sabato 14 giugno 2008

Gomorra, il film di Matteo Garrone, incontro con Maurizio Braucci, lo Straniero

Gomorra, il film

di Matteo Garrone, incontro con Maurizio Braucci

Da ottobre 2006, per quattro mesi, abbiamo lavorato alla stesura della sceneggiatura dell'ultimo film di Matteo Garrone, tratto dal best seller "Gomorra" di Roberto Saviano. Insieme al regista e all'autore del libro, io, Massimo Gaudioso, Ugo Chiti e Giovanni Di Gregorio abbiamo scritto le sei storie che componevano la sceneggiatura originaria. Matteo ha svolto un ruolo quasi da allenatore – credo che il suo passato da tennista professionista lo aiuti in questo – allestendo un grosso cartellone con lo schema delle tracce narrative, come nello studio tattico di una partita, per mettere ordine tra la massa di spunti che venivano dal libro. Durante le prime settimane di lavoro, abbiamo vissuto il drammatico inizio della messa sotto scorta di Roberto Saviano a causa delle intimazioni di morte da parte della camorra. Da un certo punto in poi, i suoi arrivi a casa di Matteo, dove lavoravamo, erano sempre preceduti da un carabiniere in borghese che perlustrava le scale per cui Saviano sarebbe passato. Sono stati giorni di tensione, anche nel lavoro; Roberto, chiamato a colloquio da magistrati e alti ufficiali, non sempre ha potuto partecipare ai nostri incontri e, per un certo periodo, abbiamo dovuto fare a meno di lui. Sebbene la ricordi come un'esperienza molto positiva, abbiamo attraversato molti momenti di difficoltà, quando non si riusciva a trovare una scena finale, a mettere a fuoco un personaggio o a scrivere un dialogo cruciale, ma credo che sia andata bene e che il film, piaccia o meno, si basi su un grande sforzo di onestà e ricerca. Mi soffermo su questi aspetti, perché in tanti mi hanno chiesto come avessimo fatto a lavorare in sei a una sceneggiatura – una cosa oggi abbastanza rara – e, come al solito, quello che ha funzionato è stata la volontà di ciascuno di mettersi in gioco.

 

Da febbraio 2007 Matteo è venuto a Napoli per la fase di preparazione e lì c'è stata una successione di incontri e sopralluoghi, a cui in parte ho assistito, che hanno modificato l'idea del film che avevamo scritto. Pian piano si è capito che il regista stava scavando nei personaggi e che alcune ipotesi iniziali di attori, ritenute ormai certe, cadevano dietro i colpi di una nuova scoperta o ipotesi. Le due amiche addette al casting, gli scenografi e quanti lavoravano alla preparazione, hanno attraversato momenti di crisi, talvolta di tensione, ma col senno di poi penso che sia stato tutto necessario per non cadere nelle trappole degli stereotipi e del compiacimento. Dopo il libro di Roberto, che ha cambiato l'immagine oscura della camorra, non si poteva tornare a certi clichés sul sud e le sue comunità di cui abbondano film e tv. Da questo punto di vista, sono certo che si tratti di una sfida vinta, anche se alcuni aspetti restano uguali perché uguale è rimasto il contesto di disagio e marginalità che raccontavamo. Riguardo alla condanna di Roberto da parte del Sistema, all'inizio si era molto timorosi delle reazioni alla nostra presenza a Scampia o a Casal di Principe, tant'è che il titolo adottato, e che è rimasto fino alla fine sul ciak, era quello provvisorio di "Sei storie brevi", la sesta non è mai stata girata, malgrado una scommessa tra me e Matteo se poi avrebbe funzionato o meno.

