giovedì 13 maggio 2010

[ZI100513] Il mondo visto da Roma

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Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 13 maggio 2010

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Benedetto XVI: la missione di Fatima non è conclusa
Più di 500.000 persone accorrono alla Messa

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- “Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa”, ha affermato questo giovedì Benedetto XVI nell'omelia della Messa solenne celebrata sulla spianata del Santuario di Fatima insieme a più di mezzo milione di pellegrini, del Portogallo e di altre Nazioni europee.

La missione della Chiesa oggi, ha detto il Papa, è quella di mostrare l'amore di Dio a un'umanità “pronta a sacrificare i suoi legami più santi sull’altare di gretti egoismi di Nazione, razza, ideologia, gruppo, individuo”.

“L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce ad interromperlo… Nella Sacra Scrittura appare frequentemente che Dio sia alla ricerca di giusti per salvare la città degli uomini e lo stesso fa qui, in Fatima”, ha aggiunto.

La solenne Eucaristia, celebrata sotto un sole splendente, è stata presieduta dal Papa e concelebrata con quattro Cardinali, 77 Vescovi e 1442 sacerdoti. La cerimonia è iniziata con la processione dell'immagine della Madonna di Fatima.

“Anch’io sono venuto come pellegrino a Fatima, a questa 'casa' che Maria ha scelto per parlare a noi nei tempi moderni”, ha riconosciuto il Papa, “perché verso questo luogo converge oggi la Chiesa pellegrinante, voluta dal Figlio suo quale strumento di evangelizzazione e sacramento di salvezza”.

Il Pontefice ha insistito sulla sua sollecitudine verso l'“umanità afflitta da miserie e sofferenze”: “in Dio, stringo al cuore tutti i loro figli e figlie, in particolare quanti di loro vivono nella tribolazione o abbandonati, nel desiderio di trasmettere loro quella speranza grande che arde nel mio cuore e che qui, a Fatima, si fa trovare in maniera più palpabile”.

“Sì! Il Signore, la nostra grande speranza, è con noi; nel suo amore misericordioso, offre un futuro al suo popolo: un futuro di comunione con sé”, ha esclamato Benedetto XVI.

Il Pontefice ha poi voluto anticipare la prossima celebrazione del centenario delle apparizioni della Madonna ai pastorelli, auspicando che i sette anni che mancano per la commemorazione possano “affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità”.

“Tra sette anni ritornerete qui per celebrare il centenario della prima visita fatta dalla Signora 'venuta dal Cielo', come Maestra che introduce i piccoli veggenti nell’intima conoscenza dell’Amore trinitario e li porta ad assaporare Dio stesso come la cosa più bella dell’esistenza umana”.

Questa esperienza, ha commentato, ha reso i pastorelli “innamorati di Dio in Gesù”.

“Dio può raggiungerci, offrendosi alla nostra visione interiore”, ha aggiunto, sottolineando che Cristo ha “il potere di infiammare i cuori più freddi e tristi”, perché “la fede in Dio apre all’uomo l’orizzonte di una speranza certa che non delude; indica un solido fondamento sul quale poggiare, senza paura, la propria vita; richiede l’abbandono, pieno di fiducia, nelle mani dell’Amore che sostiene il mondo”.

In questo senso, ha proposto come esempio proprio i pastorelli, che “hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio e una condivisione con gli altri per amore di Dio”.

“La Madonna li ha aiutati ad aprire il cuore all’universalità dell’amore”, ha concluso. “Soltanto con questo amore di fraternità e di condivisione riusciremo ad edificare la civiltà dell’Amore e della Pace”.

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Il Papa ai malati: la vostra sofferenza salva gli altri
La forza divina brilla nella debolezza umana

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- La sofferenza con Cristo ha un valore redentore. E' il messaggio con cui il Papa ha voluto animare la folla di malati che ha seguito la celebrazione dell'Eucaristia questo giovedì nel Santuario di Fatima.

Prima di benedirli con il Santissimo Sacramento, al termine della celebrazione, Benedetto XVI ha voluto rivolgersi ai malati presenti, a quelli che seguivano la cerimonia “mediante la radio e la televisione” e a quanti non avevano “neppure questa possibilità”, ma erano uniti ai presenti a Fatima “tramite i vincoli più profondi dello spirito, ossia, nella fede e nella preghiera”.

“Cari malati, accogliete questa chiamata di Gesù che passerà accanto a voi nel Santissimo Sacramento e affidategli ogni contrarietà e pena che affrontate, affinché diventino – secondo i suoi disegni – mezzo di redenzione per il mondo intero”, ha chiesto.

“Fratello mio e Sorella mia, agli occhi di Dio hai un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù”.

Per questo, ha aggiunto il Pontefice, “in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza”.

“Con questa speranza nel cuore, potrai uscire dalle sabbie mobili della malattia e della morte e rimanere in piedi sulla salda roccia dell’amore divino. In altre parole: potrai superare la sensazione di inutilità della sofferenza che consuma la persona nell’intimo di se stessa e la fa sentire un peso per gli altri, quando, in verità, la sofferenza, vissuta con Gesù, serve per la salvezza dei fratelli”.

Ciò, ha affermato il Vescovo di Roma, è possibile perché “le sorgenti della potenza divina sgorgano proprio in mezzo alla debolezza umana”.

Gesù dice a ogni malato: “Vieni con me. Prendi parte, con la tua sofferenza, a quest’opera di salvezza del mondo, che si realizza mediante la mia sofferenza, per mezzo della mia Croce. Man mano che abbracci la tua croce, unendoti spiritualmente alla mia Croce, si svelerà ai tuoi occhi il significato salvifico della sofferenza. Troverai nella sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale”.

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Il Papa supera la storica dicotomia dei cattolici impegnati nel sociale
Contemplazione e azione; difesa dei poveri e della vita

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- A Fatima, Benedetto XVI ha presentato questo giovedì pomeriggio un programma per i cristiani impegnati nel sociale in cui supera la storica divisione tra coloro che considerano la contemplazione e l'azione elementi contrastanti. Allo stesso modo, il Pontefice ha chiesto di superare la dicotomia dei decenni precedenti, che ha contrapposto l'impegno a favore della giustizia sociale e la difesa della vita umana.

Il Papa ha sintetizzato in questo modo gli insegnamenti che ha presentato nei suoi cinque anni di pontificato e nelle sue tre Encicliche in un incontro con le organizzazioni della pastorale sociale nella chiesa della Santissima Trinità della città mariana.

La lezione delle crisi

Il Pontefica ha iniziato traendo lezioni dall'attuale “crisi socio-economica, culturale e spirituale” e dal suo impatto sulla riflessione dei cristiani.

La Dottrina Sociale della Chiesa, ha spiegato, non deve essere una “semplice conoscenza intellettuale”, ma “una saggezza che dia sapore e condimento, offra creatività alle vie conoscitive ed operative tese ad affrontare una così ampia e complessa crisi”.

“Possano le istituzioni della Chiesa, insieme a tutte le organizzazioni non ecclesiali, perfezionare le loro capacità di conoscenza e le direttive in vista di una nuova e grandiosa dinamica, che conduca verso quella civiltà dell’amore, il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura”, ha auspicato.

“Chi impara da Dio Amore sarà inevitabilmente una persona per gli altri”. L’amore di Dio, infatti, “ si rivela nella responsabilità per l’altro”.

Coniugare contemplazione e azione

In questo senso, ha riconosciuto che “non è facile arrivare ad una sintesi soddisfacente tra la vita spirituale e l’attività apostolica”.

“La pressione esercitata dalla cultura dominante, che presenta con insistenza uno stile di vita fondato sulla legge del più forte, sul guadagno facile e allettante, finisce per influire sul nostro modo di pensare, sui nostri progetti e sulle prospettive del nostro servizio, con il rischio di svuotarli di quella motivazione della fede e della speranza cristiana che li aveva suscitati”.

“Le numerose e pressanti richieste di aiuto e sostegno che ci rivolgono i poveri e i marginalizzati della società ci spingono a cercare soluzioni che rispondano alla logica dell’efficienza, dell’effetto visibile e della pubblicità”.

La sintesi tra contemplazione e azione, ha tuttavia ricordato ai presenti, “è assolutamente necessaria” “per poter servire Cristo nell’umanità che vi attende. In questo mondo diviso, si impone a tutti una profonda e autentica unità di cuore, di spirito e di azione”.

Per questo, il Papa ha chiesto che sia chiaro l'orientamento delle istituzioni di aiuto della Chiesa.

“La ferma identità delle istituzioni è un reale servizio, di grande giovamento per coloro che ne beneficiano. Oltre l’identità e ad essa collegata, è un passo fondamentale concedere all’attività caritativa cristiana autonomia e indipendenza dalla politica e dalle ideologie, anche se in collaborazione con gli organi dello Stato per raggiungere scopi comuni”.

Giustizia sociale e difesa della vita

Alla luce di questa riflessione, il Pontefice ha chiesto di superare anche la divisione che si è verificata nell'impegno sociale di alcuni cattolici, che a volte hanno visto l'aiuto ai poveri e la difesa della vita (soprattutto dei concepiti) come elementi contrapposti.

“Le vostre attività assistenziali, educative o caritative siano completate da progetti di libertà che promuovano l’essere umano, nella ricerca della fraternità universale - ha chiesto -. Si colloca qui l’urgente impegno dei cristiani nella difesa dei diritti umani, attenti alla totalità della persona umana nelle sue diverse dimensioni”.

Per questo, ha espresso il suo “profondo apprezzamento a tutte quelle iniziative sociali e pastorali che cercano di lottare contro i meccanismi socio-economici e culturali che portano all’aborto e che hanno ben presenti la difesa della vita e la riconciliazione e la guarigione delle persone ferite dal dramma dell’aborto”.

“Le iniziative che hanno lo scopo di tutelare i valori essenziali e primari della vita, dal suo concepimento, e della famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile tra un uomo e una donna, aiutano a rispondere ad alcune delle più insidiose e pericolose sfide che oggi si pongono al bene comune”, ha sottolineato.

“Tali iniziative costituiscono, insieme a tante altre forme d’impegno, elementi essenziali per la costruzione della civiltà dell’amore”.

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Benedetto XVI chiede di essere "autentici testimoni di Gesù Cristo"
Incontrando i Vescovi del Portogallo a Fatima

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Incontrando questo giovedì pomeriggio i Vescovi portoghesi nel Santuario di Fatima, che ha definito “cuore spirituale del Portogallo”, Benedetto XVI ha esortato a dare una testimonianza più verace della fede.

Il Papa ha riconosciuto che “i tempi nei quali viviamo esigono un nuovo vigore missionario dei cristiani, chiamati a formare un laicato maturo, identificato con la Chiesa, solidale con la complessa trasformazione del mondo”.

“C’è bisogno di autentici testimoni di Gesù Cristo, soprattutto in quegli ambienti umani dove il silenzio della fede è più ampio e profondo”, ha spiegato, citando la politica, il mondo intellettuale e quello della comunicazione.

In questi ambiti, ha osservato, “non mancano credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo, costruttore di barriere all’ispirazione cristiana”.

Per questo, ha chiesto ai Vescovi di adoperarsi a favore di quanti difendono in questi contesti “un vigoroso pensiero cattolico, fedele al Magistero”, affinché possano ricevere una “parola illuminante, per vivere, da fedeli laici, la libertà cristiana”.

“Mantenete viva la dimensione profetica, senza bavagli, nello scenario del mondo attuale, perché la parola di Dio non è incatenata!”, ha esortato.

