venerdì 29 gennaio 2010

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ZENIT

Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 29 gennaio 2010

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Nelle nullità matrimoniali, carità e giustizia non strumentalizzazioni
Udienza di Benedetto XVI ai membri del Tribunale della Rota Romana

ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il processo canonico di nullità del matrimonio deve essere portato avanti sempre ricercando la verità e accertando lo stato del vincolo coniugale, senza disgiungere la carità dalla giustizia o cedere a “richieste soggettive”.

E' quanto ha detto questo venerdì Benedetto XVI nel ricevere in udienza i membri del Tribunale della Rota Romana, in occasione dell’inizio dell’Anno giudiziario.

Il Tribunale Apostolico della Rota Romana è un tribunale ordinario di appello della Santa Sede le cui origini sono da ricercare in quella Cappella Domini Papae a cui il Pontefice Innocenzo III, sin dal XII secolo, affidò il compito di istruire in suo nome le cause, inviate per la loro risoluzione a Roma.

Nel suo discorso il Papa ha parlato del compito giuridico-pastorale dei giudici a partire da una riflessione sul rapporto fra giustizia, carità e verità in cui ha richiamato quanto già affermato nella “Caritas in Veritate”.

“Occorre prendere atto – ha osservato il Santo Padre all'inizio – della diffusa e radicata tendenza, anche se non sempre manifesta, che porta a contrapporre la giustizia alla carità, quasi che una escluda l’altra”.

“Alcuni ritengono – ha continuato – che la carità pastorale potrebbe giustificare ogni passo verso la dichiarazione della nullità del vincolo matrimoniale per venire incontro alle persone che si trovano in situazione matrimoniale irregolare”.

“La stessa verità, pur invocata a parole, tenderebbe così ad essere vista in un'ottica strumentale, che l’adatterebbe di volta in volta alle diverse esigenze che si presentano”, ha commentato.

Poco prima, nel suo indirizzo di saluto al Santo Padre, mons. Antoni Stankiewicz, Decano della Rota Romana, aveva accennato a una “diffusa tendenza che relativizza la verità” avvertita soprattutto nelle dichiarazioni di nullità del matrimonio, tanto da tramutarle “in una facile via per la soluzione dei matrimoni falliti, svuotando così sia il senso della dichiarazione di nullità, sia il senso della stessa indissolubilità”.

Al Papa il Decano della Rota Romana - secondo quanto riferito da "L'Osservatore Romano" - aveva poi confessato che ogni “giudice sperimenta sovente la difficoltà di effettuare una giusta ed equa composizione tra le istanze legittime dei fedeli, che rivendicano i loro diritti presso il foro ecclesiale, e la forza vincolante dei sacri canones che disciplinano le esigenze dello ius divinum positivum et naturale sull'istituto matrimoniale”.

A questo proposito, Benedetto XVI ha ricordato nel suo discorso che l’azione di chi opera nel campo del Diritto deve essere guidata dalla giustizia e finalizzata alla “salvezza delle anime”.

Rivolgendosi in particolare agli avvocati, il Pontefice li ha quindi invitati a “porre ogni attenzione al rispetto della verità delle prove” ma anche a “evitare con cura di assumere, come legali di fiducia, il patrocinio di cause che, secondo la loro coscienza, non siano oggettivamente sostenibili”.

In caso di dubbio, ha chiarito, è necessario tenere sempre per ferma l'indissolubilità del matrimonio, che “si deve intendere valido fino a che non sia stato provato il contrario. Altrimenti, si corre il grave rischio di rimanere senza un punto di riferimento oggettivo per le pronunce circa la nullità, trasformando ogni difficoltà coniugale in un sintomo di mancata attuazione di un'unione il cui nucleo essenziale di giustizia – il vincolo indissolubile – viene di fatto negato”.

Allo stesso tempo, ha continuato, “è importante adoperarsi fattivamente ogni qualvolta si intraveda una speranza di buon esito, per indurre i coniugi a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale”.

Tuttavia, un errore da evitare è quello di mostrarsi accondiscendenti, sulla base di “richiami pseudopastorali”, verso le richieste dei contraenti che fanno pressione “per giungere ad ogni costo alla dichiarazione di nullità, al fine di poter superare, tra l’altro, gli ostacoli alla ricezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia”.

“Il bene altissimo della riammissione alla Comunione eucaristica dopo la riconciliazione sacramentale, esige invece di considerare l'autentico bene delle persone, inscindibile dalla verità della loro situazione canonica”, ha osservato il Papa.

“Sarebbe un bene fittizio – ha detto – , e una grave mancanza di giustizia e di amore, spianare loro comunque la strada verso la ricezione dei sacramenti, con il pericolo di farli vivere in contrasto oggettivo con la verità della propria condizione personale”.

Infine il Papa ha sottolineato come “sia la giustizia, sia la carità postulino l'amore alla verità e comportino essenzialmente la ricerca del vero”.

“Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente”, ha detto.

E' questo, ha concluso, il “fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario”.

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Mons. Tomasi: ad Haiti ricostruire sulla base dei diritti umani
Intervento al Consiglio ONU per i Diritti Umani

di Anita S. Bourdin

GINEVRA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il “piano di ricostruzione” di Haiti deve basarsi sui diritti umani e applicare il principio di sussidiarietà perché gli haitiani si incarichino della ricostruzione stessa.

Lo ha affermato il rappresentante permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali con sede a Ginevra, monsignor Silvano M. Tomasi.

Il presule è intervenuto questo giovedì alla XIII sessione speciale del Consiglio per i Diritti Umani sul sostegno alla ricostruzione dopo il terremoto del 12 gennaio scorso.

Nel caso di Haiti, ha dichiarato, “i diritti, tra gli altri, alla vita, al nutrimento, all'acqua, alla salute, allo sviluppo, a una speranza di vita adeguata e al lavoro degno erano già ampiamente assenti”.

Monsignor Tomasi ha ricordato l'importanza del principio di sussidiarietà e ha chiesto che questo aiuto “offra in primo luogo agli haitiani la capacità di ricostruire essi stessi le infrastrutture di cui hanno bisogno e di assumere le proprie responsabilità politiche e sociali”.

“La Chiesa, parte integrante della società haitiana, continuerà a collaborare attivamente alla ricostruzione del Paese, promuovendo i diritti umani più fondamentali e contribuendo al progresso della salute e dell'istruzione degli haitiani, nel contesto della loro giusta aspirazione a una vita di libertà e dignità”, ha affermato il presule.

Quanto alla situazione della Chiesa locale, in un Paese “a maggioranza cattolico”, l'Arcivescovo ha sottolineato che è simboleggiata dalla fotografia della Cattedrale distrutta che ha fatto il giro del mondo.

Monsignor Tomasi ha anche menzionato la morte dell'Arcivescovo di Port-au-Prince, di religiosi e reliogiose, sacerdoti e seminaristi, ma anche di collaboratori laici – alcuni dei quali stranieri al servizio della popolazione haitiana –, e gli ingentissimi danni materiali: scuole, ospedali e dispensari sono stati distrutti.

Questa “tragedia”, ha osservato, è anche un appello alla “solidarietà della comunità internazionale” per “rispondere immediatamente” alle necessità degli haitiani e “porre i diritti umani alla base di un sano piano di ricostruzione”.

Ha quindi ricordato le parole di Benedetto XVI nell'Udienza generale del giorno successivo al sisma, il 13 gennaio.

“Mi appello alla generosità di tutti, affinché non si faccia mancare a questi fratelli e sorelle che vivono un momento di necessità e di dolore, la nostra concreta solidarietà e il fattivo sostegno della Comunità Internazionale”, ha detto il Pontefice in quel giorno.

“La Chiesa Cattolica non mancherà di attivarsi immediatamente tramite le sue Istituzioni caritative per venire incontro ai bisogni più immediati della popolazione”, ha aggiunto.

Monsignor Tomasi ha apprezzato la mobilitazione mondiale, tra cui quella delle ONG cattoliche, per la ricostruzione di Haiti. Ad esempio, Caritas Internationalis ha stanziato 33 milioni di dollari, il Catholic Relief Services (CRS) 25 milioni di dollari.