 

Un aspetto importante, è quello relativo alla capacità di essere entrati nei territori per girare il film. Il caso di Scampia è emblematico e forse il più arduo tra gli altri che pure hanno richiesto grande determinazione a Matteo e alla sua troupe – tra cui il pittore Gianluigi Toccafondo, che ha sempre mantenuto uno sguardo ironico e luminoso sull'intorno. Premetto che il modo di lavorare di Matteo è fatto, oltre che del "typage" per cui molti attori sono presi dalla realtà, da un approfondimento della conoscenza dei territori, attraverso lunghe chiacchierate con gli abitanti o semplicemente stando lì per qualche tempo. A Scampia, dopo un'assidua frequentazione, la troupe è rimasta a girare per un mese e mezzo in una delle Vele, occupandola e, secondo me, creando delle relazioni molto positive con gli abitanti. Era la prima volta che una cosa del genere accadeva lì, i malumori non sono mancati, ma a ben guardare provenivano da quelli inevitabilmente esclusi dal film o che hanno fatto richieste assurde. Ricordo due casi per tutti: un salumiere che, alla notizia che il suo locale non serviva più per una scena ha richiesto il triplo del pagamento pattuito (che pure gli sarebbe stato versato), e un uomo che, infastidito dal lavoro della troupe, ha reclamato che gli riattaccassero l'elettricità sul pianerottolo che, invece, non c'era mai stata. La possibilità di stare lì tanto tempo è stata coltivata attraverso contatti con alcuni componenti della comunità locale, un fotografo di matrimoni, un piccolo impresario, un'associazione che lavora con i bambini, i quali hanno interceduto all'inizio per il film. Si è scelto di non avvalersi, come spesso si fa, della polizia come guida e protezione, perché questo avrebbe creato subito un filtro con la gente, abituata purtroppo al disinteresse da parte delle istituzioni, cosa che ha fatto di Scampia quello che è oggi.

 

Il ricorso ad attori e comparse prese sul luogo, ha significato anche la partecipazione di pregiudicati e spacciatori al film, e credo che sia stata una delle poche volte in cui qualcuno ha chiesto loro di collaborare a un'esperienza legale e io, personalmente, come Matteo, non ho pregiudizi o capri espiatori da mettere al bando. In pratica, il film ha ereditato molte delle contraddizioni che esistono a Scampia e si è dovuto barcamenare tra esse, a volte sbagliando, a volte facendo bene, ma senza quel cinico moralismo con cui, dall'esterno, si giudica della gente che, in definitiva, è stata abbandonata a se stessa per più di vent'anni. Ponendosi da una prospettiva così interna – come accade nei film con un forte rapporto dialettico con i mondi che raccontano – Gomorra è andato a scrutare nell'oscuro, scavando oltre l'apparenza e i luoghi comuni. Altra questione è stata la camorra che, dopo i primi sopralluoghi, ha chiesto ragione ai nostri mediatori di cosa stesse accadendo – in fondo sono loro che comandano lì e, di questo, le autorità italiane dovrebbero prendere atto. I camorristi, quando hanno appreso cosa e chi stesse per istallarsi a Scampia, hanno dato il loro silenzio assenso, qualcuno di loro si è presentato in seguito sul set con l'aria di voler ribadire che era grazie a lui che si potesse girare il film o, semplicemente, per curiosità. Gomorra non ha pagato tangenti per poter agire su un territorio controllato dalla criminalità organizzata, ma la sua troupe non ha mai subito furti o intimidazioni durante la lavorazione, e perché questo sia accaduto è, secondo me, un argomento di politica criminale. Scampia veniva fuori da una guerra cruenta di camorra e, posti sotto l'occhio del ciclone mediatico, i suoi controllori, che stupidi non sono, hanno ritenuto che gli facesse gioco permettere che qualcuno si aggirasse liberamente lì per girare un film – un po' come fanno certe dittature quando permettono l'ispezione di una delegazione dell'Onu – e, del resto, il cinema, con la sua spettacolarità, ottiene sempre un lasciapassare. L'entusiasmo e la disponibilità di tanti abitanti di Scampia, il loro essere coinvolti, lavorativamente o sul piano emotivo, nel film, è stata la vera, grande protezione per Garrone e i suoi in una periferia vittima del pregiudizio a volte più che del disagio. La sola repressione, con le sue semplificazioni tra buoni e cattivi, non l'avrà mai vinta nei territori dove la criminalità è radicata, serve anche altro, specie dal punto di vista culturale. Il film racconta anche questo e se, per farlo, ha dovuto farsi carico di alcune contraddizioni, sarà sempre un buon prezzo da pagare. (Maurizio Braucci)

