domenica 4 aprile 2010

[ZI100404] Il mondo visto da Roma

ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 04 aprile 2010

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Santa Sede


Benedetto XVI: il Battesimo è l'elisir di vita eterna
Nella Veglia di Pasqua, battezza cinque adulti e un bambino russo

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- L'elisir di lunga vita o dell'immortalità, che l'uomo cerca da tempi immemorabili, esiste, ha assicurato Benedetto XVI nella Veglia di Pasqua, ed è il Battesimo.

Nella “madre di tutte le vigilie”, il Pontefice ha amministrato questo sacramento a sei catecumeni: quattro donne (due dall'Albania, una dalla Somalia e una dal Sudan), un giapponese, e un bambino russo di cinque anni.

“Sì, quest’erba medicinale contro la morte, questo vero farmaco dell’immortalità esiste – ha affermato il Papa nella sua omelia –. È stato trovato. È accessibile. Nel Battesimo questa medicina ci viene donata”.

“Una vita nuova inizia in noi, una vita nuova che matura nella fede e non viene cancellata dalla morte della vecchia vita, ma che solo allora viene portata pienamente alla luce”, ha detto ancora il Santo Padre.

La Veglia pasquale ha avuto inizio con il “lucernario” nell’atrio della Basilica di San Pietro, cioè con la benedizione del fuoco nuovo e l’accensione del cero pasquale.

Durante l'omelia, il Pontefice ha spiegato che “anche oggi gli uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita sempre migliore e più lunga”.

A questo proposito, si è chiesto, “come sarebbe veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona?”.

“L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più posto – ha osservato –. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna”.

“La vera erba medicinale contro la morte dovrebbe essere diversa – ha continuato –. Non dovrebbe portare semplicemente un prolungamento indefinito di questa vita attuale. Dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro. Dovrebbe creare in noi una vita nuova, veramente capace di eternità: dovrebbe trasformarci in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa in pienezza”.

“Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste – ha concluso –. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita”.



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La Chiesa sta col Papa, assicura il Cardinal Sodano
"Noi ci stringiamo intorno a Lei", afferma nella Domenica di Pasqua

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, negli auguri per la Pasqua rivolti questa domenica a Benedetto XVI ha assicurato che la Chiesa è particolarmente vicina al Santo Padre in mezzo alla campagna di critiche sollevata dai mezzi di comunicazione.

All'inizio della Messa presieduta dal Papa a piazza San Pietro, il porporato, già Segretario di Stato vaticano, ha detto: “noi ci stringiamo intorno a Lei”.

“Le siamo profondamente grati per la fortezza d’animo ed il coraggio apostolico con cui annunzia il Vangelo di Cristo”, ha affermato.

“E’ con Lei il popolo di Dio che non si lascia impressionare dal 'chiacchiericcio' del momento, dalle prove che talora vengono a colpire la comunità dei credenti”, ha sottolineato.

“Con Lei sono i Cardinali, Suoi Collaboratori nella Curia Romana. Con Lei sono i Confratelli Vescovi sparsi per il mondo, che guidano le tremila circoscrizioni ecclesiastiche del pianeta. Sono particolarmente con Lei in questi giorni quei quattrocentomila sacerdoti che servono generosamente il popolo di Dio, nelle parrocchie, negli oratori, nelle scuole, negli ospedali e in numerosi altri ambienti, come pure nelle missioni, nelle parti più remote del mondo”.

Il Cardinale Sodano ha quindi richiamato quanto ricordato dal Papa, Giovedì scorso nella Santa Messa per la Benedizione degli Oli Santi, nel descrivere l’atteggiamento di Cristo durante la sua Passione: “insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia”.

“In questa Solennità pasquale – ha concluso il Cardinal Sodano – noi pregheremo per Lei, perché il Signore, Buon Pastore, continui a sostenerla nella Sua missione a servizio della Chiesa e del mondo”.

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Padre Cantalamessa non voleva urtare gli ebrei
Chiarimento dopo le polemiche sulla predica di Venerdì Santo

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il predicatore del Papa, padre Raniero Cantalamessa OFM, non aveva l'intenzione di ferire la sensibilità degli ebrei nella predica del Venerdì Santo nella Basilica Vaticana, e se così è stato, con umiltà chiede perdono.

Il frate cappuccino, nella celebrazione della Passione del Signore, alla presenza di Benedetto XVI, aveva citato un passaggio di una lettera ricevuta da un amico ebreo. Nella lettera l'autore affermava di vedere negli attacchi che i media hanno scatenato in queste ultime settimane contro il Papa e la Chiesa alcuni degli “aspetti più vergognosi dell'antisemitismo”.

Successivamente, alcuni mezzi d'informazione hanno presentato la predica di padre Cantalamessa con il titolo “Contro il Papa e la Chiesa, campagna di odio come antisemitismo”, suscitando così dure critiche da parte di esponenti del mondo ebraico.

In risposta a queste dichiarazioni, padre Cantalamessa ha affermato: “Se, contro ogni mia intenzione, ho urtato la sensibilità degli ebrei e delle vittime della pedofilia, ne sono sinceramente rammaricato e ne chiedo scusa, riaffermando la mia solidarietà con gli uni e con gli altri”.

“Una cosa devo precisare – ha aggiunto il predicatore della Casa Pontificia –: il Papa non solo non ha ispirato, ma, come tutti gli altri, ha ascoltato per la prima volta le mie parole durante la liturgia in San Pietro. Mai qualcuno del Vaticano ha preteso di leggere in anticipo il testo delle mie prediche, cosa che ritengo un grande atto di fiducia in me e nei media”.

Il frate cappuccino ha così spiegato al Corriere della Sera la vera intenzione della sua citazione: “Quest’anno la Pasqua ebraica cade nella stessa settimana di quella cristiana. Questo ha fatto nascere in me, prima ancora di ricevere la lettera dell’amico ebreo, il desiderio di far giungere ad essi un saluto da parte dei cristiani, proprio dal contesto del Venerdì Santo che è stato sempre purtroppo un’occasione di contrasto e, per loro, di comprensibile sofferenza...”.

“Ho inserito la lettera dell’amico ebreo solo perché mi sembrava una testimonianza di solidarietà nei confronti del Papa così duramente attaccato in questi tempi. La mia era dunque un’intenzione amichevole, tutt’altro che ostile”, ha continuato.

“L’amico ebreo, un italiano molto legato alla sua religione, nella sua lettera mi autorizzava a dire anche il suo nome. Sono io che ho ritenuto opportuno non coinvolgerlo direttamente, e tanto più lo ritengo ora”, ha raccontato poi.

Venerdì Santo, dopo la predica, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi S.I., ha precisato che “avvicinare gli attacchi al Papa per lo scandalo della pedofilia all’antisemitismo non è la linea seguita dalla Santa Sede”.

“Padre Cantalamessa – ha spiegato ancora – ha solo voluto rendere nota la solidarietà al Pontefice espressa da un ebreo, alla luce della particolare esperienza di dolore subita dal suo popolo. Ma è stata una citazione che poteva dare adito a malintesi”.