Ha infine espresso le condoglianze della Santa Sede “al Governo e al popolo di Haiti”, rappresentati nella sessione, per le decine di migliaia di vittime, menzionando anche i “milioni di persone senza casa” e la “distruzione” di Port-au-Prince e di altre città dell'isola.





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Santa Sede: necessarie strategie più efficaci nella lotta alla lebbra
Messaggio del Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari
ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Di fronte al propagarsi della lebbra, è necessario che gli Stati diano vita a strategie più efficaci per contrastare questa malattia, squarciare il velo di silenzio che l'avvolge ed evitare lo stigma sociale di chi ne è colpito.

E' questo in sintesi l'appello lanciato dal Presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, mons. Zygmunt Zimowski, nel suo messaggio per la 57a Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra che si celebrerà domenica, 31 gennaio, sul tema “Salviamo la bellezza dell’uomo dalla lebbra”.

Secondo i dati più recenti pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha ricordato mons. Zimowski, nel 2009 sono stati registrati oltre 210mila nuovi casi di lebbra, conosciuta anche come Morbo di Hansen.

Al giorno d'oggi circa 10 milioni di persone distribuite in 15 nazioni del mondo hanno la vita segnata da questa malattia.

La 57a Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra sarà dedicata in particolare all'India, il paese che registra attualmente il più alto numero di nuovi casi di lebbra ogni anno, seguita dal Brasile.

“Sempre da un punto di vista statistico – ricorda nel messaggio il Capo del Dicastero vaticano –, i Paesi che risultano più colpiti sono in Asia, nell’America Meridionale e in Africa”; mentre “si registrano anche numerosi casi in Angola, Bangladesh, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Indonesia, Madagascar, Mozambico, Nepal e Tanzania”.

Un problema che si osserva al giorno d'oggi, scrive mons. Zimowski, è che “nei Paesi economicamente più avanzati sembra che questa malattia sia stata dimenticata, così come lo sono  le persone che ne sono affette”.

“Chi ne soffre o, sebbene guarito, ne porti le mutilazioni inconfondibili, è troppo spesso condannato alla solitudine e alla paura, a rimanere come invisibile agli occhi degli altri, della società, dell’opinione pubblica”.

“Sul piano sociale – aggiunge – persistono al contempo le paure che,  di norma generate dall’ignoranza, aggiungono un pesante stigma al già terribile fardello che la lebbra comporta anche a guarigione avvenuta”.

Inoltre, nonostante il gande impegno di istituzioni, organismi a matrice ecclesiale e non governativi che lottano contro la lebbra e l'esistenza di efficaci cure per contrastarla, il Morbo di Hansen continua a propagarsi.

“Mi appello pertanto alla comunità internazionale e alle autorità di ogni singolo Stato – scrive mons. Zygmunt Zimowski –, invitandole a sviluppare e rafforzare le necessarie strategie di lotta alla lebbra, rendendole più efficaci e capillari soprattutto dove il numero dei nuovi casi è ancora elevato”.

A questo proposito il presule sottolinea la necessità di “campagne di educazione e di sensibilizzazione in grado di aiutare, le persone affette ed i loro familiari, ad uscire dall’esclusione e ad ottenere le cure necessarie”.

“Maria Salus Infirmorum sostenga i malati nella difficile lotta contro le sofferenze e i disagi provocati dalla malattia e possa squarciare il velo del silenzio con un sempre crescente  numero di atti di vera solidarietà a favore delle persone colpite dalla lebbra”, conclude infine.

La Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra è stata istituita nel 1954 da Raoul Follereau (1903-1977) e riconosciuta ufficialmente dall'ONU. Lo scrittore e giornalista francese, che dedicò tutta la sua vita a dare un impulso decisivo alla sconfitta di questa malattia, fu completamente trasformato dall’incontro in Costa d’Avorio con un villaggio di lebbrosi, mentre seguiva per motivi giornalistici le orme del futuro beato Charles de Foucauld.

La Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra assume quest'anno, inoltre, un valore maggiore alla luce della recente canonizzazione, l'11 ottobre 2009, di padre Damiano De Veuster, il padre belga che dedicò la propria vita ai malati di lebbra dell'isola di Molokai (Hawaii), rimanendo con loro per sedici anni prima di morire contagiato anch'egli dalla malattia.

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Notizie dal mondo


Algeria: i Vescovi deplorano il saccheggio di un luogo di culto protestante
Confidano in un cammino di "buona convivenza" e di "rispetto"

TIZO-OUZOU, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- I Vescovi cattolici dell'Algeria hanno espresso il proprio “grande dolore” per il saccheggio di un luogo di culto protestante nella città di Tizi-Ouzou, nonché la speranza in un cammino di “buona convivenza” e di “rispetto”.

Durante un incontro celebrato ad Algeri il 24 e il 25 gennaio, i Vescovi “hanno condiviso il proprio grande dolore nel venire a conoscenza del saccheggio e dell'incendio di un luogo di culto della comunità protestante Tafat, a Tizi-Ouzou”, indica un comunicato in francese del 25 gennaio.

“Dispersi, e alcuni assenti dal Paese al momento dei fatti, i Vescovi si sono presi del tempo in questa occasione per analizzare insieme la preoccupante situazione che vivono alcuni cristiani algerini”, aggiungono.

Nel testo, i presuli si dicono “molto preoccupati per gli ostacoli posti, qui e là, alla pratica del culto cristiano”, e “profondamente rattristati”.

Non nascondono inoltre la loro “indignazione di fronte alla profanazione dei segni cristiani, allo stesso modo in cui si indignano quando si rendono conto che si profanano segni della religione musulmana in qualche Paese del mondo”.

I Vescovi algerini esprimono quindi “compassione e sentimenti di fraternità nei confronti dei fratelli e delle sorelle che sono stati aggrediti nella loro vita religiosa”.

Allo stesso tempo, indicano che “continuano a confidare” e “a sperare che si possa continuare sulla via della buona convivenza e del rispetto profondo tra tutti”.

“Il nostro Dio invita tutti noi all'amore fraterno per il bene del nostro popolo algerino”, conclude il comunicato.

Il testo è firmato dall'Arcivescovo di Algeri, monsignor Ghaleb Bader, e dai Vescovi di Orano, Laghouat-Ghardia e Constantine-Ippona, rispettivamente i monsignori Alphonse Georger, Claude Rault e Paul Desfarges.






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"E se ci lasciaste vivere?"
25 mila persone alla Marcia per la vita a Parigi

di Elisabetta Pittino

ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).-E se ci lasciaste vivere?” hanno urlato all'unisono una mamma e il suo bambino in pancia. Questo è stato lo slogan della VI Marcia europea per la vita di Parigi per l'anno 2010. La risposta è stata quella di 25 mila persone, in gran parte giovani, che hanno marciato per la vita nella capitale francese domenica 17 gennaio.

Nascono nuove associazioni, si rinforzano quelle esistenti, aumentano le delegazioni europee, arrivano quelle oltreoceano.

Sempre più Vescovi d'Oltralpe si espongono per difendere la vita umana. E’ come una “ola” si moltiplicano marce pro vita in tutta Europa: Dublino, Berlino, Amsterdam, Bruxelles, Londra, Strasburgo, Bordeaux e chissà forse anche a Roma.

Tutto questo il 17 gennaio 2010 quando a Parigi da Place de La Republique a Place de l'Opera si è mossa la VI Marcia per la vita organizzata dal Collettivo “En marche pour la Vie” (in Marcia per la vita), già Collettivo “30 anni, basta!”, che raggruppa le maggiori associazioni pro ‘vie’ francesi.

È un’iniziativa per i nostri tempi: una marcia dove i vari pro-life d’Europa si sono trovati e si sono esposti per difendere la vita umana fin dal concepimento.

E’ stato entusiasmante camminare per le strade di Parigi con striscioni di tutti i tipi, in tutte le lingue, sfidando gli insulti di quelli che non erano d’accordo. È l’Europa che ritrova la sua unione, la sua anima, il suo perché.

Una manifestazione che segna la fine del tempo del silenzio, della sudditanza alla cultura di morte.

