giovedì 22 aprile 2010

[ZI100422] Il mondo visto da Roma

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Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 22 aprile 2010

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Santa Sede


Il Papa ai macedoni: entrare in Europa senza perdere le proprie radici
La ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, esempio di convivenza
di Inma Álvarez

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il Papa ha augurato questo giovedì al nuovo ambasciatore dell'ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, Gioko Gjorgjevski, che il suo Paese, che in questo momento si trova nel processo di incorporazione all'Unione Europea, possa compiere questo passo senza dimenticare il suo "passato religioso e culturale".

Benedetto XVI ha ricordato che nel popolo macedone sono ben visibili i segni dei valori umani e cristiani, incarnati nella vita della gente e che rappresentano l'apprezzato patrimonio spirituale e culturale della Nazione.

"Attingendo a tale patrimonio, i cittadini del suo Paese continueranno a costruire anche in futuro la propria storia e, forti della loro identità spirituale, potranno apportare al consorzio dei popoli europei il contributo della loro esperienza", ha detto il Pontefice al diplomatico.

Allo stesso modo, ha auspicato che "in un contesto globale di relativismo morale e di scarso interesse per l'esperienza religiosa, nel quale si muove spesso una parte della società europea", i macedoni "sappiano operare un saggio discernimento nell'aprirsi ai nuovi orizzonti di autentica civiltà e di vero umanesimo".

Per questo, ha sottolineato il Vescovo di Roma, è necessario "mantenere vivi e saldi, a livello personale e comunitario, quei principi che stanno alla base anche della civiltà di codesto Popolo: l'attaccamento alla famiglia, la difesa della vita umana, la promozione delle esigenze religiose specialmente dei giovani".

Dopp aver sottolineato le buone relazioni di questo Paese balcanico con la Santa Sede, Benedetto XVI ha poi lodato lo sforzo per la convivenza tra etnie e religioni diverse nella stessa Nazione.

La ex Repubblica Yugoslava di Macedonia, indipendente dal 1991, ha 2 milioni di abitanti, per la maggior parte (il 64%) ortodossi e per il 33% musulmani. Nel Paese convivono le etnie macedone, albanese, turca, rumena e serba.

In questo senso, il Papa ha ricordato che l'impegno del popolo macedone a favorire dialogo e convivenza "può diventare un esempio per altri nella regione dei Balcani".

"In effetti, i ponti di interscambio di più ampie intese e strette relazioni religiose tra le diverse componenti della società macedone hanno favorito la creazione di un clima in cui le persone si riconoscono fratelli, figli dello stesso Dio e cittadini dell'unico Paese", ha spiegato.

I credenti, ha aggiunto, "sanno che la pace non è solo frutto di pianificazioni e di attività umane, ma anzitutto dono di Dio agli uomini di buona volontà", una pace basata su "giustizia" e "perdono".

"La giustizia assicura un pieno rispetto dei diritti e dei doveri, e il perdono guarisce e ricostruisce dalle fondamenta i rapporti tra le persone, che ancora risentono delle conseguenze degli scontri tra le ideologie del recente passato", ha affermato il Papa.

Dopo la tappa comunista, "triste esperienza di un totalitarismo negatore dei diritti fondamentali della persona umana", il popolo macedone "è incamminato verso un armonico progresso, dando prova di pazienza, disponibilità al sacrificio e perseverante ottimismo, tenacemente proteso alla creazione di un avvenire migliore per tutti i suoi abitanti", ha concluso.

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La Santa Sede chiede all'ECOSOC uno sviluppo integrale
Sottolinea la libertà culturale e i valori delle popolazioni indigene
NEW YORK, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- L'Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'ONU ha sottolineato la necessità di una visione integrale dello sviluppo, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni indigene.

L'Arcivescovo Celestino Migliore è intervenuto questo martedì alla nona sessione del Forum Permanente sulle Questioni Indigene del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC).

Il dibattito si è concentrato sul tema dello sviluppo delle popolazioni indigene con cultura e identità.

"La Santa Sede considera fondamentale avere una visione integrale dello sviluppo che implichi il benessere della persona nel suo insieme e di tutta la comunità, e sottolinea in particolare la dimensione dell'identità culturale", ha dichiarato il presule.

