e sa che questa appartenenza genera in lui un criterio nuovo ed unico per affrontare la realtà e l'esistenza. La concezione dell'uomo come uomo nuovo, inaugurata da Cristo, è l'unica che risolve l'antinomia tra persona e società e permette anche di concepire in modo nuovo il pluralismo all'interno della Chiesa. Se la personalità cristiana si costituisce solo all'interno di un ambito di comunione, ne deriva che anche il pluralismo ecclesiale non può essere concepito come pluralismo di individui, ma fondamentalmente come pluralismo di Chiese particolari o di comunità.

Il fatto della comunione domina tutta la personalità cristiana e ne informa le varie ed articolate espressioni. Non è quindi una cosa da fare tra le altre cose, è il modo di fare ogni cosa. Questo è capitale per intendere rettamente il significato delle strutture sinodali e di conseguenza il modo di lavorare in esse. Lo specifico dell'elemento ecclesiale, vale a dire il lavoro per un giudizio comune operativo-decisionale all'interno della comunità cristiana, non può mai essere ridotto ad una forma di attivismo associazionistico. Il "fare o decidere qualche cosa assieme" può eventualmente esaurire il significato delle associazioni secolari, come i circoli culturali, le società economiche e altre consimili, che non chiedono alle persone di giocarsi integralmente o comunque al di là delle prestazioni richieste. I cristiani per contro non si riuniscono mai solo per decidere qualcosa assieme, per dare una prestazione, ma per vivere la comunione facendo e decidendo assieme. La comunione non è in funzione dell'attività, ma l'attività in funzione della vita in comunione. La ragione ultima per cui i cristiani si riuniscono è data dal fatto che essi si riconoscono convocati da Cristo, originati e costituiti da Lui nella comunione.

Da questa concezione del cristiano e della Chiesa come realtà di comunione si possono trarre alcune conseguenze.

La costruzione della Chiesa come impegno globale del cristiano

Il primo compito del cristiano è quello di costruire la Chiesa, affinché attraverso di essa possa avvenire l'annuncio della salvezza al mondo. L'annuncio cristiano non può avvenire individualisticamente, è un annuncio di comunione generato da una comunione.

Costruendo la Chiesa il cristiano costruisce il mondo, lo anima, lo trasforma e redime perché la Chiesa è nel mondo [12]. Il Santo Padre Benedetto XVI non di rado invita a riscoprire la vocazione laicale a servizio dell’annuncio evangelico: “Ogni ambiente, circostanza e attività in cui ci si attende che possa risplendere l’unità tra la fede e la vita è affidato alla responsabilità dei fedeli laici, mossi dal desiderio di comunicare il dono dell’incontro con Cristo e la certezza della dignità della persona umana. Ad essi spetta di farsi carico della testimonianza della carità specialmente con i più poveri, sofferenti e bisognosi, come anche di assumere ogni impegno cristiano volto a costruire condizioni di sempre maggiore giustizia e pace nella convivenza umana, così da aprire nuove frontiere al Vangelo” [13].

La vita del cristiano nel mondo è segnata e sostenuta dalle categorie generate dalla comunione ecclesiale senza conflitti e soluzione di continuità con la verità intrinseca alle realtà terrestri. Intesa in questo senso non esiste un'autonomia del cristiano come persona, ma solo un'autonomia delle cose. Il suo compito consiste nel sapersi rapportare con le realtà terrestri usando le categorie proprie della fede. E non esiste un'autonomia del laico nei confronti della gerarchia, nel senso che non esiste un ambito in cui il laico costruisce il mondo in modo disgiunto e indipendente senza costruire nello stesso tempo la Chiesa. Può costruire però la Chiesa solo in comunione con tutto il popolo di Dio e perciò anche con la gerarchia. Il rapporto tra laicato e gerarchia è perciò un rapporto di comunione, non di sottomissione né di potere.

Testimonianza invece di rappresentanza

L'idea fondamentale del parlamentarismo è quella della rappresentatività. Il potere è demandato dal popolo a persone che lo rappresentano, sulla base del suffragio universale. Nella comunità cristiana il concetto di rappresentatività è fondamentalmente diverso per due ordini di ragioni. Anzitutto le persone che guidano il Popolo di Dio non sono investite, anche quando fossero elette, del potere in forza del quale esercitano la loro diaconia, dal basso, ma dall'alto, attraverso il Sacramento e la missione. Al livello della Chiesa universale solo il Papa o tutto il Collegio Episcopale possono parlare in nome della Chiesa, cioè rappresentare la Chiesa. Al livello della Chiesa particolare, solo il Vescovo rappresenta la Diocesi; infatti, è lui, e non uno dei Consigli Diocesani, a rappresentare la Diocesi in seno al Concilio Ecumenico, né i Consigli Diocesani senza il Vescovo, possono rappresentare i cattolici di una Diocesi.

In secondo luogo la fede non è rappresentabile da nessuno, perché la salvezza è un fatto eminentemente personale. Non ci si può far salvare da un altro, come ci si può far rappresentare da un terzo nell'ambito economico o anche più strettamente personale, come nel matrimonio per procura. E' per contro affermazione corretta il dire che il Vescovo rappresenta la fede dei membri della sua Chiesa particolare, per esempio al Concilio Ecumenico. Il concetto di rappresentanza assume però in questo contesto un significato diverso, originalmente ecclesiale. Rappresenta questa fede solo nella misura in cui la sua fede è ortodossa, e quella corrisponde alla sua. Non la rappresenta in forza di un mandato dei suoi diocesani, ma la testimonia in forza della sua partecipazione più piena all'ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. La traduzione più corretta del concetto di rappresentanza è perciò in sede ecclesiale quello di testimonianza. Solo la testimonianza del Vescovo in merito alla sua Diocesi ha valore vincolante ultimo, cioè giuridico, con valore appunto di voto "deliberativo", in seno al Collegio Episcopale.

Tutto questo comporta delle conseguenze precise. I membri dei Consigli Diocesani non sono rappresentanti parlamentari, ma semplicemente persone scelte, magari per elezione, per consigliare ed aiutare il Vescovo, nel governo della Diocesi. Ciò non toglie che la loro scelta non possa avvenire con criteri "rappresentativi", proprio perché il nesso del Vescovo con le parrocchie e gli altri gruppi comunitari deve essere stretto e funzionale. La loro funzione perciò non è quella di rappresentare democraticamente la fede degli altri, e la loro prima diaconia è quella di realizzare l'esperienza di fede comune a tutto il popolo di Dio anche dentro l'ambito in cui devono svolgere il loro compito specifico [14].

Comunione come esperienza comune

La comunione è il principio formale della comunità cristiana, e di conseguenza anche di tutte le sue strutture e di tutti i suoi istituti giuridici. Il rapporto tra il Vescovo e i fedeli non può essere risolto ultimamente in termini di controllo di potere, ma solo in termini di esperienza di comunione. Le forme di controllo introdotte nel corso della storia per contenere gli abusi di potere da parte della gerarchia, raramente hanno generato un'autentica esperienza di comunione cristiana.

Applicato ai Vescovi il discorso di comunione implica un esercizio delle loro competenze entro un contesto di informazione e consultazione. La competenza consultiva dei Consigli Diocesani, introdotti dal Concilio Vaticano II, tende ad abbracciare tutti i settori della vita della Diocesi e della missione della Chiesa. Ciò non elimina la responsabilità eminentemente personale del Vescovo e il fatto che certi rapporti e problemi esigono, per loro natura, di essere trattati con la dovuta discrezione. Si tratta di saper leggere intelligentemente le situazioni e la natura delle cose. Il potere discrezionale del Vescovo è garanzia di comunione, perché esclude ogni forma di collettivismo meccanico.

La comunione tuttavia, se non vuole ridursi a un'espressione solo sentimentale e perciò facilmente eludibile, esige dai Vescovi di vivere in comunione con i propri fedeli, collaborando in tutti i settori della vita ecclesiale.

Per concludere

Vorrei offrirvi un bel pensiero di San Giovanni Damascèno, dottore della tradizione ecclesiastica, specialmente orientale. Egli ci invita ad essere protagonisti nella costruzione della Chiesa con ardente impegno e fedeltà: “Tu puoi, o nobile vertice di perfetta purità, o nobilissima assemblea della Chiesa, che attendi aiuto da Dio [e da tutti i tuoi membri!]; tu in cui abita Dio, accogli da noi la dottrina della fede immune da errore, e la dedizione delle opere; con esse si rafforzi la Chiesa, come ci fu trasmesso dai Padri”[15].

Fonti:

- Documenti del Concilio Vaticano II, soprattutto cost. dogm. Lumen gentium, e cost. past. Gaudium et spes.

- Codex Iuris Canonici, LEV 1983.

- Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, LEV 1995.

- I discorsi del Papa alla Rota, Città del Vaticano, 1986.

- Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei socialis, 30 dicembre 1987.

- Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 30 dicembre 1988.

- Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 1 maggio 1991.

- Educare alla Legalità. Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 4 ottobre 1991.

- Legalità, giustizia e moralità. Nota pastorale della Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 20 dicembre 1993.

- Stato sociale ed educazione alla socialità. Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 1 maggio 1995.

- Arrieta Juan Ignacio, Il sistema dell’organizzazione ecclesiastica. Norme e documenti, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2006.

- Bertone Tarcisio, «Il rapporto giuridico tra Chiesa e Comunità politica» in Il diritto nel mistero della Chiesa, Quaderni di Apollinaris 10, Roma 1992, pp. 609-610.

Bibliografia:

- Coste R., Les communautés politiques, Paris 1967.

- Corecco E., Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale? in “Communio”, 1 (1972), 32-44.

- Mattai G., Morale politica, Bologna 1975.

- Maritain J., L'homme et l'Etat, trad. it. L'uomo e lo Stato, Milano 1975.

- Ghirlanda G., Il diritto nella Chiesa mistero di comunione, Roma, 1990.

- Berlingò S., Giustizia e carità nell'economia della Chiesa, Torino, 1991.

- Ratzinger J., La Chiesa - Una comunità sempre in cammino, Torino 1992.

- Rivella M. (a cura), Partecipazione e corresponsabilità nella Chiesa, Milano 2000.

- Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, a cura di Riccardo Battocchio e Serena Nocetti, Glossa, Milano 2007.