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Portavoce vaticano: la ricostruzione del "caso Teta" è fuorviante
Padre Lombardi interviene su un caso di abusi di un sacerdote della diocesi di Tuscon
ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- La presentazione fatta recentemente da alcune testate del “caso Teta”, un caso drammatico di abusi da parte di un sacerdote della diocesi di Tuscon in Arizona negli anni 70, “è fuorviante”.

E' questo il commento del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi.

Dalla documentazione sul caso, afferma in una nota il sacerdote gesuita, risulta “con chiarezza e certezza che i responsabili della Congregazione per la Dottrina della Fede – a cui la diocesi si era rivolta trattandosi di un caso che riguardava il crimine di “sollecitazione” nel Sacramento della Penitenza – si sono più volte interessati attivamente nel corso degli anni 90”.

E ciò, si legge, “perché il processo canonico in corso nella diocesi di Tucson fosse portato a termine debitamente”. Cosa che avvenne nel 1997, “con sentenza di riduzione allo stato laicale”.

Ciò, spiega la nota, “è stato già confermato con precisione in risposta alle domande della stampa locale dal vescovo di Tucson, mons. Kicanas, anche tramite la pubblicazione delle lettere provenienti dalla stessa Congregazione”.

Il reverendo Teta, ricorda il direttore della Sala Stampa, “presentò però appello contro la sentenza e il suo ricorso pervenne al Tribunale della Congregazione quando era stata già avviata la revisione delle norme canoniche precedentemente in vigore”.

Gli appelli rimasero perciò “pendenti fino all’entrata in vigore della nuova legislazione nel 2001, che porta tutti i casi di ‘delitti più gravi’ sotto la competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede per una trattazione più sicura e rapida”.

Dal 2001, ricorda padre Lombardi, “tutti gli appelli pendenti furono tempestivamente trattati, e quello del caso Teta fu uno dei primi ad essere discusso”. Ciò “richiese del tempo, anche perché la documentazione prodotta era particolarmente voluminosa”.

In ogni caso, sottolinea il comunicato, “la sentenza di primo grado venne confermata ‘in toto’, con la conseguente riduzione a stato laicale nel 2004”.

“Non si deve dimenticare – conclude padre Lombardi – che anche quando gli appelli rimangono pendenti e la sentenza è sospesa, sono in vigore le misure cautelative imposte dal vescovo all’imputato. Infatti il reverendo Teta era già sospeso dall’anno 1990”.

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Notizie dal mondo


"Sinfonia" di cattolici e ortodossi per celebrare la Pasqua a Gerusalemme
Il Patriarca latino Fouad Twal vede in questa data comune un motivo di allegria
GERUSALEMME, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il caos provocato quest'anno dalla grande affluenza di pellegrini a Gerusalemme, in occasione della celebrazione della Pasqua nella stessa data da parte di cattolici e ortodossi, è stato per il Patriarca latino un motivo di allegria.

“Quest’anno, poi, la nostra gioia è doppia. Noi tutti, pastori e fedeli delle diverse chiese, celebriamo l’unica Pasqua nel medesimo giorno e nello stesso luogo. E’ la stessa voce”, ha affermato Sua Beatitudine Fouad Twal, nell'omelia per la domenica di Pasqua, celebrata nella Basilica del Santo Sepolcro.

La Chiesa cattolica e in genere i cristiani dell'Occidente seguono il calendario gregoriano, riformato da Papa Gregorio XIII nel 1582, mentre le Chiese orientali seguono l'antico calendario detto giuliano, perché stabilito da Giulio Cesare nell'anno 46 a.C.

L'esistenza di due calendari spiega come mai la Pasqua venga spesso celebrata dalle due Chiese in date diverse.

Anche la Pasqua ebraica si celebra in questi stessi giorni e si concluderà nella sera di lunedì.

Le celebrazioni nella Basilica del Santo Sepolcro vengono organizzate nei minimi particolari per evitare frizioni tra le diverse comunità cristiane che rendono culto in questo luogo (ortodossa, greca, cattolica romana, apostolica armena, copta, ortodossa siriaca e ortodossa etiope).

Davanti alla grande folla di pellegrini, il Patriarca ha riconosciuto che “qualcuno potrà forse essere disturbato dalla sovrapposizione di preghiere e di canti che si odono nello stesso tempo e nei diversi riti”.

“Quest’apparente cacofonia, tuttavia, vissuta nella fede, diventa una sinfonia che esprime l’unità della fede e della celebrazione gioiosa della vittoria del Signore sul male e sulla morte, di Colui che risorse il terzo giorno proprio da questo sepolcro. Sì, siamo la Chiesa del Calvario, la Chiesa della Tomba vuota e della Risurrezione gloriosa!”, ha assicurato.

I pellegrini cristiani giunti dall'Oriente per la Pasqua hanno partecipato questo sabato nel Santo Sepolcro a un rito che si tramanda da secoli detto del “fuoco sacro” e presieduto dal Patriarca ortodosso greco Teofilo III.

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Interviste


"Testimoni digitali" di Cristo risorto
Intervista a mons. Pompili, Direttore dell'Ufficio per le comunicazioni sociali della CEI

di Jesús Colina

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa cattolica in Italia cerca “testimoni digitali” di Cristo risorto: ecco l'obiettivo del prossimo convegno nazionale che si terrà a Roma (www.testimonidigitali.it) dal 22 al 24 aprile, a otto anni dalle Parabole mediatiche”.

Il convegno è promosso dalla Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali ed è organizzato dall’Ufficio per le comunicazioni sociali e dal Servizio nazionale per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

In questa intervista, mons. Domenico Pompili, Direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, spiega a ZENIT cosa si gioca la Chiesa con questo convegno.

Il convegno “Testimoni digitali” si pone sulla scia di “Parabole mediatiche”, svoltosi a Roma nel 2002. Come è cambiato in questi otto anni il mondo della comunicazione? Quali nuove sfide lancia alla Chiesa e alla sua missione di salvezza?

Mons. Domenico Pompili: E’ vero, ‘Testimoni digitali’ rimanda ad un altro convegno nazionale promosso dalla Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali della CEI già nel 2002: ‘Parabole mediatiche: fare cultura nel tempo della comunicazione’. Quello fu un importante momento di verifica per la Chiesa Italiana che si stava misurando con gli Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000, ovvero ‘Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia’. ‘Testimoni digitali’, nel 2010, rappresenterà invece una sorta di passaggio tra il primo e il secondo decennio del nuovo millennio, che sarà dedicato ad approfondire il tema della sfida educativa. E mentre il mondo della comunicazione continua a trasformarsi con una velocità senza precedenti, anche la missione della Chiesa si sta rapidamente evolvendo.

Oggi non basta più soltanto “stare” dentro il mondo dei nuovi media, “occuparlo”; bisogna starci con un profilo riconoscibile perché il contesto pluralistico nel quale ci troviamo esige che siamo chiaramente riconoscibili. La Chiesa è chiamata a comunicare, anche attraverso le nuove tecnologie, il suo sguardo assolutamente originale sulla realtà: lo sguardo della fede. Internet diventerà sempre più un luogo in cui l’annuncio del Vangelo trova cittadinanza, oltre che un “cortile dei gentili” per incontrare i lontani, nella misura in cui noi cristiani sapremo starci “da cristiani” e sapremo passare dallo stare in rete all’essere rete, prima di tutto tra di noi. 