"La visione indigena tradizionale dello sviluppo si centra sullo sviluppo umano nella sua totalità e intende che la terra e l'ambiente sono sacri e buoni per il nostro utilizzo; non si dovrebbe abusare di questi doni, necessari per l'esistenza umana".

"Bisogna promuovere un approccio allo sviluppo basato sui diritti umani che tenga conto dei diritti collettivi e dello spirito di condivisione dei benefici che afferma la sua connessione vitale con le terre e territori", ha affermato.

"Oltre alla dimensione economica, lo sviluppo deve poi includere anche elementi sociali, culturali e spirituali" delle popolazioni locali, ha aggiunto, sottolineando che bisogna rispettare "il loro profondo senso di coscienza religiosa, la famiglia e la coesione della comunità, e il desiderio di vivere in una forte simbiosi con la natura".

Per l'Arcivescovo, "promuovere la cultura indigena non significa sempre tornare al passato", ma piuttosto "andare avanti mantenendo i valori e i principi trasmessi tradizionalmente".

Valori tradizionali

"La cultura indigena si basa su valori consacrati nel tempo e collettivi", ha detto l'Arcivescovo, "arricchiti attraverso la promozione di modi tradizionali di apprendere e di trasmettere la conoscenza".

Allo stesso modo, sono importanti "il rispetto per la vita e la dignità umana, i processi decisionali rappresentativi, la pratica di meccanismi di giustizia e le cerimonie".

"Di fronte alla modernizzazione, all'industrializzazione e all'urbanizzazione, questi valori non devono essere trascurati", ha dichiarato, indicando che bisogna promuovere "la comprensione e il rispetto della cultura indigena".

Le popolazioni locali devono "poter scegliere la propria lingua, praticare la propria religione e partecipare attivamente alla conformazione della loro cultura", ha indicato il presule.

"E' fondamentale preservare la loro eredità culturale, promuovere le lingue indigene e l'educazione interculturale", ha osservato monsignor Migliore.

"In questo spirito, la Santa Sede promuove centri di lingue indigene, supervisiona la compilazione di libri di grammatica e incarica centinaia di traduzioni in queste lingue, spesso minacciate dall'estinzione naturale".

La delegazione vaticana ha infine sottolineato il proprio impegno verso "la promozione dello sviluppo culturale, orientando l'arricchimento umano e spirituale delle popolazioni".

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Il Papa benedice la "Madonna bombardata" di Nagasaki
In occasione di un pellegrinaggio della pace della statua lignea
di Anita S. Bourdin

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- La statua della "Madonna bombardata" di Nagasaki, sopravvissuta alla bomba atomica, è stata benedetta questo mercoledì da Benedetto XVI in Piazza San Pietro in Vaticano.

L'immagine lignea di Maria, sfigurata durante l'attacco nucleare del 9 agosto 1945 nella Cattedrale di Urakami, ha compiuto un pellegrinaggio della pace in Spagna e negli Stati Uniti, passando per Roma. La statua è giunta in Giappone nel 1930 in nave, proveniente dall'Italia.

L'Arcivescovo di Nagasaki, monsignor Mitsuaki Takami, insieme a un gruppo di pellegrini, ha salutato il Papa al termine dell'Udienza generale, e in seguito il Pontefice ha benedetto la statua.

Monsignor Takami ha spiegato che aveva sentito parlare della Madonna di Guernica, nei Paesi Baschi spagnoli, bombardata durante la Guerra Civile spagnola, il 26 aprile 1937, dall'aviazione tedesca e italiana, e di aver pensato immediatamente alla statua che era comparsa tra le macerie di Nagasaki (cfr. ZENIT, 26 febbraio 2010).

Nelle due immagini, il presule ha percepito un segno di pace, che promuove con questo pellegrinaggio.

"Spero che il pellegrinaggio permetta non solo che più persone conoscano la sofferenza provocata dal bombardamento atomico, ma anche che diventi anche un appello alla pace e all'uso di metodi non violenti", ha affermato.