Attenzione agli evangelizzatori

Per essere più vicini ai fedeli e promuovere una maggiore testimonianza cristiana, il Papa ha chiesto ai Vescovi di “programmare efficacemente le risorse pastorali”, in particolare permeando ogni agente evangelizzatore di “un vero ardore di santità, consapevoli che il risultato deriva soprattutto dall’unione con Cristo e dall’azione del suo Spirito”.

In una società in cui la fede cattolica è spesso “un seme insidiato e offuscato da 'divinità' e signori di questo mondo”, questa potrà difficilmente “toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali, e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani”.

Ciò che affascina, infatti, è soprattutto “l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui”.

A questo proposito, il Papa ha confessato la sua “piacevole sorpresa” nel prendere contatto con i movimenti e le nuove comunità ecclesiali portoghesi, incontrati nel pomeriggio sempre a Fatima.

“Osservandoli, ho avuto la gioia e la grazia di vedere come, in un momento di fatica della Chiesa, in un momento in cui si parlava di 'inverno della Chiesa', lo Spirito Santo creava una nuova primavera, facendo svegliare nei giovani e negli adulti la gioia di essere cristiani, di vivere nella Chiesa, che è il Corpo vivo di Cristo”, ha riconosciuto.

Di fronte a queste realtà, ha detto, i Vescovi da un lato devono “sentire la responsabilità di accogliere questi impulsi che sono doni per la Chiesa e le conferiscono nuova vitalità”, dall’altro “aiutare i movimenti a trovare la strada giusta, facendo delle correzioni” con quella “comprensione spirituale e umana che sa unire guida, riconoscenza e una certa apertura e disponibilità ad accettare di imparare”.

Nell'Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha quindi chiesto ai Vescovi di riscoprire “la paternità episcopale soprattutto verso il vostro clero”.

“Per troppo tempo si è relegata in secondo piano la responsabilità dell’autorità come servizio alla crescita degli altri, e, prima di tutti, dei sacerdoti”, ha ricordato.

Ha infine concluso il suo discorso chiedendo di rinvigorire “i sentimenti di misericordia e di compassione”, “per essere in grado di rispondere alle situazioni di gravi carenze sociali”.

“Si costituiscano organizzazioni e si perfezionino quelle già esistenti, perché siano in grado di rispondere con creatività ad ogni povertà, includendo quelle della mancanza di senso della vita e dell’assenza di speranza”.

Nuova direzione

Nel suo saluto al Papa, monsignor Jorge Ortiga, Arcivescovo di Braga e presidente della Conferenza Episcopale Portoghese (CEP), ha ricordato che in passato sulle navi portoghesi “sono partiti i conquistatori, ma anche i missionari, che hanno portato nei nuovi continenti il Vangelo e la Croce”.

In questo contesto religioso, ha osservato, Fatima merita una menzione speciale. “Ai piedi della Madonna si inginocchiano i credenti e gli inquieti, i potenti e i fragili, i ricchi e i poveri, i riconoscenti e i supplicanti. Fatima specchia, in modo più che eloquente, l’anima devota di questo popolo”.

Il presule ha quindi indicato alcune delle sfide che affronta oggi il Portogallo, citando “l’indifferenza, l’ateismo, l’indifferentismo, il razionalismo, l’edonismo, le offese alla vita e all’istituzione della famiglia, il disorientamento sul piano etico, la miseria sociale”.

“Viviamo immersi nella 'modernità liquida', dove i riferimenti cristiani cominciano a liquefarsi, frutto di una campagna che ci vuole situare nel mondo dei retrogradi e osa proporre modelli comuni ad altre mentalità e presentati come progressisti”.

“Desideriamo camminare verso un nuovo stile di vita, segnato dal compromesso e dalla passione per il nostro Paese, che necessita di una urgente rievangelizzazione, non dimenticando mai la responsabilità storica di partire per altri continenti”, ha riconosciuto monsignor Ortiga.

“Maria, Nostra Signora di Fatima e Madre della Chiesa, sia il modello per le nostre vite e per le nostre comunità, in modo da conservare nel cuore la Parola di Dio e di impegnarci con rinnovato entusiasmo a testimoniare le meraviglie che Dio – e solo Lui – fa in noi, anche davanti alle nostre fragilità e limitazioni”.

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Anno Sacerdotale


Mons. Forte: la solitudine del prete è presenza di Dio

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera “Ai carissimi sacerdoti giovani dell’Arcidiocesi” di mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.


* * *

Carissimi giovani Sacerdoti,

in preparazione a questo incontro con Voi ho provato a pensare ad alcune delle sfide che nella nostra vita di presbiteri prima o poi inevitabilmente si presentano. L’elenco è solo indicativo, e pesca nella memoria del vissuto personale e collettivo. Ve lo presento con l’unica intenzione di capire che cosa significhi per ognuna di queste situazioni esistenziali la parola di Gesù: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

La prima sfida che mi viene in mente è la solitudine del prete: in verità, essa è messa in conto sin dal primo momento della nostra chiamata ed ha un sapore anzitutto bello e positivo. Solitudine per noi che abbiamo incontrato Gesù non è tanto assenza degli uomini, quanto presenza di Dio: un essere rapiti dalla luce del Suo Volto, pur sempre cercato, un desiderio di stare con Lui e di lasciarci lavorare da Lui. C’è però anche una solitudine amara: l’avverti quando ti sembra che nessuno ti comprenda veramente o sia capace di un minimo di gratitudine per quello che sei e che fai. È la solitudine che ti fanno sentire i pregiudizi di alcuni, la malevolenza di altri - a volte anche nel nostro mondo ecclesiastico -, l’atteggiamento di chi sembra rimproverarti come egoistica la scelta di non avere accanto una moglie o dei figli secondo la carne. A volte tutto questo ti pesa, altre volte ti appare un prezzo necessario da pagare a una forma di vita certamente “controcorrente”. Ricorda sempre però che la tua solitudine è abitata da Gesù: Lui, che l’ha vissuta, ci dice “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Regalare a Lui l’esperienza della solitudine amara e di quella ricca di pace, lasciare che sia Lui ad abitarle entrambe per farne tempo di grazia: è questo il modo più vero per camminare nella solitudine e viverla come condizione di grazia e di autentica generosità e libertà. Non sarai mai solo, se riconosci Gesù accanto a te!

Una seconda sfida che mi viene in mente è il senso di scoraggiamento e di frustrazione che a volte ci prende di fronte agli scarsi risultati, se non addirittura ai fallimenti del nostro ministero. Ci sono momenti in cui ti sembra di battere l’aria, di affaticarti invano: in quei momenti la stanchezza e il peso degli altri ti appaiono troppo grandi. Quante speranze e desideri incompiuti! Quante attese di bene cadute nel vuoto! Eppure Gesù ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Dobbiamo riposarci in Lui: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’” (Mc 6,31). A volte occorre anche un po’ di sano riposo fisico: ma solo nell’amicizia con Gesù, nella prolungata esperienza della preghiera e dell’ascolto, raggiungiamo la fonte del riposo cui anela il nostro cuore. “Hai fatto il nostro cuore per Te ed è inquieto finché non riposa in Te”, ci assicura Agostino parlando a partire dalla propria esperienza. Confida nel Signore, spera in Lui e le forze e l’entusiasmo torneranno: “Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40,31). Non dimenticare, poi, che i frutti del tuo ministero li conosce solo Dio e a volte ti dà di scoprirne i segni al di là di ogni tuo calcolo e attesa!

Una terza sfida nella vita del prete è il rapporto con quelli che gli sono affidati: a volte, possiamo dirlo con veracità e umiltà, alcune persone sono proprio insopportabili. C’è chi ci tratta come funzionari del sacro da cui pretendere la disponibilità cieca del burocrate (ammesso che esista!); c’è chi vorrebbe arruolarci nel proprio mondo familiare o affettivo come possesso di cui disporre al momento opportuno; c’è chi ci assale col suo bisogno, rimproverandoci come colpa l’eventuale nostra impossibilità a soddisfare quello che ci viene chiesto. Qui è importante imparare a guardare sempre e solo la nostra gente come quella che Dio ci ha affidato: a guardarla cioè con occhi di amore, con lo sguardo di un padre che ama i propri figli a prescindere dai loro meriti o dalla loro effettiva amabilità. Occorre ricorrere a Lui, Gesù, al Suo esempio, al Suo aiuto: “Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde… Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore” (Gv 10,11-15). Non dobbiamo sottrarci alla fatica di chi ci chiede aiuto per portare il suo peso. Se accoglieremo tutti con un cuore disponibile e generoso, un Altro aiuterà noi: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”. Il giogo di chi ci è affidato è il giogo di Gesù: prenderlo su di noi ci fa sperimentare il ristoro e la dolcezza che Lui ci ha promesso!

C’è poi la sfida della comunione col vescovo e con il presbiterio: al vescovo abbiamo promesso fiducia e obbedienza, e questo a prescindere da chi sia o come sia colui che il Signore ci ha dato come pastore. Soprattutto, però, anche il vescovo ha bisogno dell’amore dei suoi sacerdoti, senza cui non potrebbe fare quasi nulla per la crescita del suo popolo nella fede e nell’amore di Dio e degli altri. Da vescovo sto imparando sempre di più a esercitare la carità paterna, a non giudicare, a cercare di comprendere, a valorizzare il bene che c’è in ognuno, specie in ciascuno dei miei preti. Anche voi aiutatemi ad aiutarvi! Pregate per me e cercate di comprendermi e sostenermi, come io desidero fare con voi. Prego tanto per voi, fedelmente, con tutto il mio cuore. Vi chiedo di volervi bene come Gesù ci ha chiesto: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (13,35). Abbiate a cuore il bene gli uni degli altri. Siate fedeli ai nostri appuntamenti, cercando di viverli come ore di grazia, con spirito di profondo ascolto e partecipazione assidua e attiva. Amiamo i sacerdoti più anziani, riconoscendo in loro tutto il bene della loro vita spesa per il Vangelo. Liberiamoci da ambizioni, confronti, gelosie e piccole invidie. Gesù ce lo chiede come lo aveva chiesto ai suoi: “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato” (Mt 23,11s). Chiediamo di essere così a Lui, che ci dona di vivere con semplicità quello che ci chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”.

Infine, vorrei dirvi una parola sulla sfida rappresentata dal rapporto con la famiglia, le amicizie e gli affetti: ci sono tanti esempi belli di relazioni umane autentiche del sacerdote con i suoi cari e con i suoi amici; ci sono parimenti rischi e atteggiamenti sbagliati. Fra questi la freddezza di alcuni preti, che appare a volte perfino disumana e alienante, anche se è spesso solo frutto di timidezza e di una mancanza di amore conosciuta nei tempi dell’infanzia o dell’adolescenza (per inciso vorrei ricordare quanto è importante l’aiuto di una psicologia scevra da precomprensioni per aiutare il prete a essere uomo fra gli uomini, costituito a favore degli uomini!). Altri tendono invece a creare legami oppressivi, sentendosi quasi padroni della fede e dell’affetto di quelli che sono loro affidati. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati: occorre essere tanto umani ed insieme tanto veri nella nostra appartenenza esclusiva a Gesù. Nessun affetto ci deve separare da Lui: meglio morire, che offendere gravemente l’alleanza con Lui! Anche qui è Gesù che ci viene incontro: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. È Lui che ci ama per primo e ci aiuta ad amare gli altri con verità e libertà se solo ci lasciamo amare da Lui. Diamogli tempo e cuore: adoriamolo con tutto il nostro essere, regalandogli lunghi momenti davanti alla Sua Presenza sacramentale e in ascolto della Sua Parola di vita. Allora, ci sentiremo in pace e nessun surrogato potrà esercitare il suo fascino malizioso sul nostro cuore innamorato di Dio ed abitato da Gesù.