Nel suo messaggio per la prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali Benedetto XVI afferma: “la diffusa multimedialità e la variegata 'tastiera di funzioni' della medesima comunicazione possono comportare il rischio di un’utilizzazione dettata principalmente dalla mera esigenza di rendersi presente e di considerare erroneamente il web solo come uno spazio da occupare”. Cosa proporrà questo convegno per evitare questo pericolo?

Mons. Domenico Pompili: Direi che il richiamo del Santo Padre trova nella Chiesa Italiana un ascoltatore particolarmente attento. Come dicevo lo sforzo di stare in Rete con un profilo riconoscibile e, ancor più, di riuscire ad “essere rete” è già attivo da tempo. Ma vorrei dire di più: alla Chiesa non sfugge che la possibilità offerta dall’innovazione tecnologica di comunicare in modo sempre più veloce e diffuso sia un bene straordinario per tutta l’umanità, che come tale va però promosso e tutelato. Quanto più potenti sono i mezzi di comunicazione, tanto più devono essere forti la coscienza etica e la preparazione di chi in essi opera. È necessario pertanto che la comunicazione ‘sociale’ non sia considerata solo in termini economici o di potere ma sia inserita in un orizzonte di beni di primaria importanza per il futuro dell’umanità come il cibo, l’acqua, le risorse naturali, le infrastrutture viarie, l’istruzione e la formazione.

L’apparato comunicativo della Chiesa italiana, che annovera un quotidiano, un’agenzia di informazione, una TV e una radio nazionali oltre ad una fitta rete di radio, tv e giornali locali, è guardato con ammirazione da molti altri paesi e comunità cattoliche del mondo. Sentite il peso di questa responsabilità? Cosa produrrà il convegno di aprile per i prossimi anni?

Mons. Domenico Pompili: Posso dire con serenità che la comunione ecclesiale e la missione evangelizzatrice della Chiesa trovano nei media un campo privilegiato di espressione non da oggi. Per dimostrarlo basterebbe tornare con la memoria ai tempi dell’evangelizzazione apostolica, della conservazione e trasmissione del patrimonio classico assicurata dagli amanuensi nel Medioevo, dell’impulso dato dalle committenze ecclesiali alle arti nel Rinascimento. Ma limitiamoci alla storia recente: dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha assunto ancor più coscienza di quanto sia importante coniugare gli ambiti della vita ecclesiale con la nuova realtà culturale e sociale. Le iniziative avviate in questi anni in Italia per raccordare e promuovere la comunicazione ecclesiale e per rendere più incisiva la presenza nei media non si contano. Avvenire, TV 2000, Radio Inblu, l’agenzia SIR sono il fiore all’occhiello di una realtà che può contare su quasi 200 settimanali diocesani e almeno altrettante tra radio e tv locali. Naturalmente è proprio qui che si colloca anche l’impegno di promuovere il ruolo e la formazione di tutti i comunicatori, ovunque essi operino. Ed è questo che si propone innanzitutto il convegno del 22-24 aprile: rilanciare l’impegno culturale e lo sforzo formativo per le nuove generazioni di animatori della cultura e della comunicazione. 

Il nome di Nicholas Negroponte è certamente di primissimo piano nel panorama mondiale degli esperti di mass media e la sua presenza a “Testimoni digitali” desta già ora una grande curiosità. Quale sarà il suo ruolo nell’economia del convegno?

Mons. Domenico Pompili: Il convegno di Roma intende proporre un confronto tra gli esperti e i protagonisti di questo nuovo scenario digitale, dal guru del Medialab Nicholas Negroponte ai tanti operatori ecclesiali che nella pastorale utilizzano quotidianamente e-mail, web, social network… La presenza di Negroponte, ne siamo consapevoli, contribuisce ad accrescere l’appeal di “Testimoni digitali” e la curiosità anche internazionale intorno all’evento, ma certamente non ne esaurisce i motivi di interesse. Vogliamo approfondire la natura del legame tra vita online e vita reale, nella convinzione che tra reale e virtuale spesso viene raccontata una contrapposizione che non necessariamente deve esserci, purché ovviamente la presenza in rete sia vissuta correttamente.

La manifestazione sarà articolata in quattro fasi. In un primo momento, introdotto dal Segretario Generale della CEI mons. Crociata e centrato proprio sulla relazione di Negroponte, si cercherà un’analisi tecnologica dei nuovi scenari mediatici, che in un secondo momento saranno invece esaminati da un punto di vista antropologico (con la presentazione di una ricerca curata appositamente per “Testimoni digitali” dall’Università Cattolica). L’obiettivo si sposterà poi su come i volti e i linguaggi dell’era cross-mediale interpellino l’annuncio del Vangelo da un punto di vista teologico, pastorale e pedagogico: a tirare le fila di questo momento sarà la relazione del cardinale Presidente, Bagnasco. In conclusione, infine, Benedetto XVI riceverà in udienza i partecipanti al convegno nell’aula Paolo VI e conferirà loro il mandato di evangelizzare il continente digitale. Durante tutto il convegno (e fin da ora attraverso il sito www.testimonidigitali.it) tutti sono invitati a contribuire in modo interattivo alla riflessione.


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Nasce dalle Regioni l'opposizione alla Ru486
Intervista al dott. Renzo Puccetti, segretario di "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno

 

di Antonio Gaspari

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Appena concluse le elezioni regionali il neo-governatore del Piemonte, seguito dal governatore del Veneto, ha dichiarato di volersi opporre alla pillola abortiva Ru486; i colleghi della Campania e del Lazio si sono espressi per un uso in ospedale in regime di ricovero ordinario. Ne sono scaturite polemiche molto accese.

Per cercare di comprendere il senso e le finalità del dibattito in corso ZENIT ha intervistato il dott. Renzo Puccetti, membro dell'Unità di Ricerca della European Medical Association, specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato “Scienza & Vita” di Pisa-Livorno.

Qual è la sua valutazione circa l’opposizione di alcuni governatori alla distribuzione della pillola Ru486?

Puccetti: Estremamente positiva. Le dichiarazioni del presidente del Piemonte sono dettate dal sovrapporsi dell’inizio della fase di distribuzione con l’attesa per linee-guida applicative a livello nazionale, assieme a decisioni della giunta non confermata di prevedere l’uso del prodotto in regime di day-hospital. Mi pare logico che il neo-governatore inviti i direttori delle ASL e degli ospedali ad attendere prima di avviare un percorso di aborto chimico che sarà quasi certamente cambiato entro pochi giorni. Nelle altre regioni i governatori entranti si sono espressi per un protocollo abortivo rispettoso della legge.

Tutto qui? Molto rumore per nulla?

Puccetti: No, no. Le parole dell’onorevole Cota, benché per ora solo una dichiarazione d’intenti, sono estremamente importanti sotto un profilo bioetico.