L'idea del pellegrinaggio è di un cattolico di Nagasaki, che ha suggerito di visitare varie città, tra cui Barcellona con la Sagrada Familia, prima di arrivare a Guernica.

Al loro arrivo a Guernica, i pellegrini giapponesi visiteranno il Museo della Pace, dove tra marzo e maggio è in svolgimento un'esposizione sui bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.

Il 26 febbraio, i Vescovi di Hiroshima, monsignor Joseph Atsumi Misue, e di Nagasaki, monsignor Takami, hanno rivolto un messaggio al Presidente degli Stati Uniti, al Governo giapponese e alle Nazioni del mondo affinché compiano "passi coraggiosi" per l'"eliminazione totale delle armi nucleari" e la "costruzione di un mondo senza guerre".

I Vescovi giapponesi hanno anche rivolto un appello all'approvazione e al rispetto del Trattato di Nono Proliferazione Nucleare.

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Tanzania: la Santa Sede conferma la rinuncia del Vescovo Koda
Era fuori dalla sua Diocesi da quasi un anno
SAME, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il Papa ha accettato la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Same, nella regione del Kilimanjaro della Tanzania, presentata dal Vescovo Jacob Venance Koda, ha reso noto la Sala Stampa della Santa Sede.

Già a metà del 2009, il Nunzio del Papa in Tanzania aveva chiesto al presule di restare per qualche tempo fuori dal Paese.

La decisione era stata presa dopo un'indagine realizzata dall'ufficio del Nunzio e dalla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli sotto la direzione del Cardinale Robert Sarah, come aveva spiegato il 7 giugno dello scorso anno il Nunzio Apostolico, l'Arcivescovo Joseph Chennoth.

Monsignor Chennoth ha dichiarato questo martedì al quotidiano tanzaniano "Daily News" che ora è stato chiesto al Vescovo Koda di "prendersi un periodo di riposo, riflessione e studio personale".

Il Papa ha nominato padre Rogath Kimaryo CSSp, che finora esercitava il proprio ministero in una parrocchia di Dar es Salaam, amministratore apostolico della Diocesi di Same fino alla nomina di un nuovo Vescovo.

Non ci sono informazioni ufficiali sui motivi della rinuncia del Vescovo di Same; alcuni mezzi di comunicazione locali indicano che potrebbe essere dovuta ai suoi insegnamenti contro la fede cattolica.



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Uomini e donne di fede


Il carmelitano Angelo Paoli, apostolo dei poveri e degli ammalati
Sarò beatificato questa domenica a Roma
di Carmen Elena Villa

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- La virtù che spicca maggiormente nel sacerdote carmelitano Angelo Paoli, alimentata dalla preghiera costante davanti al Santissimo, è la carità, "l'attenzione verso i poveri e coloro che avevano povertà di tipo morale e spirituale". Lo ha riferito a ZENIT padre Giovanni Grosso, O carm., postulatore della sua causa di beatificazione.

Questa domenica padre Paoli, vissuto tra il 1642 e il 1720, sarà beatificato nella Basilica romana di San Giovanni in Laterano. La cerimonia sarà presieduta dal Cardinale Agostino Vallini, vicario generale di Roma. La formula di beatificazione verrà pronunciata da monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, in rappresentanza di Papa Benedetto XVI.

Il fiorire di una vocazione

Il suo nome di battesimo era Francesco. Fin da piccolo lasciò intravedere la sua vocazione, quando ad Argigliano, il suo paese natale, in Toscana, invitava i suoi amichetti a praticare le virtù e ad abbandonare le cattive abitudini.

Molti dicevano che era un piccolo catechista, ed egli stesso racconta in una lettera che scrisse a un amico di gioventù: "Spiegavo loro la dottrina cristiana e li conducevo nelle chiese e, poiché per invogliarli ero solito donare loro qualcosa, essi mi seguivano e mi sentivano volentieri, e tutti mi volevano bene".