Vi ho esposto questi pensieri con semplicità, dopo averci un po’ pregato. Ora, vorrei che li condividiate con me, lasciando che la ricchezza del nostro essere insieme moltiplichi la luce di grazia che il Signore vuol far risplendere in ciascuno di noi, per sperimentare nel vivo del nostro cuore e del nostro ministero la forza liberante e salutare della promessa che Gesù ha fatto ai discepoli che tanto ama: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30).

+ Bruno

Padre Arcivescovo

4 Maggio 2010

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Il Card. Caffarra ai sacerdoti: predicate nel "cortile dei gentili"
Nella solennità della Beata Vergine in San Luca, patrona di Bologna

di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Nella solennità della Beata Vergine in San Luca, patrona di Bologna, (13 maggio) il cardinale Carlo Caffarra ha ricordato che Maria è “l’arca della Nuova Alleanza che reca la presenza salvifica del Signore in mezzo al suo popolo” ed ha invitato i sacerdoti a predicare il Vangelo nel “cortile dei gentili”.

Nel corso dell’omelia della Santa Messa Episcopale concelebrata da tutti i sacerdoti della diocesi, l’Arcivescovo di Bologna ha spiegato che come l’arca della prima Alleanza fu accolta dai leviti ‘levando la loro voce’, così Elisabetta accoglie Maria “esclamando a gran voce: 'benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo'”.

Così, ha sostenuto il porporato, Maria “ci ha visitato, recandoci la presenza salvifica del nostro Salvatore” per questo bisogna esultare di gioia come fece Giovanni.

Il cardinale Caffarra ha quindi ricordato che una imponente tradizione dei Padri e dei Dottori della Chiesa insegna che “mediante la presenza di Maria, Giovanni è stato santificato fin dal grembo materno”.

L’evento di grazia che accade nella casa di Zaccaria ed Elisabetta è dunque “l’unzione profetica” di Giovanni.

“La santificazione del precursore fin dal grembo materno – ha precisato l’Arcivescovo – consiste dunque nella sua vocazione ad essere profeta dell’Altissimo: ‘per andare davanti al Signore a preparargli le strade. E pertanto Giovanni inizia a profetare mediante la voce di sua madre”.

Facendo riferimento all’Anno sacerdotale il cardinale Caffarra ha spiegato che la visita di Maria sollecita la missione profetica di predicare il Vangelo ad ogni presbitero.

“La predicazione del Vangelo precede ogni altra attività apostolica” ha sottolineato l’Arcivescovo, ed è “nel ‘cortile dei gentili’ che oggi il Signore ci chiede di esercitare il nostro munus propheticum più che nel recinto del Santo dei Santi”.

Il porporato ha sostenuto che “il profeta però non parla a nome proprio” e “infatti non predichiamo noi stessi” ma “il Vangelo di Dio.

“Il sacerdote-profeta – ha aggiunto - ha ricevuto una parola che non è sua; di cui è debitore verso ogni uomo poiché è la salvezza di ogni uomo”.

Circa la fonte da cui attingere la parola profetica, il cardinale Caffarra ha detto: “Scrittura, Tradizione, Magistero: il triplice ed unico canale da cui attingiamo l’acqua della Parola che annunciamo.

“Il sacerdote – ha continuato - deve giungere ad una tale assimilazione della Parola profeticamente predicata, che il suo pensiero, il suo sentire, il suo predicare è diventato pura trasparenza e rifrazione del pensiero, del sentire, della predicazione di Cristo. Come il pesce nell’acqua, siamo immersi nella verità che è Cristo”.

In conclusione l’Arcivescovo di Bologna ha invocato Maria dicendo: “Ottienici la forza dello Spirito perché siamo profeti ‘in opere ed in parole’ del tuo Figlio. Ogni fedele riconosca nella voce di ciascuno di noi la voce del Buon Pastore; ogni uomo e donna ancora in ricerca riconosca nella voce di ciascuno di noi la risposta alla sua attesa più profonda. O Spirito di profezia scendi su di noi”. 

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Notizie dal mondo


Nuovi difensori del Crocifisso alla Corte Europea
Lo European Centre for Law and Justice sarà "amicus curiae" a Strasburgo

STRASBURGO, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- La Corte Europea dei Diritti Umani (ECHR) ha informato questo mercoledì lo European Centre for Law and Justice (ECLJ) che è autorizzato a diventare terzo (amicus curiae) nel caso “Lautsi vs Italia”, più noto come il “caso del crocifisso”.

Secondo quanto ha potuto apprendere ZENIT da questa istituzione, l'ECLJ sottoporrà le sue osservazioni scritte alla Grande Camera della ECHR il 26 maggio. La Grande Camera terrà l'udienza pubblica il 30 giugno. La sentenza finale verrà pubblicata alla fine dell'anno.

“Nelle sue osservazioni scritte, l'ECLJ dimostrerà che la presenza del Crocifisso nelle scuole italiane è legittima di per sé, che non è irrispettosa nei confronti degli altri credo e che nulla nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo può essere interpretato come un imporre il secolarismo nel contesto dell'istruzione pubblica”, ha spiegato a ZENIT il direttore dell'ECLJ, Grégor Puppinck.

Il caso Lautsi è stato riferito alla Grande Camera della Corte dopo che il Governo italiano ha presentato ricorso, il 28 gennaio scorso, contro una prima decisione emessa dalla Seconda Sezione della Corte il 3 novembre 2009.

In quella prima decisione, la Corte ha stabilito che la presenza del Crocifisso nelle classi è “contraria al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le proprie convinzioni e al diritto alla libertà religiosa dei bambini”, perché gli studenti italiani si sentirebbero “educati in un ambiente scolastico che porta il segno di una certa religione”.

La Corte continuava affermando che la presenza del Crocifisso poteva essere “emotivamente inquietante” per il figlio della signora Lautsi, e che, aspetto più importante, la sua esposizione poteva non “promuovere un pensiero critico negli alunni” e non “servire il pluralismo educativo” essenziale per la preservazione di una “società democratica”.

La Corte concludeva affermando che c'era stata una violazione dell'Articolo 2 del Protocollo n. 1 (Diritto all'istruzione) considerato insieme all'Articolo 9 (libertà di religione) della Convenzione.

Questa sentenza è stata fortemente criticata dagli esperti legali e politici e denunciata da molti Stati europei come un'imposizione del “secolarismo” sulle varie società europee.

In particolare, è stato ribadito che la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo non ha mai richiesto che lo Stato debba “osservare la neutralità confessionale nel contesto dell'istruzione pubblica” o in qualsiasi altro settore pubblico.

Vari Stati membri del Consiglio d'Europa, infatti, sono “Stati confessionali” con una religione ufficiale o un riconoscimento di Dio nelle leggi e nelle Costituzioni.

Concedendo il 2 marzo scorso il rinvio davanti alla Grande Camera sulla decisione di novembre, la Corte ha riconosciuto che quella sentenza ha sollevato serie questioni legali e deve essere riconsiderata.

Il 29 aprile, il Governo italiano ha sottoposto il suo memorandum alla Corte spiegando che i giudici di Strasburgo non hanno competenza per imporre il secolarismo a un Paese, e soprattutto all'Italia, caratterizzata dalla sua identità e pratica religiosa a stragrande maggioranza cattolica.

Anche molti Stati membri, come Malta e la Lituania, così come 9 ONG, sono stati autorizzati a unirsi al processo davanti alla Grande Camera.

Questa partecipazione diretta degli Stati membri come terzi in un caso singolo è del tutto senza precedenti. Sono tutti a favore della legittimità dell'esposizione pubblica del Crocifisso. Eccezionale è anche l'ampio sostegno dato all'ECLJ da un elevato numero (79) di parlamentari europei di vari partiti.

Come ha dichiarato Puppinck, il vero pluralismo “inizierà rispettando le varie società europee in relazione alla cultura, all'identità e alle tradizioni religiose. Una decisione di una Corte sovranazionale che imponga il secolarismo in tutta Europa è l'esatto opposto dei valori del pluralismo, del rispetto e della diversità culturale”.

Hanno presentato alla Corte una richiesta formale di ammissione come “parte terza” nel procedimento anche le ACLI, il comitato centrale dei cattolici tedeschi (Zdk) e le Settimane sociali di Francia, rappresentanti della rete “Iniziative di Cristiani per l’Europa”.

L'ECLJ è un ente giuridico no profit internazionale che si concentra sulla difesa dei diritti umani e della libertà religiosa in Europa e nel mondo. I legali dell'ECLJ hanno agito in numerosi casi davanti alla Corte Europea per i Diritti Umani.

L'ECLJ ha inoltre uno status consultivo presso l'ECOSOC delle Nazioni Unite, ed è accreditato presso il Parlamento Europeo.

Per ulteriori informazioni, http://www.eclj.org

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Nepal: pressioni maoiste, resistenza della Chiesa
Uno sciopero generale ha paralizzato il Paese per sei giorni

KATHMANDU, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa in Nepal ha dovuto resistere alle pressioni dei maoisti durante la loro dimostrazione di forza contro il Governo mediante uno sciopero generale durato sei giorni.

Mentre il Nepal era paralizzato dallo sciopero, terminato venerdì scorso anche se le proteste continueranno, un gruppo in difesa delle libertà religiose, il Christian Solidarity Worldwide (CSW), ha rivolto un appello ai vari protagonisti a riprendere i negoziati affinché la nuova Costituzione possa essere promulgata come previsto il 28 maggio.

“Tutti i processi [di pace] sono in pericolo per gli avvenimenti recenti – ha spiegato a Ucanews il 4 maggio David Griffiths, responsabile del CSW per il Sud-Est asiatico –, e speriamo che [le varie parti] tornino al tavolo dei negoziati e propongano una Costituzione laica e la difesa delle libertà religiose”.

“Dopo vari mesi di frizioni con il Governo, i maoisti (Partito Comunista Unificato Maoista, UCPN-M) hanno lanciato il 1° maggio un grande movimento di protesta e sciopero per ottenere le dimissioni del Primo Ministro Madhav Kumar Nepal e del suo Governo. Da quando l'ex capo della guerriglia maoista, Pushpa Kamal Dahal (detto 'Prachanda'), che ha provocato il rovesciamento della monarchia, ha lasciato tra le polemiche l'incarico di Primo Ministro, in Nepal si sono susseguite manifestazioni e dimostrazioni di forza degli ex ribelli”.

“La comunità internazionale deve prendere sul serio il deterioramento della situazione politica e svolgere un ruolo attivo nell'assicurare la redazione e la promulgazione della nuova Costituzione, senza la quale il Paese cadrà in un'altra guerra civile”, ha detto allarmato R. K Rokaya, incaricato della Commissione per i Diritti Umani in Nepal.

L'Assemblea Costituente del Nepal deve presentare il 28 maggio la nuova Costituzione dell'ex regno induista, la cui trasformazione in Stato laico è stata approvata dal Parlamento nel 2006. A questa secolarizzazione si oppongono tuttavia i gruppi estremisti, che chiedono il ritorno a uno Stato induista moltiplicando le minacce e gli atti terroristici, tra cui attentati mortali con bombe in chiese e moschee.

Il 20 aprile scorso, molte associazioni cattoliche e protestanti, rappresentanti buddisti e responsabili di vari partiti politici hanno organizzato una grande riunione a Kathmandu per chiedere di mantenere il carattere laico dello Stato nepalese.

“Vogliamo una commissione parlamentare delle religioni e la garanzia scritta nella nuova Costituzione che saranno difesi i nostri diritti di costituirci in OGN cristiane o movimenti della Chiesa”, ha dichiarato Chari Bahadur Ghahatraj, del Comitato Consultivo Cristiano per la Nuova Costituzione, come ha reso noto Ucanews.