Il Collettivo francese, nato nel 2005 per i 30 anni della legge francese sull'aborto, ha proposto già da allora la Marcia, perché si sentisse la voce dei “dissidenti” pro vita e pro donna. La Marcia di Parigi è presto diventata marcia europea

Quella del 2010 è stata la marcia più partecipata dal 2005 ad oggi.

La giovane delegazione italiana del Movimento per la Vita (MPV) è alla sua terza partecipazione: quest'anno eravamo in 23, quasi tutti dalla Lombardia, la maggior parte da Bergamo.

A guidare la delegazione italiana Leo Pergamo, responsabile giovani MPV nazionale, Diego Negrotti, responsabile giovani FederVita Lombardia, e la sottoscritta, consigliere nazionale MPV e vicepresidente FederVita Lombardia, in qualità di portavoce del MPV italiano.

Dall'Italia c’era anche l'associazione “Voglio Vivere” con Julio Loredo, un habitué della Marcia parigina.

Quest' anno il tema della Marcia è stato coniugato con “l’ informazione alla donna e la sua sofferenza in seguito all'aborto: consenso informato della donna prima dell'intervento abortivo e sindrome post aborto”.

Un dossier di sensibilizzazione su “Donna e aborto”, scaricabile da internet, è stato distribuito, insieme ai vari volantini. Sempre sul sito del Collettivo (http://enmarchepourlavie.info/) c'è una petizione per promuovere il “Diritto all' informazione alle donne incinte”, per tutelare la dignità della donna.

Le donne non abortiscono mai liberamente, sono sempre costrette da qualcosa, anche da una legge. Pochi le informano, quasi nessuno le aiuta, generalmente, né prima né dopo questo dramma. E' fondamentale organizzare manifestazioni come quella di Parigi. E' una speranza. Lasciamo vivere la donna, come chiede. Lasciamo vivere il figlio.

“La donna incinta - si legge sul sito -, ha un urgente bisogno di una reale solidarietà dell'intero corpo sociale. E' tempo che la società faccia una scelta di speranza, abolendo l'aborto... e fornendo tutti i mezzi necessari per accogliere la vita”.

Tre gli appelli dei marcianti: “perché ogni nascituro sia accolto e trovi il suo posto nella famiglia umana”; “per una vera compassione verso le madri sofferenti”; “per una vera libertà fondata sul diritto alla vita”.

La marcia, come lo scorso anno, è stata preceduta, per i credenti, da una veglia di preghiera il sabato sera nella chiesa di S. Francesco Saverio: si è pregato per i bambini non nati, per le loro madri, per i medici, per la marcia, per la vita.

La preghiera, è continuata anche durante la marcia: in fondo, per ultimi, a chiudere la marcia vi era un gruppo di persone in preghiera.

L'ostilità dei media francesi si è mostrata con il silenzio quasi assoluto sull'evento. A rompere il silenzio ci han pensato gli slogan a voce alta dei marcianti.

La Marcia è laica, apartitica, aconfessionale, aperta a tutti, non violenta, nel rispetto gli uni degli altri, nel rispetto della donna che ha abortito. I politici potevano parteciparvi - la difesa della vita del resto è il nodo centrale della politica - ma non sono intervenuti sul palco.

Si tratta di una giusta precauzione per evitare che la difesa della vita sia “strumentalizzata” da un partito piuttosto che da un altro. La vita non è né di sinistra né di destra e neppure di centro. La vita è vita ed è di tutti e per tutti.

“Se fossi Presidente della Repubblica farei leggi per la vita” si è cantato a squarciagola marciando. E forse, qualcuno tra i marcianti (c’erano tanti bambini) diventerà davvero Presidente della Repubblica!





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Giornata Mondiale della Gioventù


I giovani imprenditori collaborano alla GMG di Madrid
Il Cardinale Rouco incontra la Young President's Organization

MADRID, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Cardinale Antonio María Rouco Varela, Arcivescovo di Madrid, ha incontrato questo mercoledì nella capitale spagnola un gruppo di venti presidenti di compagnie appartenenti alla Young President's Organization (YPO), secondo quanto ha reso noto a ZENIT questa organizzazione.

L'obiettivo della riunione era informare sullo sviluppo della Giornata Mondiale della Gioventù (GMG) e sulle possibilità di collaborazione con le imprese.

Hanno assistito, tra gli altri, Iñigo de Oriol, presidente della Fondazione Madrid Vivo, Arturo Fernandez, presidente della rete degli imprenditori di Madrid (CEIM), Javier Cremades, presidente del capitolo di Madrid della YPO, e David Hatchwell, rappresentante della Comunità Ebraica di Madrid.

La Giornata Mondiale della Gioventù è l'evento più internazionale e numericamente consistente organizzato dalla Chiesa cattolica in tutto il mondo. Il Papa, che presiede la Giornata, convoca tutti i giovani del pianeta una volta ogni tre anni. La prossima edizione si svolgerà a Madrid dal 16 al 21 agosto 2011.

La YPO sottolinea che questo evento sarà fondamentale “per la motivazione e la speranza di migliaia di giovani in tutto il mondo”.

La Young President's Organization è la maggiore organizzazione imprenditoriale del mondo, con 50 anni di storia, e riunisce oltre 17.000 imprenditori di più di 100 Paesi.

Per ulteriori informazioni, www.ypo.org.

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Italia


L'Hospitalité di Lourdes ha celebrato a Roma i 125 anni di attività

di Chiara Santomiero

ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- “E’ difficile fare un bilancio di 125 anni di attività, ma quando è nata l’Hospitalité - il 28 gennaio 1885 - i suoi membri erano solo 7; oggi possiamo contare che si siano avvicendati negli anni più di 40 mila volontari di 70 paesi dei 5 continenti: c’è stata un’evoluzione notevole, n’est pas?”: sorride Antoine Tierny, presidente dell’Hospitalité Notre Dame di Lourdes, mentre traccia per ZENIT un bilancio dell’associazione che si occupa dell’accoglienza dei pellegrini malati presso il santuario mariano.

Circa cento hospitalier - dirigenti delle varie sezioni nazionali dell’associazione - hanno concluso oggi a Roma un pellegrinaggio di alcuni giorni proprio per festeggiare il 125° anniversario.

Mercoledì scorso hanno partecipato all’udienza di Benedetto XVI in Aula Nervi: “E’ stata una grande emozione – afferma Tierny -; il Papa ci ha ringraziato per aver voluto celebrare insieme a lui il nostro anniversario e abbiamo visto che anche lui è rimasto toccato quando ci siamo alzati tutti in piedi e abbiamo cantato l’Ave Maria di Lourdes”.

“La nostra maggiore soddisfazione – afferma Tierny proseguendo nel bilancio dell’attività Hospitalité – è che in tutto questo tempo i pellegrini malati si siano sentiti accolti bene nella città mariana grazie al nostro servizio perché è proprio con questo obiettivo che siamo nati”.

Per i prossimi anni “la sfida è costituita dallo stare al passo con gli aspetti tecnici più delicati dell’accoglienza e gestire al meglio l’internazionalità dell’associazione per imparare ad accogliere sempre meglio i pellegrini”.

Se all’inizio i volontari erano soprattutto francesi, la loro provenienza è diventata molto variegata nel corso degli anni, andando ben oltre il Vecchio Continente. Gli americani, nel 2008, con un totale di 471 tra hospitaliers, stagisti ed ausiliari, hanno superato inglesi (429), irlandesi (311), tedeschi (252) e belgi (72). E’ cresciuto anche il numero dei volontari provenienti dai paesi orientali – ben 221 – e gli italiani hanno sorpassato i francesi: 3.036 contro 2.739.

Anna Maiani, da trentacinque anni nell’Hospitalité, è una dei consiglieri del servizio “Santa Bernardette” per la formazione dei volontari in lingua italiana. “Quando ho cominciato io – conferma – la formazione si svolgeva solo in francese e io la traducevo simultaneamente in italiano, un’altra volontaria in spagnolo e così via”.