Aveva solo 12 anni quando morì sua madre, fatto che lo aiutò a intensificare la sua vita spirituale e a maturare la sua vocazione. A 18 anni entrò in seminario. Lì sentì la chiamata a una vita di maggiore preghiera e penitenza. Aveva anche uno stretto rapporto con la Madonna del Carmelo, ed entrò nel convento dei frati carmelitani a Fivizzano. Nel 1661 emise i voti solenni.

Sacerdote del Signore

Sei anni dopo ricevette l'ordinazione sacerdotale. "Gran dignità, gran potestà, far scendere un Dio dal Cielo in terra, liberare un'anima dal purgatorio e mandarla in Paradiso", diceva della sua vocazione in uno dei suoi scritti.

Padre Paoli volle poi dedicarsi più tempo alla penitenza e ai sacrifici fisici. Iniziò a indebolirsi, e per questo venne mandato a casa del padre. Trascorreva le sue giornate parlando con i pastori e conoscendo la vita della gente umile e semplice dei campi, a cui insegnava a pregare e impartiva lezioni di catechismo.

Scoprì così che la sua vocazione doveva orientarsi alla cura dei poveri, potendo vedere "la chiamata dentro la chiamata". "Noi non abbiamo come accento principale la carità, ma per lui fu veramente una chiamata particolare", ha detto a ZENIT padre Grosso.

Tornato in comunità, padre Paoli venne trasferito a Firenze per incaricarsi dei novizi. Nella formazione degli aspiranti al Carmelo sottolineò forza interiore, amore per l'apostolato, preghiera e dominio delle passioni.

Fu poi parroco a Corniola, vicino Empoli. I suoi preferiti erano sempre i poveri e i malati. Lavorò anche a Siena, Montecatini e Fivizzano.

Nel 1687 ricevette una lettera che annunciava il suo trasferimento a Roma per servire come maestro dei novizi nel convento di San Martino. Lì mostrò la sua preoccupazione per i poveri che mendicavano nelle strade e visitò le carceri. "Cominciò a servire gli ammalati e i poveri, distribuì cibo, abiti. 300 persone venivano assistite quotidianamente", ha detto il suo postulatore.

Si preoccupava dei malati dell'ospedale San Giovanni, della comunità dei Carmelitani, situato vicino alla Basilica di San Giovanni in Laterano. Il suo obiettivo era "dare da mangiare, cambiare la biancheria, dare cibo, conforto, rallegrarli con qualche piccolo concerto e spettacolino", ricorda padre Grosso.

Quando uscivano dall'ospedale, molti non sapevano dove andare, e padre Paoli cercava famiglie che potessero accoglierli. Nacque così una casa di convalescenza, fondata da lui e che funzionò per vari anni.

Un'altra delle sue caratteristiche era il grande amore per la croce. "Piantava sempre la croce dove poteva", sottolinea padre Grosso. Volle anche porre una croce al Colosseo, "perché fu il luogo del martirio, secondo la tradizione, di tanti cristiani". All'interno di questo luogo organizzava la Via Crucis.

Il futuro beato morì a Roma nel 1720. "Moltissima gente partecipò al suo funerale, che si svolse nel convento di San Martino dopo una specie di processione alla Basilica di Santa Maria Maggiore, perché molta gente era rimasta fuori dalla chiesa".

"Il Paradiso è un bene così grande che vale la pena di fare qualsivoglia diligenza per acquistarlo! - scriveva padre Paoli - I Santi per acquistarlo hanno operato molto e con molta sollecitudine, e poco hanno pensato alla cura ed al riposo".

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Notizie dal mondo


Manifestazioni di cristiani in India dopo gli attacchi induisti
I cristiani di Bhopal in strada
BHOPAL, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Nello Stato indiano del Madhya Pradesh, i cristiani hanno manifestato per le strade dopo una serie di attacchi perpetrati da induisti, ha reso noto Eglises d'Asie, l'agenzia delle Missioni Estere di Parigi.

A Bhopal, capitale del Madhya Pradesh, c'è stata una grande manifestazione il 18 aprile, il giorno dopo l'attacco a un gruppo di cristiani protestanti durante un incontro di preghiera, che ha provocato almeno un morto e tre feriti.