In questo clima di tensione, la Chiesa cerca di mantenere la sua posizione di neutralità, resistendo alle pressioni dei maoisti. I cattolici hanno dovuto respingere più volte i militanti che volevano espropriare le chiese, le scuole e altre proprietà della Chiesa per accogliervi migliaia di manifestanti giunti da tutto il Nepal per lo sciopero generale.

Padre Pius Perumana, pro-prefetto apostolico del Nepal, che è riuscito a impedire ai maoisti di insediarsi nella Cattedrale dell'Assunzione, ma alla fine deciso di chiedere aiuto alla polizia per evitare un tentativo di ingresso con la forza. Alcune strutture hanno tuttavia dovuto accogliere i militanti: templi induisti e giainisti, e anche alcune chiese protestanti. Molte scuole cattoliche sono state oggetto di intimidazioni da parte dei maoisti, che hanno chiesto loro “contributi volontari” a livello finanziario per sostenere la loro azione politica.

I disordini nella vita quotidiana provocati dallo sciopero sono stati la principale fonte di inquietudine per i cristiani del Nepal. Le scuole sono state chiuse, gli esami rimandati o annullati e il lavoro negli ospedali e nei centri di assistenza sanitaria è stato reso impossibile.

Al termine dello sciopero, padre Pius Perumana ha detto che la situazione può degenerare in qualsiasi momento, e ha chiesto alla Madonna di intercedere per la pace e di illuminare i leader perché trovino una soluzione politica alla crisi.

Anche se i maoisti hanno terminato lo sciopero generale, hanno dichiarato che continueranno con le marce e le proteste finché il Primo Ministro non si dimetterà.



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Dottrina Sociale e Bene Comune


Il lavoro come dovere e perfezionamento dell'uomo

di mons. Angelo Casile*

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Sono passati 55 anni da quando il papa Pio XII istituì la festa liturgica di san Giuseppe lavoratore nel giorno del 1° maggio e affidò ogni uomo che lavora sotto la custodia dell’umile artigiano di Nazareth, che «impersona presso Dio e la Santa Chiesa la dignità del lavoratore».[1]

In modo eminente nella memoria di san Giuseppe si riconosce la dignità del lavoro umano, come dovere e perfezionamento dell’uomo, esercizio benefico della sua custodia del creato, servizio della comunità, prolungamento dell’opera del Creatore, contributo al piano della salvezza (cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes, 34).

Il culto

San Giuseppe, uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, sposo della beata Vergine Maria, fece da padre a Gesù, e da falegname di Nazareth, provvide con il suo lavoro a procurare, nella santità della vita, beni di sussistenza per la Sacra Famiglia. Nella sua bottega iniziò il Figlio di Dio al lavoro tra gli uomini al punto che Gesù è conosciuto come «il figlio del falegname» (Mt 13,55). La Chiesa con speciale onore lo venera come patrono, posto da Dio a custodia di ogni famiglia e dei lavoratori che lo venerano come esempio di dedizione.

Il Vangelo definisce san Giuseppe «uomo giusto» (Mt 1,19), la tradizione lo qualifica come nutritor Domini, la locuzione italiana “padre putativo” è giuridica, il titolo latino indica piuttosto i compiti di sicurezza, educazione umana e tutela svolti da chi seguì da vicino la crescita di Gesù. Per trovare i primi accenni a un culto pubblico ufficiale diffuso dobbiamo arrivare all’XI secolo. La data del 19 marzo, come propria di una memoria liturgica di san Giuseppe, è segnalata per la prima volta in un martirologio dell’VIII secolo, originario probabilmente della Francia settentrionale o del Belgio. Il motivo della scelta di questa data ci è sconosciuto. Qualche studioso la riconduce a una festa che si celebrava a Roma in onore della dea Minerva e che era assegnata proprio al 19 marzo. Tale ricorrenza, a Roma, era la festa di tutti gli artifices, una specie di grande festa operaia, quasi un’anticipazione del nostro 1° maggio.

Fin dall’antichità, quindi, la Chiesa aveva associato la figura di san Giuseppe al lavoro. Dalla seconda metà del Quattrocento la figura del santo acquista sempre maggiore rilievo, come testimonia il continuo crescere di grado della memoria liturgica. Ma per un collegamento esplicito con il mondo del lavoro dobbiamo attendere Leone XIII, che inviterà gli operai a ricorrere a san Giuseppe «quasi per un diritto loro proprio e imparare da lui quello che devono imitare… Nessun lavoro, anche manuale, è indecoroso. Anzi, può diventare titolo di nobiltà, se esercitato con dignità».[2] Anche Pio XI presenterà san Giuseppe come modello e patrono degli operai: Egli «con una vita di fedelissimo adempimento del dovere quotidiano, ha lasciato un esempio a tutti quelli che devono guadagnarsi il pane col lavoro delle loro mani e meritò di essere chiamato il Giusto, esempio vivente di quella giustizia cristiana, che deve dominare nella vita sociale».[3]

Pio XII e il 1° maggio 1955

Nel 1955 la Chiesa propose ufficialmente la figura di san Giuseppe come modello per i lavoratori. Si introduceva così una prospettiva religiosa in una giornata la cui origine risaliva al 1° maggio 1890, giorno in cui simultaneamente i lavoratori di vari paesi per la prima volta chiedevano, con pubbliche manifestazioni, la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore. Nascerà così la festa del lavoro, che la Chiesa volle illuminare con l’esemplarità dell’artigiano di Nazaret, cui fu affidato lo stesso Divino Lavoratore.

Il 1° maggio 1955 papa Pio XII si rivolgeva alle ACLI nel decennale di fondazione. Siamo nella terza fase del lungo pontificato di papa Pacelli e, dopo i duri contrasti con i regimi fascista e nazista, dopo il ciclone bellico, l’azione del Papa mostra una precisa scelta pastorale per la ricompaginazione del mondo cattolico in un decennio di veloci cambiamenti: il crescente inurbamento, l’affermazione dell’industria e la perdita di peso di artigianato e agricoltura, la diffusione di costumi e modelli di vita estranei alla cultura cattolica italiana, i prodromi di un miglioramento economico che avrebbe toccato il culmine nei successivi anni Sessanta.

Nel suo discorso Pio XII esortava con forza i lavoratori: «Se voi volete essere vicini a Cristo, Noi anche oggi vi ripetiamo “Ite ad Ioseph”: Andate da Giuseppe! (Gen. 41, 55)». L’Osservatore Romano ne dava così notizia: «La presenza di Cristo e della Chiesa nel mondo operaio. Il 1° Maggio solennità cristiana». Le foto dell’epoca presentano un colpo d’occhio straordinario: piazza San Pietro era gremita e la folla, riempita anche piazza Pio XI, debordava lungo il corso di via della Conciliazione.

Giovanni XXIII e Paolo VI

Giovanni XXIII propone l’esempio di S. Giuseppe a tutti gli uomini, «che nella legge del lavoro trovano segnata la loro condizione di vita» e li invita «a fare delle loro attività un mezzo potente di perfezionamento personale, e di merito eterno. Il lavoro è infatti un'alta missione: esso è per l'uomo come una collaborazione intelligente ed effettiva con Dio Creatore, dal quale ha ricevuto i beni della terra, per coltivarli e farli prosperare». La Chiesa è maternamente «vicina a quanti compiono nel nascondimento lavori ingrati e pesanti… a chi ancora non ha una stabile occupazione… a chi la malattia o la sventura sul lavoro ha dolorosamente provato».[4]

Celebrando il decimo anniversario della festa, Paolo VI motivava su un piano teologico la decisione di porre un forte sigillo cristiano su una festa che aveva trovato altrove i suoi natali: ciò è coerente con il genio teologico del cristianesimo, «il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia». Occorre «pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte… affinché “la giustizia e la pace” auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro».[5] San Giuseppe è il «modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; san Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono “grandi cose”, ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici. ma vere ed autentiche».[6]

Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II nella Redemptoris custos presenta il lavoro come espressione quotidiana di «amore nella vita della Famiglia di Nazareth… Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della redenzione». La virtù della laboriosità è capace di rendere «l’uomo in un certo senso più uomo» e apre alla «santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: San Giuseppe».[7]

Nello storico incontro per il Giubileo mondiale dei lavoratori, Giovanni Paolo II ebbe ad affermare che «la globalizzazione è oggi un fenomeno presente ormai in ogni ambito della vita degli uomini, ma è fenomeno da governare con saggezza. Occorre globalizzare la solidarietà». E appellandosi agli imprenditori e dirigenti, ai sindacati dei lavoratori, agli uomini della finanza, agli artigiani, ai commercianti e ai lavoratori dipendenti, ha sottolineato come tutti devono «operare perché il sistema economico, in cui viviamo, non sconvolga l’ordine fondamentale della priorità del lavoro sul capitale, del bene comune su quello privato. è quanto mai necessario che si costituisca nel mondo una globale coalizione a favore del “lavoro dignitoso”».[8]

Benedetto XVI

Nel 2006, la Chiesa italiana e le associazioni del mondo del lavoro si sono stretti attorno a Benedetto XVI per far memoria grata e pregare insieme nella festa di san Giuseppe. Il Papa sottolineava la necessità di «vivere una spiritualità che aiuti i credenti a santificarsi attraverso il proprio lavoro, imitando san Giuseppe… La sua testimonianza mostra che l’uomo è soggetto e protagonista del lavoro. Vorrei affidare a lui i giovani che a fatica riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro, i disoccupati e coloro che soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale».[9]

Nella Caritas in veritate, Benedetto XVI indica la priorità dell’«obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti»[10] e ripropone quanto auspicato da Giovanni Paolo II nel corso del Giubileo dei Lavoratori sul lavoro decente, dignitoso, cioè «un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna… scelto liberamente… permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione… consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli… lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale… assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa».[11]

Il Vangelo del lavoro

Fenomeni gravi, presenti in tante parti del mondo, come la disoccupazione, lo sfruttamento dei minori, l’insufficienza dei salari, la precarietà del lavoro femminile, attendono ancora di essere affrontati e risolti. In questo senso gli aspetti negativi della globalizzazione del lavoro non devono mortificare le possibilità che si sono aperte per tutti di dare espressione ad un umanesimo del lavoro a livello planetario, affinché lavorando in un simile contesto sempre più ampio e interconnesso, l’uomo comprenda la sua vocazione unitaria e solidale.[12]

È necessario «testimoniare anche nell’odierna società il “Vangelo del lavoro”, di cui parlava Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem exercens. Auspico che non manchi il lavoro specialmente per i giovani, e che le condizioni lavorative siano sempre più rispettose della dignità della persona umana».[13] È dunque urgente impegnarsi in un’articolata formazione ai diversi livelli di responsabilità in modo che si aprano strade percorribili al “Vangelo del lavoro” e alla testimonianza effettiva dei laici cattolici nella società del lavoro e si possa promuovere l’autentico sviluppo delle persone e dell’intera umanità. Come ci ricordano i nostri vescovi, «i veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone. E le persone, come tali, vanno educate e formate: “lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune” (Caritas in veritate, n. 71».[14]

Il 1° maggio, memoria di san Giuseppe lavoratore, ci richiama a cogliere il lavoro dentro una visione dell’uomo che è illuminata profondamente da Gesù di Nazareth. Egli ci aiuti a vivere in pienezza il rapporto tra lavoro e resto della vita, lavoro e festa, lavoro e famiglia, lavoro e figli, lavoro e realizzazione di se stessi, e quindi il rapporto con Dio, gli altri, il creato.

 


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*Mons. Angelo Casile è Direttore dell'Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro.


1) Pio XII, Discorso in occasione della festività di San Giuseppe, 1° maggio 1955.

2) Leone XIII, Lettera enciclica Quamquam pluries, 15 agosto 1889.

