domenica 8 giugno 2008

L'ANALISI: Gli obblighi della realtà, di GIUSEPPE D'AVANZO| la Repubblica

L'ANALISI

Gli obblighi della realtà

di GIUSEPPE D'AVANZO


"Dialogo" o "conflitto". Politica e Magistratura sembrano non poter scorgere altri percorsi nel loro contraddittorio. Anche gli osservatori più attenti (non parlo dei "professionisti del rancore" dell'una o dell'altra riva) non riescono a liberarsi da un disegno convenzionale.

Sono prigionieri di una riduttiva rappresentazione. Così reclusi in quella formula da non cogliere il seme dell'insolita novità di questa stagione. Politica e Magistratura, nella crisi di credibilità in cui sono state precipitate dalla crisi dell'etica della responsabilità e dai deficit dell'etica dei principi, da un benpensantismo cinico e dall'astrattezza democratica, hanno la necessità di uscire dal vuoto che lascia i problemi perennemente irrisolti. Hanno bisogno di andare oltre lo iato tra il predicare e il fare. Hanno bisogno di concretezza per riconquistare - agli occhi del cittadino - credito, fiducia, pubblico favore, consenso.

"Necessità" e "concretezza", allora, sono oggi le parole chiave del confronto tra Politica e Magistratura.
Berlusconi ha già governato per una legislatura e, in cinque anni, ha soltanto risolto con leggi ad personam i suoi grattacapi, lasciando la machina iustitiae nello stato di ferro storto e rugginoso che era. Ha preferito occuparsi dei magistrati e non dell'efficacia della funzione giudiziaria. Mai dell'utilità e della convenienza sociale di quel servizio pubblico. Dal loro canto, nell'aggressione all'ordine giudiziario, le toghe hanno trovato l'alibi buono per declinare la sacrosanta, irrinunciabile "autonomia e indipendenza" del magistrato come irresponsabilità e privilegio di casta. Questo è stato finora il "conflitto" e i tentativi di "dialogo" si sono consumati tutti nella cultura politica dominante della Prima Repubblica. Si è privilegiato la mediazione degli interessi, la contrattazione tra élites.

Ma in gioco era il potere, il primato nell'architettura costituzionale, e nessuno degli antagonisti aveva la possibilità di vincere una partita che si è protratta stancamente tra liti snervanti, continui negoziati, la disperazione quotidiana del cittadino che la sorte obbliga a varcare la soglia di un tribunale, come vittima o come imputato. La contesa ha soltanto peggiorato la crisi e lasciato sul terreno la credibilità sia della Politica che della Magistratura. Ora gli agonisti appaiono consapevoli di essere in un punto critico e il contraddittorio tra i due poteri sembra ispirato a un senso non mistificato del reale. Berlusconi ha promesso al Paese più sicurezza. È il suo cavallo di battaglia. È la carta vincente della sua offerta politica, ma anche quella che, se giocata male, può perderlo. Sa che non terrà fede al suo impegno se la giustizia non troverà una sua più moderna efficacia e funzionalità. A loro volta le toghe comprendono che, dinanzi alla percezione di insicurezza del Paese, conta poco il lamento, la protesta, la rivendicazione da consorteria, l'urlo o peggio lo sciopero. I cittadini chiedono che, per quel che compete alla giustizia, i magistrati offrano risultati tangibili e convincenti, senza più alibi e le toghe sanno che, se i risultati non verranno presto, c'è il rischio - lo ha detto un procuratore dinanzi al disastro della "monnezza" napoletana - che si vedano "i forconi" dinanzi ai palazzi di giustizia.