Il cuore della formazione, spiega, è “far scoprire Lourdes non solo sotto il profilo tecnico dell’assistenza ai malati, ma spirituale: i luoghi santi di Bernardette, come è nata Lourdes, la storia di un luogo che attira folle di pellegrini ogni anno”.

Occorre un corso di formazione per i primi quattro anni di volontariato prima di poter essere considerati membri dell’Hospitalité e ammessi ai vari servizi.

“L’aspetto che è rimasto identico in tutti questi anni, a parte la Vierge e Bernardette, naturalmente - scherza Anna Maiani –, è l’entusiasmo dei volontari che tornano anno dopo anno e nonostante la fatica del servizio mi dicono 'Siamo venuti per ricaricarci'”.

A Lourdes “si dimenticano tutti i problemi della famiglia e del lavoro che pure ci hanno accompagnato nel viaggio: quando si arriva, non c’è più tempo, c’è una solidarietà, un clima familiare, una voglia di far bene che relega tutto il resto in secondo piano”.

“Lo sa – confida sorridendo Maiani -, cosa rispondeva mia madre quando mio padre brontolava perché venivo a Lourdes anche due volte l’anno: 'Sì è vero, ma quando torna è tanto buona!'”.

Servizio ai tavoli nelle mense, pulizia degli spazi comuni, accoglienza dei pellegrini alla stazione ferroviaria e all’aeroporto, accompagnamento dei malati: sono molteplici i servizi in cui vengono impiegati i volontari.

Marisette Goisenau, è la responsabile del servizio “San Giovanni Battista” che si occupa di accompagnare i pellegrini al bagno nelle piscine di Lourdes offrendo loro un cammino spirituale che ripercorre quello del Battesimo: “ai volontari impegnati in piscina – afferma – ricordo che abbiamo bisogno di un supplemento di amore perché le persone arrivano con tutta la loro fede e la loro speranza e hanno davvero bisogno di sentirsi accolti e amati. E’ l’unico criterio per il nostro servizio ed è molto molto importante”.

“Il nostro – prosegue - è un servizio in cui le emozioni sono forti ed intense: spesso le persone che vengono sono molto malate o gravemente disabili eppure pregano non per se stesse, ma per gli altri e questo è qualcosa di straordinario”.

Il ricordo più difficile da dimenticare? “Un padre – e ancora Goisenau non riesce a vincere l’emozione rivivendo la scena – che ha portato la sua piccola di sette anni a cui rimaneva poco da vivere. L’ha portata alla Nostra Signora di Lourdes perché sapeva che entro pochi giorni sarebbe stata Lei ad accoglierla e ad essere per sempre la sua mamma”.

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La Caritas esorta a riportare i valori umani nell'economia
Il Segretario Generale dell'organizzazione al Forum Economico di Davos

ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Segretario Generale di Caritas Internationalis, Lesley-Anne Knight, presente al Forum Economico Mondiale in svolgimento a Davos (Svizzera) dal 27 al 31 gennaio, ha esortato a riportare nell'economia gli autentici valori umani.

Il Forum annuale riunisce leader del mondo dell'imprenditoria, politici, Capi di Stato, artisti, accademici, leader religiosi e altri rappresentanti della società civile.

La Knight rappresenta 164 organizzazioni caritative cattoliche che lavorano in più di 200 Paesi e territori del mondo. In questa occasione, chiede di rimodellare le istituzioni e le strutture globali per riportare l'etica, i valori e il rispetto della persona umana al centro dei sistemi finanziari internazionali.

“La finanza si è concentrata sui meccanismi finanziari, i profitti e i bonus – ha dichiarato –. Gli esseri umani sono stati messi da parte con terribili conseguenze per tutti noi, soprattutto per i poveri”.

“Per le organizzazioni umanitarie come la Caritas, la persona umana deve essere al cuore di tutto ciò che facciamo. Ciò si dovrebbe applicare anche ai sistemi economici, visto che questi devono essere al servizio dell'umanità”.

A questo proposito, l'organizzazione segnala alcuni passi da intraprendere, come la necessità che le istituzioni finanziarie considerino “l'impatto umano delle loro attività”, che le Nazioni povere abbiamo “una voce reale nelle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e l'Organizzazione Mondiale del Commercio”, che i destinatari degli aiuti “giochino un ruolo maggiore nel proprio sviluppo” e ci sia “un maggiore riconoscimento della società civile e dei gruppi basati sulla fede”.

“E' piuttosto semplice individuare i valori e i principi che dovrebbero rappresentare la base dei sistemi e delle istituzioni – ha osservato la Knight –. Ciò che è più difficile è assicurare che questi valori vengano applicati. Questo spetta a noi come individui – alle nostre coscienze e alla nostra capacità di essere solidali, compassionevoli e animati da un'autentica carità”.

Il Segretario Generale della Caritas ha anche esortato il mondo a unirsi intorno a uno sforzo comune per preservare l'ambiente ed evitare i catastrofici effetti dei cambiamenti climatici.

“Le Nazioni più ricche del mondo devono fornire assistenza ai Paesi in via di sviluppo, che stanno sostenendo l'impatto dei disastri collegati al cambiamento di clima – ha dichiarato –. La crescita e lo sviluppo a livello economico devono tener conto della giustizia intergenerazionale”.

“I Paesi ricchi hanno tratto il massimo profitto dall'industrializzazione che ha portato ai cambiamenti climatici, e ora devono pagare il prezzo dell'adattamento e dell'attenuazione del danno”, ha concluso.

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I giovani del Fiac aderiscono alla Giornata per la pace in Terra Santa

ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Anche i giovani del Forum internazionale di Azione cattolica (Fiac) aderiscono alla seconda Giornata internazionale di intercessione per la pace in Terra Santa che avrà luogo domenica 31 gennaio.

L’iniziativa, promossa dall’Apostolato “Giovani per la vita”, dall’Associazione dei Papaboys, dai gruppi di Adunanza eucaristica e dalle Cappelle di Adorazione perpetua, prevede una preghiera ininterrotta nell’arco delle 24 ore.

Oltre all’invito per la preghiera personale e dei gruppi in tutto il mondo attraverso il sito Internet del Forum (www.fiacifca.org), in Italia i giovani di Ac saranno chiamati ad unirsi alla intercessione per la pace in Terra Santa in due momenti specifici del 31 gennaio: la celebrazione eucaristica in occasione del Seminario del Settore giovani dell’Azione cattolica italiana (Roma 30-31 gennaio 2010) e la conclusione della Marcia della pace dell’Azione cattolica ragazzi della diocesi di Roma che avverrà in Piazza S. Pietro con la preghiera dell’Angelus.

La responsabile del Coordinamento Giovani del Fiac, Chiara Finocchietti, ha inoltre proposto agli organizzatori della Giornata di inserire tra le intenzioni di preghiera una particolare per la Chiesa del Medio Oriente e della Terra Santa che si sta preparando alla Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre: “Nei Lineamenta al n. 79 si legge: 'È necessario che ricordiamo il posto di Dio nella vita civile e in quella personale, e che diventiamo sempre più uomini di preghiera, testimoni dello Spirito, che edifica e unisce'. Anche noi chiediamo al Signore di diventare giovani di preghiera e di pace”.

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Interviste


Guarire il matrimonio dai problemi di controllo e fiducia
Intervista allo psichiatra cattolico Richard Fitzgibbons

di Genevieve Pollock

WEST CONSHOHOCKEN (Stati Uniti), venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Sempre più coppie e famiglie sono interessate in questo periodo da problemi di controllo e fiducia, afferma Richard Fitzgibbons, ma attraverso i sacramenti e la pratica delle virtù questi problemi possono essere superati.

E' stato questo il tema di un seminario recente inserito in una serie di incontri promossa dall'Institute for Marital Healing (Istituto per la Cura Coniugale), che offre risorse per le coppie, i consulenti e il clero su aspetti fondamentali della genitorialità, della vita familiare e del matrimonio.

Fitzgibbons, direttore dell'Istituto, ha lavorato con migliaia di coppie e ha parlato e scritto molto su questi temi. Nel 2008 è stato anche nominato consulente della Congregazione vaticana per il Clero.

