mercoledì 24 settembre 2008

Il razzismo alla rovescia: "Fascista", "qualunquista", "populista", riassumibili in una radice comune che ne equipara il significato d'infamia

Il razzismo alla rovescia
di Romano Bracalini

Il vocabolario di ingiurie invecchia in fretta e deve aggiornarsi. "Fascista", "qualunquista", "populista", riassumibili in una radice comune che ne equipara il significato d'infamia, sono diventate armi spuntate, inadeguate, che si prestano a un pericoloso gioco di rimando. Il mondialismo, il globalismo, la trasumanza di popoli che abbandonano il mondo sottosviluppato e povero (e povero perché sottosviluppato, ovvero privo di capacità del fare e di democrazia "pane dei popoli") ,hanno offerto infine la parola chiave, che come le altre tre, serve egregiamente a dividere il mondo in due opposte visioni. Così in luogo del vecchio armamentario, l'accusa di "razzismo" pare al momento la più accreditata ed efficace per riportare la lotta politica agli antichi steccati. Le cronache di questi giorni, dopo la rivolta africana di Castel Volturno e la manifestazione antirazzista per l'omicidio del giovane italiano di colore, abbondano di moniti severi, di condanne, di colte analisi sociologiche tese a ricercare il senso del "razzismo" implicito nel raptus omicida di Milano e nel generale imbarbarimento dei costumi, come se l'immigrazione caotica e incontrollata, favorita per scardinare ogni regola, fosse estranea a questo senso di paura che genera sconcerto e reazione. La materia è delicata e non si presta a un sereno dibattito senza malintesi e equivoci.

I manifestanti che sabato scorso hanno marciato per le vie di Milano appartenevano per lo più alla sinistra extraparlamentare: è sembrato che il delitto di via Zuretti fosse stato adottato dalla piazza non per quello che è stato ma per quello che poteva diventare; ed è con l'assoluta certezza che si trattasse di un caso di razzismo, senza aspettare una conclusione più ponderata, che la piazza ha marciato con la certezza della ragione e della verità rivelata. Ci si è serviti dell'episodio, del suo epilogo criminale, per erigersi a giudici e moralisti di un'intera collettività dipinta in maggioranza come giustizialista, xenofoba e razzista. Ed era chiaro l'intento di riversarne ogni colpa sul centro-destra e al tempo stesso di assumere la rappresentanza politica della parte "sana" e buona della società che si oppone alla marea montante della paura, la paura del "diverso" e il diverso oggi è l'immigrato meglio se di colore. Se la vittima fosse stato un italiano "bianco", un "bianco" qualsiasi, non avrebbe suscitato la stessa indignazione "politicamente corretta", un così perfetto caso da citare e manovrare. Non interessano tanto le circostanze della morte del povero Abba, quanto che Abba fosse nero. Va da sé che l'accusa di razzismo, come ogni accusa a sfondo politico e dottrinario, per essere efficace deve essere a senso unico e scatta quasi automaticamente qualunque sia la specie del contrasto e dell'offesa. Così anche un semplice rimprovero può tingersi del più odioso dei reati d'oggi.

Se accusi di qualcosa un italiano "bianco" sarà il giudice a decidere la fondatezza dell'accusa; ma una parola di traverso detta a un uomo di colore acquista immediatamente valenza razzista. Eppure sabato si sono sentiti a Milano slogan che avevano chiare parvenze "razziste", sia pure all'incontrario. I circa duecento africani che si erano infiltrati nel corteo gridavano: "Bianchi bastardi" e non sappiamo se il politicamente corretto faccia distinzione tra "bastardi" bianchi e neri, e se il razzismo debba essere espressione dell'odio e del disprezzo di una sola parte. Sarà difficile districarsi nella giungla dei nuovi pregiudizi di "razza" se a dettare le regole del buono e del cattivo sono i nuovi teologi del'antirazzismo. Sul significato della parola "razzismo" bisognerebbe intendersi. Se "razzismo", assimilabile a "xenofobia", è l'ostilità preconcetta per lo straniero, considerato "inferiore" o pericoloso, si possono trovare ampi scampoli di "razzismo" etnico-sociale nella stessa Africa o in Asia.

E infatti che cosa sono le persecuzioni dei cristiani in India o dei tibetani in Cina se non forme di razzismo religioso della peggiore specie? E quale condanna del colonialismo e del razzismo potrà mai fare il presidente algerino Bouteflika quando nel suo paese le fazioni si scannano reciprocamente nel nome di un malinteso principio di "superiorità politica e religiosa?". Non è detto che sia il colore della pelle il fattore discriminante più eclatante e odioso. Alla conferenza di Durban sul razzismo, nel 2001, le parole forse più originali e oneste le pronunciò il presidente ugandese Yoveri Musuveni il quale ricordò che "forse il colore della pelle non c'entra se in Africa i neri schiavizzano altri neri". La schiavitù è abbondantemente praticata in Africa, in Asia, in Medio Oriente. L'Islam la praticò ben prima degli europei. Ma la condanna riguarda solo gli europei che, tra l'altro, l'abolirono per primi, altrimenti cadrebbe anche l'accusa di "razzismo", implicita nel concetto di schiavitù; accusa che informa lo spirito della nuova inquisizione.
 
L'Opinione.net

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