3) Pio XI, lettera enciclica Divini Redemptoris, 19 marzo 1937. Altri riferimenti a san Giuseppe come «modello» degli operai e dei lavoratori si possono trovare in: cfr Benedetto XV, Motu proprio Bonum sane, 25 luglio 1920; Pio XII, Allocuzione, 11 marzo l945.

4) Giovanni XXIII, Radiomessaggio, 1º maggio 1960.

5) Paolo VI, Udienza generale, 1° maggio 1965.

6) Idem, Allocuzione, 19 marzo 1969.

7) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Redemptoris custos, 15 agosto 1989.

8) Idem, Discorso all’incontro con il mondo del lavoro, Tor Vergata, 1° maggio 2000.

9) Benedetto XVI, Omelia, 19 marzo 2006.

10) Idem, Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 32.

11) Ibidem, n. 63.

12) Cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 25 ottobre 2004, n. 322.

13) Benedetto XVI, Angelus, 1° maggio 2005.

14) Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, n. 16.

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Segnalazioni


Comunità etniche e associazioni a Roma per la Festa dei Popoli
Il 16 maggio a piazza San Giovanni

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Saranno 42 le etnie che domenica 16 maggio, a partire dalle 9, confluiranno a piazza San Giovanni in Laterano per la XIX edizione della Festa dei Popoli.

27 i gruppi che animeranno la Messa delle 12 in basilica, presieduta dal Cardinale Vicario Agostino Vallini, mentre 26 balleranno nel pomeriggio, dando vita alla festa vera e propria. Tutto intorno, gazebo e stand animati da 27 gruppi etnici. Il pranzo sarà garantito dai 5mila pasti offerti dalle rappresentanze di 18 nazioni

“Una tenda per l’incontro”. Questo il tema della giornata, promossa da Caritas diocesana e Ufficio diocesano per la pastorale delle migrazione insieme ai Missionari Scalabriniani, alla Famiglia Scalabriniana, in collaborazione con Acli provinciali, Comune, Provincia e Regione Lazio.

“La Festa dei Popoli - afferma il responsabile dell’evento, padre Gaetano Saracino, parroco scalabriniano del Santissimo Redentore a Val Melaina, dove la Festa è nata nel 1992 – è un indicatore di direzione, per raccontare alle comunità alle quali si rivolge qual è la strada da seguire affinché la convivenza possa essere pacifica”.

Questo il senso della condivisione della fede in un’unica liturgia dalle tante lingue e segni, ma anche della rassegne folk loriche e gastronomiche che si susseguiranno fino alle 21.

“La società interculturale si costruisce giorno per giorno – sottolinea il direttore della Caritas diocesana monsignor Enrico Feroci –, sperimentando l’incontro con l’altro, il diverso”. Di qui la scelta di “una festa corale – sottolinea don Pierpaolo Felicolo, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale delle migrazioni -, che mette insieme tutte quelle realtà, enti e associazioni che quotidianamente vivono accanto agli stranieri”.

In piazza dunque ci saranno, tra gli altri, Città dei ragazzi, Comunità di Sant’Egidio, Centro Astalli, Comboniani e tanti altri ancora, coinvolti nell’organizzazione insieme alle comunità etniche. Dall’accoglienza dei bambini all’allestimento degli stand gastronomici, all’animazione della Messa, alle 12 nella basilica lateranense, presieduta dal Cardinale Vallini.

L’appuntamento è fissato per le 9, con l’apertura degli stand in piazza, l’accoglienza e l’animazione. Alle 10 poi mostre, dibattiti e approfondimenti a cura del sito www.baobabroma.org e dei laici scalabriniani.

Quindi la Messa e, al termine, la degustazione in piazza dei piatti tipici di ciascun paese, prodotti da 18 cucine. Quindi, a partire dalle 15, rassegne folk loriche, laboratori e workshop eseguiti in varie postazioni dislocate lungo la piazza da artisti e animatori.

[Per informazioni: Ufficio diocesano Migrantes, 06.69886558]

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Il Rinnovamento nello Spirito in piazza San Pietro per il Papa
Il 16 maggio prossimo, come segno di affetto e di gratitudine

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Domenica prossima 16 maggio, il Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS) sarà in piazza San Pietro per la recita del Regina Coeli con Benedetto XVI, insieme a tutte le Associazioni, i Movimenti e le Comunità che fanno parte della Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali (CNAL).

Saranno presenti 10mila aderenti ai gruppi e alle comunità del RnS provenienti da tutta Italia.

Il raduno è fissato per le ore 11.00, in Piazza S. Pietro, per vivere un momento di preparazione spirituale. Si tratterà di una Liturgia della Parola presieduta dal Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Alle ore 12.00 il Santo Padre saluterà i pellegrini, rivolgerà un discorso d’indirizzo, pregherà con loro e per loro.

“Scopo di questa iniziativa – ha detto il presidente nazionale del RnS, Salvatore Martinez – è stringersi, nel grande abbraccio della preghiera, al Santo Padre Benedetto XVI e ribadire visibilmente al Pontefice vicinanza spirituale per le incomprensioni che soffre testimoniando al mondo la caritas in veritate”.

“Se Pietro soffre, tutta la Chiesa soffre; e dove è Pietro, là devono essere tutti i cristiani – ha aggiunto –. Nella Chiesa noi abbiamo imparato ad amare e a servire il bene di tutti e di ciascuno; siamo diventati uomini e donne migliori. Ora, portarsi all’ombra di Pietro, il 16 maggio, significa ribadire questa verità alla nostra coscienza e a quanti ci chiedono ragione del nostro essere cristiani”.

“A Benedetto XVI, domenica 16 maggio – ha aggiunto –, vogliamo dire grazie per la forza con cui ci mostra il volto di una Chiesa che sa vedere la profondità delle miserie personali e sociali; che non si arrende dinanzi ai mali che attentano alla dignità dell’uomo, in special modo dei più piccoli; che non ha vergogna di chiamare le cose con il proprio nome, spesso doloroso, ignobile, criminale; che sa piangere, soffrire e offrire consolazione; che non dispera e che alle ragioni del pessimismo sa offrire la verità di Cristo, speranza che mai delude”.

“Pertanto, tutti siamo attesi a questo gesto di preghiera in Piazza San Pietro, segno di affetto e di gratitudine nei confronti del Papa, guida sicura della nostra vita di fede e del cammino dell’umanità”, ha detto infine.

Dopo la recita del Regina Coeli, alle ore 15.00, presso la Basilica di San Paolo Fuori le Mura, il Cardinale Bagnasco celebrerà una speciale Santa Messa per tutti i pellegrini giunti a Roma. Già alle ore 14.30, il RnS animerà un momento di accoglienza e di preghiera comunitaria, in preparazione della celebrazione, con l’ausilio del Servizio Nazionale della Musica e Canto del RnS. Anche l’animazione liturgica e i canti della S. Messa saranno offerti dal RnS.

Il RnS è un Movimento ecclesiale che in Italia conta più di 200 mila aderenti, raggruppati in oltre 1.900 gruppi e comunità.

[Ulteriori informazioni su www.rns-italia.it]

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Interviste


Il Web? È come un santuario
Parla don Giovanni Benvenuto, fondatore di Pretionline.it e Qumran2.net

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervista a don Giovanni Benvenuto apparsa su PaulusWeb (anno II n. 20 - maggio 2010).



 

* * *

di Paolo Pegoraro


Il web ha interrogato il cristianesimo fin dal suo primo apparire. E molti hanno risposto, da subito, con entusiasmo. Ora il tema della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali – Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale – ufficializza l’impegno di tanti preti che hanno accettato di confrontarsi con le nuove tecnologie. Tra loro don Giovanni Benvenuto, che attraverso Pretionline.it e Qumran2.net, è stato tra i primi preti italiani a valorizzare la pastorale online. Credendo nella disponibilità di tanti sacerdoti. Credendo nella generosità del condividere gli strumenti per la pastorale parrocchiale. Tutto cominciò nel 1997... oggi, tredici anni dopo, ecco arrivare un riconoscimento di grande rilievo.

Don Benvenuto, il Messaggio per la 44ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali inaugura una nuova fase per la pastorale online?

«Sicuramente è un riconoscimento ufficiale alla pastorale online, la quale è ben presente da almeno dieci anni. Fin dagli inizi di internet tanti cattolici e tanti sacerdoti sono voluti subito essere presenti e oggi questo messaggio arriva come una sorta d’investitura ufficiale dopo un periodo di osservazione e di maturazione dell’esperienza, com’è prassi nella Chiesa. È normale, quindi, che il riconoscimento sia avvenuto a distanza di anni dalla nascita del web. D’altra parte, la Chiesa è sempre stata esperta di comunicazione, dunque è giusto che abbia fatto anche questo passo».

Ci racconti la sua esperienza con il sito Pretionline...

«Pretionline.it è nato nel giugno del 1997. Sono stato ordinato sacerdote nel 1996 e, avendo da sempre la passione dell’informatica, ho notato come tanti sacerdoti e parrocchie iniziavano a essere presenti sul web. Ho pensato che poteva essere utile mettere a disposizione un “punto di raccolta”, un luogo dove incontrarsi e offrire a tutti la possibilità di contattare un sacerdote. All’inizio eravamo in pochi: io, mio fratello sacerdote e alcuni altri preti di Genova. Poi la cerchia si è allargata. Attualmente sono circa un migliaio – tra sacerdoti, religiosi, diaconi permanenti e seminaristi – le persone che si mettono a disposizione per essere contattati».

Con l’avvento del web 2.0 ha comportato un aggiornamento di questa offerta?

«Il web 2.0 è caratterizzato da maggiore disponibilità di servizi e da una ulteriore interattività, che permette di costruire insieme l’informazione e l’identità dei siti. Pretionline.it ha avuto fin da subito queste caratteristiche, proponendosi come una “piattaforma” che dava ai sacerdoti la possibilità di essere attori in questo panorama. Così pure, in Qumran2.net, abbiamo cercato di mettere subito a disposizione di chiunque il materiale che ognuno poteva condividere. Ultimamanete è nata un’altra esperienza tipica del web 2.0, cioè Cathopedia.org, che da la possibilità agli autori registrati di costruire insieme un’enciclopedia in stile wiki sull’insegnamento cattolico e sul magistero della Chiesa».

In ambito web 2.0, ha fatto la sua comparsa anche Praybook...

«Praybook è stato creato da un sacerdote di Tortona, don Paolo Padrini. Ogni giorno mette a disposizione le letture della liturgia e i salmi del breviario, dando la possibilità ai suoi utenti di pregare e meditare online, sostituendo il cartaceo con il video».

Possiamo parlare di un digital divide nel clero italiano?

«Fin da subito a Pretionline.it si sono iscritti sacerdoti di tutta Italia – nord, centro, sud e isole – e soprattutto, cosa che non credevo, sacerdoti di tutte le età. Ci sono preti di 70 o 80 anni che, anche se in pensione, hanno comunque voglia di mettere a disposizione le loro competenze e la loro capacità di ascolto degli altri. Certo, l’età media non è molto alta, ciò nonostante vedo che internet è veramente uno strumento che non ha confini né di territorio né di fasce d’età».

Lei vive quotidianamente l’esperienza del parroco: come si integrano le prospettive della pastorale tradizionale con quelle della pastorale online?