[1] Cfr. GS 29.

[2] Cfr. GS 73.

[3] Cfr LG 8.

[4] L. STURZO, La società. Sua natura e leggi, Bergamo 1949, p. 97.

[5] Cfr. CIC, can. 204.

[6] Cfr. CIC, can. 208.

[7] Cfr. CIC, can. 129 § 2.

[8] Cfr. LG 22 e 23.

[9] Cfr. GS 24.

[10] Cfr. can. 356 §1 CIC 1917.

[11] In nome di una ripartizione delle competenze però, nessuno può essere escluso da una corresponsabilità effettiva e globale nella preparazione del giudizio di comunione dal quale deve nascere geneticamente l'intervento decisivo dell'Autorità. Il problema del potere all'interno del Popolo di Dio perciò non può essere, in ultima analisi, che quello della natura del rapporto a livello operativo-decisionale tra i Vescovi e gli altri cristiani e di conseguenza quello della modalità di partecipazione del clero e dei laici alla responsabilità che ultimamente spetta ai successori degli Apostoli, dell'annuncio cristiano nel mondo.

[12] Realizzando un modo nuovo di vivere i rapporti umani, affettivi, culturali, economici, sociali e politici, il fedele laico costruisce una nuova realtà di mondo senza correre il rischio di cadere in una situazione di dualismo. Come infatti il cristiano è chiamato a rispettare la logica interna della Parola e del Sacramento, così deve rispettare il valore e la logica interna delle realtà terrestri in obbedienza al loro statuto proprio.

[13] Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, 15 novembre 2008.

[14] Una simile concezione esclude la possibilità di cercare nello stile parlamentare, sempre di più determinato dai partiti politici e perciò dalla lotta per il potere tra le forze della destra e della sinistra, la soluzione dei bisogni della comunità cristiana. La formazione anche nella Chiesa di fronti tendenti alla conservazione o al progresso, è un atto praticamente inevitabile a causa del nostro limite umano. Questi fronti sono sempre stati i limiti di tutti i Concili. Il fenomeno va accettato senza sottovalutarne l'aspetto positivo, cioè la possibilità che attraverso una pluralità di accenti si pervenga alla lettura più completa della complessità dei problemi, ma senza assolutizzare questa dialettica fino a definirla necessaria al progresso nella Chiesa, perché questo non può essere previsto e programmato, e perciò neppure schematizzato, secondo categorie che sono troppo ristrette e inadeguate a cogliere una realtà che nel suo farsi è mistero.

[15] Cfr. San Giovanni Damasceno, Dichiarazione di fede, Cap. I; PG 95, 419.

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Bambini, ragazzi e internet: la rete e la paura dell'ignoto

ROMA, sabato, 20 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo di Claudia Di Giovanni, direttrice della Filmoteca Vaticana.



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I nuovi media hanno conquistato vasto spazio nel nostro quotidiano, inducendoci a prendere familiarità con continui e veloci sviluppi tecnologici. Il loro utilizzo è irrinunciabile per i giovani, non a caso definiti «generazione digitale», con riferimento soprattutto a chi è nato dopo il 1991. Proprio negli anni Novanta, infatti, la diffusione della rete internet ha ridefinito i parametri della conoscenza, dello spazio e del tempo, con notevoli conseguenze sulla società e sul singolo.

Da sempre le innovazioni tecnologiche, nell'incontro con la tradizione, hanno creato reazioni diverse, tra diffidenza ed entusiasmo, diffidenza per l'avanzare di un nuovo dagli effetti imprevedibili, entusiasmo per le eventuali potenzialità, segnando così il confine tra prima e dopo, con effetti comunque irreversibili.

Questo si è  verificato in diversi contesti storici, coinvolgendo spesso i giovani, naturalmente aperti al nuovo, sotto lo sguardo preoccupato degli adulti, inclini talvolta a considerare la novità come una minaccia, quasi un sintomo di degenerazione degli usi tradizionali.

Ogni secolo ha avuto le proprie preoccupanti «novità» che, apparse sulla scena, sono state incriminate e analizzate. È stato così per determinati libri, ritenuti non adatti ai giovani, per il cinema, considerato all'inizio fuorviante e diabolico, per i fumetti, sospettati di distruggere la fantasia, per alcuni generi musicali, per la televisione, i videogiochi. E la lista potrebbe continuare, individuando in ogni epoca il timore e le ansie che accompagnano varie novità, insieme alla naturale predisposizione degli adulti a proteggere i più giovani da qualcosa che non si conosce sino in fondo.

Ogni cambiamento ha modificato l'ambiente, ma soprattutto la persona. I bambini di oggi, infatti, immersi sin dalla nascita nella tecnologia, sviluppano dinamiche di apprendimento più percettive, diverse in parte da quelle delle precedenti generazioni, portati per loro natura all'uso dei mezzi tecnologici.

I nuovi media hanno creato dunque una vera e propria cultura che, come ogni cultura, parla un suo linguaggio. Quando andiamo in un Paese straniero, dobbiamo imparare una lingua; questo non significa solo studiare regole grammaticali e un nuovo vocabolario, significa entrare nella cultura che ha generato il linguaggio, prestando attenzione a molteplici aspetti e sfruttando l'immaginazione per immedesimarci in una realtà diversa dalla nostra e riuscire a comunicare con chi fa parte di quella cultura.

Pertanto, per entrare pienamente in questa nuova cultura digitale, occorre seguire lo stesso schema per parlare quel linguaggio che i giovani hanno appreso in maniera più naturale e veloce degli adulti, proprio come accade per le lingue.

Nel mondo digitale, si ridefiniscono così le dinamiche dell'apprendimento, ma anche quelle del gioco, poiché l'industria crea giocattoli progettati sempre più come supporto alla conoscenza e allo sviluppo del linguaggio. Se per ogni generazione il gioco è stato occasione per esplorare l'area del linguaggio, in un processo di creatività, ma anche di collaborazione e scambio, il nuovo ambiente digitale può essere un'altra opportunità per guidare il bambino nell'apprendimento della lingua parlata e scritta.

Un'altra opportunità, non un'alternativa, perché i processi di apprendimento e sviluppo del pensiero richiedono un tempo più lento, in contrasto con la velocità della nostra epoca. Pensare e riflettere richiede uno spazio silenzioso, non interrotto da altri stimoli e sollecitazioni, in cui si rielaborano le nostre conoscenze, in cui il bambino sviluppa la sua personalità che, attraverso il gioco, l'apprendimento, la lettura, la fantasia, il rapporto con gli altri esseri umani,  conduce  alla  completezza di sé.

Nel mondo digitale la rapidità e il predominio delle immagini potrebbero sfavorire a volte il linguaggio verbale e la sua ricchezza, la vera lettura, quella che ci permette di entrare in sintonia con chi ha scritto le proprie emozioni, spingendoci a dar voce alle nostre, stimolando la fantasia e aiutandoci a scendere nella nostra parte più profonda.

I bambini, attratti da immagini che si rincorrono all'infinito, rischiano di abituarsi a una sovrastimolazione di contenuti, a scapito di un'analisi critica e di una profonda elaborazione personale, ridimensionando la fantasia e rompendo l'incanto. Ancora oggi, la lettura resta, infatti, il modo migliore per sviluppare il linguaggio parlato, rielaborare il pensiero e comprendere concetti complessi; è un'abitudine che non può essere sostituita dall'ambiente digitale, ma affiancata, per riuscire a creare quell'armonia tra la tradizione e l'innovazione tecnologica, che deve continuare a esistere.

Se dunque da un lato i nostri bambini sono naturalmente portati all'uso di questi mezzi, gli adulti continuano ad avere un ruolo fondamentale, quello di educatori tradizionali, incoraggiando i bambini a sfruttare gli elementi positivi offerti dai nuovi media, ma nello stesso tempo ricordando che ci sono regole utili nel mondo reale, così come in quello digitale, e soprattutto mantenendo aperto un dialogo che non faciliti la segretezza, a volte rischiosa, sotto cui si agisce nella Rete.

Se per anni l'allarme si è concentrato sulla televisione, oggi come allora, pur nel panorama tecnologico in continua evoluzione, il problema continua a essere la comunicazione tra le generazioni, la creazione di spazi in cui dialogare e confrontarsi, perché l'enorme potenziale tecnologico a disposizione non può sostituirsi alla capacità di comprendere l'espressione di uno sguardo e riuscire a esprimere se stessi nel confronto verbale con l'altro.

[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 20 febbraio 2010]

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I diplomatici anglo-americani in Vaticano e il "silenzio" di Pio XII

ROMA, sabato, 20 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo scritto dal prof. Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università del Molise.




* * *

1. Preludio: l’eccitazione della citazione

Sono bastati minimi passaggi di due dispacci inviati rispettivamente da Tittman nella seconda metà del 1943 e da Osborne verso la fine del 1944, ignorando deliberatamente tutto il resto, per scatenare un putiferio di polemiche. Neppure da molte parti cattoliche si è fatto caso ad alcuni dati elementari, che di per sé sarebbero bastati a sgonfiare il dibattito dall’aria di scoop, insufflato da un lancio dell’ANSA e poi riverberatosi il 1° febbraio 2010 per effetto di due articoli del Corriere della Sera e della Stampa.

Casarrubea e Cereghino se la sono presa, anche col sottoscritto. Rispondendo a un lettore che li accusava di far male il loro lavoro, i due “studiosi” hanno detto: «Quanto ai libri che il suggeritore ad orecchio del Tornielli, e cioè il prof. Napolitano, ci accusa di non aver letto, è noto che Cereghinoed io lavoriamo principalmente su documenti. Non andando a caccia di reperti inediti, ma per il semplice gusto di sapere gli errori che chi ci ha preceduto ha commesso».

A parte la caduta nel ridicolo, Casarrubea e Cereghino hanno dimostrato d’ignorare l’abbiccì della metodologia storiografica: sapere ciò che esiste su un tema che si vuole studiare ed evitare, per quanto possibile, di arrivare buoni ultimi a dire ciò che gli storici veri hanno detto da tempo. E semmai accade ciò, prendersi la briga di riconoscere il lavoro altrui attraverso quella formula cortese che scientificamente si esprime nella locuzione “citato in”, citato da”, “cfr.” “vedasi”, ecc.

