IMMIGRAZIONE - Spagna, dentro ai Cpt l'inferno dei senza diritti
Barcellona, Malaga, Algeciras... Erano inizialmente 8 e sono diventati 10 i «centros de internamiento por extranjeros», vere e proprie prigioni di massima sicurezza in cui nessun deputato spagnolo ha diritto di entrare Sbarre alle finestre, tempi imposti e poliziotti che sorvegliano le giornate dei migranti, fra cui anche minorenni e donne incinte.
Sara Prestianni
Mercoledì 28 maggio il ministro degli Interni spagnolo, Rubacalba, ha annunciato, sulla scia della discussione relativa alla direttiva europea sui rimpatri, la modifica della legge sull'immigrazione, con l'obbiettivo di prolungare da 40 a 60 giorni il limite massimo di detenzione nei centri di permanenza temporanea spagnoli. Ma pochi sanno cosa effettivamente accada dietro le mura dei 10 centri di detenzione presenti sul territorio spagnolo. Negli ultimi anni, solo alcuni parlamentari europei hanno avuto l'autorizzazione d'ingresso, nessun deputato nazionale né le associazioni che da lungo tempo si battono perché sia fatta luce sulle carceri dei migranti, hanno potuto varcare la porta dei Cie (centros de internamiento por extranjeros) spagnoli. Nel luglio del 2007, nell'ambito dell'inchiesta promossa dalla Commissione Libe sulle «Condizioni dei cittadini di Paesi terzi ospiti di centri (campi di detenzione, centri aperti e zone di transito) con particolare attenzione ai servizi disponibili per persone con bisogni specifici, nei 25 Stati membri dell'Ue», siamo riusciti a varcare questa soglia.
Davanti a noi delle vere e proprie prigioni di massima sicurezza dove i migranti vengono «accolti» dopo lo sbarco sul territorio spagnolo o «aspettano» la procedura d'espulsione. Da Madrid alle Canarie lo scenario si ripete: celle chiuse a chiave notte e giorno, strutture decadenti, soprattutto nei centri del sud, solo personale appartenente al corpo di Polizia nazionale, una totale chiusura al mondo esterno, un servizio d'assistenza psico-sanitario assente o profondamente carente e numerose testimonianze raccolte sulle violenze perpetrate contro i migranti da parte dei sorveglianti.
I centri di detenzione in Spagna erano inizialmente 8, poi sono diventati 10, col pretesto dell'«emergenza invasione» , nell'estate del 2006, quando, in seguito all'arrivo dei cayucos, in provenienza da Senegal e Mauritania, sulle coste delle Canarie, due accampamenti militari dell'epoca franchista sono stati adibiti a centri di detenzione, Las Raices a Tenerife, la Isleta a Gran Canaria.
Le nostre visite cominciano al Cie di Barcellona, centro di detenzione modello, aperto nell'agosto del 2006, dopo la chiusura di quello, tristemente noto, della Verneda. Il nuovo centro è stato tirato a lucido, le celle sono pulite così come gli spazi comuni e la mensa, ma sembra più un carcere di massima sicurezza che un luogo di detenzione per un delitto amministrativo, qual è il fatto di non avere documenti.
Le griglie dei portoni si chiudono dietro di noi, e il direttore del centro, comandante della Polizia nazionale, comincia la visita, illustrandoci i due blocchi, quello maschile e quello femminile, che hanno una capienza totale di 226 posti. Continuiamo con le celle d'isolamento, previste per chi non si comporta secondo il regolamento del centro, in pratica quindi per chi si lamenta delle condizioni carcerarie o si ribella all'espulsione. Il loculo d'isolamento prevede una sola brandina e nessun accesso alla luce esterna, solo una piccola grata verso il corridoio. Accanto, sono state adibite due celle speciali per i nuclei familiari, che si contraddistinguono dalle altre per il fatto di essere dotate di un lettino per neonati e un divanetto. La Spagna, a differenza dell'Italia permette la detenzione di minori, se accompagnati, e di donne incinte, anche in gravidanza avanzata.