«Tramite Pretionline.it ricevo domande o richieste di ascolto e di consigli da persone lontane dalla Chiesa o che non hanno la possibilità di contattare un prete di persona o che per problemi personali non riescono ad andare dal loro parroco. Allora vengono qui. Per fare un esempio: magari una persona che ha un grosso peso sulla coscienza si reca a un santuario in cima al monte, va da un sacerdote sconosciuto e, davanti alla grata del confessionale, si crea quella distanza che gli permette di aprirsi e di scaricare il suo peso con maggiore serenità. Su internet avviene un po’ la stessa cosa. Certo, dopo il primo momento nel quale si facilita l’apertura al dialogo, consigliamo sempre a chi ci scrive di rivolgersi al proprio parroco o comunque a un sacerdote perché il rapporto personale, faccia a faccia, è insostituibile. Senza di esso non c’è crescita interiore o spirituale».

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I giovani sono il futuro ma anche il presente
Intervista ai responsabili del Movimento "Giovani per un Mondo Unito"

di Tünde Lisztovszki

ESZTERGOM, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Il 1° maggio scorso con un incontro nelle città di Esztergom (Ungheria) e Sturovo (Slovacchia) si è aperta la Settimana del Mondo Unito 2010, l’appuntamento dei giovani del Movimento dei Focolari, che da oltre 10 anni promuove iniziative di questo genere.

Dopo le tensioni politiche tra i due Paesi i giovani slovacchi ed ungheresi hanno sentito la necessità di dare un segno di pace.

Per saperne di più abbiamo intervistato Maria Guaita e Andrew Camilleri, responsabili del Movimento internazionale “Giovani per un Mondo Unito”, presenti all’inaugurazione.

I giovani di oggi…” si dice spesso, soprattutto in un’epoca come questa di grandi cambiamenti. Può sembrare poco visibile, ma i giovani portano in se stessi tanti valori e in modo esemplare...

Andrew Camilleri: Questo evento qui al confine dell’Ungheria con la Slovacchia, è stato un evento molto speciale per noi. Siamo stati invitati dai Giovani per un Mondo Unito. Sono persone normali, giovani di tutti i tipi che si incontrano per strada. Magari sono cattolici praticanti, ma anche di altre denominazioni, praticanti e non, oppure persone di religioni diverse e che non hanno un riferimento religioso particolare, ma credono nei valori più alti dell’umanità.

Hanno a cuore una finalità, che nasce dalla spiritualità di Chiara Lubich, dal Movimento dei Focolari: è questo il Mondo Unito. Si sono riuniti per vivere e testimoniare una giornata dal profondo significato storico, perché è il momento che slovacchi e ungheresi stiano insieme. Sono persone che vogliono guardarsi negli occhi con tanta semplicità e vogliono costruire insieme. Certo, è una cosa che va molto controcorrente. Nei pochi giorni in cui siamo stati a Budapest e in giro anche per l’Ungheria, abbiamo visto che ci sono delle situazioni che hanno creato attriti, sia nel passato che recentemente, a causa di alcuni articoli dei mass-media.

Noi abbiamo la fortuna di lavorare nella segreteria dei Giovani per un Mondo Unito, e notiamo che hanno tutta una vita davanti e tutto un futuro. Hanno anche grandi ideali, vorebbero spendere bene questa vita. Sono molto sensibili ai dolori della società, in questo caso qui – ungheresi e slovacchi – hanno messo il dito nella piaga che per loro è molto importante per dare una soluzione per un futuro più bello. Ed hanno preso in mano questa giornata per dare un segno di speranza, di fraternità. Tante volte non basta la solidarietà, la tolleranza, l’accettarsi gli uni gli altri. Qui hanno voluto entrare nella pelle dell’altro, capire cosa vede l’uno, che idee ha l’altro, per capirsi più profondamente, per essere veri fratelli. Spesso si sente dire, che i giovani sono il futuro, e questo è vero. Ma i giovani sono anche il presente. Voglio dire, i giovani di oggi sono quelli che preparano il futuro di domani. Noi come adulti vogliamo stargli accanto, per prestare il nostro servizio. Vogliamo che sentano la nostra fiducia, vogliamo aiutarli a portare avanti le loro idee, l’ideale che hanno nel cuore.

Tante volte quando ci troviamo insieme a persone che si dedicano ai giovani cerchiamo di sottolineare questo spirito di servizio, che non vuol dire far fare quello che hai in testa, o magari far fare quello che tu hai sperimantato. No. Significa piuttosto scoprire con i giovani, sulla base dell’amore reciproco, il loro punto di vista sulle cose, e aiutarli, dargli continuità, sostegno. Per esempio, anche qui a Esztergom e a Sturovo, i giovani sono stati aiutati da parroci, genitori, famiglie, insomma da tante persone adulte. E questo servizio gli dà il coraggio di andare avanti e quindi di preparare un futuro migliore.

Maria Guaita: La Settimana del Mondo Unito è un’intuizione profetica di Chiara Lubich. La finalità di questa settimana è quella di mostrare a tutti i giovani e istituzioni del mondo come sarebbe il mondo se tutti vivessimo la fraternità. E quindi ha lo scopo proprio anche di incidere sulle istituzioni, sull’opinione pubblica dicendo con i fatti, con le testimonianze che il mondo unito è possibile. La scelta di fare questa giornata qui in Ungheria è stata una scelta dei Giovani per un Mondo Unito ungheresi e slovacchi, per vivere insieme questa esperienza di fraternità. E noi abbiamo visto proprio l’amore scambievole tra di loro e questo è giá mondo unito. Non è solo la possibilità, la speranza di un futuro migliore. È già un seme, certo che si dovrà far crescere, sviluppare, ma è già presente.

Quali sono stati i frutti della Settimana del Mondo Unito? E cosa resta nella vita dei giovani e nel loro futuro da adulti di un evento del genere?

Maria Guaita: Penso che chi ha vissuto un’esperienza come questa, venga su ben costruito dentro, e quindi è un’esperienza destinata a portare molti frutti nella vita di chi l’ha vissuta. Adesso sono giovani, domani saranno adulti, ma è un’esperienza incancellabile e che continuerà a portare dei frutti. Abbiamo visto che questi giovani credono fermamente nella possibilità della fraternità e che danno tutto per raggiungere l’ideale in cui credono: danno la loro intelligenza, la loro creatività, e soprattutto sono disposti anche a considerare la storia passata come la possibilità per un amore maggiore. Non come un’opposizione tra un popolo e l’altro.

Andrew Camilleri: I giovani sono sempre radicali, totalitari. Quello che notiamo in questi giovani è che, quando si fa un’esperienza forte, si arriva a toccare anche la croce, a sperimentare la morte e la risurrezione dentro. Quando si fa l'esperienza di morire a se stessi per amare gli altri, allora sicuramente si avrà un futuro. L’esperienza di morte e rissurrezione non è un’esperienza che si dimentica. La porti dentro finché non darà frutto. Si può essere sposati, sacerdoti, madri o padri di famiglia, ma la si porta sempre dentro. Possiamo testimoniare che i giovani che hanno messo su questa bellissima giornata insieme sono riusciti a compiere questo passo. Quando si ama Gesù sulla croce e ci si abbandona a lui, allora tutto va per il verso giusto. Io sento che in questo modo il futuro è garantito.

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Discorso di Benedetto XVI ai Vescovi del Portogallo

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo il discorso che Papa Benedetto XVI ha rivolto questo giovedì pomeriggio a Fatima ai Vescovi del Portogallo nel suo terzo giorno di visita pastorale nel Paese.

* * *

Venerati e cari Fratelli nell’Episcopato,

Rendo grazie a Dio per l’occasione che mi offre di incontrarvi tutti qui nel cuore spirituale del Portogallo, che è il Santuario di Fatima, dove moltitudini di pellegrini provenienti dai luoghi più vari della terra, cercano di ritrovare o di rafforzare in sé stessi le certezze del Cielo. Tra loro è venuto da Roma il Successore di Pietro, accogliendo i ripetuti inviti ricevuti e mosso da un debito di riconoscenza verso la Vergine Maria, la quale proprio qui ha trasmesso ai suoi veggenti e pellegrini un intenso amore per il Santo Padre che fruttifica in una vigorosa schiera orante con Gesù alla guida: Pietro, «io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 32).

Come vedete, il Papa ha bisogno di aprirsi sempre di più al mistero della Croce, abbracciandola quale unica speranza e ultima via per guadagnare e radunare nel Crocifisso tutti i suoi fratelli e sorelle in umanità. Obbedendo alla Parola di Dio, egli è chiamato a vivere non per sé stesso ma per la presenza di Dio nel mondo. Mi è di conforto la determinazione con cui anche voi mi seguite da vicino senza temere null’altro che la perdita della salvezza eterna del vostro popolo, come bene dimostrano le parole con cui Mons. Jorge Ortiga ha voluto salutare il mio arrivo in mezzo a voi e testimoniare l’incondizionata fedeltà dei Vescovi del Portogallo al Successore di Pietro. Di cuore vi ringrazio. Grazie inoltre per tutta la premura che avete avuto nell’organizzazione di questa mia Visita. Dio vi ricompensi, riversando in abbondanza su di voi e sulle vostre diocesi lo Spirito Santo, affinché possiate, in un cuor solo e un’anima sola, portare a termine l’impegno pastorale che vi siete proposti, quello, cioè, di offrire ad ogni fedele un’iniziazione cristiana esigente e affascinante, che comunichi l’integrità della fede e della spiritualità, radicata nel Vangelo e formatrice di operatori liberi in mezzo alla vita pubblica.

In verità, i tempi nei quali viviamo esigono un nuovo vigore missionario dei cristiani, chiamati a formare un laicato maturo, identificato con la Chiesa, solidale con la complessa trasformazione del mondo. C’è bisogno di autentici testimoni di Gesù Cristo, soprattutto in quegli ambienti umani dove il silenzio della fede è più ampio e profondo: i politici, gli intellettuali, i professionisti della comunicazione che professano e promuovono una proposta monoculturale, con disdegno per la dimensione religiosa e contemplativa della vita. In tali ambiti non mancano credenti che si vergognano e che danno una mano al secolarismo, costruttore di barriere all’ispirazione cristiana. Nel frattempo, amati Fratelli, quanti difendono in tali ambienti, con coraggio, un vigoroso pensiero cattolico, fedele al Magistero, continuino a ricevere il vostro stimolo e la vostra parola illuminante, per vivere, da fedeli laici, la libertà cristiana.

Mantenete viva la dimensione profetica, senza bavagli, nello scenario del mondo attuale, perché «la parola di Dio non è incatenata!» (2Tm 2,9). Le persone invocano la Buona Novella di Gesù Cristo, che dona senso alle loro vite e salvaguarda la loro dignità. In qualità di primi evangelizzatori, vi sarà utile conoscere e comprendere i diversi fattori sociali e culturali, valutare le carenze spirituali e programmare efficacemente le risorse pastorali; decisivo, però, è riuscire ad inculcare in ogni agente evangelizzatore un vero ardore di santità, consapevoli che il risultato deriva soprattutto dall’unione con Cristo e dall’azione del suo Spirito.

Infatti, quando, nel sentire di molti, la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da «divinità» e signori di questo mondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani. Il richiamo coraggioso e integrale ai principi è essenziale e indispensabile; tuttavia il semplice enunciato del messaggio non arriva fino in fondo al cuore della persona, non tocca la sua libertà, non cambia la vita. Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui. Mi vengono in mente queste parole del Papa Giovanni Paolo II: «La Chiesa ha bisogno soprattutto di grandi correnti, movimenti e testimonianze di santità fra i "christifideles" perché è dalla santità che nasce ogni autentico rinnovamento della Chiesa, ogni arricchimento dell’intelligenza della fede e della sequela cristiana, una ri-attualizzazione vitale e feconda del cristianesimo nell’incontro con i bisogni degli uomini, una rinnovata forma di presenza nel cuore dell’esistenza umana e della cultura delle nazioni»(Discorso per il XX della promulgazione del Decreto conciliare «Apostolicam actuositatem», 18 novembre 1985). Qualcuno potrebbe dire: «la Chiesa ha bisogno di grandi correnti, movimenti e testimonianze di santità…, ma non ci sono!».