Ma non sapendo chi aveva già pubblicato e che cosa, e quindi non sapendo chi citare, Casarrubea e Cereghino bellamente si sono ben guardati dall’onesta pratica di riconoscere i cosiddetti credits.

Non parliamo poi di altre loro lacune nell’abbeccedario storiografico: per esempio, nello studio delle fonti si parte sempre dalla saggistica, dalla memorialistica e dai documenti editi, per poi iniziare lo scavo archivistico su ciò che è ancora ignoto. Perché se la ricerca d’archivio non crea “valore aggiunto” per la Storia, allora essa diventa sterile citarsi addosso.

Non ci esprimiamo sugli altri temi storici su cui Casarrubea e Cereghino lavorano, perché non potremmo giudicarli. Diciamo solo che nel campo specifico a noi noto, quello di Pio XII, essi si sono mossi assai goffamente, soprattutto quando sono stati “scoperti”.

Il documento di Tittman era noto da anni; per saperlo ci è bastato aprire un libro in un arco di tempo (diciamo la pura verità) pari a quattro-cinqueminuti. Casarrubea e Cereghino se n’erano accorti? No.

Ma essi dicono di non aver mai detto che si trattava di un inedito. Sarà. Certo che posare da pionieri archivistici descrivendo il dispaccio di Tittman, dato alle stampe nel lontano 1964, come il documento «da noi ritrovato a Londra poche settimane fa» non equivale a dire la stessa cosa?

Alla luce dei precedenti ci pare di sì. Perché anche un paio di anni fa Casarrubea e Cereghino pensavano di aver fatto chissà quali scoperte. Accadde il 27 novembre 2008, quando nel post Quando Montini vedeva rosso pubblicarono il verbale (fra l’altro mal tradotto) di una conversazione avuta dal diplomatico americano Parsons con Giovanni Battista Montini (il futuro Paolo VI), per dimostrare che questi era un fervente anticomunista. Questo documento, essi scrissero, era stato «da noi rintracciato al Nara [National Archives and Records Administrations: gli archivi americani, n.d.r.] di College Park nel Maryland nel 2004».

Sapete la novità? I due ritenevano il documento “inedito”, ma esso era già stato pubblicato, guarda caso, sempre da Ennio Di Nolfo (a cui fischieranno le orecchie?), nel suo libro Vaticano e Stati Uniti del 1978. Anche in questo caso, lo facemmo notare ai due “scopritori”, i quali così ci risposero: «Effettivamente, Lei ha ragione e ci scusiamo dell’errore. Come Lei stesso ha notato, abbiamo provveduto immediatamente a rimuovere la dicitura “inedito” dal nostro blog».

Errare è umano; ma perseverare? Poco più di mese prima (era l’ottobre 2008), l’ANSA aveva parlato di un documento pubblicato sul blog diCasarrubea in questi termini: «Un nuovo tassello da inserire nel cangiante e spesso contraddittorio mosaico del rapporto tra Pio XII e gli ebrei nell'autunno del 1943». Un nuovo tassello? Il documento in questione, verbale di un colloquio tra Osborne e il Papa avvenuto il 18 ottobre 1943, era già noto dalle ricerche di Owen Chadwick, il cui Great Britain and the Vatican era uscito nel 1986, e in edizione italiana nel 2007. E siamo a tre.

Non hanno mai parlato, Casarrubea e Cereghino, di aver scoperto degli inediti noti da gran tempo? Ammesso e non concesso ciò (dato che hanno riconosciuto l’errore e se ne sono scusati con noi), resta il fatto che i due sono un esempio inimitabile (leggasi: da non imitare) di disinformazione storiografica.

«Non abbiamo parlato d’inediti», affermano; ma neppure hanno mai detto che le cose che si pubblicavano erano edite, e da chi. Semplicemente non ne sapevano niente. E questo la dice lunga sull’inconsistenza del metodo storico di Casarrubea e Cereghino.

Se la prendono col sottoscritto? Pazienza.

All’indomani della pubblicazione del nostro recente articolo su di loro, hanno scritto: «Desideriamo ringraziare Matteo Luigi Napolitano, esimio professore di Storia delle Relazioni internazionali, per l’ illuminante articolo Pio XII e i falsi scoop pubblicato il 2 febbraio 2010 nel sitowww.vaticanfiles.splinder.com. Ci sorprende tuttavia che un intellettuale di tale levatura ignori l’esistenza del fascicolo confidenziale Sir D.Osborne’s audience with the Pope on 10th november 1944, reperibile ai National Archives di Kew Gardens (GB), ai segni [SIC! Per «segnatura archivistica» n.d.r.] FO 371/44213, da noi riportato nel Pdf allegato al post Beato lui!, in data 30 gennaio 2010, nel nostro sito www.casarrubea.wordpress.com. Ci sorprende altresì che nel citare tale documento Napolitano abbia omesso la frase che introduce e spiega la natura della discussione tra Sir Osborne e il principe Pacelli».

Amen.

A parte che siamo noi a ringraziare loro per l’eccessiva attenzione (e non lo diciamo pro forma), aggiungiamo che non vale la pena neppure di replicare con ciò che è ovvio: il nostro articolo del 2 febbraio è quasi tutto incentrato sulla lettura del documento che essi pensano (non sappiamo perché) che noi abbiamo ignorato.

Ma hanno letto ciò che abbiamo scritto?

Resta, certamente, ancora molto da dire sul dispaccio di Osborne. Lo faremo fra un momento. Ma ora, una prima una diversione: sul documento diTittman datato 19 ottobre 1943.

2. Ma il documento di Tittman è proprio del 19 ottobre 1943?

Sul documento di Tittman ritenevamo di aver detto tutto già in un articolo precedente.

O quasi tutto.

Cereghino e Casarrubea hanno giurato e spergiurato che il colloquio fra Tittman e Pio XII si svolse il 19 ottobre 1943, e che il documento in questione dimostra l’insensibilità del Papa, che non parlò degli ebrei romani, razziati tre giorni prima.

A parte che i due non spiegano come non sia stato Tittman, proprio tre giorni dopo i tragici eventi romani, a tirar fuori lui l’argomento col Papa, di sua iniziativa (e quindi non spiegano il “silenzio” di Tittman in proposito); a parte ciò, forse la questione della data in cui si svolse effettivamente il colloquio fra Tittman e Pio XII richiederebbe assai maggiore prudenza.

Andiamo a spiegare.

Di recente, in un’intervista a ZENIT, il prof. Ronald Rychlak ha ricordato che l’ “Osservatore Romano” del 15 ottobre 1943 dava notizia di un’udienza concessa dal Papa a Tittman il giorno prima, 14 ottobre 1943. Ciò spiegherebbe come mai fra i due non sia stato affrontato il tema della razzia degli ebrei romani, verificatasi solo due giorni dopo quel colloquio.

Visto che dalla precisa datazione di questo colloquio dipende l’accusa di “silenzio” di Pio XII sulla razzia degli ebrei romani, la questione non è di poco conto, ma va necessariamente affrontata su basi più solide di una semplice segnalazione del pur autorevole giornale vaticano.

Ebbene, le fonti archivistiche confermano la segnalazione dell’ ”Osservatore Romano”. Come si legge infatti nel foglio d’udienza del 14 ottobre 1943[1], Tittman venne effettivamente ricevuto in udienza dal Papa alle ore 11,00 di quel giorno. Se si sfoglia il registro e si va alla data del 19 ottobre 1943, il nome di Tittman non compare affatto, neppure inserito come aggiunta dell’ultim’ora. Né appare successivamente. Al foglio del 18 ottobre 1943, invece, compare il nome di Osborne (udienza alle ore 9,00, di cui infatti c’è traccia archivistica). E infatti, lo stesso Osborne parla dei fatti del 16 ottobre nel suo dispaccio del 31 successivo: esito dei colloqui avvenuti col papa a ridosso dei tragici eventi romani.

Le fonti archivistiche danno quindi per probabile che il famoso dispaccio di Tittman (che anche nella collana americana reca la data del 19 ottobre 1943) sia in realtà il resoconto della conversazione fra Tittman e Pio XII del 14 ottobre precedente. Ecco perché non si parla della razzia degli ebrei romani, che è di due giorni posteriore; mentre, al contrario, nel caso di Osborne, si vede bene che la questione degli ebrei romani è stata toccata.

In un appunto del 21 ottobre 1943, monsignor Tardini si riferisce proprio a un colloquio fra il Papa e Tittman sulla sorte di Roma e sulle assicurazioni date da Myron Taylor in proposito. «Sua Santità – scrive Tardini – si era lamentata perché il popolo italiano non era stato trattato secondo le date assicurazioni» dategli da Roosevelt nelle due lettere del 16 e del 20 giugno 1943 (e infatti il 19 luglio era arrivato il primo bombardamento di Roma[2]). Fu proprio la salvezza di Roma uno dei temi del colloquio Tittman-Pio XII; anche se il primo non riferì al PresidenteRoosevelt le lamentele del Papa.

L’appunto di Tardini non potrebbe tuttavia, preso in sé, lasciar ipotizzare l’errore di datazione del dispaccio di Tittman, se non si andasse proprio all’originale del documento conservato negli archivi britannici di Kew, e se non si conoscesse un minimo di tecnica di corrispondenza diplomatica.

Non essendoci in Vaticano un’ambasciata o una rappresentanza diplomatica ufficiale americana, Tittman non aveva (a differenza di MyronTaylor, rappresentante personale di Roosevelt presso il Papa) un proprio servizio cifra per la corrispondenza segreta col suo Governo. Nel caso del dispaccio in esame, Tittman lo affidò alle cure del collega britannico, Osborne, perché fosse cifrato e ritrasmesso a Washington. Osborne, ricevuto il messaggio, lo trasmise al Foreign Office di Londra, che a sua volta lo “rifischiò” a Washington e  anche al Ministro britannico residente ad Algeri.

Tre passaggi del dispaccio, dunque: Tittman a Osborne, Osborne al suo Governo, e quest’ultimo a Washington.

Ed è proprio a questo punto che la copia archivistica del dispaccio di Tittman, resa nota da Cereghino e Casarrubea, rivela qualcosa d’insospettato.