I migranti che sono detenuti devono rispettare un ferreo orario che scandisce le loro giornate: sveglia alle 8,30 e colazione; dalle 10 alle 13,30 sono rinchiusi nel patio o nella sala comune, perché le camere vengono chiuse; dalle 13,30 alle 16 devono obbligatoriamente trasferirsi nella zona alloggio che viene quindi chiusa a chiave; dalle 17 alle 19 sono previste le visite; alle 19,30 cenano e poi sono accompagnati nelle celle, che vengono chiuse a chiave alle 23. In alcuni centri, come in quello di Madrid, le celle, chiuse di notte, non sono dotate di servizi igienici e i detenuti, come ci racconta una giovane donna incinta, sono costretti a urinare nel lavandino.
Arrivati nelle celle comuni ci troviamo di fronte a una scena che si ripeterà, immancabile, in tutti i centri: i migranti si accalcano alle sbarre, gridano, invocando l'attenzione della sola persona che non porta una divisa che hanno visto entrare nel centro, per raccontare le tragiche condizioni in cui si trovano. Uno di loro ci racconta di essere appena sbarcato in Spagna. È partito due anni e sei mesi prima dal Camerun - dice -, ha trascorso un anno e otto mesi vivendo nelle foreste del Marocco in condizioni di totale precarietà ed esposto a persecuzioni e violenze. In Camerun non vuole tornare e non capisce perché dev'essere detenuto, sperava che la Spagna fosse diversa e che le vessazioni a cui è stato sottoposto dal Marocco, nuovo gendarme d'Europa, fossero finite.
Ma per capire cos'è un centro di detenzione in Spagna bisogna scendere al sud e visitare il Cie di Malaga e quello d'Algeciras. Le due città andaluse sono state, nel corso degli anni, il punto d'accesso principale in Spagna, prima che fosse installato il Sive, il sistema di radar e intercettazione marittime, che ha spostato le porte dell'Europa alle Canarie. Dopo la collaborazione di Senegal e Mauritania nelle operazioni di controllo delle frontiere, nell'ambito dell'azione di Frontex, il punto di partenza verso l'Europa si è nuovamente spostato in Marocco, a Al Houceima, e le coste della penisola spagnola hanno ricominciato ad essere il primo approdo di centinaia di migranti.
Il centro di Algeciras è l'antico carcere della città - un vecchio edificio in totale abbandono -, quello di Malaga, una struttura dei primi del '900, utilizzata prima come convento di suore e in seguito come caserma militare, per poi essere abbandonata per molti anni, prima di essere adibita a centro di detenzione. In entrambe le strutture il personale fa parte della Polizia nazionale, tanto il direttore del centro che il medico di turno. Il centro di Malaga, di cui lo stesso procuratore della Repubblica ha richiesto la chiusura, è tristemente noto per le denunce di abusi sessuali da parte dei poliziotti verso le detenute. Nonostante le gravi accuse, il centro resta funzionante: con una nuova gestione, le detenute violentate espulse, e i poliziotti trasferiti in un altro centro. I migranti vivono dentro stanzoni comuni, completamente al buio poiché le grate delle finestre sono talmente fitte da non lasciar passare la luce, il resto del tempo lo trascorrono in un patio di 10 metri quadrati a cui non abbiamo accesso, per motivi di sicurezza.
Ma è nel centro di El Matoral , uno dei più grandi campi di detenzione europeo, con la sua capienza officiale di 1.010 persone (ma che è arrivato a contenerne fino a 2.000), situato a Fuerteventura, isola dell'arcipelago delle Canarie, che le condizioni di detenzione si degradano ulteriormente. Il centro è diviso in due zone, da un lato due grandi stanzoni, di una capienza di 350 persone ciascuna, dotati di un bagno e qualche doccia e sommersi dai rifiuti accumulati da giorni. Dall'altro lato piccolissime celle, ma dotate di una ventina di letti a castello ciascuna, si affacciano una sull'altra. Nella penombra, i volti dei migranti rinchiusi si avvicinano alle grate, tutti sono vestiti uguali e raccontano la stessa tragica storia della traversata del mare. Ci raccontano anche che passano le giornate chiusi nelle celle, uscendo una volta al giorno, per i pasti. Tra loro molti volti di minori, riconosciuti maggiori dal test osseo a cui sono stati sottoposti in questura, subito dopo lo sbarco. Avranno lo stesso destino degli agli altri: l'alternativa tra un volo nella penisola per poi essere liberati e diventare i nuovi clandestini d'Europa o un volo a destinazione del paese di provenienza. Purtroppo non gli è permesso scegliere tra un'alternativa e l'altra, questo potere risiede nelle mani dei Governi, europei e africani, che firmano accordi di riammissione e inviano fondi per permettere il rimpatrio immediato dei migranti che sbarcano sul territorio europeo.