A questo proposito, vi confesso la piacevole sorpresa che ho avuto nel prendere contatto con i movimenti e le nuove comunità ecclesiali. Osservandoli, ho avuto la gioia e la grazia di vedere come, in un momento di fatica della Chiesa, in un momento in cui si parlava di «inverno della Chiesa», lo Spirito Santo creava una nuova primavera, facendo svegliare nei giovani e negli adulti la gioia di essere cristiani, di vivere nella Chiesa, che è il Corpo vivo di Cristo. Grazie ai carismi, la radicalità del Vangelo, il contenuto oggettivo della fede, il flusso vivo della sua tradizione vengono comunicati in modo persuasivo e sono accolti come esperienza personale, come adesione della libertà all’evento presente di Cristo.

Condizione necessaria, naturalmente, è che queste nuove realtà vogliano vivere nella Chiesa comune, pur con spazi in qualche modo riservati per la loro vita, così che questa diventi poi feconda per tutti gli altri. I portatori di un carisma particolare devono sentirsi fondamentalmente responsabili della comunione, della fede comune della Chiesa e devono sottomettersi alla guida dei Pastori. Sono questi che devono garantire l’ecclesialità dei movimenti. I Pastori non sono soltanto persone che occupano una carica, ma essi stessi sono portatori di carismi, sono responsabili per l’apertura della Chiesa all’azione dello Spirito Santo. Noi, Vescovi, nel sacramento, siamo unti dallo Spirito Santo e quindi il sacramento ci garantisce anche l’apertura ai suoi doni. Così, da una parte, dobbiamo sentire la responsabilità di accogliere questi impulsi che sono doni per la Chiesa e le conferiscono nuova vitalità, ma, dall’altra, dobbiamo anche aiutare i movimenti a trovare la strada giusta, facendo delle correzioni con comprensione – quella comprensione spirituale e umana che sa unire guida, riconoscenza e una certa apertura e disponibilità ad accettare di imparare.

Iniziate o confermate proprio in questo i presbiteri. Nell’Anno sacerdotale che volge al termine, riscoprite, amati Fratelli, la paternità episcopale soprattutto verso il vostro clero. Per troppo tempo si è relegata in secondo piano la responsabilità dell’autorità come servizio alla crescita degli altri, e, prima di tutti, dei sacerdoti. Questi sono chiamati a servire, nel loro ministero pastorale, integrati in un’azione pastorale di comunione o di insieme, come ci ricorda il Decreto conciliare Presbyterorum ordinis: «Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa» (n. 7). Non si tratta di ritornare al passato, né di un semplice ritorno alle origini, ma di un ricupero del fervore delle origini, della gioia dell’inizio dell’esperienza cristiana, facendosi accompagnare da Cristo come i discepoli di Emmaus nel giorno di Pasqua, lasciando che la sua parola ci riscaldi il cuore, che il «pane spezzato» apra i nostri occhi alla contemplazione del suo volto. Soltanto così il fuoco della carità sarà ardente abbastanza da spingere ogni fedele cristiano a diventare dispensatore di luce e di vita nella Chiesa e tra gli uomini.

Prima di concludere, vorrei chiedervi, nella vostra qualità di presidenti e ministri della carità nella Chiesa, di rinvigorire in voi stessi e intorno a voi i sentimenti di misericordia e di compassione per essere in grado di rispondere alle situazioni di gravi carenze sociali. Si costituiscano organizzazioni e si perfezionino quelle già esistenti, perché siano in grado di rispondere con creatività ad ogni povertà, includendo quelle della mancanza di senso della vita e dell’assenza di speranza. È molto lodevole lo sforzo che fate per aiutare le diocesi più bisognose, soprattutto dei Paesi lusofoni. Le difficoltà, che adesso si fanno sentire di più, non vi facciano indebolire nella logica del dono. Continui ben viva, nel Paese, la vostra testimonianza di profeti della giustizia e della pace, difensori dei diritti inalienabili della persona, unendo la vostra voce a quella dei più deboli, che avete saggiamente motivato a possedere voce propria, senza temere mai di alzare la voce in favore degli oppressi, degli umiliati e dei maltrattati.

Mentre vi affido alla Madonna di Fatima, chiedendole di sostenervi maternamente nelle sfide in cui siete impegnati, perché siate promotori di una cultura e di una spiritualità di carità e di pace, di speranza e di giustizia, di fede e di servizio, di cuore vi imparto la mia Benedizione Apostolica, estendendola ai vostri familiari e alle comunità diocesane.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Discorso del Papa ai cristiani impegnati nel sociale
Soccorrere i più poveri, difendere la vita

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questo giovedì pomeriggio durante l'incontro con le organizzazioni della pastorale sociale nella chiesa della Santissima Trinità di Fatima.

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Carissimi fratelli e amici,

Avete ascoltato Gesù dire: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10, 37). Egli ci esorta a fare nostro lo stile del buon samaritano, il cui esempio è stato appena proclamato, nell’accostarsi alle situazioni carenti di aiuto fraterno. E qual è questo stile? «È “un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente» (Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 31). Così ha fatto il buon samaritano. Gesù non si limita ad esortare; come insegnano i Santi Padri, il Buon Samaritano è proprio Lui, che si fa vicino ad ogni uomo e «versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza» (Prefazio comune VIII) e lo conduce all’albergo, che è la Chiesa, dove lo fa curare, affidandolo ai suoi ministri e pagando di persona, in anticipo, per la sua guarigione. «Va’ e anche tu fa’ così». L’amore incondizionato di Gesù che ci ha guarito dovrà ora trasformarsi in amore donato gratuitamente e generosamente, mediante la giustizia e la carità, se vogliamo vivere con un cuore di buon samaritano.

Provo grande gioia nell’incontrarvi in questo luogo benedetto che Dio si è scelto per ricordare all’umanità, attraverso la Madonna, i suoi disegni di amore misericordioso. Saluto con grande amicizia ogni persona qui presente nonché le istituzioni alle quali appartiene, nella diversità di volti che si trovano uniti nella riflessione sulle questioni sociali e soprattutto nella pratica della compassione verso i poveri, i malati, i detenuti, quelli che vivono da soli e abbandonati, le persone disabili, i bambini e i vecchi, i migranti, i disoccupati e quanti patiscono bisogni che ne turbano la dignità di persone libere. Grazie, Mons. Carlos Azevedo, per l’omaggio di comunione e fedeltà alla Chiesa e al Papa che mi ha voluto offrire sia da parte di quest’assemblea della carità che della Commissione Episcopale di Pastorale Sociale da Lei presieduta e che non smette di stimolare questa grande semina di opere di bene in tutto il Portogallo. Consapevoli, come Chiesa, di non essere in grado d’offrire soluzioni pratiche ad ogni problema concreto, ma sprovvisti di qualsiasi tipo di potere, determinati a servire il bene comune, siate pronti ad aiutare e ad offrire i mezzi di salvezza a tutti.
 
Cari fratelli e sorelle che operate nel vasto mondo della carità, «Cristo ci rivela che “Dio è amore” (1 Gv 4,8) e insieme ci insegna che la legge fondamentale della perfezione umana e quindi anche della trasformazione del mondo è il nuovo comandamento dell’amore. Dunque coloro che credono nella carità divina sono da Lui resi certi che la strada della carità è aperta a tutti gli uomini» (Cost. Gaudium et spes, 38). L’attuale scenario della storia è di crisi socio-economica, culturale e spirituale, e pone in evidenza l’opportunità di un discernimento orientato dalla proposta creativa del messaggio sociale della Chiesa. Lo studio della sua dottrina sociale, che assume come principale forza e principio la carità, permetterà di tracciare un processo di sviluppo umano integrale che coinvolga le profondità del cuore e raggiunga una più ampia umanizzazione della società (cfr Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 20). Non si tratta di semplice conoscenza intellettuale, ma di una saggezza che dia sapore e condimento, offra creatività alle vie conoscitive ed operative tese ad affrontare una così ampia e complessa crisi. Possano le istituzioni della Chiesa, insieme a tutte le organizzazioni non ecclesiali, perfezionare le loro capacità di conoscenza e le direttive in vista di una nuova e grandiosa dinamica, che conduca verso «quella civiltà dell’amore, il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura» (ibid., 33).

Nella sua dimensione sociale e politica, questa diaconia della carità è propria dei fedeli laici, chiamati a promuovere organicamente il bene comune, la giustizia e a configurare rettamente la vita sociale (cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 29). Una delle conclusioni pastorali, emerse nel corso di vostre recenti riflessioni, è di formare una nuova generazione di leader servitori. L’attrarre nuovi operatori laici per questo campo pastorale meriterà sicuramente una particolare premura dei pastori, attenti al futuro. Chi impara da Dio Amore sarà inevitabilmente una persona per gli altri. In effetti, «l’amore di Dio si rivela nella responsabilità per l’altro» (Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 28). Uniti a Cristo nella sua consacrazione al Padre, siamo afferrati dalla sua compassione per le moltitudini che chiedono giustizia e solidarietà e, come il buon samaritano della parabola, ci impegniamo ad offrire risposte concrete e generose.

Spesso, però, non è facile arrivare ad una sintesi soddisfacente tra la vita spirituale e l’attività apostolica. La pressione esercitata dalla cultura dominante, che presenta con insistenza uno stile di vita fondato sulla legge del più forte, sul guadagno facile e allettante, finisce per influire sul nostro modo di pensare, sui nostri progetti e sulle prospettive del nostro servizio, con il rischio di svuotarli di quella motivazione della fede e della speranza cristiana che li aveva suscitati. Le numerose e pressanti richieste di aiuto e sostegno che ci rivolgono i poveri e i marginalizzati della società ci spingono a cercare soluzioni che rispondano alla logica dell’efficienza, dell’effetto visibile e della pubblicità. Tuttavia, la menzionata sintesi è assolutamente necessaria, amati fratelli, per poter servire Cristo nell’umanità che vi attende. In questo mondo diviso, si impone a tutti una profonda e autentica unità di cuore, di spirito e di azione.

Tra tante istituzioni sociali al servizio del bene comune, vicine alle popolazioni bisognose, si contano quelle della Chiesa cattolica. Bisogna che sia chiaro il loro orientamento, perché assumano un’identità ben evidente: nell’ispirazione dei loro obiettivi, nella scelta delle loro risorse umane, nei metodi di attuazione, nella qualità dei loro servizi, nella seria ed efficace gestione dei mezzi. La ferma identità delle istituzioni è un reale servizio, di grande giovamento per coloro che ne beneficiano. Oltre l’identità e ad essa collegata, è un passo fondamentale concedere all’attività caritativa cristiana autonomia e indipendenza dalla politica e dalle ideologie (cfr Benedetto XVI, Enc. Deus caritas est, 31 b), anche se in collaborazione con gli organi dello Stato per raggiungere scopi comuni.

Le vostre attività assistenziali, educative o caritative siano completate da progetti di libertà che promuovano l’essere umano, nella ricerca della fraternità universale. Si colloca qui l’urgente impegno dei cristiani nella difesa dei diritti umani, attenti alla totalità della persona umana nelle sue diverse dimensioni. Esprimo profondo apprezzamento a tutte quelle iniziative sociali e pastorali che cercano di lottare contro i meccanismi socio-economici e culturali che portano all’aborto e che hanno ben presenti la difesa della vita e la riconciliazione e la guarigione delle persone ferite dal dramma dell’aborto. Le iniziative che hanno lo scopo di tutelare i valori essenziali e primari della vita, dal suo concepimento, e della famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile tra un uomo e una donna, aiutano a rispondere ad alcune delle più insidiose e pericolose sfide che oggi si pongono al bene comune. Tali iniziative costituiscono, insieme a tante altre forme d’impegno, elementi essenziali per la costruzione della civiltà dell’amore.