La copia che i due hanno pubblicato è conservata nei file della Rappresentanza britannica ad Algeri (infatti in intestazione appare il timbro “copia per il ministro residente”). Vi si legge che essa è partita dal Foreign Office alle ore 21,25 del 21 ottobre 1943, per arrivare ad Algeri alle ore 13,00 del giorno dopo.

Ma ecco l’intestazione del documento:

«Indirizzato a Washington tel. No. 7199, 21 ottobre, e al Ministro Residente ad Algeri. Quanto segue ricevuto da [Rappresentanza] Santa Sede telegramma No. 388, 19 ottobre. Inizia. “Quanto segue [stavolta è Osborne a scrivere] è del mio collega statunitense No. 198, che egli chiede sia ritrasmesso a Washington”»

Ed è a questo punto che Osborne inserisce a sua volta le virgolette e cita il testo integrale del dispaccio di Tittman.

E’ insomma un gioco di matrioske: il Foreign Office apre le virgolette e cita il dispaccio di Osborne, il quale a sua volta apre le virgolette e cita quello di Tittman.

Ed è proprio osservando questa concatenazione che si nota una cosa: la data del 19 ottobre 1943 è quella del telegramma di Osborne dal Vaticano,non quella del dispaccio di Tittman. Quando infatti il Foreign Office scrive che ha «ricevuto da Santa Sede telegramma No. 388, 19 ottobre» significa infatti che il telegramma di Osborne è del 19 ottobre 1943. Nulla, quindi, ci dice che quello di Tittman, inoltrato a Londra perché giunga a Washington, abbia la stessa data.

E infatti, aperte le virgolette dopo il «begins» (ossia: «Inizia la citazione del dispaccio di Tittman»), Osborne non riporta alcuna data, ma solo il testo del dispaccio di Tittman. Se Osborne avesse conosciuto la data del dispaccio di Tittman, l’avrebbe indicata insieme al numero di dispaccio, riportato perché evidentemente appariva nella minuta da cifrare e ritrasmettere (anche Eden, quando ritrasmise a Washington un altro telegramma diOsborne, indicò, oltre al numero di partenza del di lui dispaccio, anche la data).

Si consideri poi un altro elemento, che forse non è trascurabile. Nella bozza presentata da Casarrubea e Cereghino, Tittman scrive: «Ho avuto un’udienza oggi col Papa, che non avevo visto da lunedì». Se si identifica quell’oggi con il 19 ottobre 1943, ebbene quel giorno era martedì. Non sarebbe stato più logico che Tittman scrivesse:«Ho avuto un’udienza oggi col Papa, che non vedevo da ieri»?

Ultima considerazione: Tittman aveva il rango di un’incaricato d’affari, e come tale non aveva col Papa un contatto diretto come accadeva per i colleghi col rango più elevato di ambasciatore. I contatti più frequenti Tittman li aveva col Segretario di Stato card. Maglione, ma ancor più con i due Sostituti alla Segreteria di Stato, i monsignori Tardini e Montini (il futuro Paolo VI). Non è quindi pensabile, per l’attenta prassi diplomatica e di protocollo vigente non solo in Vaticano ma anche altrove, che egli fosse ricevuto in udienza personalmente dal Papa (ossia da un Capo di Stato) addirittura per due giorni di seguito.

Ma come si è visto, il registro delle udienze del Maestro di Camera del Pontefice né alla data del 18 ottobre né a quella del 19 riporta un’udienza concessa dal Papa a Tittman. Considerate quindi le fonti vaticane, ma soprattutto il gioco a incastro di dispacci che furono trasmessi dal Vaticano (quello di Osborne che “contiene” quello di Tittman; quello del Foreign Office che li contiene entrambi), le probabilità che Tittman non abbia mai incontrato Pio XII il 19 ottobre 1943, e che il suo dispaccio sia anteriore di ben cinque giorni, sono altissime.

Priva di senso sarebbe quindi la polemica su Pio XII che non si sofferma con Tittman sulla sorte degli ebrei romani: come poteva, dato che la razzia non era ancora avvenuta? E poi va ribadito che chi apre questa polemica contro Pio XII, sostenendo che il suo colloquio con Tittman avvenne il 19 ottobre 1943 e che il Papa tacque sugli ebrei romani, non si chiede poi come mai non sia stato lo stesso Tittman ad affrontare l’argomento, di sua iniziativa, col Papa. Volendo parlare superficialmente del “silenzio” di Pio XII, non s’indaga insomma su quello di Tittman.

Resterebbe da vedere l’originale conservato negli archivi americani dell’esemplare che poi è stato pubblicato nella raccolta statunitense con la data del 19 ottobre 1943. E’ l’unico punto che invita davvero alla cautela, anche perché riporta una differenza nel testo (Tittman, vi si legge, non vedeva il Papa dall’anno precedente, e non dal precedente lunedì). Alla nota che accompagna questo documento si legge: «Questo messaggio fu trasmesso al Dipartimento di Stato dal Rappresentante britannico in Vaticano, attraverso l’ambasciata britannica a Washington e ricevuto al Dipartimento il 25 ottobre»[3]. Il che ci fa supporre (data l’impossibilità per Tittman di cifrare i suoi dispacci) che si tratti non di un originale ma di una copia circolare, in cui ci sarebbero errori di datazione.

3. Il documento di Osborne del 10 novembre 1944. Basta leggere per capire

Vale ora la pena allora di fare alcune considerazioni aggiuntive sull’altro documento, quello di Osborne del 10 novembre 1944, oltre quanto abbiamo già detto a ridosso della polemica.

3.1 Il documento di Osborne del 10 novembre 1944 è ricco e sorprendente per diversi aspetti. Vi abbiamo contato almeno diciotto punto, alcuni non proprio trascurabili per un serio dibattito storico. Peschiamo a caso

a) Osborne nota il risentimento di fascisti e nazisti perché il Vaticano sta ospitando diplomatici stranieri di Paesi in guerra con l'Italia, molti dei quali erano già accreditati presso il Quirinale (tipico è proprio il caso di Harold Tittman, autore dell’altro documento assai discusso, quello del 19 ottobre 1943);

b) Osborne è convinto che se le sorti belliche non fossero poi mutate a svantaggio della Germania, quest’ultima avrebbe certamente invaso sia il Vaticano sia le sedi diplomatiche dei Paesi nemici dell’Asse, ospitate in Vaticano. Di conseguenza, Pio XII offrì questa ospitalità in un momento in cui le sorti belliche erano ancora favorevoli alla Germania, accollandosi pertanto un grave rischio di rappresaglia;

c) Osborne è grato a Pio XII poiché questi ha tollerato che i diplomatici in Vaticano, rappresentanti dei Paesi Alleati, inviassero all'esterno corrispondenza segreta di carattere politico e militare. Questo fatto non ci sembra trascurabile. Perché Osborne dimostra che Pio XII fu il capo di uno Stato neutrale ma non imparziale, perché schierato con gli Alleati. Il che conferma delle ipotesi di lavoro già note agli studiosi, perché formulate in un importante dibattito fra studiosi italiani, i cui risultati possono leggersi nel bel libro su Pio XII, curato da Andrea Riccardi[4].

d) Osborne propone al suo Governo che si ringrazi ufficialmente il Papa: per tutto questo, ma anche per aver ospitato ufficiali già prigionieri di guerra della Germania);

e) Candidamente Osborne s’illude che in Russia, dopo la libertà concessa alla Chiesa ortodossa, ci si trovi alla vigilia di un grande mutamento, di cui Stalin è l'artefice: quello di una Russia con una rinata religione nazionale cristiana!

3.2 C'è poi nel famoso dispaccio di Osborne la questione dell’appello in favore degli ebrei d’Ungheria, che ha sollevato tante sterili polemiche.

Nel dispaccio, l'appello per gli ebrei d'Ungheria non è il tema principale (ventitre parole in tutto in un dispaccio fluviale), e ciò per varie ragioni:

a)      perché quella che viene presentata come una “proposta di Eden” (parlare per gli ebrei d'Ungheria), non è affatto di Eden. Scrive Montini: «Il Ministro Osborne circa il suo foglio del 1° novembre, dice che la proposta proviene dall'ambiente israelita: il Governo britannico si limita a raccomandarla» ma del World Jewish Congress, il Congresso Mondiale Ebraico, al quale però il Vaticano sta già rispondendo. Fra l'altro, Eden è stato preceduto, nel trasmettere queste proposte ebraiche, dal Governo americano[5].

b)     Il 28 ottobre e il 19 ottobre 1944, il Delegato apostolico a Washington, Amleto Cicognani, ha già trasmesso al Papa queste richieste diambienti ebraici americani[6]. Insomma, la “proposta di Eden” non è cosa nuova.

c)      Inutile dire che, fra il 19 ottobre e il 10 novembre 1944, la Santa Sede si è già mossa con diverse iniziative in favore degli ebrei d'Ungheria[7]. Ecco perché la questione è, come dire, “tangenziale” e quasi dispersa nella lunga esposizione che si legge nel dispaccio di Osborne. L'enfasi che le è stata data è senza dubbio eccessiva.

d)     E’ la questione dei crimini sovietici, invece, uno dei temi più importanti del dispaccio di Osborne. Ma l’ipotesi della denuncia anonima dei russi, come si dirà fra poco, è formulata da Pio XII "prima" di Osborne, e non su sua sollecitazione; come si evince dal documento, in cuiOsborne dà la sequenza esatta della sua conversazione col Papa.

3.3 Ed eccoci a parlare della denuncia dei crimini russi. Nel dispaccio di Osborne la sequenza esatta della discussione è la seguente:

a) Pio XII dice di essere pressato da più parti a denunciare i crimini russi, ma dice fin da subito che comunque, se decidesse di farlo, la denuncia sarebbe anonima, esattamente come ha fatto nel condannare i crimini tedeschi;

b) Osborne va di rinforzo: lo invita a non denunciare i russi per le gravi ripercussioni che ne seguirebbero e perché si noterebbe la differenza di trattamento rispetto ai tedeschi.

c) Pio XII non lascia finire Osborne; anzi lo interrompe, s'inserisce nel suo discorso («interjected», si legge nell’originale) per ribadire «che non era in questione alcun riferimento alla Russia per nome».

d) Osborne riprende il filo del discorso dicendo di non avere informazioni sui russi in Europa, ma che i crimini russi non potevano eguagliare quelli tedeschi (e «il papa non fece obiezione»); e che anzi non vi era precedente allo sterminio degli ebrei perpetrato con i metodi più efferati («Su ciò il papa concordò», aggiunse Osborne).