Molti migranti li troviamo in fila davanti all'ambulatorio, con il corpo martoriato dalle piaghe infette, che si sono provocati nei 15 giorni di traversata nelle carrette del mare, bruciature da carburante o morsi d'insetti. Solo una suora volontaria, presente saltuariamente nel centro, disinfetta momentaneamente le ferite, ma il suo apporto è limitato di fronte alla popolazione presente. Il medico, dicono, non lo vedono da almeno una settimana. Non ci stupisce quindi il fatto di sapere che a uno dei giovani subsahariani arrivati a Barcellona dopo i 40 giorni di internamento nel centro di detenzione delle Canarie, sia stata amputata una gamba. La ferita, provocata dalle condizioni di estrema precarietà del transito fino alla costa senegalese, infettata dall'acqua mista a carburante della traversata, e lasciata senza cura nel centro delle Canarie, si è incancrenita, tanto da non lasciare altra soluzione che l'amputazione. Ma non è solo della mancanza di assistenza sanitaria che si lamentano i migranti nel Cie del Matoral, a Fuerteventura. Parlano anche di violenze fisiche da parte della polizia che controlla il centro, manganellate riservate a chi esce dalla fila imposta durante la distribuzione del pasto o a chi, semplicemente, cerca di opporsi al viaggio dell'espulsione. Proprio per evitare questo «problema», ci dice un poliziotto, generalmente non si dice mai al detenuto che sta per essere espulso, ma si preferisce fargli credere che sta per essere trasferito nella penisola. Questa pratica è confermata anche dal direttore del centro, che, come dice la placca esposta nel suo ufficio, ha fatto un «corso di perfezionamento» dai carabinieri italiani all'epoca dello sbarco dei gommoni albanesi in Puglia, e di quel periodo sembra avere una grande nostalgia.
La violenza della polizia, che gestisce e controlla la struttura, è denunciata anche dai migranti del centro di detenzione di Madrid. Quando ci vedono arrivare si accalcano alle grate della cella comune dove sono obbligati a trascorrere l'intera giornata: rinchiusi, costretti a chiedere il permesso ai poliziotti anche per poter andare in bagno. Entriamo, tra i rifiuti e l'odore di urina che prende alla gola, i racconti continuano: arresti, detenzioni arbitrarie, violenze. Le visite finiscono, i centri si chiudono, ma la mobilitazione è ormai partita e in Spagna ci si chiede cosa succeda realmente dentro le mura di questi centri che ricordano molto di più una prigione di massima sicurezza che un centro di detenzione amministrativa. Il 21 giugno, i militanti e le associazioni spagnole si sono dati appuntamento davanti al centro di detenzione di Malaga per richiederne, infine, la chiusura.
Davanti a noi delle vere e proprie prigioni di massima sicurezza dove i migranti vengono «accolti» dopo lo sbarco sul territorio spagnolo o «aspettano» la procedura d'espulsione. Da Madrid alle Canarie lo scenario si ripete: celle chiuse a chiave notte e giorno, strutture decadenti, soprattutto nei centri del sud, solo personale appartenente al corpo di Polizia nazionale, una totale chiusura al mondo esterno, un servizio d'assistenza psico-sanitario assente o profondamente carente e numerose testimonianze raccolte sulle violenze perpetrate contro i migranti da parte dei sorveglianti.
I centri di detenzione in Spagna erano inizialmente 8, poi sono diventati 10, col pretesto dell'«emergenza invasione» , nell'estate del 2006, quando, in seguito all'arrivo dei cayucos, in provenienza da Senegal e Mauritania, sulle coste delle Canarie, due accampamenti militari dell'epoca franchista sono stati adibiti a centri di detenzione, Las Raices a Tenerife, la Isleta a Gran Canaria.
Le nostre visite cominciano al Cie di Barcellona, centro di detenzione modello, aperto nell'agosto del 2006, dopo la chiusura di quello, tristemente noto, della Verneda. Il nuovo centro è stato tirato a lucido, le celle sono pulite così come gli spazi comuni e la mensa, ma sembra più un carcere di massima sicurezza che un luogo di detenzione per un delitto amministrativo, qual è il fatto di non avere documenti.