In che senso?

Puccetti: Sono parole che esprimono una netta posizione a favore della vita. Da candidato e alla luce del sole il governatore Cota assieme a ben quattro garanti prima delle elezioni aveva stipulato un patto per la vita e per la famiglia articolato in sei punti, uno dei quali espressamente dedicato alla questione della Ru486. Gli elettori sapevano ed hanno scelto. Dimostrare coerenza programmatica è un indicatore di serietà. Ma le parole del neo-governatore del Piemonte sono importanti anche sotto altri aspetti.

Quali?

Puccetti: Esse testimoniano come il principio del rispetto della vita umana possa con diritto essere espresso nel confronto pubblico, contro quella visione malata che intende mantenere confinato nel privato il credo religioso ed il conseguente codice etico della persona impegnata in politica. Esprimere pubblicamente la contrarietà al diritto di aborto costituisce una salutare sveglia dal torpore in cui in molti rischiano di cadere per colpa di tatticismi, convenienza, ignoranza e purtroppo talora ignavia. Bisogna sempre cercare di ricordarsi che professarsi cattolico, anche in politica significa vivere nel mondo, ma senza mischiarsi con esso, conformarsi alla sua mentalità, impone di gridare sui tetti la stessa verità che si afferma nel privato.

Ma si ripete spesso che la legge 194 è una legge dello Stato e come tale va rispettata.

Puccetti: Battersi per l’abrogazione delle leggi abortiste è una prospettiva che non può, né deve essere dimenticata. Leggi ingiuste, leggi che negano il diritto primario alla vita cessano di essere obbliganti. Badi bene, non si tratta di una prospettiva puramente religiosa. La distinzione evangelica tra quello che è di Cesare e quello che appartiene a Dio implica il rispetto della vita da parte delle autorità umane, dal momento che anche il più incallito laicista avrebbe non poche difficoltà a dimostrare che la vita umana proviene da Cesare. Il non credente che accolga la prospettiva laica a difesa della dignità inalienabile ed incondizionata di ogni essere umano giunge alle stesse conclusioni.

Ma in molti hanno visto nella legalizzazione dell’aborto un mezzo per evitare guai peggiori, come gli aborti clandestini, le donne morte o menomate per tali pratiche, la gravidanza dopo uno stupro. Come risponde?

Puccetti: Abbiamo una vasta esperienza di numerosi orrori di cui deve essere conservata memoria e da cui trarre l’insegnamento per l’oggi. Schiavismo, tortura dei prigionieri di guerra, sperimentazione selvaggia sugli esseri umani, discriminazione razziale hanno potuto trovare giustificazione adottando prospettive etiche utilitaristiche, consequenzialistiche, o libertarie, ma tali giustificazioni non ne hanno mutato la natura barbarica, trasformandole in bene, piuttosto sono sempre state riconosciute come delitti e come tali sono state condannate in base a due principi:

1) ogni essere umano, a prescindere da ogni sua qualità, è portatore di diritti inalienabili (a partire dal diritto alla vita) e negarlo è un grave male;

2) quello che costituisce un grave male deve essere vietato dalla legge.

Ogni legislazione abortista, in misura più o meno accentuata, contraddice questi due principi, distingue esseri umani di serie A e di serie B sulla base delle dimensioni, della dipendenza, della capacità di comunicare. Se si riconosce l’aborto come male, lo si deve dichiarare proibito; se invece esso diventa lecito, a poco a poco finisce per essere percepito come bene. Il rispetto delle persone attraverso cui questa lotta per la verità deve passare non può fare velo alla verità dell’aborto come delitto. Il fatto che nel mondo secolarizzato ciò sia considerato un diritto e come tale riceva un vasto consenso non è qualcosa di inedito e non deve spaventare oltre un certo limite: legislazioni che negavano i diritti fondamentali in molti contesti hanno goduto dell’appoggio dei cittadini, ma vi è stato chi si è opposto ed alla lunga le persone hanno capito. È nostro compito non essere complici silenziosi, o peggio ancora, rimanere acquiescenti parlando di “buona legge”, magari solo perché si hanno in mente leggi forse ancora peggiori.

Questo dal punto di vista ideale... ma il timore che l’aborto reso di nuovo illegale provocherebbe i mali di cui si diceva è molto forte.

Puccetti: Tra la legalizzazione dell’aborto e l’abbandono delle donne con una gravidanza difficile, inattesa o non voluta, vi è qualcosa di mezzo che si chiama amore per il prossimo. Dall’amore nasce l’esigenza di prendersi cura delle persone in difficoltà, in una società solidale risalta come bene evidente il farsi carico delle difficoltà individuali da parte della comunità. Serena Taccari, presidente dell’associazione Il Dono, giustamente ha affermato pochi giorni fa che alla fine, se si escludono le strutture di volontariato pro-life, l’unica soluzione che alle donne viene offerta per uscire dalle difficoltà di una gravidanza è, di fatto, l’aborto. Una via di uscita che ha sempre una vittima immediata, il bambino, una vittima a distanza, la madre che ha soppresso il proprio figlio in grembo pagandone spesso a distanza di tempo le conseguenze psicologiche, e la società, che in Italia ha legalmente rinunciato in trent’anni alla popolazione pari a quella di Toscana e Liguria. È chiaro che dichiarare certe azioni illegali non impedisce che esse siano compiute, ma stabilisce il giudizio di una comunità rispetto all’azione, fornisce un supporto pedagogico e costituisce elemento dissuasivo. Tutti, proprio tutti gli indicatori espressi negli studi scientifici esprimono il dato che l’ampliamento dell’accesso all’aborto costituisce un incentivo a ricorrervi.

Questo ultimo discorso può costituire un elemento di disistima nei confronti delle donne che decidono di abortire, nei confronti della loro capacità di decidere e della loro autodeterminazione.

Puccetti: Sì, mi rendo conto che le mie parole possono essere travisate e fatte passare per un’offesa rivolta alle donne che abortiscono, ma solamente se si teorizza una situazione marginale, quella di una donna che con fredda determinazione decide di abortire. Assai più frequente è invece la situazione di profondo coinvolgimento emotivo e di forte ambivalenza psicologica. In tali condizioni un piccolo particolare è in grado di spostare la decisione da una parte o dall’altra. Vi sono nazioni che in nome di una falsa interpretazione del diritto all’auto-determinazione hanno affrontato, peraltro in modo scientificamente superficiale, la questione dell’aborto dal solo versante sanitario. Il risultato di un tale approccio è evidente: in Francia 210.000 aborti, nel Regno Unito i numeri sono uguali a quelli della Francia, in Svezia il tasso di abortività è doppio rispetto a quello dell’Italia, in Spagna l’aborto è in crescita continua.

Ma una volta deciso, perché non lasciare alla donna il diritto di scegliere il modo in cui abortire?