 

Parliamo del tuo metodo di lavoro. Io l'ho visto da vicino e secondo me, per quanto si rifaccia a una certa tradizione cinematografica, ha delle caratteristiche molto personali.
In realtà si può dire che da quando ho girato il primo film "Terre di mezzo", fino a oggi, il mio metodo di lavoro non è cambiato molto. Già da allora ero mosso dal desiderio di perlustrare dei territori alla ricerca di un'idea figurativa del film, attraverso i luoghi e attraverso i volti. Allora non partivo da una sceneggiatura e quindi il territorio, le facce e le persone erano dei percorsi per trovare il film. Solo con "L'imbalsamatore" ho iniziato da una sceneggiatura, ma, mentre scrivevamo, io me ne andavo nei luoghi in cui era ambientato il film, e facevo delle foto o vedevo degli attori. Nel caso di "Gomorra" il lavoro di scrittura ha preceduto quello sui territori, a Napoli ci siamo andati solo dopo aver scritto la sceneggiatura. Lì, all'inizio, abbiamo trovato dei volti non strettamente legati ai luoghi in cui si ambientava la storia, ma poi, andando in giro, abbiamo dovuto rivedere le nostre idee e la realtà intorno ci ha aiutato a scegliere.
E' un metodo, questo, che certamente ha origine dal documentario – anche se queste categorie, fiction e documentario, sono sempre un po' approssimative – che diventa un'ideazione di personaggi che vengono verificati continuamente, a volte anche con dei cambiamenti dolorosi in corso d'opera. Durante le riprese di "Gomorra" ci siamo accorti che alcune ipotesi di scrittura non coincidevano con la psicologia di un personaggio o con certi sviluppi della drammaturgia. Spesso anche gli attori ci hanno segnalato se c'erano delle incongruenze, perché sono loro i primi a rendersene conto. Io giro sempre sequendo la sequenza temporale della storia e, in tal modo, do all'attore la possibilità di seguire lo sviluppo drammaturgico del personaggio e, quindi, grazie anche alle sue impressioni, possiamo verificare se le scelte fatte in sceneggiatura siano da mantenere o cambiare. In questo modo, quello che è stato scritto viene di continuo messo in discussione, la storia prende vita entrando in una dimensione più buia ma in cui tutto poi si svela pian piano. Per me è importante poter lavorare in maniera artigianale, confrontarmi con gli sceneggiatori per riscrivere dei pezzi della storia, tornare con loro sul montaggio per capire quali sono i personaggi che si potrebbero sviluppare meglio, le scene che vanno arricchite o quelle che ci sembrano stonate, per poi tornare a girarle. Tutto questo non ha niente a che fare con l'improvvisazione, anzi. Un paragone lo si potrebbe fare con la tecnica delle velature utilizzata in pittura. Nella pittura a olio, per arrivare a una particolare tonalità, si usano tanti strati di colori sovrapposti, le velature appunto, che poi danno vita all'effetto finale. Per ottenere un rosso denso, puoi usare una base di marrone scuro e poi aggiungere vari strati di rosso, per dare più profondità, più spessore. è chiaro che il mio è uno dei metodi possibili, di metodi ce ne sono diversi. Ci sono registi che non amano affatto inventare sul set e hanno bisogno dello story board per avere tutto chiaro prima di girare, altri invece sono insofferenti rispetto a ciò che è stato scritto e fanno entrare nel film quello che accade anche dietro la macchina da presa. Io appartengo più a questa seconda categoria.

