In Italia sono 60 i bambini sotto i 3 anni che vivono in carcere con le mamme
Il mondo dei piccoli dietro le sbarre
di Federica Fantozzi
Un portone nero si apre, una ragazza in cappottino spinato lo varca. Dietro trova murales di fiori, Cenerentole e Dumbo. È un mondo a parte, quello dei bambini che vivono in prigione con le mamme detenute. Piccolissimi: a 3 anni vengono «scarcerati». Sono 60 in Italia, 20 nella sezione femminile di Rebibbia a Roma.
Di questi si è occupata la ragazza col cappottino: Luisa Betti, giornalista, autrice della video-inchiesta «Il carcere sotto i 3 anni». Immagini di bambini vivaci, timidi, prepotenti come Sabrina che non vuole far sedere l'amichetta, sfrontati: come ti chiami? «Al Capone a due anni». Testimonianze di mamme, giovanissime, autrici di piccoli reati ma anche espressione di disagio sociale: «Cosa do da mangiare a lui - una ragazza indica il neonato in braccio - Non ho lavoro. Vado a rubare. Per forza». In maggioranza rom e immigrate: a 30 anni hanno 7-8 figli, e il padre, da solo, non è in grado di gestirli. Eugenia Fiorillo è un'educatrice del nido creato a Rebibbia: «Finché il bimbo è qui la relazione con la madre è salvaguardata. Ma i fratellini più grandi sono fuori, c'è una separazione». Lacerante e sempre viva nei cuori materni.
È la domanda centrale: meglio che un piccolino stia con la madre in un ambiente ostile o viva in libertà senza la sua mamma nei primi anni di vita? Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile, intervenuto alla presentazione del documentario, non ha dubbi: «Ho grande rispetto per la giustizia, ma il bambino è sacro. Genitori, giudici, padreterno: tutti devono fare i conti con lui». Bollea parla di «diritto primitivo», vorrebbe le mamme ai domiciliari o almeno i bimbi fuori fino a sera: «I loro occhi non esprimevano felicità né speranza, solo sofferenza anche se la mamma li prendeva in braccio».
Emilio Di Somma, vicecapo del Dap, fa i conti con l'amara realtà: «Per lo Stato, la giustizia, la sicurezza, la burocrazia, un bambino non è protagonista ma un accidente. È un dramma affrontato periodicamente con aggiustamenti e palliativi». Gabriella Pedote, vicedirettrice di Rebibbia, è una giovane donna dall'aria gentile e appassionata, con due figli piccoli: «Conosco le storture del sistema ma sono orgogliosa del nostro asilo. Cerchiamo di non ferire troppo nè mamme né bimbi. Non è giusto che crescano in carcere, ma ne approfittiamo per far crescere le detenute come madri».
Tra le voci dell'inchiesta c'è Lucia Zainaghi, direttrice di Rebibbia, che spera in più flessibilità dei magistrati: «Ora la misura del lavoro esterno è prevista anche per accudire i figli». Eppure, i margini di incertezza sono tanti. La detenzione domiciliare è discrezionale. La casa famiglia è un sogno. Occorre coniugare diritti dei minori e sicurezza: «Si può essere madre e fior di delinquente» sintetizza Di Somma.
Una brutta pagina è quando una mamma, preoccupata perchè il figlioletto ha la febbre alta, non viene creduta e dà in escandescenze. «E' stata trattata da squilibrata, per fortuna l'ospedale ha rifiutato il ricovero coatto. Ogni madre sa capire se qualcosa non va, è l'istinto». La storia di Barbara è triste e assurda: in carcere da 6 mesi per un reato commesso 10 anni fa, da tossicodipendente. Intanto si è rifatta una vita, ha due figlie: Aurora, di 4 anni, a casa col padre; Gaia, 2, con lei. «È cambiata, confusa, mi chiede dov'è la sorella». Barbara ottiene i domiciliari, ma al primo giorno di asilo tarda mezz'ora e glieli revocano: «Sono venuti a prendermi e hanno sbattuto la porta in faccia ad Aurora. Io l'ho riaperta, ho salutato mia figlia. Poi, andando via, ho sentito il pianto».
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venerdì 30 maggio 2008
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