Puccetti: Perché l’aborto non è una cura, con esso non si cura niente. Allargando l’orizzonte si può dire che il suo ricorso genera patologia sia a livello individuale che sociale. È evidente che il modo con cui il bambino viene soppresso non fa alcuna differenza sotto il profilo morale. Ma opporsi ad una dinamica che tende ad accreditare l’aborto attraverso la sua domiciliazione come diritto di privacy, è un atto di responsabilità che può svolgersi anche ostacolando l’invito rivolto alle donne, spesso per motivi di economicità, o di comodità organizzativa dei servizi, ad abortire da sole a casa, in auto, o sul sedile della metropolitana.


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Spiritualità


Cristo è risorto, Alleluja!

di padre Piero Gheddo*

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Cari amici, buona Pasqua! La Risurrezione di Cristo è la garanzia della nostra immortalità. Gesù è risorto per darmi la certezza che anch’io risorgerò e avrò un posto nel suo Regno di pace, di amore, di gioia. Che grande cosa la fede, care sorelle e cari fratelli! “Questo è il giorno che ha fatto il Signore. Venite, esultiamo, perché Cristo è risorto!”. Nella Pasqua ho la certezza che Gesù è risorto e che anch’io risorgerò con Lui. La mia vita quindi non è una vita piccola, povera, tormentata da malattie, sofferenze e fallimenti, ma una vita felice ed eterna.

La novità sconvolgente della Risurrezione è così fondamentale per la fede cristiana che da duemila anni la Chiesa non cessa di proclamarla ogni domenica ma specialmente nella prossima Festa di Pasqua. E’ un avvenimento reale, storico, testimoniato da molti e autorevoli testimoni. Il Gesù che noi amiamo e adoriamo non è semplicemente un grande profetata del passato, come molti altri che la storia umana ricorda. E’ Dio, la seconda persona della SS. Trinità, che s’è fatto uomo ed è morto in Croce per tutti gli uomini, per liberarci dal peccato e dalla morte eterna.

Nel 1964 ho incontrato a Calcutta padre Courtois, un gesuita francese che è stato uno dei pionieri del dialogo con l’induismo. Mi raccontava che aveva fatto anche lui l’esperienza di San Paolo ad Atene quando aveva parlato di Cristo agli ateniesi (Atti, 17, 19-34). Courtois era stato invitato a parlare di Gesù Cristo ad un importante convegno di monaci indù. Per più d’un ora l’avevano ascoltato incuriositi e attenti mentre raccontava i miracoli e le parabole di Gesù. Ma quando dice che Gesù Cristo è risorto dalla morte lo interrompono rispettosamente e gli dicono: “Anche noi abbiamo nei nostri poemi mitologici storie di dei e di dee che morivano ma poi risorgevano a nuova vita. Ma non crediamo che siano fatti realmente accaduti. Si raccontano come favole simboliche di un lontano passato”.

Cari amici, la nostra fede ci dice che Cristo è veramente risorto, ma anche oggi c’è chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una "visione" degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già smentite teorie come nuove e scientifiche. Courtois era fra monaci indù pagani, noi viviamo in un paese di battezzati, di cristiani, non pochi dei quali hanno perso la fede nella Risurrezione e nella Divinità di Cristo.

La cultura corrente del nostro tempo tende ad accettare il messaggio di Gesù: amore, carità, perdono, pace, aiuto ai più poveri, giustizia, solidarietà e via dicendo. Accetta il messaggio, ma rifiuta il messaggero e la prova capitale della sua Divinità, cioè la Risurrezione dalla morte. Gesù quindi è solo un saggio, un profeta che, come diceva Gandhi riferendosi alle Beatitudini, “ha espresso il pensiero più alto in tutta la storia dell’umanità”. Ma questo a noi cristiani non basta, perché se Gesù è solo un uomo, sia pure il più grande e saggio dell’umanità, non solo lui non è risorto, ma anche noi non risorgeremo. E la nostra vita ha per orizzonte sempre e solo questo mondo materiale, che passa ogni giorno e passerà del tutto alla fine dei tempi.

In questo giorno siamo tutti chiamati a ritrovare l’entusiasmo della fede. Prima di celebrare la S. Messa dico sempre: “Signore Gesù, riaccendi in me l’entusiasmo della mia Prima Messa, quando piangevo di gioia perché avevo raggiunto l’ideale della mia giovinezza”. Oggi chiediamo la fede e l’entusiasmo della fede. Tutti abbiamo la fede, che però può essere una fiammella di candela che si spegne ad ogni soffiar di vento e che lascia al buio o come il sole che splende a mezzogiorno, che illumina, riscalda, dà senso alla vita e gioia di vivere.

La Pasqua è la fonte della nostra gioia. Anche se abbiamo mille problemi e sofferenze, la fede ci dà la gioia, quella autentica che viene da Dio. Questo è il mio augurio: amici, siate felici della gioia che solo Dio può dare.



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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.


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Omelia di Benedetto XVI per la Veglia di Pasqua

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo sabato, nella Basilica Vaticana, la solenne Veglia nella Notte Santa di Pasqua.





* * *

Cari fratelli e sorelle,

un’antica leggenda giudaica tratta dal libro apocrifo "La vita di Adamo ed Eva" racconta che Adamo, nella sua ultima malattia, avrebbe mandato il figlio Set insieme con Eva nella regione del Paradiso a prendere l’olio della misericordia, per essere unto con questo e così guarito. Dopo tutto il pregare e il piangere dei due in cerca dell’albero della vita, appare l’Arcangelo Michele per dire loro che non avrebbero ottenuto l’olio dell’albero della misericordia e che Adamo sarebbe dovuto morire. In seguito, lettori cristiani hanno aggiunto a questa comunicazione dell’Arcangelo una parola di consolazione. L’Arcangelo avrebbe detto che dopo 5.500 anni sarebbe venuto l’amorevole Re Cristo, il Figlio di Dio, e avrebbe unto con l’olio della sua misericordia tutti coloro che avrebbero creduto in Lui. "L’olio della misericordia di eternità in eternità sarà dato a quanti dovranno rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo. Allora il Figlio di Dio ricco d’amore, Cristo, discenderà nelle profondità della terra e condurrà tuo padre nel Paradiso, presso l’albero della misericordia". In questa leggenda diventa visibile tutta l’afflizione dell’uomo di fronte al destino di malattia, dolore e morte che ci è stato imposto. Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte: da qualche parte – hanno ripetutamente pensato gli uomini – dovrebbe pur esserci l’erba medicinale contro la morte. Prima o poi dovrebbe essere possibile trovare il farmaco non soltanto contro questa o quella malattia, ma contro la vera fatalità – contro la morte. Dovrebbe, insomma, esistere la medicina dell’immortalità. Anche oggi gli uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita sempre migliore e più lunga. Ma riflettiamo ancora un momento: come sarebbe veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona? L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna. La vera erba medicinale contro la morte dovrebbe essere diversa. Non dovrebbe portare semplicemente un prolungamento indefinito di questa vita attuale. Dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro. Dovrebbe creare in noi una vita nuova, veramente capace di eternità: dovrebbe trasformarci in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa in pienezza. Ciò che è nuovo ed emozionante del messaggio cristiano, del Vangelo di Gesù Cristo, era ed è tuttora questo, che ci viene detto: sì, quest’erba medicinale contro la morte, questo vero farmaco dell’immortalità esiste. È stato trovato. È accessibile. Nel Battesimo questa medicina ci viene donata. Una vita nuova inizia in noi, una vita nuova che matura nella fede e non viene cancellata dalla morte della vecchia vita, ma che solo allora viene portata pienamente alla luce.