Accantonata la battaglia per il potere e per il primato, il confronto tra Governo, Parlamento e Ordine giudiziario si misura sull'efficacia delle proposte riformatrici. È vero, una densa aria ideologica accompagna le iniziative del governo (la clandestinità come reato; la prostituzione come vulnus alla pubblica moralità; le intercettazioni come esclusiva violazione della privacy e non come essenziale strumento investigativo). Non c'è dubbio che ci sia, a Palazzo Chigi, la pericolosa tentazione di sciogliere i nodi più intricati con un colpo di scure che liquida i diritti della persona e principi inalienabili della Carta Costituzionale. È una vocazione autoritaria, autenticamente di destra, che non va mai dimenticata. Richiede vigilanza, attenzione pubblica, controllo istituzionale. E tuttavia sarebbe una colpevole leggerezza non considerare la novità di stagione. È proprio il governo, che agita lo spettro della paura come "idea politica" e rassicura con annunci pubblici gli impulsi più elementari già sollecitati durante la campagna elettorale, a farsi pratico e cauto fino al ripensamento. Bossi non dice che il reato di clandestinità sia la soluzione delle difficoltà create dall'immigrazione. Sostiene pubblicamente che non si tratta altro che di "un messaggio", quindi di comunicazione politica. È Berlusconi che raffredda l'animo dei suoi, eccitati dal reato di clandestinità. Non gli importa nulla dei principi, naturalmente. Gli interessa soltanto l'utilità di quella misura, e non l'afferra. "In Italia - ragiona - possono arrivare anche mille clandestini al giorno. Dovremmo prevedere magistrati capaci di esaminare i loro casi e carceri capaci di ospitali". È una scena che non gli appare plausibile. "Sono circostanze che non hanno alcuna concretezza", dice. È lo stesso canovaccio che utilizzano le toghe. Ci sarebbero molti argomenti per sostenere che il decreto con forza di legge preparato per Napoli e la Campania sia incostituzionale (prevede la creazione di un tribunale speciale), ma questa ragione non viene opposta dai magistrati. Preferiscono dimostrare come quel provvedimento rischi di non essere efficace: "Il giudice straordinario è quasi sempre un giudice improvvisato, tormentato e ritardato dai conflitti di competenza, incerto e disorientato dall'assenza di giurisprudenza".

Sono condizioni che rendono incerta l'accusa, debole il giudizio, lentissimo l'iter processuale. A chi conviene? Anche per il delitto di ingresso illegale nel territorio dello Stato, i dubbi dei magistrati non sono chiusi nel cerchio stretto dei principi (che pure sono minacciati), ma nel campo largo e assai visibile della concreta effettualità di quel disegno di legge. "Nei piccoli uffici dell'Italia meridionale esposti all'immigrazione clandestina - dice l'associazione magistrati - è di fatto impossibile celebrare centinaia di udienze di convalida dell'arresto e tantomeno processi per direttissima". Con una formula molto simile a quella di Berlusconi, le toghe avvertono che non ci sarebbe alcun reale, effettivo beneficio né per le espulsioni né per la riduzione del fenomeno. A chi conviene? Non conviene alla Politica che ha promesso di ridimensionare l'impatto dei migranti. Non conviene alla credibilità della Magistratura, da cui i cittadini si attendono che separi il grano dal loglio, i pochi che delinquono dai molti che lavorano.

Non bisogna dunque sottovalutare le coincidenze di metodo e di approccio che Politica e Magistratura verificano in questi giorni. Permettono di affrontare finalmente le concrete difficoltà che incontra la funzione giudiziaria (incertezza della pena, inadeguatezza del processo civile e penale, organizzazione dissennata degli uffici, procedure intricate, codici e reati ipertrofici). Lungo questa strada di "necessità" e "concretezza", anche Berlusconi potrà comprendere (lo ha già fatto per l'immigrazione clandestina) come le mosse propagandistiche - se non davvero efficaci - non sono destinate a raccogliere consenso. I "giovani" di Confindustria possono anche spellarsi le mani all'annuncio che le intercettazioni saranno legittime soltanto per mafia e terrorismo, ma chi lo spiega poi ai risparmiatori, ai prigionieri della sanità del Mezzogiorno, alle imprese escluse dal mercato con l'abuso (per fare qualche esempio) che cancellare le intercettazioni per insider trading, corruzione, concussione diventa di fatto depenalizzare quei reati e inaugurare una "giustizia dei forti" e "un diritto del privilegio"? A chi conviene?

la Repubblica
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