Il pomeriggio di sabato 17 aprile, una trentina di uomini con il volto coperto da un panno giallo ha fatto irruzione in un centro di preghiera nella località di Saliya e ha attaccato i presenti.

All'incontro partecipavano più di 400 fedeli. Stavano cantando un inno a occhi chiusi quando gli assalitori sono entrati e hanno iniziato a colpirli, accusandoli di provocare conversioni forzate.

Prima di andarsene, gli assalitori hanno distrutto il materiale liturgico, le Bibbie e i veicoli dei cristiani.

Mentre i fedeli fuggivano nel buio, un giovane di 25 anni, Amit Gilbert, è morto cadendo in un pozzo e annegando. Altre tre persone sono rimaste gravemente ferite; una di loro ha la colonna vertebrale rotta.

Dopo l'assalto la polizia ha arrestato sette persone, anche se non ha rivelato alcun dettaglio sull'identità degli aggressori.

Si tratta del secondo attacco in due giorni a cristiani durante incontri di preghiera nel Madhya Pradesh.

In una sessioen evangelica che migliaia di persone hanno celebrato dal 13 al 15 aprile nel grande stadio della città di Balaghat, alcuni militanti induisti, dopo vari tentativi falliti di entrare, hanno lanciato una bomba Molotov, che non ha provocato vittime.

Il giorno della fine dell'incontro, giovedì scorso, circa 200 militanti induisti, identificati dalle forze dell'ordine come appartenenti al Bharatya Janata Party (BJP, Partito del popolo indiano) e al Bajrang Dal, hanno cercato nuovamente di entrare nello stadio.

La polizia è riuscita a trattenerli e ha arrestato 22 di loro, che avevano attaccato gli agenti lanciando pietre.

Nonostante questo, al termine dell'incontro, quando i cristiani stavano uscendo dallo stadio, gli induisti li hanno attaccati, provocando numerosi feriti.

L'incidente aveva costretto le forze dell'ordine a difendere le chiese e i sacerdoti di tutta la regione, com'era accaduto nell'attacco fallito alla Cattedrale siro-malabar di Satna nel marzo scorso.

Il 15 aprile, l'Arcivescovo cattolico di Bhopal, monsignor Leo Cornelio, ha ricordato al Governo durante una conferenza stampa il suo "dovere di difendere tutti i cittadini, senza distinzione di casta, religione o di altro genere".

Ha anche sottolineato che la violenza contro i cristiani è aumentata costantemente dal 2003, anno dell'arrivo al potere del BJP.

Secondo alcune statistiche della Chiesa locale, da quel momento ci sono stati più di 170 attacchi anticristiani.

"Non cederemo di fronte alla pressione", ha ad ogni modo dichiarato il presule, esortando alla partecipazione a una manifestazione pacifica svoltasi domenica 18 aprile.

L'attacco del fine settimana scorso ha rafforzato la determinazione dei cristiani, e in più di 5.000 hanno partecipato domenica alla marcia per le vie di Bhopal, con una temperatura superiore ai 40º C.

I manifestanti portavano striscioni e bandiere e hanno chiesto rispetto per i diritti dei cristiani e delle minoranze e sanzioni contro le aggressioni nei loro confronti.

Una marcia parallela è stata celebrata a Saliya, dove i cristiani hanno chiesto la fine delle violenze contro la loro comunità.

Si stima che nel Madhya Pradesh i cristiani rappresentino meno dell'1% su una popolazione di 55 milioni di persone, per il 91% induista.

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Nuove vocazioni sacerdotali, risultato degli sforzi di collaborazione
I Vescovi USA lanciano una web di promozione vocazionale
WASHINGTON, D.C., giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Uno studio sui candidati all'ordinazione sacerdotale di quest'anno mostra che le vocazioni sono il risultato della collaborazione tra clero, famiglie e tutto il Popolo di Dio.

La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha reso nota il 16 aprile un'inchiesta su "The Class of 2010: Survey of Ordinands to the Priesthood" ("La classe del 2010: inchiesta sui candidati al sacerdozio").

Si tratta di un progetto di ricerca annuale commissionato dalla Conferenza Episcopale e realizzato dal Centro di Ricerca Applicata all'Apostolato dell'Università di Georgetown.