A questo alcuni, forse molti risponderanno: il messaggio, certo, lo sento, però mi manca la fede. E anche chi vuole credere chiederà: ma è davvero così? Come dobbiamo immaginarcelo? Come si svolge questa trasformazione della vecchia vita, così che si formi in essa la vita nuova che non conosce la morte? Ancora una volta un antico scritto giudaico può aiutarci ad avere un’idea di quel processo misterioso che inizia in noi col Battesimo. Lì si racconta come il progenitore Enoch venne rapito fino al trono di Dio. Ma egli si spaventò di fronte alle gloriose potestà angeliche e, nella sua debolezza umana, non poté contemplare il Volto di Dio. "Allora Dio disse a Michele – così prosegue il libro di Enoch –: ‘Prendi Enoch e togligli le vesti terrene. Ungilo con olio soave e rivestilo con abiti di gloria!’ E Michele mi tolse le mie vesti, mi unse di olio soave, e quest’olio era più di una luce radiosa… Il suo splendore era simile ai raggi del sole. Quando mi guardai, ecco che ero come uno degli esseri gloriosi" (Ph. Rech, Inbild des Kosmos, II 524).

Precisamente questo – l’essere rivestiti col nuovo abito di Dio – avviene nel Battesimo; così ci dice la fede cristiana. Certo, questo cambio delle vesti è un percorso che dura tutta la vita. Ciò che avviene nel Battesimo è l’inizio di un processo che abbraccia tutta la nostra vita – ci rende capaci di eternità, così che nell’abito di luce di Gesù Cristo possiamo apparire al cospetto di Dio e vivere con Lui per sempre.

Nel rito del Battesimo ci sono due elementi in cui questo evento si esprime e diventa visibile anche come esigenza per la nostra ulteriore vita. C’è anzitutto il rito delle rinunce e delle promesse. Nella Chiesa antica, il battezzando si volgeva verso occidente, simbolo delle tenebre, del tramonto del sole, della morte e quindi del dominio del peccato. Il battezzando si volgeva in quella direzione e pronunciava un triplice "no": al diavolo, alle sue pompe e al peccato. Con la strana parola "pompe", cioè lo sfarzo del diavolo, si indicava lo splendore dell’antico culto degli dèi e dell’antico teatro, in cui si provava gusto vedendo persone vive sbranate da bestie feroci. Così questo era il rifiuto di un tipo di cultura che incatenava l’uomo all’adorazione del potere, al mondo della cupidigia, alla menzogna, alla crudeltà. Era un atto di liberazione dall’imposizione di una forma di vita, che si offriva come piacere e, tuttavia, spingeva verso la distruzione di ciò che nell’uomo sono le sue qualità migliori. Questa rinuncia – con un procedimento meno drammatico – costituisce anche oggi una parte essenziale del Battesimo. In esso leviamo le "vesti vecchie" con le quali non si può stare davanti a Dio. Detto meglio: cominciamo a deporle. Questa rinuncia è, infatti, una promessa in cui diamo la mano a Cristo, affinché Egli ci guidi e ci rivesta. Quali siano le "vesti" che deponiamo, quale sia la promessa che pronunciamo, si rende evidente quando leggiamo, nel quinto capitolo della Lettera ai Galati, che cosa Paolo chiami "opere della carne" – termine che significa precisamente le vesti vecchie da deporre. Paolo le designa così: "fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere" (Gal 5,19ss). Sono queste le vesti che deponiamo; sono vesti della morte.

Poi il battezzando nella Chiesa antica si volgeva verso oriente – simbolo della luce, simbolo del nuovo sole della storia, nuovo sole che sorge, simbolo di Cristo. Il battezzando determina la nuova direzione della sua vita: la fede nel Dio trinitario al quale egli si consegna. Così Dio stesso ci veste dell’abito di luce, dell’abito della vita. Paolo chiama queste nuove "vesti" "frutto dello Spirito" e le descrive con le seguenti parole: "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22).

Nella Chiesa antica, il battezzando veniva poi veramente spogliato delle sue vesti. Egli scendeva nel fonte battesimale e veniva immerso tre volte – un simbolo della morte che esprime tutta la radicalità di tale spogliazione e di tale cambio di veste. Questa vita, che comunque è votata alla morte, il battezzando la consegna alla morte, insieme con Cristo, e da Lui si lascia trascinare e tirare su nella vita nuova che lo trasforma per l’eternità. Poi, risalendo dalle acque battesimali, i neofiti venivano rivestiti con la veste bianca, la veste di luce di Dio, e ricevevano la candela accesa come segno della nuova vita nella luce che Dio stesso aveva accesa in essi. Lo sapevano: avevano ottenuto il farmaco dell’immortalità, che ora, nel momento di ricevere la santa Comunione, prendeva pienamente forma. In essa riceviamo il Corpo del Signore risorto e veniamo, noi stessi, attirati in questo Corpo, così che siamo già custoditi in Colui che ha vinto la morte e ci porta attraverso la morte.

Nel corso dei secoli, i simboli sono diventati più scarsi, ma l’avvenimento essenziale del Battesimo è tuttavia rimasto lo stesso. Esso non è solo un lavacro, ancor meno un’accoglienza un po’ complicata in una nuova associazione. È morte e risurrezione, rinascita alla nuova vita.

Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita. Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha bisogno di parole. Per questo Paolo può dire ai Filippesi: "Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!" (Fil 4,4). La gioia non la si può comandare. La si può solo donare. Il Signore risorto ci dona la gioia: la vera vita. Noi siamo ormai per sempre custoditi nell’amore di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Così chiediamo, certi di essere esauditi, con la preghiera sulle offerte che la Chiesa eleva in questa notte: Accogli, Signore, le preghiere del tuo popolo insieme con le offerte sacrificali, perché ciò che con i misteri pasquali ha avuto inizio ci giovi, per opera tua, come medicina per l’eternità. Amen.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Messaggio di Pasqua di Benedetto XVI

ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il messaggio per la Pasqua rivolto questa domenica da Benedetto XVI ai fedeli presenti in Piazza San Pietro e a quanti lo ascoltavano attraverso la radio e la televisione.



* * *

"Cantemus Domino: gloriose enim magnificatus est".


"Cantiamo al Signore: è veramente glorioso!" (Liturgia delle Ore, Pasqua, Ufficio di Lettura, Ant. 1).

Cari fratelli e sorelle!