Questo si evince dal documento qui in esame, dalla sequenza ordinaria delle frasi, nell'ordinaria concatenazione e interpretazione delle parole che le formano. Questa è l’esatta narrazione dei fatti, trasmessa da Osborne al suo Governo Essa è quindi il portato della narrazione di Osborne. Se il diplomatico britannico avesse notato nel Pontefice un atteggiamento diverso dall'accordo e dalla sintonia con lui, per esempio una sufficiente e alquanto superba condiscendenza, semplicemente, Osborne (che era assai preciso nei suoi resoconti dal Vaticano) l'avrebbe scritto ece lo avrebbe fatto sapere.

3.4 Si chiede sempre a Pio XII di parlare: ma con quale modalità? E poi: qual'è lo step successivo? La cosa sarebbe stata senza conseguenze? E, se ci fossero state conseguenze, quali sarebbero state e chi le avrebbe pagate? Pur non potendo fare la storia con i se , resta il fatto assai probabile, studiando le circostanze storiche, che nel 1942-44 avrebbero potuto essere erano fondamentalmente due: rappresaglie a 360 gradi contro tutto ciò che fosse cattolico o che fosse collegato ai cattolici collegato; seria compromissione, se non totale smantellamento, della rete di aiuti vaticani (ma non solo vaticani), che si trovava a operare (vale la pena di ricordarlo sempre) non i Paesi liberi e democratici, ma esclusivamente nei territori occupati o satelliti della Germania.

3.5. Osborne resta in Vaticano per oltre quattro anni; occorre chiedersi se la posizione di Osborne sia sempre stata quella di esigere sempre e comunque una condanna pubblica dei nazisti da parte di Pio XII; o se abbia sempre ritenuto che una vera e propria condanna del nazismo non ci fosse mai stata.

Dal documento del 31 ottobre 1943 già citato, parrebbe di no. E pare di no anche vent'anni dopo quando, nel 1963, esce Il Vicario, e, comericorderemo ancora poco oltre, la posizione del drammaturgo tedesco è assai criticata da Osborne sul “Times”.

A volte la storia è fatta un po' anche di risultanti algebiche, specialmente quando ci sono in ballo personalità così forti (e neppure cattoliche) come Osborne; ebbene, nel 1963 riteniamo che Osborne abbia voluto chiudere, per ciò che lo riguardava, il discorso sul “silenzio” di Pio XII con una risultante algebrica nettamente positiva per questo Papa

Perché, infatti, elogiare così tanto Pio XII senza essere minimamente obbligato a farlo (Pio XII era morto e Osborne era ormai un privato cittadino; e teneva a specificare al “Times” di non essere neppure cattolico!)?

3.6 Va attirata l’attenzione anche su un altro non trascurabile aspetto della vicenda: l’uso strumentale delle parole del Papa. Esigere dal Vaticano una pubblica condanna di questo o di quello in tempo di guerra sottendeva sempre nei belligeranti fini propagandistici, dato che «ogni stato belligerante desidera che la sua causa sia considerata come una causa morale [...]. Ma nella gran parte dei casi, le Potenze non si aspettavano che il Papa dicesse che una delle sue azioni era buona. Essi speravano che dicesse che un atto compiuto dall'altra parte era malvagio, E se fossero riuscite a persuaderlo a dire questo, ciò sarebbe stato un vantaggio politico»[8].

Fin dal 10 giugno 1940, data dell'entrata in guerra dell'Italia, i rappresentanti diplomatici tedesco, inglese e francese presso la Santa Sede, ebbero l'incarico «di attirare l'attenzione del Papa sulle immoralità perpetrate dall'altra parte. Essi avevano inoltre l'incarico di suggerire che egli le condannasse pubblicamente. Di solito essi non si aspettavano di aver successo in questo compito. Sapevano che dal giugno 1940 il Papa aveva adottato una politica di stretta neutralità come la sola via per mantenersi al di sopra («standing above») di una situazione impossibile»[9].

Esempi di uso strumentale della condanna papale sono poi diffusi, e lo stesso Chadwick li illustra.

4. Osborne e il “silenzio” di Pio XII

Si vuole quindi a tutti i costi far passare l'idea di un Osborne non fa altro che chiedere a Pio XII di parlare contro i crimini nazisti.

Non è così. Proprio la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre 1943 ne è la controprova. Se Pio XII, come si dice, fu insensibile al destino degli ebrei romani e preferì tacere dolosamente su questa tragedia, quale migliore occasione del 16 ottobre perché Osborne glielo facesse notare?

E invece, il 31 ottobre 1943, egli così scrive al suo Governo: «Non appena seppe degli arresti di ebrei a Roma, il Cardinale Segretario di Stato diresse e formulò all'Ambasciatore tedesco una [sorta? Questa parola è illeggibile ndr] di protesta. L'Ambasciatore si mosse immediatamente con il risultato che gran parte di loro fu rilasciata. L'intervento vaticano sembra dunque esser stato efficace nel salvare un certo numero di queste sfortunate persone. Ho chiesto di sapere se potessi io riferir questo e mi fu detto che avrei potuto ma solo per nostra conoscenza e non per darne pubblica ragione, poiché ogni pubblicazione d'informazioni condurrebbe probabilmente a nuove persecuzioni»[10].

Il resoconto di Osborne conferma dunque i documenti vaticani. Per cui la tesi del silenzio di Pio XII sulla deportazione degli ebrei romani, perOrborne, non regge. Si potrebbe andare avanti sul tema, ma la smentita più efficace alla tesi secondo cui Osborne ebbe un severo atteggiamento critico per il silenzio del Papa e avrebbe voluto una plateale dichiarazione di condanna della Shoah, la dà ancora una volta lo stesso Osborne, intervenendo nel 1963 proprio sulla polemica relativa al silenzio di Pio XII:

«Lungi dall’essere un diplomatico freddo (il che, suppongo, implica una persona di sangue freddo e disumana), Pio XII fu il personaggio più caldamente umano, gentile, generoso, simpatico (e, per inciso, santo) che io abbia mai avuto il privilegio d’incontrare nel corso di una lunga vita. So che la sua natura sensibile era acutamente e incessantemente sensibile al tragico volume di sofferenza umana causato dalla guerra e, senza il minimo dubbio, sarebbe stato pronto e felice di dare la sua vita per redimere l’umanità dalle sue conseguenze. E ciò senza guardare alla nazionalità o alla fede […]. Sono sicuro che Papa Pio XII è stato grossolanamente giudicato male dal dramma del signor Hochhuth».

E, chiudendo le sue considerazioni, Osborne aggiungeva di non essere neppure  cattolico![11].

Pietra tombale, diremmo, quella apposta da Osborne sulla polemica del “silenzio” di Pio XII, scatenata dal dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth.

Con ciò non si vuole affatto dire che Osborne non fosse critico verso il Vaticano (era previsto dalla natura della sua missione), o che non volesse che la Santa Sede parlasse talvolta in maniera più chiara o con toni più energici. Ma, come si rileva soprattutto dal suo diario, prima dell’occupazione tedesca di Roma egli aveva in mente, più che gli ebrei in sé, tutti coloro che stavano soffrendo per la guerra. Al punto che lo stesso destino degli ebrei slovacchi, dopo le notizie giunte nel marzo 1942, ancora non sembrava toccarlo, dato che la sua attenzione era in quel momento attirata dalla sorte delle vittime in generale[12].

Certamente, dopo la dichiarazione interalleata del 17 dicembre 1942 la situazione cambiò molto; e anche Pio XII si fece meno prudente, col radiomessaggio natalizio del 1942 (che non va giudicato per la presenza o no della parola “ebrei” invece di “stirpe”; ma per le positive reazioni che esso suscitò in America, e per le negative reazioni che ne conseguirono in Germania).

Che Osborne poi pensasse che una politica di riserbo fosse la più adatta alle circostanze del momento lo si vede dalla raccomandazione fatta a Pio XII (che pure aveva già deciso di muoversi esattamente nel modo auspicato dal diplomatico) di non denunciare apertamente neppure i crimini sovietici.

Occorre insistere su questo punto: Osborne racconta che Pio XII non è ancora giunto «a una decisione su questo punto [denuncia dei crimini russin.d.r.], e in ogni caso la sua condanna sarebbe anonima, come nel caso della sua condanna dei misfatti tedeschi in passato».

Questa è la sequenza espositiva: Pio XII ha quindi già deciso, indipendentemente da Osborne, quale sarà la condotta da tenere. Osborne non fa altro che corroborarla; i due quindi concordano sull'utilità di un silenzio operativo in vari campi.

C’è poi un’altra questione da considerare. Una cosa è il silenzio, altra cosa è l'inazione. E, come si vede dalla documentazione vaticana (che, va ricordato, è in anche di origine ebraica), la Santa Sede non si mantenne inattiva, ma fece il possibile per salvare le vittime della guerra, e in primo luogo gli ebrei. Silenzio e riserbo erano purtroppo le vie più dirette per un'azione di salvezza segreta e articolata. Del resto, specularmente, silenzio e riserbo sui crimini sovietici erano per Osborne del pari necessari alla condotta della guerra.

Pretendere poi che il papa accendesse un megafono e condannasse i crimini hitleriani da Piazza San Pietro significa:

a) illudersi che Pio XII avesse una parola talmente taumaturgica da fermare i crimini hitleriani; ossia attribuirgli poteri di un Papa medievale in un'epoca del tutto secolarizzata;

b) dover spiegare che cosa sarebbe stato della rete di aiuti vaticani che (va ricordato ancora una volta, perché sempre lo si dimentica), si muoveva in gran parte all'interno di Paesi occupati o annessi dalla Germania (e quindi con diocesi e altre propaggini pontificie già compromesse e controllate nelle loro comunicazioni verso l'esterno).