 

Cosa pensi del fatto di essere considerato un regista che nei suoi film ha sempre affrontato dei temi sociali?
Già a partire dai miei primi film, c'è sempre stato un equivoco, perché sembrava che da parte mia ci fosse un impegno sociale, cosa che in realtà, pur non disdegnandolo, non ho mai messo al centro delle scelte che mi hanno portato a realizzare un particolare progetto. Invece l'aspetto più forte per me è sempre stata l'immagine, la curiosità per dei luoghi che in qualche modo mi avevano sorpreso visivamente e per dei personaggi che mi avrebbe fatto piacere approfondire. Con "Terre di mezzo" che ha come protagoniste delle prostitute nigeriane, più che la questione della prostituzione, che m'interessava fino a un certo punto, mi affascinava quella realtà così onirica che si creava tra loro e i contadini che pascolavano le pecore lì in campagna, o i ciclisti che passavano indossando delle tute quasi spaziali. Non avrei mai raccontato tre prostitute in una strada di notte sulla Colombo a Roma, visivamente non mi avrebbe attratto. Invece quell'atmosfera divertente e un po' arcaica mi fece venire voglia di raccontare una loro giornata qualsiasi. Non so bene perché, ma da allora si è creato un equivoco sull'importanza per me della denuncia o dell'impegno. Sono sempre stato dell'idea che sia più importante l'espressione che l'informazione, tutto questo discorso vale anche per "Gomorra" che rischia di essere frainteso, perché ha una componente di denuncia sociale ma questa rappresenta solo un aspetto delle sue varie motivazioni.

 

Tu hai una particolare passione per il reale, eppure dai tuoi film viene fuori sempre qualcosa di un po' onirico, sottilmente visionario ma al contempo concreto.
Nel cinema la realtà è legata allo sguardo con cui la rappresenti e quindi alla capacità che hai di trasformarla, di reinventarla. In questo modo non si può parlare di realtà oggettiva, tutto dipende da dove scegli di porre il tuo sguardo e lo sguardo è sempre soggettivo, ha sempre a che fare con un processo creativo. Il rapporto con la rappresentazione è molto più complesso nel cinema, che è comunque una tecnica legata alla fotografia, anziché nella pittura o in altre forme d'arte che sono slegate dall'aspetto imitativo della realtà. Per il cinema, la questione è di riuscire a liberarsi dall'imitazione del reale e andare oltre, procedere verso un'altra direzione e, infine, riuscire a farlo. La partita si gioca tutta lì: riuscire a farlo in una maniera che sorprenda, che abbia anche un impatto emotivo.

 

Ma la tua ricerca di emotività ha anche delle esigenze tecniche molto forti.
Qualsiasi immagine, qualsiasi inquadratura deve essere rigorosa. In "Gomorra" questo rigore è servito a rendermi invisibile. Così ho potuto mettermi in disparte, come uno spettatore capitato lì per caso, cercando in tutti i modi di non far sentire la mia presenza attraverso un'inquadratura particolare o un movimento di macchina che non fossero strettamente necessari. Essere rigoroso è stato molto importante per evitare il compiacimento e l'invadenza da parte mia, per riuscire a creare un impatto emotivo in chi avrebbe poi guardato il film, non mettendo nessun filtro tra lui e l'immagine. Lo stesso è accaduto con la musica in postproduzione, ne ho usata pochissima perché, quando abbiamo provato a inserire una colonna sonora, tutto si trasformava in commedia o in una presa di posizione verso le immagini. Con la musica, il bambino che spaccia ne veniva fuori con un commento didascalico, quasi a volere che lo spettatore si commuovesse. Lo stesso vale per il montaggio, lì ho quasi sempre prediletto i piani sequenza.

 