In questa intervista rilasciata a ZENIT, parla delle cause moderne delle questioni relative alla fiducia, della distinzione tra essere forte ed essere una persona che tende a esercitare un controllo e delle virtù che forniscono un antidoto a questi problemi.

Lei dice che la sezione più popolare del suo sito web è quella sul controllo del coniuge o del parente. Perché, secondo lei, questo argomento interessa così tanto?

Fitzgibbons: Ci aspettavamo che la parte più consultata fosse quella del coniuge o del parente irritato, e all'inizio siamo rimasti sorpresi dall'accoglienza riservata alla sezione dedicata al controllo coniugale.

Visto che pensavo e pregavo su questo aspetto, sono giunto a una comprensione più profonda dei seri fattori personali e culturali che contribuiscono alla tendenza a dominare o a non fidarsi degli altri, da cui deriva la necessità di esercitare una forma di controllo.

Potrebbe descrivere brevemente alcune della caratteristiche di una persona che tende a esercitare il controllo?

Fitzgibbons: La debolezza più grave della persona che tende a esercitare una forma di controllo, e può accadere a tutti noi qualche volta, è il fatto di trattare il coniuge, che è un dono di Dio, con mancanza di rispetto.

La persona che controlla si ripiega in se stessa e quindi non riesce a vedere il bene nel coniuge.

L'altra grande debolezza è abbandonarsi rapidamente a un'ira eccessiva. II coniugi e i parenti che esercitano il controllo sono irritabili e spesso tristi perché non si può controllare chiunque, visto che tutti abbiamo la dignità e la forza dei figli di Dio.

Le tendenze di controllo, inoltre, danneggiano un matrimonio sano e di donazione e rafforzano l'egoismo, una delle cause principali dei comportamenti di controllo.

Che danni possono derivare dal controllare coniugi o parenti?

Fitzgibbons: I comportamenti basati sul controllo danneggiano l'amicizia coniugale, l'amore romantico e l'amore tra fidanzati, tre settori fondamentali della donazione coniugale che Giovanni Paolo II ha descritto in “Amore e Responsabilità”.

La mancanza di rispetto porta il coniuge a sentirsi triste, irato, diffidente e insicuro. Se questo conflitto non viene affrontato in modo corretto, possono svilupparsi seri problemi, tra cui malattie depressive, disordini legati all'ansia, abuso di sostanze, infedeltà, separazione e divorzio.

Nella nostra società in rapida trasformazione, in cui alla gente è richiesto di controllare o gestire tanti aspetti della propria vita – finanze, salute, lavoro, famiglia, ecc. –, una natura che porta al controllo non è più che altro un beneficio, perfino una necessità per sopravvivere? Vede un aspetto positivo in questo tipo di personalità?

Fitzgibbons: La fiducia e la forza sono tratti di personalità positivi che ci permettono di rispondere alle tante sfide nel grande sacramento del matrimonio e della vita familiare.

La crescita quotidiana nella virtù è tuttavia necessaria perché un coniuge non passi il limite diventando una persona che tende a controllare.

Le virtù fondamentali per bilanciare il dono della forza sono la gentilezza, l'umiltà, la mitezza, l'abnegazione e la fede.

Un grande successo del matrimonio è essere forti e sicuri, ma non controllare. Esorto molti mariti forti a pregare San Pietro perché li protegga, aiutandoli a non diventare leader che controllano in casa propria.

Secondo lei, alla base di una personalità che tende a controllare ci sono questioni legate alla fiducia. Potrebbe spiegare meglio questa affermazione?

Fitzgibbons: Una delle cause principali della tendenza a controllare o a dominare è il risultato di un danno alla capacità della persona di avere fiducia o di sentirsi sicura nell'infanzia.

Di conseguenza, i coniugi possono essere inconsciamente portati dalla paura a controllare, cioè si sentono sicuri solo quando mantengono il controllo, che ovviamente non hanno mai. Conflitti infantili comuni sono l'alcolismo, gli scontri tra i genitori e l'esperienza di un genitore che tendeva a controllare.

Cause più recenti di gravi danni alla fiducia infantile sono la cultura del divorzio e l'epidemia di egoismo tra i genitori, dovuta in gran parte a una mentalità contraccettiva. Molti uomini insicuri assumono un comportamento basato sul controllo anche nel tentativo di infondere sicurezza alla propria fiducia maschile.

Un importante fattore spirituale che non si dovrebbe tralasciare viene poi descritto nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “Ogni uomo fa l'esperienza del male, attorno a sé e in se stesso. Questa esperienza si fa sentire anche nelle relazioni fra l'uomo e la donna. Da sempre la loro unione è stata minacciata dalla discordia, dallo spirito di dominio, dall'infedeltà, dalla gelosia e dai conflitti che possono arrivare fino all'odio e alla rottura” (CCC, n. 1606).

Come si possono affrontare questi problemi, cambiando la natura che tende a controllare? Come si può aiutare qualcuno che viene considerato una persona che controlla?

Fitzgibbons: Il primo passo è scoprire questa seria debolezza coniugale.

Se i coniugi avessero più fiducia nella presenza di Dio nel loro matrimonio, non avrebbero paura a sottolineare questa difficoltà e a chiedere un cambiamento.

Il cambiamento necessario può avvenire con un impegno a crescere nella fiducia in Dio e nel coniuge, con un processo di perdono nei confronti di chi ha danneggiato la fiducia nell'infanzia, decidendo di fermare i comportamenti tendenti al controllo di un genitore, meditando regolarmente sul fatto che è il Signore che controlla, crescendo in tante virtù come il rispetto, la fede, la gentilezza, l'umiltà, la magnanimità e l'amore.

Il ruolo della fede può essere molto efficace nel far fronte a questa seria debolezza caratteriale. Abbiamo visto notevoli miglioramenti nella lotta contro questa caratteristica dannosa attraverso la grazia del sacramento della riconciliazione. Esortiamo i cattolici con una tendenza al controllo a cercare la propria guarigione in questo potente sacramento.

Le mogli che tendono a controllare beneficiano dall'approfondimento della loro relazione con la Madonna, rivolgendosi a lei come modello e acquisendo le sue virtù, descritte da San Luigi di Montfort nel “Trattato della vera devozione alla Santa Vergine”.

I mariti che controllano possono beneficiare dalla meditazione su San Giuseppe, chiedendogli di aiutarli ad essere gentili, protettivi, sensibili, guide dedite del proprio matrimonio e della propria famiglia.

Come psichiatra, quando suggerirebbe di cercare aiuto all'esterno, rivolgendosi a un sacerdote o a un consulente per guarire le ferite emotive della persona?

Fitzgibbons: Raccomando di recarsi da un sacerdote prima che da un consulente, perché troppi professionisti della salute mentale sostengono l'attuale cultura dell'egoismo.

Brad Wilcox, un giovane sociologo cattolico della University of Virginia, ha scritto sull'influenza della salute mentale sul matrimonio: “La concentrazione della rivoluzione psicologica sulla realizzazione individuale e la crescita personale ha portato a vedere il matrimonio come un mezzo per un'etica auto-orientata del romanticismo, dell'intimità e della realizzazione”.

“In questo nuovo approccio psicologico alla vita matrimoniale, il primo dovere non era nei confronti della propria famiglia, ma di se stessi; il successo coniugale veniva quindi definito non dal far fronte positivamente ai doveri verso il coniuge e i figli, ma da un forte senso di felicità soggettiva nel matrimonio – da trovare in genere in e attraverso un'intensa relazione con il proprio coniuge”.

Crediamo che un sincero impegno da parte di ogni coniuge a crescere quotidianamente nell'autoconoscenza e nelle virtù possa risolvere il conflitto del coniuge con tendenze al controllo senza bisogno di ricorrere a una terapia matrimoniale. Ad ogni modo, sui siti web dei Terapisti Cattolici e della Psicoterapia Cattolica sono disponibili nuove fonti sul matrimonio fedeli all'insegnamento di Cristo su questo sacramento.

L'intercessione della Madonna alle nozze di Cana ha portato al primo miracolo del Signore per dare più gioia a una giovane coppia. Esortiamo le coppie cattoliche che lottano con conflitti di controllo e di egoismo a rivolgersi a Lei per un altro miracolo per il loro matrimonio.