Vi reco l’annuncio della Pasqua con queste parole della Liturgia, che riecheggiano l’antichissimo inno di lode degli ebrei dopo il passaggio del Mar Rosso. Narra il Libro dell’Esodo (cfr 15,19-21) che quando ebbero attraversato il mare all’asciutto e videro gli egiziani sommersi dalle acque, Miriam – la sorella di Mosè e di Aronne – e le altre donne intonarono danzando questo canto di esultanza: "Cantate al Signore, / perché ha mirabilmente trionfato: / cavallo e cavaliere / ha gettato nel mare!". I cristiani, in tutto il mondo, ripetono questo cantico nella Veglia pasquale, ed una speciale preghiera ne spiega il significato; una preghiera che ora, nella piena luce della Risurrezione, con gioia facciamo nostra: "O Dio, anche ai nostri tempi vediamo risplendere i tuoi antichi prodigi: ciò che facesti con la tua mano potente per liberare un solo popolo dall’oppressione del faraone, ora lo compi attraverso l’acqua del Battesimo per la salvezza di tutti i popoli; concedi che l’umanità intera sia accolta tra i figli di Abramo e partecipi alla dignità del popolo eletto".

Il Vangelo ci ha rivelato il compimento delle antiche figure: con la sua morte e risurrezione, Gesù Cristo ha liberato l’uomo dalla schiavitù radicale, quella del peccato, e gli ha aperto la strada verso la vera Terra promessa, il Regno di Dio, Regno universale di giustizia, di amore e di pace. Questo "esodo" avviene prima di tutto dentro l’uomo stesso, e consiste in una nuova nascita nello Spirito Santo, effetto del Battesimo che Cristo ci ha donato proprio nel mistero pasquale. L’uomo vecchio lascia il posto all’uomo nuovo; la vita di prima è alle spalle, si può camminare in una vita nuova (cfr Rm 6,4). Ma l’"esodo" spirituale è principio di una liberazione integrale, capace di rinnovare ogni dimensione umana, personale e sociale.

Sì, fratelli, la Pasqua è la vera salvezza dell’umanità! Se Cristo – l’Agnello di Dio – non avesse versato il suo Sangue per noi, non avremmo alcuna speranza, il destino nostro e del mondo intero sarebbe inevitabilmente la morte. Ma la Pasqua ha invertito la tendenza: la Risurrezione di Cristo è una nuova creazione, come un innesto che può rigenerare tutta la pianta. E’ un avvenimento che ha modificato l’orientamento profondo della storia, sbilanciandola una volta per tutte dalla parte del bene, della vita, del perdono. Siamo liberi, siamo salvi! Ecco perché dall’intimo del cuore esultiamo: "Cantiamo al Signore: è veramente glorioso!".

Il popolo cristiano, uscito dalle acque del Battesimo, è inviato in tutto il mondo a testimoniare questa salvezza, a portare a tutti il frutto della Pasqua, che consiste in una vita nuova, liberata dal peccato e restituita alla sua bellezza originaria, alla sua bontà e verità. Continuamente, nel corso di duemila anni, i cristiani – specialmente i santi – hanno fecondato la storia con l’esperienza viva della Pasqua. La Chiesa è il popolo dell’esodo, perché costantemente vive il mistero pasquale e diffonde la sua forza rinnovatrice in ogni tempo e in ogni luogo. Anche ai nostri giorni l’umanità ha bisogno di un "esodo", non di aggiustamenti superficiali, ma di una conversione spirituale e morale. Ha bisogno della salvezza del Vangelo, per uscire da una crisi che è profonda e come tale richiede cambiamenti profondi, a partire dalle coscienze.

Al Signore Gesù chiedo che in Medio Oriente, ed in particolare nella Terra santificata dalla sua morte e risurrezione, i Popoli compiano un "esodo" vero e definitivo dalla guerra e dalla violenza alla pace ed alla concordia. Alle comunità cristiane, che, specialmente in Iraq, conoscono prove e sofferenze, il Risorto ripeta la parola carica di consolazione e di incoraggiamento che rivolse agli Apostoli nel Cenacolo: "Pace a voi!" (Gv 20,21).

Per quei Paesi Latino-americani e dei Caraibi che sperimentano una pericolosa recrudescenza dei crimini legati al narcotraffico, la Pasqua di Cristo segni la vittoria della convivenza pacifica e del rispetto per il bene comune. La diletta popolazione di Haiti, devastata dall’immane tragedia del terremoto, compia il suo "esodo" dal lutto e dalla disperazione ad una nuova speranza, sostenuta dalla solidarietà internazionale. Gli amati cittadini cileni, prostrati da un’altra grave catastrofe, ma sorretti dalla fede, affrontino con tenacia l’opera di ricostruzione.

Nella forza di Gesù risorto, in Africa si ponga fine ai conflitti che continuano a provocare distruzione e sofferenze e si raggiunga quella pace e quella riconciliazione che sono garanzie di sviluppo. In particolare, affido al Signore il futuro della Repubblica Democratica del Congo, della Guinea e della Nigeria.

Il Risorto sostenga i cristiani che, per la loro fede, soffrono la persecuzione e persino la morte, come in Pakistan. Ai Paesi afflitti dal terrorismo e dalle discriminazioni sociali o religiose, Egli conceda la forza di intraprendere percorsi di dialogo e di convivenza serena. Ai responsabili di tutte le Nazioni, la Pasqua di Cristo rechi luce e forza, perché l’attività economica e finanziaria sia finalmente impostata secondo criteri di verità, di giustizia e di aiuto fraterno. La potenza salvifica della risurrezione di Cristo investa tutta l’umanità, affinché essa superi le molteplici e tragiche espressioni di una "cultura di morte" che tende a diffondersi, per edificare un futuro di amore e di verità, in cui ogni vita umana sia rispettata ed accolta.

Cari fratelli e sorelle! La Pasqua non opera alcuna magia. Come al di là del Mar Rosso gli ebrei trovarono il deserto, così la Chiesa, dopo la Risurrezione, trova sempre la storia con le sue gioie e le sue speranze, i suoi dolori e le sue angosce. E tuttavia, questa storia è cambiata, è segnata da un’alleanza nuova ed eterna, è realmente aperta al futuro. Per questo, salvati nella speranza, proseguiamo il nostro pellegrinaggio, portando nel cuore il canto antico e sempre nuovo: "Cantiamo al Signore: è veramente glorioso!".

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Omelia per la Pasqua del Patriarca latino di Gerusalemme
Nell'anno in cui cattolici e ortodossi la celebrano nella stessa data

GERUSALEMME, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia per il giorno di Pasqua pronunciata da Sua Beatitudine Fouad Twal, Patriarca latino di Gerusalemme, nel Santo Sepolcro.



* * *

Cari fratelli, il Signore è risorto! E’ veramente risorto!

Il mattino di quella domenica i due apostoli Pietro e Giovanni e, prima di loro, le pie donne con la Maddalena, giunsero a questo sepolcro. Grande fu il loro stupore nel vedere la pietra rotolata via dal sepolcro. Ancora maggiore il loro smarrimento perché non si trovava più il corpo del Signore.
Chi aveva potuto osare tanto e rimuovere la grande pietra?

Forse i soldati romani? No di certo! Una simile iniziativa avrebbe causato loro una sicura condanna a morte. I capi del popolo? Impossibile! Proprio loro avevano chiesto la crocifissione di Gesù. Gli apostoli? No, perché impauriti e nascosti! Le pie donne, allora? Ma come avrebbero potuto delle deboli donne spostare una pietra che poteva essere mossa solo da uomini molto forti? 