Parlando di “silenzio” di Pio XII, non si considera poi un dato di fatto: che il nesso condanna plateale-alleviamento della sorte degli ebrei è un preconcetto, senza possibilità di controprova che le cose sarebbero andate esattamente in questa sequenza; una sequenza che quindi solo apparentemente è così logica. Tanto per banalizzare, occorre molta immaginazione per vedere un Hitler presenziare una domenica all'Angelus in piazza San Pietro, chiedendo perdono al Papa per la pubblica condanna comminatagli, e promettendo di non perpetrare più i suoi crimini.

La storia, purtroppo (e al di là dei desideri dello storico) non si può leggere inforcando un bel paio di occhiali rosa.

5. Gli “altri documenti su Pio XII” di Casarrubea e Cereghino

In risposta al nostro primo articolo, Casarrubea e Cereghino hanno propinato un “copia-incolla” di documenti d’archivio, su cui ci soffermeremo molto brevemente, rispettando l’ordine nel quale li hanno proposti.

Per evitare inutili ripetizioni, rimandiamo direttamente all’articolo che quei documenti propone. Aggiungiamo qui solo che i documenti non sono riportati integralmente, ma sono pieni di omissis perché trascritti dai due “ricercatori”. Sarebbe stato forse opportuno che essi proponessero gli originali, come hanno fatto (va riconosciuto: meritoriamente) in altri casi. Di fronte agli omissis, come sappiamo, occorre pertanto diffidare, a prescindere dalle buone intenzioni di chi li compie: è solo una questione metodologica.

Ciò detto andiamo avanti.

5.1 Il primo documento che Casarrubea e Cereghino propongono è, ancora una volta, un dispaccio del ministro britannico in Vaticano Osborne, del 29 dicembre 1942. Attenzione alle date: perché il 17 dicembre c’è stata la dichiarazione interalleata contro lo sterminio degli ebrei e il 24 successivo il famoso radiomessaggio natalizio del Papa. In questo radiomessaggio Pio XII, com’è noto, parlò in favore delle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento».

Abbiamo fatto questa premessa perché citare un dispaccio di Osborne del 29 dicembre 1942 senza citare il contesto può rivelarsi un boomerang.

Osborne certamente all’epoca non poteva saperlo; ma Casarrubea e Cereghino (pure così solerti frequentatori di archivi) dovevano conoscere l’esistenza di un rapporto segreto siglato dal Reichssicherheitshauptamt [ossia: Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, o RSHA, ndr) del 22 gennaio 1943, e che von Ribbentrop ritrasmise, con precise istruzioni che vedremo, all’ambasciatore tedesco in Vaticano Diego von Bergen, il 24 gennaio successivo. Il documento è un promemoria del Governo nazista proprio sul Radiomessaggio di Pio XII del 24 dicembre 1942. Per la sua importanza, il rapporto del RSHA va citato quasi integralmente:

«Il Papa – vi si legge – in maniera del tutto sconosciuta prima di oggi, ha ripudiato il Nuovo Ordine Europeo del nazionalsocialismo. La sua radio-allocuzione è un capolavoro di travisamento clericale della concezione del mondo nazionalsocialista. E’ vero che egli non ha menzionato per nome i nazionalsocialisti tedeschi, ma il suo discorso è tutto un lungo attacco contro tutto ciò che noi rappresentiamo…Egli concepisce la personalità umana in termini interamente individualistici e liberali. Considera un’aberrazione l’idea che la personalità emani dalla società collettiva. Dice di compiacersi del fatto tale atteggiamento (quello di noi nazionalsocialisti) “incontri una resistenza che cresce di continuo”. Dio, egli afferma, guarda a tutti i popoli e a tutte le razze come se fossero meritevoli della stessa considerazione. E’ chiaro che parla a nome degli ebrei…Nel trattare di questioni economiche fa riferimento a “nuovi sistemi” che sono un labirinto di false dottrine dai risultati imprevedibili per la società umana. Anche in questo caso egli fa riferimento al nazionalsocialismo, poiché dice che quando l’economia e il lavoro non sono governati dai principi soprannaturali della religione tanto il lavoro che il lavoratori si trovano privati della loro nobiltà…Che questo discorso sia diretto esclusivamente contro il Nuovo Ordine Europeo quale concepito dal nazionalsocialismo risulta chiaro dall’asserzione del papa secondo cui l’umanità è debitrice nei confronti di coloro i quali, durante la guerra, hanno perduto la loro Patria, e di quanti, non per loro colpa ma solo a causa della loro nazionalità e della loro origine, sono stati uccisi o ridotti nella più abietta miseria. Qui egli, virtualmente, accusa il popolo tedesco di ingiustizia nei riguardi degli ebrei e si fa portavoce dei criminali di guerra ebraici»[13] .

Von Ribbentrop, il ministro degli esteri nazista, avallò in toto le considerazioni contenute nel Rapporto del RSHA, che inoltrò all’ambasciatore tedesco in Vaticano, von Bergen, il 24 gennaio 1943, con le seguenti istruzioni:

«Da alcuni sintomi parrebbe che il Vaticano sia disposto ad abbandonare il suo normale atteggiamento di neutralità e a prendere posizione contro la Germania. Sta a Voi informarlo che, in tal caso, la Germania non è priva di mezzi di rappresaglia»[14] .

In risposta a queste istruzioni, il 26 gennaio 1943 l’ambasciatore von Bergen scriveva di aver parlato con Pio XII. Ed ecco il suo resoconto del colloquio:

«Ho conferito con Sua Santità nel senso delineato dalle vostre istruzioni. Quando ho accennato al fatto che i rapporti tra la Germania e la Santa Sede potrebbero essere troncati, con tutto quello che in ciò è implicito, Sua Santità ha osservato dapprima un assoluto silenzio. Poi, nella maniera più calma che sia possibile, mi ha detto che nulla gli importava di quanto potesse accadere alla sua persona, aggiungendo che una lotta tra la Chiesa e lo Stato poteva risolversi soltanto in un modo: con la sconfitta dello Stato. Gli ho risposto che ero di parere contrario. Dissi che Sua Santità, ovviamente, non poteva rendersi conto di quanto i cattolici tedeschi si risentissero dell’atteggiamento antipatriottico del clero cattolico. Un conflitto allo scoperto avrebbe potuto riservare alla Chiesa alcune sgraditissime sorprese, e da un tale conflitto emergerebbe vittorioso soltanto un comune avversario, il bolscevismo. Ho detto al Papa che, a seguito dei succitati motivi, l’atmosfera generale andava ripulita, specie nel senso che le lagnanze del Vaticano dovevano cessare e le direttive della stampa dovevano fasti più moderate di tono, con particolare riguardo all’Osservatore Romano che, giorno più giorno meno, rovesciava fiumi d’inchiostro contro la Germania senza mai nominare, peraltro, la Spagna “rossa” o il Fronte Popolare francese.

A questo il papa rispose che la posizione assunta dall’Osservatore Romano poteva essere spiegata nei termini più semplici: tutto l’interessamento, tutte le cure, tutte le preoccupazioni di quel tempo in seno al Vaticano erano incentrate sulla Germania.

Pacelli non è pi sensibile alle minacce di quanto lo siamo noi.

Nel caso di una rottura aperta con noi, egli calcola che alcuni cattolici tedeschi rinnegheranno la loto Chiesa, ma è fermamente convinto che la maggioranza di essi rimarrà fedele alla sua Fede. Prevede pure che il clero cattolico tedesco riuscirà a farsi coraggio e a predisporsi ai più grandi sacrifici»[15] .

Questo è dunque l’effetto prodotto in Germania dal radiomessaggio di Pio XII del Natale 1942. Il che mostra l’inutilità del dispaccio di Osborne del 29 dicembre 1942, come prova del “silenzio” del Papa.

A Osborne, infatti, il Papa dice di aver già parlato in favore degli ebrei nel suo radiomessaggio natalizio. Quello che conta, pertanto, ai fini della valutazione del “silenzio” di Pio XII, è l’accertamento delle fonti tedesche. E proprio queste fonti ci parlano di un’indignazione nazista, nei duri termini che abbiamo visto. Che altro desiderare?

Osborne parla anche di un dissenso con il Papa. Se non si guarda alle fonti vaticane non si capisce dove Casarrubea e Cereghino vogliano arrivare. Essi vorrebbero per caso provare un dissenso tra Osborne e il Papa in merito a una denuncia aperta dei crimini nazisti? Anche se Osborne fosse in dissenso col Papa, egli avrebbe torto, visto quello che pensano i tedeschi; per i quali la denuncia di Pio XII è stata fin troppo aperta; come ritiene anche un giornale non certo diretto da cattolici, come il New York Times, nel numero del 25 dicembre 1942.

Ma il dissenso tra Osborne e Pio XII? Esso non riguarda il parlare-tacere sui crimini nazisti, bensì  la sorte di Roma. E lo capiamo dal resoconto dell’udienza del 29 dicembre, contenuto nei documenti vaticani.

Da tali documenti si evincono, dell’udienza del 29 dicembre 1942, alcuni importanti elementi:

a)      Osborne consegna al Papa la nota interalleata del 17 dicembre 1942

b)     Osborne suggerisce che il Papa possa appoggiare tale dichiarazione con una pubblica dichiarazione

c)      In mancanza di tale pubblica dichiarazione, il Governo britannico insisterebbe in via urgente sulla necessità che il Papa adoperi la sua influenza, o attraverso una pubblica dichiarazione o per il tramite dei vescovi tedeschi, «per incoraggiare i cristiani tedeschi, e particolarmente i cattolici tedeschi, a fare tutto ciò che è in loro potere per frenare questi eccessi»[16].

Osborne raccomanda al Papa una parola più chiara? Raccomandazione inutile: il Papa ha già trasmesso il suo Radiomessaggio natalizio, suscitando a Berlino i negativi effetti che abbiamo visto. Inutili quindi le esortazioni di Osborne: come il Papa si stia comportando verso i tedeschi sono i tedeschi stessi a dirlo.