Le griglie dei portoni si chiudono dietro di noi, e il direttore del centro, comandante della Polizia nazionale, comincia la visita, illustrandoci i due blocchi, quello maschile e quello femminile, che hanno una capienza totale di 226 posti. Continuiamo con le celle d'isolamento, previste per chi non si comporta secondo il regolamento del centro, in pratica quindi per chi si lamenta delle condizioni carcerarie o si ribella all'espulsione. Il loculo d'isolamento prevede una sola brandina e nessun accesso alla luce esterna, solo una piccola grata verso il corridoio. Accanto, sono state adibite due celle speciali per i nuclei familiari, che si contraddistinguono dalle altre per il fatto di essere dotate di un lettino per neonati e un divanetto. La Spagna, a differenza dell'Italia permette la detenzione di minori, se accompagnati, e di donne incinte, anche in gravidanza avanzata.
I migranti che sono detenuti devono rispettare un ferreo orario che scandisce le loro giornate: sveglia alle 8,30 e colazione; dalle 10 alle 13,30 sono rinchiusi nel patio o nella sala comune, perché le camere vengono chiuse; dalle 13,30 alle 16 devono obbligatoriamente trasferirsi nella zona alloggio che viene quindi chiusa a chiave; dalle 17 alle 19 sono previste le visite; alle 19,30 cenano e poi sono accompagnati nelle celle, che vengono chiuse a chiave alle 23. In alcuni centri, come in quello di Madrid, le celle, chiuse di notte, non sono dotate di servizi igienici e i detenuti, come ci racconta una giovane donna incinta, sono costretti a urinare nel lavandino.
Arrivati nelle celle comuni ci troviamo di fronte a una scena che si ripeterà, immancabile, in tutti i centri: i migranti si accalcano alle sbarre, gridano, invocando l'attenzione della sola persona che non porta una divisa che hanno visto entrare nel centro, per raccontare le tragiche condizioni in cui si trovano. Uno di loro ci racconta di essere appena sbarcato in Spagna. È partito due anni e sei mesi prima dal Camerun - dice -, ha trascorso un anno e otto mesi vivendo nelle foreste del Marocco in condizioni di totale precarietà ed esposto a persecuzioni e violenze. In Camerun non vuole tornare e non capisce perché dev'essere detenuto, sperava che la Spagna fosse diversa e che le vessazioni a cui è stato sottoposto dal Marocco, nuovo gendarme d'Europa, fossero finite.
Ma per capire cos'è un centro di detenzione in Spagna bisogna scendere al sud e visitare il Cie di Malaga e quello d'Algeciras. Le due città andaluse sono state, nel corso degli anni, il punto d'accesso principale in Spagna, prima che fosse installato il Sive, il sistema di radar e intercettazione marittime, che ha spostato le porte dell'Europa alle Canarie. Dopo la collaborazione di Senegal e Mauritania nelle operazioni di controllo delle frontiere, nell'ambito dell'azione di Frontex, il punto di partenza verso l'Europa si è nuovamente spostato in Marocco, a Al Houceima, e le coste della penisola spagnola hanno ricominciato ad essere il primo approdo di centinaia di migranti.
Il centro di Algeciras è l'antico carcere della città - un vecchio edificio in totale abbandono -, quello di Malaga, una struttura dei primi del '900, utilizzata prima come convento di suore e in seguito come caserma militare, per poi essere abbandonata per molti anni, prima di essere adibita a centro di detenzione. In entrambe le strutture il personale fa parte della Polizia nazionale, tanto il direttore del centro che il medico di turno. Il centro di Malaga, di cui lo stesso procuratore della Repubblica ha richiesto la chiusura, è tristemente noto per le denunce di abusi sessuali da parte dei poliziotti verso le detenute. Nonostante le gravi accuse, il centro resta funzionante: con una nuova gestione, le detenute violentate espulse, e i poliziotti trasferiti in un altro centro. I migranti vivono dentro stanzoni comuni, completamente al buio poiché le grate delle finestre sono talmente fitte da non lasciar passare la luce, il resto del tempo lo trascorrono in un patio di 10 metri quadrati a cui non abbiamo accesso, per motivi di sicurezza.