[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]

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Parola e vita


L'Amore è la Via della Verità della Vita
IV domenica del Tempo Ordinario, 31 gennaio 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).-“Allora cominciò a dire loro: 'Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato'. Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: 'Non è costui il figlio di Giuseppe?'. Ma egli rispose loro: 'Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”'. Poi aggiunse: 'In verità vi dico: “Nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele, al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma a nessuno di loro fu purificato, se non Naaman, il Siro”'. All’udire queste cose tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino” (Lc 4,21-30).

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13,4-6).

Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce ti ho consacrato; (…) Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (Ger 1,5.19).

A Cafarnao, Gesù scaccia i demoni con la sua sola parola, guarisce le malattie con il semplice tocco della sua mano: la gente riconosce in lui il Messia atteso e non vuole più lasciarlo andar via (Lc 4,31-44). A Nazaret, la sua città, le cose vanno all’opposto: Gesù conferma di essere il Messia (“oggi si è compiuta questa Scrittura..”) e la gente rimane ammirata per la sapienza delle sue parole, ma quando mette in chiaro di non esser lì per far miracoli scatta la contestazione e il rifiuto.

E’ lo scandalo di tutti i tempi e di tutti i luoghi: “l’incontro con la santità non è mai così insopportabile, mai così sottili le obiezioni, mai così intollerante l’avversione come nella patria del profeta. Come ammettere che uno di cui si conoscono i genitori, che ci vive accanto, che non è poi diverso dagli altri, sia qualche cosa di santo? Un eletto quello lì, di cui si conoscono vita e miracoli? Lo scandalo è il grande avversario di Gesù” (Romano Guardini, “Il Signore”, cap VIII). A far traboccare il vaso dell’intolleranza, a Nazaret, è anche il campanilismo nazionale, che Gesù punge sul vivo con il doppio riferimento ai miracoli di Elia ed Eliseo in favore della vedova di Sarepta e di Naaman, il Siro, entrambi pagani.

A questo punto il messaggio teologico è già abbastanza chiaro: il piano di Dio ha una dimensione universale: Gesù non è solo il salvatore di Israele, ma la luce che illumina ogni uomo; la sua opera di salvezza non può che estendersi oltre ogni confine geografico, sociale, culturale, morale e spirituale.

Ma per comprendere ulteriormente il motivo del clamoroso “linciaggio” di Gesù, è necessario ricordare la citazione che egli fa del passo di Isaia, letto domenica scorsa: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione..” (Is 61,2s). Rivediamo la scena. Quel sabato, dopo il suo ritorno in comunità, Gesù era stato invitato a leggere. Nella sinagoga regnava un silenzio di tomba: “gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (Lc 4,20): quale sarà il suo commento? Il commento di Gesù è brevissimo, folgorante: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21).

Le orecchie dei presenti sarebbero probabilmente disposte ad accettare la rivendicazione messianica di Gesù, se egli non avesse commesso una “imperdonabile” omissione, citando il profeta Isaia. Gesù infatti ne proclama il testo fino a: “..a promulgare l’anno di grazia del Signore”, e taglia il resto della frase, che prosegue così: “il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti” (Is 61,2b).

La gente rimane attonita: rinunciare alla vendetta è un tradimento religioso e nazionale! Per il popolo di Israele, infatti, l’avvento del Regno messianico promesso sarebbe coinciso con “il giorno della vendetta” di Dio contro gli oppressori del popolo, così gli afflitti avrebbero visto ristabiliti i loro diritti. Ma Gesù non è uno zelota: egli è venuto nel mondo per mostrare “la via più sublime..la più grande di tutte: la carità” (1Cor 12,31-13,13).

Gesù parlava la lingua degli uomini e degli angeli, aveva il dono della profezia, conosceva tutti i misteri e aveva tutta la conoscenza: non gli mancava nulla per farci conoscere tutto quello che aveva udito dal Padre (Gv 15,15). Perché allora ha voluto coronare tale rivelazione dando in cibo se stesso, e consegnando il suo corpo alla morte e alla morte di croce? Unicamente per quell’amore “fino alla fine” (Gv 13,1) che non solo ha “vinto il mondo” (Gv 16,33), ma, per la testimonianza del sangue, lo ha anche convinto della verità di tutto ciò che Gesù ha detto e ha fatto. Gesù ha pagato con la vita la sua testimonianza alla Verità, ma il suo sdegno per l’ingiustizia ha sempre avuto il volto del perdono, il volto del Padre misericordioso che lo ha mandato a distruggere non i peccatori, ma le opere del diavolo, una delle quali è proprio la vendetta.

Perciò, a Nazaret, Gesù lancia il più rivoluzionario dei messaggi: è giunta l’ora di spalancare le porte del cuore ad ogni persona, e lasciarle sempre spalancate in modo da essere veramente liberi, liberati da quella giustizia farisaica che è la schiavitù peggiore, se si vuole davvero entrare nel Regno di Dio (Mt 5,20), perché acceca e paralizza il cuore. Il messaggio viene però istintivamente rifiutato e, dopo una breve latenza, genera una acuta reazione di rigetto nei confronti di Gesù stesso: “Si alzarono, lo cacciarono fuori..lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù..” (Lc 4,29).

Come attualizzare questo Vangelo?

Ascoltiamo la sapienza di Benedetto XVI: “L’amore nella verità – caritas in veritate – è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che, all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli, non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante” (Enciclica “Caritas in veritate”, n. 6).

Queste parole mi sembrano una sintesi del Messaggio della CEI per la XXXII Giornata per la Vita, dal titolo: “La forza della vita una sfida nella povertà”.

Il primo riferimento del Messaggio è al volto economico della povertà. E’ vero che l’indigenza materiale costituisce un motivo reale per indurre nella tentazione dell’aborto, tuttavia sappiamo bene che la vera, fondamentale minaccia alla vita nel grembo non viene dalla “crescente povertà dei mezzi e delle risorse”, bensì da quella “congiura contro la vita” che Giovanni Paolo II ha denunciato come strategia globale delle istituzioni internazionali e dei mass media del mondo intero (Enciclica “Evangelium vitae”, n.17).

I Vescovi scrivono nel Messaggio: “Sarebbe assai povera ed egoista una società che, sedotta dal benessere, dimenticasse che la vita è il bene più grande”. Il condizionale esprime la situazione reale: la nostra società è ampiamente sedotta e “drogata” dal benessere, e, a causa di ciò, si ritrova sprofondata nella povertà più miserevole: il vuoto di Dio Amore. Avendo dimenticato che Dio Amore, Creatore dell’uomo, è il Bene più grande per l’uomo: di conseguenza non può riconoscere la Verità trascendente della vita umana.

Perciò il mondo e la società non si curano affatto della vita dell’uomo che Dio ha formato nel grembo materno, mentre si curano del clima e della vita degli animali. Oggettivamente è una spaventosa e criminale contraddizione, ma procede da una profonda “coerenza”, dal momento che mentre il rapporto con Dio riguarda, dipende e coinvolge direttamente il rapporto con il prossimo (Mt 25,40: “lo avete fatto a me”), il rapporto con la natura non dipende più che tanto dalla fede in Cristo. Perciò, chi vive come se il Dio di Gesù Cristo non ci fosse, non può cogliere il valore divino e il destino eterno della vita umana, che addirittura precedono il concepimento (“Prima di formarti nel grembo materno ti ho conosciuto,..” – Ger 1,5; “In lui ci ha scelti, prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà... – Ef 1,4-5).

La forza della vita, perciò, è la sfida del piccolo Davide contro il gigante Golia, la sfida della debolezza estrema (chi è più debole dell’uomo appena concepito?) che confida unicamente nella grazia, e sa, per la certezza della fede, che “la vita vincerà” (Istruzione “Dignitas personae”, n. 3). A questa vita che possiede solo la forza della propria esistenza, si rivolge oggi il profeta Geremia. Proviamo a rileggere dall’inizio le sue parole pensando che il loro destinatario è la vita umana, specialmente quella più inerme e minacciata di morte, dal concepimento fino al suo spegnersi naturale. Nonostante la situazione presente, nonostante la congiura dei potenti, possiamo dire con sicurezza alla vita: “Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (Ger 1,19).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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Messaggio di mons. Zimowski per la Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra
"Salviamo la bellezza dell'uomo dalla lebbra"
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il messaggio del Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute), mons. Zygmunt Zimowski, in occasione della 57a Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra che si celebra domenica, 31 gennaio, sul tema “Salviamo la bellezza dell’uomo dalla lebbra”.