Il fatto che sia direttamente tu a filmare è importante?
Essere alla macchina da presa per me è fondamentale anche per un altro motivo, perché quando giro cerco dei momenti unici, degli attimi irripetibili, e questa ricerca c'è sempre stata in me, anche se prima ne ero meno consapevole. La scrittura mi interessa come punto di partenza, però poi sento di doverla superare. Quello che cerco non accade facilmente, puoi fare venti ciak e non succede nulla, con "Gomorra" i ciak non sono mai stati uno uguale all'altro, il modo in cui veniva detta una cosa, la gestualità, cambiavano di volta in volta. Poi d'un tratto accadeva un miracolo, quel momento unico che ti dicevo, e dovevo essere pronto a coglierlo con la macchina da presa, perché magari era solo un gesto, una piccola sfumatura che non ricapita. Se ci fosse stato un operatore, avrei dovuto dirgli, "Vai sulla mano che sta poggiata in quel punto" e lui probabilmente sarebbe arrivato in ritardo, oppure non si sarebbe preso mai la responsabilità, durante un dialogo, di soffermarsi sul movimento di un dito. Invece, poiché sono io a filmare, mi viene istintivo di cercare una simbiosi con gli attori: loro inventano, io invento, inventiamo insieme. Ma è necessario che si crei un'alchimia tra di noi, altrimenti io vado per conto mio, loro vanno in un'altra direzione e non nasce niente. è questo il motivo per cui sto in macchina, spesso le idee mi vengono a seconda dei movimenti che fanno gli attori e gli attori spesso arrivano a dei movimenti inconsapevolmente. Non sono mai io a farmi seguire dagli attori come spesso accade con i registi che mettono dei segni per terra perché l'attore sappia che deve arrivare in quel punto e poi guardare fuori dalla finestra, in una precisa direzione, altrimenti non prende bene la luce. Queste cose per me non hanno senso, io cerco di creare le premesse perché possa accadere qualcosa, poi mi metto a osservare attraverso la cinepresa. In pratica è lì che cerco delle idee di racconto, in fase di sceneggiatura non sono mai riuscito a farmele venire. Ma il rapporto con gli attori è bello averlo anche in fase di scrittura, anche lì possono darti un sacco di suggerimenti su un personaggio, oppure puoi trovarli tu stesso, guardando come si comportano. Con "Gomorra", sui luoghi d'ambientazione ci sono andato solo dopo che abbiamo finito la sceneggiatura, e infatti da lì sono cambiate molte cose. La scena iniziale del solarium, quella specie di prologo del film, è nata stando a Scampia e scoprendo, durante le riprese, che un luogo del genere, oltre che suggestivo, era molto emblematico dell'immaginario della camorra.

 

Che impressione hai avuto dopo la tua lunga permanenza in Campania, dopo essere stato in luoghi come Scampia e il casertano, così stigmatizzati dalla cronaca?
In genere, si ha un'idea molto più schematica di certi mondi, del tipo o bianco o nero. Invece se provi a conoscerli, trovi una situazione più complessa, l'esistenza di una zona grigia dove tutto si mescola, e che però ti confonde, rendendo meno netti i giudizi che potresti dare. Io, dopo sei mesi di permanenza nel napoletano e nel casertano, ho le idee molto meno chiare di quando ho iniziato! è stata un'esperienza forte, allo stesso tempo umana e disumana per le situazioni e la gente che ho conosciuto. Lì osservavo tutto quello che mi circondava, dovevo capire cosa poteva diventare parte del film, in un certo senso il mio scopo era rubare. Così cercavo un modo per restituire l'anima di quell'umanità che incontravo, ma anche per trasfigurarla, evitando l'imitazione del reale. Rifare la copia di come la gente vive è sempre un rischio, io invece volevo una realtà che fosse anche altro. Alla fine, da quando sono tornato a casa, ho la sensazione di essere stato al fronte, su un luogo di guerra dove ho incontrato dei soldati, le loro compagne, i loro figli, persone comuni che vivono in un territorio di guerra e che mi hanno raccontato la loro esperienza. C'è chi mi ha parlato in modo sincero, chi meno, ma, come dice Rossellini nel prologo di "Germania anno zero": tutti, lì, vivono nell'incoscienza della loro condizione. All'inizio c'erano cose che mi lasciavano di stucco, poi pian piano mi sono accorto che mi abituavo, non mi sorprendeva più niente, come accade alla gente che vive lì. Ci si abitua a tutto, credo. In quelle zone ho notato tante contraddizioni e ho cercato di parlarne nel film, di raccontare una popolazione che vive circondata da solarium e profumerie mentre ha l'immondizia che la sommerge, mentre intorno accadono omicidi brutali. Una situazione molto complessa, e infatti il primo problema del film è stato quello di mettere ordine, il materiale intorno era così tanto che spesso la sera tornavo con un senso di gran confusione, c'era troppa roba e non riuscivo a organizzarmi. Bisognava mettere ordine e, allo stesso tempo, eliminare il superfluo, lavorare in sottrazione. C'era una grande ricchezza di suggestioni, a livello sonoro, visivo, e il rischio era quello di girare a vuoto. Così, a un certo punto ho deciso di concentrarmi solo su alcuni temi, lasciando fuori tante altre cose.