Per pochi istanti i due apostoli si confrontarono con il sepolcro vuoto, col sudario e le bende. Fino ad allora non avevano ancora compreso la Scrittura. Ma ecco che iniziarono a ricordarsi delle parole che il Signore stesso aveva rivolto loro quando era ancora in vita e che gli stessi angeli rivolsero alle pie donne: “Non è qui. È risorto, come aveva detto” (Mt 28,6). Queste parole furono confermate di lì a poco dalle numerose apparizioni di Cristo, che volle manifestarsi vivo ai suoi discepoli, rafforzandoli nella fede in Lui, morto e risorto: “Guardate le mie mani e i miei piedi. Sono proprio io!” (Lc 24,39).

Noi, vescovi, sacerdoti e fedeli, uomini e donne, piccoli e grandi di tutte le Chiese e di tutti i popoli, abbiamo il privilegio di stare oggi davanti a questo stesso sepolcro vuoto con una diversa emozione, con tanto stupore, attorniati da un nugolo di così tanti fedeli testimoni, che allora e lungo la storia ci hanno testimoniato la verità della Risurrezione, dando loro stessi la vita per Cristo.

In favore della Risurrezione di Cristo c’è infatti la testimonianza della tomba vuota, delle numerose apparizioni del Risorto ai suoi discepoli, della storia. Poiché certamente la testimonianza rispecchia la dignità dei testimoni, noi non possiamo non avere fiducia nella testimonianza degli apostoli e delle donne che hanno vissuto col Signore, che l’hanno visto vivo dopo essersi recati alla sua tomba e che erano pronti a morire per confermare la loro testimonianza.

La scienza e l’archeologia non troveranno mai il corpo del Signore perché è risorto! I suoi nemici, non riuscendo a ritrovare il suo corpo, diffusero la falsa diceria che esso fosse stato rubato. In realtà non trovarono le sue ossa perché Egli, dopo tanta sofferenza, era vivo, era risorto. Gli apostoli gridarono esultanti l’annuncio della sua Risurrezione e noi, con loro, facciamo altrettanto. Se scegliessimo il silenzio, se decidessimo di tacere, le pietre davanti a noi griderebbero al nostro posto perché esse stesse sono state testimoni silenziosi e continui della Risurrezione del Signore, come Egli stesso ha detto.

Quest’anno, poi, la nostra gioia è doppia. Noi tutti, pastori e fedeli delle diverse chiese, celebriamo l’unica Pasqua nel medesimo giorno e nello stesso luogo. E’ la stessa voce. Tutti i cristiani del mondo gridano oggi a piena voce: “Cristo è risorto!” Con la liturgia orientale inneggiamo a Cristo che “con la morte ha calpestato la morte e ha ridato la vita a quanti erano nei sepolcri”. Con le parole della liturgia latina cantiamo al Signore della vita: "Victimae paschali laudes immolent christiani. Agnus redemit oves, Christus innocens Patri reconciliavit peccatores."

Qualcuno potrà forse essere disturbato dalla sovrapposizione di preghiere e di canti che si odono nello stesso tempo e nei diversi riti. Quest’apparente cacofonia, tuttavia, vissuta nella fede, diventa una sinfonia che esprime l’unità della fede e della celebrazione gioiosa della vittoria del Signore sul male e sulla morte, di Colui che risorse il terzo giorno proprio da questo sepolcro. Sì, siamo la Chiesa del Calvario, la Chiesa della Tomba vuota e della Risurrezione gloriosa!

Oggi più che mai abbiamo bisogno di speranza e di una forza particolare per vincere il male che è in noi e attorno a noi. Quest’anno 2010 ha conosciuto due gravi terremoti, ad Haiti e in Cile, con centinaia di migliaia di vittime. Proprio grazie alla speranza che vive nel cuore di ogni uomo di buona volontà, l’umanità intera ha potuto manifestare tanta solidarietà verso i superstiti. Anche la nostra Diocesi lo ha fatto: nella Quarta Domenica di Quaresima abbiamo raccolto il frutto della nostra astinenza e del nostro digiuno per offrirlo ai fratelli e alle sorelle, colpiti da così grandi cataclismi, con la stessa carità con la quale il mondo è venuto in nostro soccorso quando eravamo noi a trovarci nella sofferenza e nella privazione non tanto tempo fa.

Questa solidarietà nelle difficoltà concorre a rafforzare la speranza che è in noi. L’abbiamo già detto e lo ripetiamo: oggi più che mai abbiamo bisogno di una speranza viva in mezzo a tanta violenza, agli scontri sanguinosi e alle divisioni etniche e religiose. Le tante guerre, i numerosi conflitti e l’intolleranza religiosa, nonché una persecuzione diretta di cui i cristiani sono spesso vittime, sembrano affermare che il Principe delle tenebre ha vinto per sempre. Ma non è così! Il piccolo gregge non deve aver paura, ci rassicura Gesù stesso: “Ora il Principe di questo mondo sarà cacciato fuori. Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31b-32).

Da questo sacro luogo che ha conosciuto l’evento più inatteso e più sorprendente nella storia dell’umanità e che testimonia la vittoria di Cristo sulla morte e sul male, la nostra Chiesa Madre, unita alla Chiesa di Roma, si rivolge a tutti i fedeli della Terra Santa, a tutti i pellegrini, nonché ai cristiani del mondo intero, per salutarli e augurare loro una gioiosa Pasqua. Preghiamo per loro e chiediamo le loro preghiere per noi affinché sia dato a tutte le comunità parrocchiali della nostra Diocesi, che si estende dalla Giordania, alla Palestina, a Israele, fino a Cipro, di essere testimoni gioiosi di quest’evento unico nella storia dell’umanità.

Non vogliamo testimoniare solo con le nostre labbra, ma con tutta la nostra vita. Il Signore, stesso, infatti, ci invita con la potenza della sua Risurrezione a spogliarci dell’uomo vecchio, schiavo del peccato, della morte e dell’impotenza, e a rivestirci dell’uomo nuovo creato a sua immagine e somiglianza. Saremo allora testimoni non solo con la parola, ma anche con la vita, con la santità e l’amore universale, con la nostra pazienza e la nostra permanenza nella Terra Santa e accanto ai Luoghi Santi.

Con la tua forza, Signore Risorto,
resisteremo al male che è in noi e attorno a noi.
La nostra fiducia non viene da noi stessi,
ma da Te che hai vinto il mondo.
Ti chiediamo la vittoria sulle nostre divisioni religiose, politiche e familiari;
la forza nella debolezza, la guarigione per i nostri malati,
la liberazione dei prigionieri, il ritorno dei profughi,
la pace e la riconciliazione fra tutti i popoli in conflitto.

“Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso!” (Sal 117,24)



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Messaggio ai lettori


ZENIT ritorna l'11 aprile. Buona Pasqua!

Carissimi lettori e carissime lettrici,


Ci prendiamo alcuni giorni di riposo. Il Servizio quotidiano riprenderà, quindi, l'11 aprile prossimo.

Buona Pasqua di Resurrezione a tutti!



La Redazione di ZENIT

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