A 30 anni dall'eccidio di via Fani e dal rapimento dello statista, ucciso dalle Br, il richiamo a un «nuovo senso del dovere» di Paolo Bustaffa (Sir)
«Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere».
Parole che hanno attraversato gli ultimi trent'anni della storia italiana e sono ancora vive, anzi hanno ancor più spessore morale, culturale e politico.
Aldo Moro le aveva poste al centro di uno dei suoi ultimi discorsi con quella "intelligenza degli avvenimenti" che aveva sostanziato la sua esperienza culturale e politica.
Oggi, a trent'anni da una tragedia in cui mani assassine distrussero altre cinque vite (Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) si ritorna a riflettere su quel "nuovo senso del dovere". Non per contrapporre la stagione dei diritti a quella dei doveri ma per riaffermare che l'una non può essere senza l'altra e che solo se insieme le due stagioni possono risanare la democrazia, riabilitare la politica, realizzare il bene comune.
In questa prospettiva si collocava il richiamo di Moro a scelte coraggiose e lungimiranti di fronte alle frontiere sociali e culturali che si aprivano. Aveva colto, in particolare, i segni che anticipavano la crisi profonda nel rapporto tra società e politica, tra cittadini e istituzioni, tra esperienze sociali spontanee e partiti. Non ne era affatto scoraggiato, sapeva che una crisi è un passaggio difficile e sofferto ma non è la fine di tutto.
«No - confermava nei suoi ultimi scritti - non sono un pessimista, vedo che tutto questo, anche se può in qualche misura tralignare, è il cammino dell'uomo, un andare più in alto e avanti... So che, pur con distorsioni ed errori, per i quali si paga talvolta un alto prezzo, avanza nella nostra epoca una nuova umanità, più ricca di valori, più consapevole dei suoi diritti, più impegnata nella vita sociale».
Il realismo cristiano accompagnava un'intelligenza che non temeva la complessità, neppure quella politica, ma la amava.
«Il fenomeno sociale che prima alimentava e muoveva, attraverso distinti canali, i partiti - osservava Moro - oggi si amplia, si approfondisce, diventa in una certa misura influente per se stesso e si sviluppa al di là dei partiti, con una spinta non differenziata, più mirando all'unione che non alla divisione».
In questo contesto la crisi della forma Partito era ben visibile ma non ne era angosciato, sapeva che il passaggio al "nuovo" avrebbe richiesto uno straordinario supplemento di pensiero e d'anima. Diversamente si sarebbe spalancata la porta al qualunquismo, all'antipolitica, all'affarismo.
«Al Partito forza e struttura - sottolineava - si va sostituendo il Partito idea, il Partito che accende e utilizza l'intelligenza delle cose nelle masse di popolo sempre più vaste e sempre più partecipi, quali protagoniste della vicenda politica. L'intelligenza che può dominare gli avvenimenti forse non è più concentrata in un solo luogo sociale, forse è diffusa in un maggior numero di livelli dell'essere sociali».
Non si trattava dunque di cancellare il Partito ma di progettare un altro modo di essere del Partito e del suo interloquire con la società.
La difficoltà e la sfida che Moro coglieva riguardavano le persone, le modalità, i linguaggi, i tempi per mettere in comunicazione i diversi livelli della partecipazione perché insieme concorressero alla ricerca e alla realizzazione del bene comune. Pensieri che allora e in anni successivi sembrarono peregrini, fuori dalla realtà, inattuali. La storia e la cronaca non offrono però elementi a sostegno di questa valutazione.
«Oggi Moro - commentava anni addietro Mino Martinazzoli - sta in una inattualità, in una distanza, rispetto ad una interpretazione bassa, rassegnata, subalterna, del gesto della politica. E oserei dire che siccome però non è vero che la politica non conta, che non è vero che soltanto le ragioni della tecnica e dell'economia potranno in alcun modo garantire e rassicurare il nostro destino, è proprio esprimendo un tanto di fedeltà a questa inattualità di Moro, che possiamo conservare un poco di memoria e di futuro». Dominare con intelligenza gli avvenimenti è l'eredità di Moro: che non sia politicamente una consegna inattuale dipende sempre più dalle nuove generazioni alle quali le generazioni adulte devono però restituire memoria e futuro.
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