Tutto ciò ben si integra con il messaggio della Madonna che risuona in questo luogo: la penitenza, la preghiera, il perdono che mirano alla conversione dei cuori. Questa è la via per edificare detta civiltà dell’amore, i cui semi Dio ha gettato nel cuore di ogni uomo e che la fede in Cristo Salvatore fa germinare. 

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Il Papa ai malati: "Avete un grande valore presso Dio"
Saluto nel Santuario di Fatima

FATIMA, giovedì, 13 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito le parole che il Papa ha rivolto questo giovedì ai malati nell'atrio del Santuario di Fatima, al termine della celebrazione eucaristica con i pellegrini riuniti nella spianata.

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Cari Fratelli e Sorelle malati,

Prima di avvicinarmi a voi qui presenti, portando nelle mani l’ostensorio con Gesù Eucaristia, vorrei rivolgervi una parola di incoraggiamento e di speranza, che estendo a tutti i malati che ci accompagnano mediante la radio e la televisione e a quanti non hanno neppure questa possibilità, ma sono uniti a noi tramite i vincoli più profondi dello spirito, ossia, nella fede e nella preghiera:

Fratello mio e Sorella mia, agli occhi di Dio hai «un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza» (Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 39). Con questa speranza nel cuore, potrai uscire dalle sabbie mobili della malattia e della morte e rimanere in piedi sulla salda roccia dell’amore divino. In altre parole: potrai superare la sensazione di inutilità della sofferenza che consuma la persona nell’’intimo di se stessa e la fa sentire un peso per gli altri, quando, in verità, la sofferenza, vissuta con Gesù, serve per la salvezza dei fratelli.

Come è possibile? Le sorgenti della potenza divina sgorgano proprio in mezzo alla debolezza umana. E’ il paradosso del Vangelo. Perciò il divino Maestro, più che dilungarsi a spiegare le ragioni della sofferenza, ha preferito chiamare ciascuno a seguirlo, dicendo: «Prendi la tua croce e seguimi» (cfr Mc 8, 34). Vieni con me. Prendi parte, con la tua sofferenza, a quest’opera di salvezza del mondo, che si realizza mediante la mia sofferenza, per mezzo della mia Croce. Man mano che abbracci la tua croce, unendoti spiritualmente alla mia Croce, si svelerà ai tuoi occhi il significato salvifico della sofferenza. Troverai nella sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale.

Cari malati, accogliete questa chiamata di Gesù che passerà accanto a voi nel Santissimo Sacramento e affidategli ogni contrarietà e pena che affrontate, affinché diventino – secondo i suoi disegni – mezzo di redenzione per il mondo intero. Voi sarete redentori nel Redentore, come siete figli nel Figlio. Presso la croce… si trova la Madre di Gesù, la nostra Madre.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Con affetto mi rivolgo ora ai pellegrini italiani e a quanti dall’Italia sono spiritualmente uniti a noi. Cari fratelli e sorelle, da Fatima, dove la Vergine Maria ha lasciato un segno indelebile del suo amore materno, invoco la sua protezione su di voi, sulle vostre famiglie, specialmente su quanti sono nella prova. Vi benedico di cuore!

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Benedetto XVI: "La nostra speranza getti radici!"
Omelia al Santuario di Fatima
FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l'omelia pronunciata questo giovedì dal Papa nella spianata del Santuario di Fatima nella celebrazione del 10° anniversario della beatificazione dei pastorelli Giacinta e Francesco.



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Cari pellegrini,

«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, […] essi sono la stirpe benedetta dal Signore » (Is 61, 9). Così iniziava la prima lettura di questa Eucaristia, le cui parole trovano mirabile compimento in questa assemblea devotamente raccolta ai piedi della Madonna di Fatima. Sorelle e fratelli tanto amati, anch’io sono venuto come pellegrino a Fatima, a questa «casa» che Maria ha scelto per parlare a noi nei tempi moderni. Sono venuto a Fatima per gioire della presenza di Maria e della sua materna protezione. Sono venuto a Fatima, perché verso questo luogo converge oggi la Chiesa pellegrinante, voluta dal Figlio suo quale strumento di evangelizzazione e sacramento di salvezza. Sono venuto a Fatima per pregare, con Maria e con tanti pellegrini, per la nostra umanità afflitta da miserie e sofferenze. Infine, sono venuto a Fatima, con gli stessi sentimenti dei Beati Francesco e Giacinta e della Serva di Dio Lucia, per affidare alla Madonna l’intima confessione che «amo», che la Chiesa, che i sacerdoti «amano» Gesù e desiderano tenere fissi gli occhi in Lui, mentre si conclude quest’Anno Sacerdotale, e per affidare alla materna protezione di Maria i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, i missionari e tutti gli operatori di bene che rendono accogliente e benefica la Casa di Dio.

Essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto… Stirpe che il Signore ha benedetto sei tu, amata diocesi di Leiria-Fatima, con il tuo Pastore Mons. Antonio Marto, che ringrazio per il saluto rivoltomi all’inizio e per ogni premura di cui mi ha colmato, anche mediante i suoi collaboratori, in questo santuario. Saluto il Signor Presidente della Repubblica e le altre autorità al servizio di questa gloriosa Nazione. Idealmente abbraccio tutte le diocesi del Portogallo, qui rappresentate dai loro Vescovi, e affido al Cielo tutti i popoli e le nazioni della terra. In Dio, stringo al cuore tutti i loro figli e figlie, in particolare quanti di loro vivono nella tribolazione o abbandonati, nel desiderio di trasmettere loro quella speranza grande che arde nel mio cuore e che qui, a Fatima, si fa trovare in maniera più palpabile. La nostra grande speranza getti radici nella vita di ognuno di voi, cari pellegrini qui presenti, e di quanti sono uniti con noi attraverso i mezzi di comunicazione sociale.

Sì! Il Signore, la nostra grande speranza, è con noi; nel suo amore misericordioso, offre un futuro al suo popolo: un futuro di comunione con sé. Avendo sperimentato la misericordia e la consolazione di Dio che non lo aveva abbandonato lungo il faticoso cammino di ritorno dall’esilio di Babilonia, il popolo di Dio esclama: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio» (Is 61,10). Figlia eccelsa di questo popolo è la Vergine Madre di Nazaret, la quale, rivestita di grazia e dolcemente sorpresa per la gestazione di Dio che si veniva compiendo nel suo grembo, fa ugualmente propria questa gioia e questa speranza nel cantico del Magnificat: «Il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore». Nel frattempo Ella non si vede come una privilegiata in mezzo a un popolo sterile, anzi profetizza per loro le dolci gioie di una prodigiosa maternità di Dio, perché «di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono» (Lc 1, 47.50).

Ne è prova questo luogo benedetto. Tra sette anni ritornerete qui per celebrare il centenario della prima visita fatta dalla Signora «venuta dal Cielo», come Maestra che introduce i piccoli veggenti nell’intima conoscenza dell’Amore trinitario e li porta ad assaporare Dio stesso come la cosa più bella dell’esistenza umana. Un’esperienza di grazia che li ha fatti diventare innamorati di Dio in Gesù, al punto che Giacinta esclamava: «Mi piace tanto dire a Gesù che Lo amo! Quando Glielo dico molte volte, mi sembra di avere un fuoco nel petto, ma non mi brucio». E Francesco diceva: «Quel che m’è piaciuto più di tutto, fu di vedere Nostro Signore in quella luce che la Nostra Madre ci mise nel petto. Voglio tanto bene a Dio!» (Memorie di Suor Lucia, I, 42 e 126).

Fratelli, nell’udire queste innocenti e profonde confidenze mistiche dei Pastorelli, qualcuno potrebbe guardarli con un po’ d’invidia perché essi hanno visto, oppure con la delusa rassegnazione di chi non ha avuto la stessa fortuna, ma insiste nel voler vedere. A tali persone, il Papa dice come Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?» (Mc 12,24). Le Scritture ci invitano a credere: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20, 29), ma Dio – più intimo a me di quanto lo sia io stesso (cfr S. Agostino, Confessioni, III, 6, 11) – ha il potere di arrivare fino a noi, in particolare mediante i sensi interiori, così che l’anima riceve il tocco soave di una realtà che si trova oltre il sensibile e che la rende capace di raggiungere il non sensibile, il non visibile ai sensi. A tale scopo si richiede una vigilanza interiore del cuore che, per la maggior parte del tempo, non abbiamo a causa della forte pressione delle realtà esterne e delle immagini e preoccupazioni che riempiono l’anima (cfr Commento teologico del Messaggio di Fatima, anno 2000). Sì! Dio può raggiungerci, offrendosi alla nostra visione interiore.

Di più, quella Luce nell’intimo dei Pastorelli, che proviene dal futuro di Dio, è la stessa che si è manifestata nella pienezza dei tempi ed è venuta per tutti: il Figlio di Dio fatto uomo. Che Egli abbia il potere di infiammare i cuori più freddi e tristi, lo vediamo nei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,32). Perciò la nostra speranza ha fondamento reale, poggia su un evento che si colloca nella storia e al tempo stesso la supera: è Gesù di Nazaret. E l’entusiasmo suscitato dalla sua saggezza e dalla sua potenza salvifica nella gente di allora era tale che una donna in mezzo alla moltitudine – come abbiamo ascoltato nel Vangelo – esclama: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato». Tuttavia Gesù rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11, 27.28). Ma chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi affascinare dal suo amore? Chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto in preghiera? Chi aspetta l’alba del nuovo giorno, tenendo accesa la fiamma della fede? La fede in Dio apre all’uomo l’orizzonte di una speranza certa che non delude; indica un solido fondamento sul quale poggiare, senza paura, la propria vita; richiede l’abbandono, pieno di fiducia, nelle mani dell’Amore che sostiene il mondo.

«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, […] essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9) con una speranza incrollabile e che fruttifica in un amore che si sacrifica per gli altri ma non sacrifica gli altri; anzi – come abbiamo ascoltato nella seconda lettura – «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Di ciò sono esempio e stimolo i Pastorelli, che hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio e una condivisione con gli altri per amore di Dio. La Madonna li ha aiutati ad aprire il cuore all’universalità dell’amore. In particolare, la beata Giacinta si mostrava instancabile nella condivisione con i poveri e nel sacrificio per la conversione dei peccatori. Soltanto con questo amore di fraternità e di condivisione riusciremo ad edificare la civiltà dell’Amore e della Pace.

Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa. Qui rivive quel disegno di Dio che interpella l’umanità sin dai suoi primordi: «Dov’è Abele, tuo fratello? […] La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gen 4, 9). L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce ad interromperlo… Nella Sacra Scrittura appare frequentemente che Dio sia alla ricerca di giusti per salvare la città degli uomini e lo stesso fa qui, in Fatima, quando la Madonna domanda: «Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in atto di riparazione per i peccati con cui Egli è offeso, e di supplica per la conversione dei peccatori?» (Memorie di Suor Lucia, I, 162).

Con la famiglia umana pronta a sacrificare i suoi legami più santi sull’altare di gretti egoismi di nazione, razza, ideologia, gruppo, individuo, è venuta dal Cielo la nostra Madre benedetta offrendosi per trapiantare nel cuore di quanti le si affidano l’Amore di Dio che arde nel suo. In quel tempo erano soltanto tre, il cui esempio di vita si è diffuso e moltiplicato in gruppi innumerevoli per l’intera superficie della terra, in particolare al passaggio della Vergine Pellegrina, i quali si sono dedicati alla causa della solidarietà fraterna. Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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