* * *

Ai Presidenti delle Conferenze Episcopali,
Ai Vescovi Incaricati della Pastorale della Salute,

La "Giornata Mondiale dei Malati di Lebbra", istituita nella prima metà degli Anni ’50 grazie all’impegno dello scrittore francese Raoul Follereau, non è solamente una giornata di riflessione sulle vittime di questa devastante malattia ma è innanzitutto una giornata di solidarietà con i fratelli e le sorelle che ne sono affetti.

La lebbra, conosciuta anche come Morbo di Hansen, in realtà continua a infettare annualmente centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Secondo i dati più recenti pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2009 sono stati registrati oltre 210mila nuovi casi. Certamente sono innumerevoli, inoltre, le persone che sono state infettate ma non censite o comunque tuttora prive dell’accesso alle cure.

Sempre da un punto di vista statistico, i Paesi che risultano più colpiti sono in Asia, nell’America Meridionale e in Africa. L’India presenta il maggior numero di persone affette seguita dal Brasile. Si registrano anche numerosi casi in Angola, Bangladesh, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Indonesia, Madagascar, Mozambico, Nepal e Tanzania.

Una malattia ‘antica’, il Morbo di Hansen, ma non per questo meno devastante fisicamente e spesso anche moralmente. In tutte le epoche e tutte le civiltà, la sorte del malato di lebbra è stata quella di essere emarginato, privato di una qualsiasi forma di vita sociale, condannato a vedere il proprio corpo disfarsi sino al sopraggiungere della morte.

Purtroppo ancora oggi, chi ne soffre o, sebbene guarito, ne porti le mutilazioni inconfondibili, è troppo spesso condannato alla solitudine e alla paura, a rimanere come invisibile agli occhi degli altri, della società, dell’opinione pubblica. Nei Paesi economicamente più avanzati sembra che questa malattia sia stata dimenticata, così come lo sono  le persone che ne sono affette.

Quando la si ricorda, quando si pronuncia la parola lebbra, si suscitano sentimenti vari: incredulità da parte di chi si domanda come questa patologia possa esistere ancora, paura e ripugnanza od una non meno grave ostentazione d’indifferenza ma anche la pietà e l’amore che scaturiscono dall’atteggiamento attento e misericordioso di Gesù verso questi malati (Mc 1, 40-42).

L’impegno di Follereau,  dei molteplici fra istituzioni, organismi a matrice ecclesiale e/o non governativi che lottano contro la lebbra, l’eccezionale lavoro di San Damiano di Veuster e di tanti altri Santi e uomini di buona volontà, hanno aiutato a superare gli atteggiamenti negativi verso i malati di lebbra, promuovendone la dignità e i diritti e al contempo un più universale amore per il prossimo.

Oggi esistono efficaci cure contro la lebbra ma, ciononostante, il Morbo di Hansen continua a propagarsi. Tra i fattori che ne favoriscono il perpetuarsi vi sono certamente l’indigenza individuale e collettiva, che troppo spesso comporta la mancanza di igiene, la presenza di malattie debilitanti, l’alimentazione insufficiente se non fame cronica e la mancanza di accesso tempestivo alle cure mediche. Sul piano sociale persistono al contempo le paure che,  di norma generate dall’ignoranza, aggiungono un pesante stigma al già terribile fardello che la lebbra comporta anche a guarigione avvenuta.

Mi appello pertanto alla comunità internazionale e alle autorità di ogni singolo Stato, invitandole a sviluppare e rafforzare le necessarie strategie di lotta alla lebbra, rendendole più efficaci e capillari soprattutto dove il numero dei nuovi casi è ancora elevato. Tutto ciò senza trascurare le campagne di educazione e di sensibilizzazione in grado di aiutare, le persone affette ed i loro familiari, ad uscire dall’esclusione e ad ottenere le cure necessarie.

Al contempo ringrazio di cuore le Chiese locali e le varie realtà religiose, missionarie e non, per quanto già fatto da tanti di loro, consacrati e consacrate, laici e laiche; per quanto di bene ha fatto anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità per il suo lodevole impegno a sradicare questa ed altre malattie ‘dimenticate’,1 le associazioni e le organizzazioni non governative anti-lebbra,2 nonché i numerosi volontari e tutte le persone di buona volontà che con il loro impegno, contraddistinto dall’amore verso i nostri fratelli e sorelle affetti da questa malattia, si dedicano alla loro cura in modo integrale restituendo loro la dignità, la gioia e la fierezza di essere trattati da essere umani, così che possano salvaguardare oppure, secondo i casi, riprendere il loro giusto posto nella società.

Maria Salus Infirmorum sostenga i malati nella difficile lotta contro le sofferenze e i disagi provocati dalla malattia e possa squarciare il velo del silenzio con un sempre crescente  numero di atti di vera solidarietà a favore delle persone colpite dalla lebbra.



X Zygmunt Zimowski

Presidente del Pontificio Consiglio
per gli Operatori Sanitari

____________________

1 Cfr. World Health Organization, SEA-GLP-2009.3 e SEA-GLP-2009.4 (Enhanced Global Strategy for Further Reducing the Disease Burden due to Leprosy – Plan Period: 2011-2015).

2 AFRF in Francia, AIFO in Italia, ALES in Svizzera, ALM negli Stati Uniti d’America, CIOMOL in Svizzera, DAHW in Germania, DFB in Belgio, FL in Lussemburgo, LEPRA in Inghilterra, NLR in Olanda, SF in Spagna, Sasakawa Foundation in Giappone, SLC in Canada e TLMI in Inghilterra.



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Discorso del Papa ai componenti del Tribunale della Rota Romana
Non si deve giungere a una dichiarazione di nullità ad ogni costo
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo venerdì in udienza i prelati uditori, gli officiali e gli avvocati del Tribunale della Rota Romana in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario.

 




* * *

Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

Sono lieto di incontrarvi ancora una volta per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Saluto cordialmente il Collegio dei Prelati Uditori, ad iniziare dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto a nome dei presenti. Estendo il mio saluto ai Promotori di Giustizia, ai Difensori del Vincolo, agli altri Officiali, agli Avvocati e a tutti i Collaboratori di codesto Tribunale Apostolico, come pure ai Membri dello Studio Rotale. Colgo volentieri l’occasione per rinnovarvi l’espressione della mia profonda stima e della mia sincera gratitudine per il vostro ministero ecclesiale, ribadendo, allo stesso tempo, la necessità della vostra attività giudiziaria. Il prezioso lavoro che i Prelati Uditori sono chiamati a svolgere con diligenza, a nome e per mandato di questa Sede Apostolica, è sostenuto dalle autorevoli e consolidate tradizioni di codesto Tribunale, al cui rispetto ciascuno di voi deve sentirsi personalmente impegnato.

Oggi desidero soffermarmi sul nucleo essenziale del vostro ministero, cercando di approfondirne i rapporti con la giustizia, la carità e la verità. Farò riferimento soprattutto ad alcune considerazioni esposte nell’Enciclica Caritas in veritate, le quali, pur essendo considerate nel contesto della dottrina sociale della Chiesa, possono illuminare anche altri ambiti ecclesiali. Occorre prendere atto della diffusa e radicata tendenza, anche se non sempre manifesta, che porta a contrapporre la giustizia alla carità, quasi che una escluda l’altra. In questa linea, riferendosi più specificamente alla vita della Chiesa, alcuni ritengono che la carità pastorale potrebbe giustificare ogni passo verso la dichiarazione della nullità del vincolo matrimoniale per venire incontro alle persone che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. La stessa verità, pur invocata a parole, tenderebbe così ad essere vista in un'ottica strumentale, che l’adatterebbe di volta in volta alle diverse esigenze che si presentano.