Ma è nel centro di El Matoral , uno dei più grandi campi di detenzione europeo, con la sua capienza officiale di 1.010 persone (ma che è arrivato a contenerne fino a 2.000), situato a Fuerteventura, isola dell'arcipelago delle Canarie, che le condizioni di detenzione si degradano ulteriormente. Il centro è diviso in due zone, da un lato due grandi stanzoni, di una capienza di 350 persone ciascuna, dotati di un bagno e qualche doccia e sommersi dai rifiuti accumulati da giorni. Dall'altro lato piccolissime celle, ma dotate di una ventina di letti a castello ciascuna, si affacciano una sull'altra. Nella penombra, i volti dei migranti rinchiusi si avvicinano alle grate, tutti sono vestiti uguali e raccontano la stessa tragica storia della traversata del mare. Ci raccontano anche che passano le giornate chiusi nelle celle, uscendo una volta al giorno, per i pasti. Tra loro molti volti di minori, riconosciuti maggiori dal test osseo a cui sono stati sottoposti in questura, subito dopo lo sbarco. Avranno lo stesso destino degli agli altri: l'alternativa tra un volo nella penisola per poi essere liberati e diventare i nuovi clandestini d'Europa o un volo a destinazione del paese di provenienza. Purtroppo non gli è permesso scegliere tra un'alternativa e l'altra, questo potere risiede nelle mani dei Governi, europei e africani, che firmano accordi di riammissione e inviano fondi per permettere il rimpatrio immediato dei migranti che sbarcano sul territorio europeo.
Molti migranti li troviamo in fila davanti all'ambulatorio, con il corpo martoriato dalle piaghe infette, che si sono provocati nei 15 giorni di traversata nelle carrette del mare, bruciature da carburante o morsi d'insetti. Solo una suora volontaria, presente saltuariamente nel centro, disinfetta momentaneamente le ferite, ma il suo apporto è limitato di fronte alla popolazione presente. Il medico, dicono, non lo vedono da almeno una settimana. Non ci stupisce quindi il fatto di sapere che a uno dei giovani subsahariani arrivati a Barcellona dopo i 40 giorni di internamento nel centro di detenzione delle Canarie, sia stata amputata una gamba. La ferita, provocata dalle condizioni di estrema precarietà del transito fino alla costa senegalese, infettata dall'acqua mista a carburante della traversata, e lasciata senza cura nel centro delle Canarie, si è incancrenita, tanto da non lasciare altra soluzione che l'amputazione. Ma non è solo della mancanza di assistenza sanitaria che si lamentano i migranti nel Cie del Matoral, a Fuerteventura. Parlano anche di violenze fisiche da parte della polizia che controlla il centro, manganellate riservate a chi esce dalla fila imposta durante la distribuzione del pasto o a chi, semplicemente, cerca di opporsi al viaggio dell'espulsione. Proprio per evitare questo «problema», ci dice un poliziotto, generalmente non si dice mai al detenuto che sta per essere espulso, ma si preferisce fargli credere che sta per essere trasferito nella penisola. Questa pratica è confermata anche dal direttore del centro, che, come dice la placca esposta nel suo ufficio, ha fatto un «corso di perfezionamento» dai carabinieri italiani all'epoca dello sbarco dei gommoni albanesi in Puglia, e di quel periodo sembra avere una grande nostalgia.
La violenza della polizia, che gestisce e controlla la struttura, è denunciata anche dai migranti del centro di detenzione di Madrid. Quando ci vedono arrivare si accalcano alle grate della cella comune dove sono obbligati a trascorrere l'intera giornata: rinchiusi, costretti a chiedere il permesso ai poliziotti anche per poter andare in bagno. Entriamo, tra i rifiuti e l'odore di urina che prende alla gola, i racconti continuano: arresti, detenzioni arbitrarie, violenze. Le visite finiscono, i centri si chiudono, ma la mobilitazione è ormai partita e in Spagna ci si chiede cosa succeda realmente dentro le mura di questi centri che ricordano molto di più una prigione di massima sicurezza che un centro di detenzione amministrativa. Il 21 giugno, i militanti e le associazioni spagnole si sono dati appuntamento davanti al centro di detenzione di Malaga per richiederne, infine, la chiusura.
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