 

Noi ci dicevamo sempre, mentre scrivevamo, che un errore sarebbe stato fare un film che riproponesse oggi certi stereotipi su Napoli e dintorni.
Quando sono stato negli Stati Uniti per mixare il suono del film, mi sono accorto che "Gomorra" propone un immaginario diverso da come se lo aspettano all'estero. Spesso, già nell'immaginario del gangster movie prevale una dimensione un po' glamour, invece il nostro film è apparso totalmente privo di qualsiasi fascinazione legata al crimine, risultava molto brutale, molto crudo. è chiaro che parliamo di una rappresentazione della realtà, dove non è tanto importante che esistano davvero dei ragazzini che si fanno sparare sui giubbotti antiproiettili o un sarto che si nasconde nel portabagagli di un auto o dei bambini rom che guidano dei tir in una cava. Quello che è importante è la verosimiglianza, ridare quel senso di invenzione continua che sta alla base della realtà. La vicenda dei ragazzini con i giubbotti antiproiettili è vera perché è vero il principio, cioè che ci sono dei rituali di coraggio, di iniziazione attraverso cui si diventa uomini del Sistema. La storia del traffico dei rifiuti tossici è vera, come il fatto che c'è chi rimane ferito trasportandoli e chi poi utilizza degli incoscienti disposti a rischiare la vita, così i bambini rom sui tir rappresentano le vittime di una crudeltà che è molto reale. è la stessa cosa che accade in alcune pagine del libro di Saviano, che è a metà tra documento e romanzo. Questo è un tema molto complesso da spiegare, a volte è quasi come se l'autore diventasse strumento di una realtà talmente forte che viene fuori da sola. Io credo che le scene di maggiore invenzione del film sono, per certi versi, quelle più vere perché comunicano un sentimento che va più in profondità, che svela molte più cose.

 

Sia in periferia che in provincia, in Campania, il luogo comune dell'arretratezza, a ben guardarlo, si sfata. C'è invece una presenza del moderno quasi asfissiante.
Sicuramente c'è stato un grande cambiamento antropologico tra la gente che vive nella periferia di Napoli o nel casertano, lo avverti già sul piano fisico, sui corpi. Così come sono cambiati i calciatori, sono cambiati anche i criminali, è l'effetto dei nuovi modelli che, attraverso la televisione, entrano nelle case dei ricchi come in quelle dei poveri. A Scampia, ogni famiglia tiene il televisore sempre acceso e tutti sono sintonizzati sugli stessi programmi: "Amici", "C'è posta per te", "Il Grande Fratello", quello è il modello, quello è l'immaginario. Anche se sono estremamente poveri, hanno un modo particolare di prendersi cura di sé, di pettinarsi, di vestirsi con abiti firmati. Invece, nel casertano senti che la gente viene da una tradizione più contadina, hanno anche altri riferimenti, sono molto meno attenti alla moda o la usano in maniera diversa. Tuttavia, anche nella più grande povertà, la gente cerca di vivere con dignità, sebbene sia rassegnata nei confronti dei problemi che la circondano. Inoltre, ti accorgi di come sia facile cadere in certe dinamiche criminali, perché esiste un meccanismo intorno a te, degli ingranaggi che ti stritolano senza che tu te ne renda conto.