Ma allora il «dissenso» tra Osborne e il Papa? Esso non riguarda il parlare o non parlare chiaramente in favore degli ebrei. Ce lo dice lo stessoOsborne, in una nota del 28 dicembre 1942[17]. Il dissenso tra Vaticano e Santa Sede riguarda il possibile bombardamento di Roma[18]. Eden aveva risposto alle lamentele vaticane contro un eventuale bombardamento incaricando il Ministro di Sua Maestà in Vaticano, Osborne, di dire al Papa che il Governo inglese non avrebbe esitato a bombardare Roma, se lo avesse ritenuto utile e conveniente per il corso della guerra. Ogni sforzo, tuttavia, sarebbe stato fatto per preservare nella sua integrità la Città del Vaticano. Al che il Papa aveva obiettato che la richiesta era fatta per Roma, non per la sola Città del Vaticano.

Osborne che chiede al Papa una parola chiara, proprio mentre i tedeschi scrivono che il Papa è stato fin troppo chiaro verso di loro: questa è la situazione.

Strana che questa «ambiguità» o pavidità di Pio XII si trovi comprovata, proprio all’indomani del radiomessaggio natalizio del 1942, da queste parole:

«Prego far sapere oralmente Rabbino Rosenberg New York, essere giunto Santo Padre appello della Unione rabbini ortodossi America et Canada, assicurando che, al riguardo, Santa Sede ha fatto et fa quanto può»[19].

E appelli del genere si moltiplicano[20]; come si motiplicano, da parte ebraica, le espressioni di riconoscenza nei confronti di Pio XII.

5.2 E che cosa dice Osborne, nel secondo documento, quello del 31 dicembre 1942? Narra la reazione euforica dei suoi colleghi al radiomessaggio del 1942. Fra l’altro, tornato sui termini usati nel radiomessaggio del 1942, Osborne si sente dire dal Papa «di aver condannato la persecuzione degli ebrei», senza che lui possa dargli torto.

Condanna indiretta? Non specifica? Non avremmo riserve a giudicarla anche tale se non sapessimo delle reazioni tedesche: a Berlino si pensa, delle parole del Papa, l’esatto contrario di ciò che pensano gli inglesi. E tanto basta.

5.3 Non comprendiamo poi l’esatto valore di documenti come le Note sulla Cooperazione con il Vaticano di Sir Charles Hambro, che Casarrubea eCereghino sbandierano con innocente candore.

Hambro non era un “vaticanista”, non conosceva assolutamente nulla dell’azione della Santa Sede, e tanto meno del lavoro di Osborne in Vaticano. Nel momento in cui egli redige il suo memorandum, sta lavorando in una “Commissione per il sabotaggio dell’acqua pesante” in Norvegia; è nell’Esecutivo del SOE ed è incaricato dei contatti con il suo omologo americano, il capo dell’Office of Strategic Services (OSS: l’antesignano della CIA), il colonnello Donovan.

Nel 1943 Hambro viene ai ferri corti con Donovan (ma anche coi servizi segreti francesi) non solo perché «i navigati funzionari dell’intelligence britannica e del SOE trovavano difficile – se non impossibile – trattare alla pari i giovanotti americani» [21], ma anche per divergenze gravissime su questioni legate all’impostazione delle iniziative in Medio Oriente. Per il resto Hambro si occupa di gestione delle materie prime, ma soprattutto delProgetto Manhattan[22].

Ma ecco un’altra gustosa diversione sull’agente britannico. Charles Hambro, a quanto pare, fu anche un agente segreto alquanto credulone. Egli prestò cieca fede, come altri suoi colleghi dell’intelligence britannica, alla bizzarra teoria di un ungherese, Luis de Wohl (poi assunto dal SOE per far opera di propaganda e tenere conferenze in America), secondo cui Hitler prendeva ogni sua decisione strategica basandosi sull’astrologia, e solo dopo aver consultato il suo astrologo personale, Karl Ernst Krafft[23]. Questo tanto per colorire il personaggio.

Senza tema di smentita, dunque, quando scrive di Vaticano, Hambro si dimostra una penna saccente e in libertà. Ne sa poco, e quel poco che sa, lo sa male.

Solo un talebano alla rovescia (ossia convinto della giustezza del martirio…altrui) può infatti scrivere che «a nostro avviso, un certo livello di martirio sarebbe politicamente utile alla Chiesa cattolica, se ciò servisse a riconquistare la fiducia di Paesi come la Polonia». Follia allo stato puro, condita da furore anticattolico; a riprova di quanto Hambro conosca assai poco e assai male il quadro diplomatico e operativo della Santa Sede e di tutta la Chiesa cattolica in favore delle vittime di guerra (specialmente in Polonia).

Che cosa prova quindi quel documento? Che il Governo britannico tenne conto delle elucubrazioni di Hambro? No di certo.

E infatti Casarrubea e Cereghino ci informano che «qualche giorno dopo il Foreign Office decide di accantonare il piano del SOE [cioè diHambro]». Cadogan è molto scettico su tutta l’operazione, e inoltre bisognerebbe consultare Osborne. E Osborne si mostra del pari scettico.

Quindi l’operazione viene accantonata, anche perché , dato che non si sa chi dovrebbe essere l’alto contatto di Hambro in Vaticano per attuare il suo piano; ed è chiaro che il Foreign Office ritiene l’operazione del tutto irrealizzabile.

Ma questo che cosa proverebbe contro Pio XII?

5.4 E veniamo al riassunto delle opinioni di Weizsäcker, prese dagli archivi americani.

Per la quarta volta Casarrubea e Cereghino non si accorgono che il documento da loro “trovato” è stato già pubblicato, e da tempo. In questo caso, lo ha pubblicato il sottoscritto, esattamente nel 2002[24].

Ma non interessa questo, ora, essendo acclarata la scarsa dimestichezza che i due “studiosi” hanno con le fonti.

Interessano invece altre considerazioni.

Il documento è tratto dalle carte di Fritz Kolbe, un piccolo funzionario del ministero degli esteri tedesco, che decide di passare segretamente al nemico americano, al quale trasmette tantissima documentazione, poi denominata e archiviata con l’iniziale del suo cognome (Kappa).

Kolbe prende il nome in codice di “George Wood” e rende i suoi servigi senza scopi di lucro, retto solamente dalla convinzione che sia ormai necessario abbattere la dittatura hitleriana. La sua credibilità aumenta grazie alle rivelazioni su un caso di fuga di notizie dall’ambasciata britannica ad Ankara, in favore di quella tedesca (“caso Cicero”). Insomma una top-spy story.

Veniamo al documento: tanto per cambiare, Casarrubea e Cereghino ne tagliano parti interessanti. Riecco pertanto il documento in tutto il suo splendore:

«Il Papa è giunto a una decisione circa il suo messaggio natalizio, quest’anno più lungo del normale, e perlomeno ha deciso di tenerne uno. Spera che i nazisti manterranno il fronte militare sul fronte russo ed è ansioso per una pace al più presto possibile, poiché altrimenti il comunismo sarebbe il solo vincitore emergente dalle devastazioni militari. Il sogno del Papa è quello di un’unione dei vecchi paesi civilizzati dell’Occidente con l’isolamento del bolscevismo verso est nello stesso modo in cui Papa Innocenzo XI unificò il continente contro i musulmani e liberò Budapest e Vienna. Egli continua senza successo nei suoi tentativi d’influenzare le potenze occidentali lungo queste linee. I governi britannico e americano non presterebbero ascolto alle sue proposte. Il Vaticano era estremamente contrariato dai risultati delle Conferenze del Cairo e di Teheran. Il Papa sta cercando ancora di vedere se può proseguire nella sua opera per influire sulle potenze occidentali e come dovrebbe procedere. Egli è tenace, maestremamente sensibile laddove il suo prestigio è messo in gioco. Il motivo politico del suo messaggio natalizio sarà distogliere le potenze occidentali dalla formula della resa incondizionata. Egli progetta nel suo messaggio un appello diretto alle coscienze dei popoli, trascurando i loro ostinati governi, nella speranza che i popoli d’America e di Gran Bretagna ne afferrino il senso»[25].

Ora: il quadro schizzato da Kolbe nel suo dispaccio segreto a Washington (presumibilmente frutto di contatti con Weizsäcker) non era del tutto accurato.

Non può trovare conferma, ad esempio, una presunta speranza del Papa che Germania e Russia sovietica continuino a combattere, facendo la prima da baluardo contro l’avanzare del bolscevismo in Europa. Infatti, il testo del discorso (nella parte tagliata da Casarrubea e Cereghino) è un continuo appello alla «pace incondizionata».

In secondo luogo, Pio XII è certamente sospettoso nei confronti di Mosca, soprattutto nella questione della presunta “libertà religiosa” concessa in Unione Sovietica (va ricordato che a Mosca non c’era Gorbaciov, ma un certo Stalin). I documenti ci dicono tuttavia che Washington non comprende a fondo, anche se forse li condivide, questi sospetti, motivati anche dal fatto che i russi hanno sparso la voce di un imminente accordo tra Pio XII e Stalin; così generando comprensibile apprensione nei polacchi[26].

Vero. Gli agenti segreti operanti in Vaticano sanno che il Papa non si fa illusioni sul futuro della libertà religiosa in Russia, libertà che peraltro tocca più da vicino gli ortodossi; ma, dal canto loro, essi sopravvalutano l’apertura di Stalin verso la Chiesa ortodossa russa[27].

Visti i fatti, aveva ragione Pio XII a dubitare della pax religiosa di Stalin; e avevano naturalmente torto gli agenti americani a prestarvi fede. Non ci sembra di poco conto.

5.5 Esaminiamo ora quella che riteniamo a tutti gli effetti una “fola” storiografica: il Papa temeva una vittoria sovietica d pertanto contemplava con favore uno scenario dell’atea Russia debellata da Hitler.

Casarrubea e Cereghino imbastiscono questa teoria citando specialmente dei documenti tedeschi. Prima di vedere che cosa citano, una premessa.

Nel corso della loro missione in Vaticano, i due ambasciatori tedeschi, von Bergen e von Weizsäcker (specialmente il secondo) hanno un solo scopo: quello di accattivarsi le simpatie del Führer da una periferia diplomatica, qual’era per la Germania il Vaticano (Weizsäcker, che non era nazista, vi era stato mandato praticamente in esilio, dopo essere stato addirittura vice-ministro degli esteri). Dimostrare insomma, da quel recesso isolato, circondato dall’Italia fascista prima, e dall’Italia occupata dai nazisti poi, che la loro missione inanellava una serie di successi diplomatici. Vi torneremo fra un momento.