Partendo dall’espressione "amministrazione della giustizia", vorrei ricordare innanzitutto che il vostro ministero è essenzialmente opera di giustizia: una virtù - "che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto" (CCC, n. 1807) - della quale è quanto mai importante riscoprire il valore umano e cristiano, anche all'interno della Chiesa. Il Diritto Canonico, a volte, è sottovalutato, come se esso fosse un mero strumento tecnico al servizio di qualsiasi interesse soggettivo, anche non fondato sulla verità. Occorre invece che tale Diritto venga sempre considerato nel suo rapporto essenziale con la giustizia, nella consapevolezza che nella Chiesa l’attività giuridica ha come fine la salvezza delle anime e "costituisce una peculiare partecipazione alla missione di Cristo Pastore… nell’attualizzare l’ordine voluto dallo stesso Cristo" (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 18 gennaio 1990, in AAS 82 [1990], p. 874, n.4). In questa prospettiva è da tenere presente, qualunque sia la situazione, che il processo e la sentenza sono legati in modo fondamentale alla giustizia e si pongono al suo servizio. Il processo e la sentenza hanno una grande rilevanza sia per le parti, sia per l’intera compagine ecclesiale e ciò acquista un valore del tutto singolare quando si tratta di pronunciarsi sulla nullità di un matrimonio, il quale riguarda direttamente il bene umano e soprannaturale dei coniugi, nonché il bene pubblico della Chiesa. Oltre a questa dimensione che potremmo definire "oggettiva" della giustizia, ne esiste un’altra, inseparabile da essa, che riguarda gli "operatori del diritto", coloro, cioè, che la rendono possibile. Vorrei sottolineare come essi devono essere caratterizzati da un alto esercizio delle virtù umane e cristiane, in particolare della prudenza e della giustizia, ma anche della fortezza. Quest’ultima diventa più rilevante quando l'ingiustizia appare la via più facile da seguire, in quanto implica accondiscendenza ai desideri e alle aspettative delle parti, oppure ai condizionamenti dell'ambiente sociale. In tale contesto, il giudice che desidera essere giusto e vuole adeguarsi al paradigma classico della "giustizia vivente" (cfr Aristotele, Etica nicomachea, V, 1132a), sperimenta la grave responsabilità davanti a Dio e agli uomini della sua funzione, che include altresì la dovuta tempestività in ogni fase del processo: «quam primum, salva iustitia» (Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Instr. Dignitas connubii, art. 72). Tutti coloro che operano nel campo del Diritto, ognuno secondo la propria funzione, devono essere guidati dalla giustizia. Penso in particolare agli avvocati, i quali devono non soltanto porre ogni attenzione al rispetto della verità delle prove, ma anche evitare con cura di assumere, come legali di fiducia, il patrocinio di cause che, secondo la loro coscienza, non siano oggettivamente sostenibili.

L’azione, poi, di chi amministra la giustizia non può prescindere dalla carità. L'amore verso Dio e verso il prossimo deve informare ogni attività, anche quella apparentemente più tecnica e burocratica. Lo sguardo e la misura della carità aiuterà a non dimenticare che si è sempre davanti a persone segnate da problemi e da sofferenze. Anche nell’ambito specifico del servizio di operatori della giustizia vale il principio secondo cui "la carità eccede la giustizia" (Enc. Caritas in veritate, n. 6). Di conseguenza, l'approccio alle persone, pur avendo una sua specifica modalità legata al processo, deve calarsi nel caso concreto per facilitare alle parti, mediante la delicatezza e la sollecitudine, il contatto con il competente tribunale. In pari tempo, è importante adoperarsi fattivamente ogni qualvolta si intraveda una speranza di buon esito, per indurre i coniugi a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale (cfr CIC, can. 1676). Non va, inoltre, tralasciato lo sforzo di instaurare tra le parti un clima di disponibilità umana e cristiana, fondata sulla ricerca della verità (cfr Instr. Dignitas connubii, art. 65 §§ 2-3).

Tuttavia occorre ribadire che ogni opera di autentica carità comprende il riferimento indispensabile alla giustizia, tanto più nel nostro caso. "L'amore – «caritas» – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace" (Enc. Caritas in veritate, n. 1). "Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è «inseparabile dalla carità», intrinseca ad essa" (Ibid., n. 6). La carità senza giustizia non è tale, ma soltanto una contraffazione, perché la stessa carità richiede quella oggettività tipica della giustizia, che non va confusa con disumana freddezza. A tale riguardo, come ebbe ad affermare il mio Predecessore, il venerabile Giovanni Paolo II, nell’allocuzione dedicata ai rapporti tra pastorale e diritto: "Il giudice […] deve sempre guardarsi dal rischio di una malintesa compassione che scadrebbe in sentimentalismo, solo apparentemente pastorale" (18 gennaio 1990, in AAS, 82 [1990], p. 875, n. 5).

Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive per giungere ad ogni costo alla dichiarazione di nullità, al fine di poter superare, tra l’altro, gli ostacoli alla ricezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Il bene altissimo della riammissione alla Comunione eucaristica dopo la riconciliazione sacramentale, esige invece di considerare l'autentico bene delle persone, inscindibile dalla verità della loro situazione canonica. Sarebbe un bene fittizio, e una grave mancanza di giustizia e di amore, spianare loro comunque la strada verso la ricezione dei sacramenti, con il pericolo di farli vivere in contrasto oggettivo con la verità della propria condizione personale.

Circa la verità, nelle allocuzioni rivolte a codesto Tribunale Apostolico, nel 2006 e nel 2007, ho ribadito la possibilità di raggiungere la verità sull'essenza del matrimonio e sulla realtà di ogni situazione personale che viene sottoposta al giudizio del tribunale (28 gennaio 2006, in AAS 98 [2006], pp. 135-138; e 27 gennaio 2007, in AAS 99 [2007], pp. 86-91; come pure sulla verità nei processi matrimoniali (cfr Instr. Dignitas connubii, artt. 65 §§ 1-2, 95 § 1, 167, 177, 178). Vorrei oggi sottolineare come sia la giustizia, sia la carità, postulino l'amore alla verità e comportino essenzialmente la ricerca del vero. In particolare, la carità rende il riferimento alla verità ancora più esigente. "Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, «si compiace della verità» (1 Cor 13, 6)" (Enc. Caritas in veritate, n. 1). "Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta […]. Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario" (Ibid., n. 3).

Bisogna tener presente che un simile svuotamento può verificarsi non solo nell'attività pratica del giudicare, ma anche nelle impostazioni teoriche, che tanto influiscono poi sui giudizi concreti. Il problema si pone quando viene più o meno oscurata la stessa essenza del matrimonio, radicata nella natura dell'uomo e della donna, che consente di esprimere giudizi oggettivi sul singolo matrimonio. In questo senso, la considerazione esistenziale, personalistica e relazionale dell'unione coniugale non può mai essere fatta a scapito dell’indissolubilità, essenziale proprietà che nel matrimonio cristiano consegue, con l’unità, una peculiare stabilità in ragione del sacramento (cfr CIC, can. 1056). Non va, altresì, dimenticato che il matrimonio gode del favore del diritto. Pertanto, in caso di dubbio, esso si deve intendere valido fino a che non sia stato provato il contrario (cfr CIC, can. 1060). Altrimenti, si corre il grave rischio di rimanere senza un punto di riferimento oggettivo per le pronunce circa la nullità, trasformando ogni difficoltà coniugale in un sintomo di mancata attuazione di un'unione il cui nucleo essenziale di giustizia – il vincolo indissolubile – viene di fatto negato.

Illustri Prelati Uditori, Officiali ed Avvocati, vi affido queste riflessioni, ben conoscendo lo spirito di fedeltà che vi anima e l’impegno che profondete nel dare attuazione piena alle norme della Chiesa, nella ricerca del vero bene del Popolo di Dio. A conforto della vostra preziosa attività, su ciascuno di voi e sul vostro quotidiano lavoro invoco la materna protezione di Maria Santissima Speculum iustitiae e imparto con affetto la Benedizione Apostolica.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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