 

Trovo che il film abbia un grande tema: quello dei giovani che vivono in un mondo sempre più assurdo. Ciò che li mortifica o distrugge, nel film, non sembra essere solo la camorra, ma un sistema socialmente ben più grande.
L'infanzia, l'adolescenza, hanno un ruolo importante nel film. Quando pensammo alla storia del ragazzino che entra nel Sistema e a quella della coppia di ragazzi che vengono puniti dai clan, già le immaginavamo come speculari. La prima è in fondo la storia di uno che entra in un esercito, che impara la disciplina, la sua struttura gerarchica e ne ottiene una specie di tutela, di protezione. L'altra storia, invece, va nella direzione opposta, racconta di due personaggi anarchici, che contravvengono alle regole della criminalità. Sono due punti di partenza diversi ma che arrivano alla stessa, drammatica, conclusione. Non so fino a che punto eravamo consapevoli di questo tema durante la scrittura, ma mi sembra che sia questo il tema centrale del film: il fatto che ci sia un sistema che condiziona, che stritola e che in particolare lo faccia con i più piccoli. Uno crede di esserne consapevole, di potersi gestire e invece, quando si accorge che non è così, è ormai troppo tardi. Tutto questo io l'ho capito dopo, vedendo il film. Di ogni cosa, non abbiamo dato un giudizio morale, e questo mi sembra interessante, ma abbiamo mostrato le conseguenze. D'altra parte, mi sono accorto che ognuno poi, vedendo un film, trova delle affinità con un certo personaggio o con un altro, nota un tema più di un altro. Quindi il discorso del tema centrale è abbastanza relativo.

 

Come è stato il rapporto con gli abitanti dei luoghi in cui hai girato? Come reagivano al fatto che si stesse realizzando un film che li riguardava?
Sicuramente, le persone erano affascinate dal fatto che dovessimo girare un film, indipendentemente da quale fosse. Quando arrivi con i riflettori, molte persone ti accolgono bene, è il cinema. Io credo che però anche noi siamo stati bravi a non tradire questa loro apertura, cosa non sempre facile perché la presenza di un set può creare problemi, la troupe può risultare ingombrante o dare fastidio, soprattutto quando ci stai per lungo tempo come è stato nel nostro caso. Ma c'è un'altra cosa che bisogna dire, che le persone del posto hanno collaborato non soltanto come interpreti ma anche come spettatori. Quando filmavamo c'era sempre un monitor e, a guardarlo, c'erano sempre tantissime persone che vivevano l'emozione della scena, se funzionava, o, in caso contrario, la criticavano e ci dicevano quello che secondo loro non andava. Erano i nostri primi spettatori e per me era molto importante sentire cosa ne pensavano. Una volta, tra la gente, c'è stata una discussione molto accesa su una scena in cui si spacciava mentre, al piano di sotto, una sposa usciva di casa per andare in chiesa. Alcuni dicevano che, siccome il matrimonio è una cerimonia molto sentita, gli spacciatori in un caso del genere avrebbero spostato la vendita in un altro posto, e quindi vedevano quasi come un sacrilegio la nostra rappresentazione. Altri invece sostenevano il contrario, anzi, era stato uno di loro a suggerirmi la scena, perché era capitato proprio a lui. Così, alla fine, si sono messi a litigare tra loro. Davanti al nostro monitor c'era un dibattito continuo su come veniva rappresentata la realtà. Comunque sarebbe inesatto dire che tutti avevano voglia di partecipare, alcuni lo facevano solo per soldi, altri perché avevano problemi con la giustizia e per loro era un occasione per riabilitarsi, e così in pratica ci strumentalizzavano. In genere si pensa che sia solo il cinema a strumentalizzare, che vada in un luogo per rubare dalla realtà; invece fa piacere vedere che, a volte, i ruoli vengono ribaltati. Inoltre, c'era chi ci avrebbe tenuto a fare un'esperienza cinematografica ma ha avuto problemi con i familiari, i quali pensavano che "Gomorra" non fosse un film da sostenere. Il cinema non affascina tutti, mentre altri ti tormentano pur di esserci. Ma io sono d'accordo con Roberto Saviano quando dice che il cinema è il modello di riferimento principale, che è la realtà a prendere spunto dal cinema e non il contrario.

lo Straniero

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