Sia chiaro che qui non è in discussione l’anticomunismo di Pio XII, o la sua paura di Stalin (di Stalin…non di Gorbaciov); qui è in discussione la tesi secondo cui, per questa semplice ragione, Pio XII auspicasse la vittoria di Hitler sui sovietici e la collaborazione fra Potenze democratiche e Germania hitleriana.

Questa, va detto a chiare lettere, è fantastoria: un approccio semplicistico che troppi documenti smentiscono.

Per non citare che due soli esempi, prendiamo i documenti d’archivio britannici.

Il primo documento è un telegramma del 28 ottobre 1942, dell’ambasciatore britannico in Spagna, Sir Samuel Hoare, a Eden. Reduce da un colloquio col Ministro degli esteri spagnolo, Serrano Suñer (la Gran Bretagna intratteneva durante la guerra, com’è noto, normali relazioni diplomatiche col Regime franchista), Hoare così riportava le parole dette da Pio XII al ministro spagnolo, circa l’ipotesi di una vittoria tedesca: «Se i tedeschi vincono, ne conseguirà il più grande periodo di persecuzione che i cristiani avranno conosciuto»[28].

L’altro documento è un promemoria del Foreign Office; anzi, per essere più precisi, è un’interpretazione di Osborne alla seconda enciclica di Pio XII, la Mystici Corporis del 29 giugno 1943. Inviando questa enciclica, anche nel suo testo latino[29], Osborne osservava che alcuni passaggi dell’introduzione erano senza dubbio diretti contro la Germania nazista[30].

Strano modo di compiacere i tedeschi crociati contro i russi, questo di Pio XII («Vedo la crociata, non vedo i crociati», avrebbe detto sarcasticamenteMons. Tardini all’ambasciatore tedesco); ma c’è di più.

Proprio il giorno della promulgazione della Mystici Corporis, il 29 giugno 1943, il Vaticano riceve il seguente messaggio dal Gran Rabbino d’Egitto:

«Gli ebrei egiziani esprimono profonda gratitudine alla Santa Sede per la generosa caritatevole attività continuamente esercitata per la protezione dei loro correligionari europei e per l’alleviamento delle loro sofferenze». Gli ebrei egiziani chiedevano quindi l’aiuto del Papa per gli ebrei internati nel campo di Ferramonti, affinché rimanessero in Italia; lo facevano rivolgendosi alla Santa Sede, «che gli ebrei del mondo considerano il loro protettore storico nell’oppressione»[31].

Di documenti di questo tipo se ne potrebbero citare a iosa. Sono di fonte ebraica, sono conservati in originale, sono pubblicati nella raccolta vaticana, e mai hanno provocato polemiche o smentite da parte di alcuno.

Strano modo vaticano di compiacere i tedeschi, si diceva. Dato che gli archivi britannici, proprio in questo periodo, riportano anche le «proteste del Papa contro il trattamento degli ebrei in Italia settentrionale»[32].

Ciò detto, esaminiamo brevemente le povere pezze d’appoggio di Casarrubea e Cereghino per dimostrare la loro tesi.

L’ambasciatore in Vaticano Diego von Bergen, il 24 giugno 1941, racconta che «un attendibile confidente» gli ha detto che «una personalità di spicco della Segreteria di Stato» ha a sua volta detto che «l’invasione tedesca della Russia non ha meravigliato il Vaticano». A parte il gioco al rimpiattino delle fonti («io dico che tu hai detto che lui ha detto»), tutto ciò che cosa significa?

Sempre von Bergen aggiunge che la Santa Sede ritiene che l’attacco tedesco alla Russia dovrebbe chiarire il nuovo assetto europeo, essendosi anzi temuto che il bolscevismo rimanesse incolume e con accresciuta potenza in Europa. La sconfitta sovietica, insomma, dovrebbe indebolire l’influenza bolscevica nel mondo.

E siamo, per Casarrubea e Cereghino, a cinque casi d’ignoranza delle fonti.

Perché, se avessero visto bene i microfilm ai National Archives di Washington[33], o semplicemente consultato un volume uscito nel 1969[34], i due si sarebbero accorti che von Bergen racconta anche altro.

Ecco il documento di Bergen:

«Nelle alte sfere del Vaticano, si è fatto capire, in risposta alla questione sui motivi di questa riserva [ossia: sul fatto che il Papa, come scrive a Bergenl’allora vice ministro degli esteri tedesco von Weizsäcker, mantiene delle riserve sulla guerra dell’Asse contro la Russia, non unendosi alla “crociata”, con grande disappunto di Hitler] che a giudicare dalla piega presa dagli eventi in Germania e nei t

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[1] Segreteria di Stato, Archivio del Maestro di Camera, Registro 1943. Cfr. anche ADSS, vol. 7, nota 1 a p. 678.

[2] Cfr. ADSS, vol. 7, doc. 442.

[3] Foreign Relations of the United States (d’ora in poi: FRUS), 1943, vol. II, Washington DC, U.S. Government Printing Office, 1964, p. 950, nota 61. Nella stessa paginatrovasi il dispaccio di Tittman.

[4] Andrea Riccardi, Pio XII, Bari-Roma, Laterza 1984. Da ultimo, il tema è stato affrontato in maniera indiretta (ma forse più chiara, parlando dell’ospitalità data agli ebrei) anche da Richard Breitman, che ha lavorato sulle carte dell'Office of Srategic Services (OSS), antesignano della CIA.

[5] ADSS, vol. 10, doc. 388; da confrontare con la nota 1 a p. 449.

[6] Ivi, doc. 361.

[7] Ivi, doc. 361 e nota 1 a p. 449; doc. 368 e nota 1 a p. 454; docc. 369, 370, 371, 375 376, 379, 381, 383, 385 e 386.

[8] Così O. Chadwick, Britain and the Vatican, Cambridge UP, 1986, p. 198. Va ricordato che questo libro si basa proprio sulle carte private di Osborne.

[9]Ivi, pp. 198-199.

[10] Osborne a Eden, 31 ottobre 1943 tel. 400, PRO, Kew, UK: FO 371/37255.

[11] The Times, 20 maggio 1963, in O. Chadwick, Britain and the Vatican, pp. 316-317.

[12] Ivi, pp. 205-206.

[13] Rapporto RSHA del 22 gennaio 1943, Bundesarchiv Berlin, AA, Abteilung Inland, pak. 17, vol. 1, citato in A. Rhodes, Il Vaticano e le dittature 1922-1945, Milano,Mursia 1973, p. 283.

[14] Von Ribbentrop a von Bergen, 24 gennaio 1943, Bundesarchiv Berlin, AA, Büro des Staatssekretärs, vol. VI, citato in A. Rhodes, Il Vaticano e le dittature, cit., p. 283.

[15] Von Bergen a von Ribbentrop, 26 gennaio 1943, Bundesarchiv Berlin, AA, Büro des Staatssekretärs, vol. VI, citato in A. Rhodes, Il Vaticano e le dittature, cit., pp. 283-284.

[16] Osborne alla Segreteria di Stato, 29 dicembre 1942, ADSS, vol. 8, doc. 577.

[17] ADSS, vol. 6, doc. 77.

[18] Xfr. Mons. Godfrey a Eden, 6 dicembre 1942, Segreteria di Stato, Archivio Delegazione Apostolica di Londra, HG 116 FO.

[19] Maglione al Delegato Apostolico a Washington, Cicognani, 28 dicembre 1942, ADSS, vol. 8, doc. 575.

[20] ADSS, vol. 8, nota 1 a p. 756.

[21] Così W. B. Breuer, Deceptions of World War II, New York, Wiley 2001, p. 168.

[22] Cfr. Bob Moore, Resistance in Western Europe , Oxford, Berg 2000, p. 235; per un quadro più romanzato: W.B. Breuer, Top Secret Tales of World War Two, New Yok,Wiley&Sons 2000, p. 134.

[23] Cfr. Hitler's Horoscope, in “History Today”, vol. 58, 5: May 2008, p. 3.

[24] M.L. Napolitano, Pio XII tra guerra e pace. Profezia e diplomazia di un papa (1939-1945), Roma, Città Nuova 2002, p. 239.

[25] NARA, RG 226, Records of the Office of Strategic Service: Events at the Vatican, Boston Series No. 10, Box G-2/File X-2.

[26] Cfr. ADSS, vol 7, docc. 503 e 505.

[27] Special Black Report No III #28: The Pope and Russia, allegato al Memorandum di William J. Donovan per il Presidente. NARA, RG 226, MI1642, OSS Archives Records of the OSS Washington’s Director Office, Roll 24, 735-746.

[28] Hoare a Eden, 28 ottobre 1942, PRO, FO 371/33412, citato in A. Rhodes, Il Vaticano e le dittature 1922-1945, Milano, Mursia, 1973, p. 284

[29] Il testo latino dell’Enciclica trovasi in PRO, FO, R6565/158/57.

[30] Osborne a Eden, 29 giugno 1943, PRO, FO, R12445/158/57.

[31] ADSS, vol. 9, doc. 247.

[32] PRO, FO, 12965/4200/22. Cfr. anche Index to the Correspondence of the Foreign Office, part. IV, Kraus, Neldeln, 1972, p. 520.

[33] NARA, RG 59, Roll 535, ff. 240042-240043.

[34] ADSS, vol. 5, p. 11.

[35] Cfr ADSS, vol. 2, pp. 49 ss.

[36] ADSS, vol. 4, doc. 428.

[37]  Note del Cardinal Maglione, 10 settembre 1941, ADSS, vol. 5, doc. 69.

[38] H. Tittman Jr., Inside the Vatican. The Memoirs of an American Diplomat during World War II, New York, Doubeday, pp. 56-68.

[39] ADSS, vol. 4, doc. 430.

[40] Nota del Cardinal Maglione, 16 ottobre 1943, ADSS, vol. 9, doc. 368.

[41] Von Weizsäcker a von Ribbentrop, 17 e 28 ottobre 1943, in Saul Friedländer, Pio XII e il Terzo Reich, Milano Feltrinelli, 1964, p. 186-187.

[42] J. Nobécourt, Il “Silenzio”di Pio XII, in Dizionario storico del Papato, Milano, Bompiani 1996, p. 1188.

[Tratto da: http://vaticanfiles.splinder.com/]

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