"La maggior parte di coloro che saranno ordinati è stata cattolica dalla nascita", spiega il presidente della Commissione per il clero, la vita consacrata e le vocazioni della Conferenza Episcopale, il Cardinale Sean O'Malley di Boston.

"Quattro su cinque dicono che i loro genitori sono cattolici; quasi otto su dieci sono stati esortati da un presbitero a prendere in considerazione la vita sacerdotale".

"Ciò rivela la funzione essenziale che l'insieme della Chiesa deve svolgere nella promozione delle vocazioni", ha affermato.

Il Cardinale ha sottolineato che quasi tre quarti della classe di quest'anno dicono di essere stati chierichetti, lettori, ministri dell'Eucaristia o di aver svolto un altro ministero parrocchiale.

"Una tendenza rilevante evidente in questo studio è l'importanza di una formazione permanente e di un impegno nella fede cattolica", ha segnalato.

Il 92% dei candidati ha avuto un lavoro a tempo pieno - soprattutto nell'ambito dell'istruzione - prima di entrare in seminario.

Tre candidati su cinque hanno completato gli studi universitari prima di entrare in seminario, e uno su cinque ha conseguito anche un titolo post lauream.

Un terzo di loro è entrato in seminario quando era all'università. In media, dicono di aver preso in considerazione la vocazione religiosa quando avevano 18 anni.

Famiglia

Il più giovane che verrà ordinato quest'anno ha 25 anni, e undici di loro ne hanno 65 o più.

Il 37% dei candidati ha un parente sacerdote o religioso.

Due terzi segnalano che prima di entrare in seminario recitavano regolarmente il rosario e partecipavano alle adorazioni eucaristiche.

La maggior parte di loro ha più di due fratelli, e il 24% ne ha cinque o più.

Il 70% è caucasico/europeo/americano/bianco, mentre il 13% è ispanico/latino e il 10% asiatico o delle isole del Pacifico.

Quasi un terzo della classe è nato fuori dagli Stati Uniti, soprattutto in Messico, Colombia, Filippine, Polonia e Vietnam.

La ricerca è stata inviata a 440 candidati al sacerdozio ed è stata restituita da 291 uomini che verranno ordinati sacerdoti diocesani e da 48 appartenenti a Ordini religiosi.

La Conferenza Episcopale ha pubblicato tutto il rapporto sulla sua pagina web, così come una nuova web dedicata alla promozione delle vocazioni.

L'episcopato lancerà la nuova web questa domenica, 25 aprile, Domenica del Buon Pastore e Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni.

Contiene risorse per aiutare uomini e donne a discernere la propria vocazione, e anche materiale per genitori, educatori e promotori vocazionali.

La nuova web per le vocazioni è disponibile su www.ForYourVocation.org



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Dottrina Sociale e Bene Comune


Educare le coscienze per vincere le mafie

di mons. Angelo Casile*

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Nel documento Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno (PSCM) i nostri Vescovi tornano «a condannare con forza» una delle piaghe più profonde e durature del Mezzogiorno «un vero e proprio cancro», una «tessitura malefica che avvolge e schiavizza la dignità della persona». «Non è possibile mobilitare il Mezzogiorno senza che esso si liberi da quelle catene che non gli permettono di sprigionare le proprie energie», denuncia con coraggio il documento, deplorando ogni mafia, che «non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese» (PSCM 9).

Sull’impegno contro ogni mafia e l’illegalità i Vescovi ricordano «i numerosi testimoni immolatisi a causa della giustizia: magistrati, forze dell’ordine, politici, sindacalisti, imprenditori e giornalisti, uomini e donne di ogni categoria» e le «luminose testimonianze» di «don Pino Puglisi, di don Giuseppe Diana e del giudice Rosario Livatino» (PSCM 9).

Al cancro della mafia, la Chiesa non ha che da opporre la parola di salvezza del Vangelo di Gesù, accolto e annunciato con coraggio: «La comunità ecclesiale, guidata dai suoi pastori, riconosce e accompagna l’impegno di quanti combattono in prima linea per la giustizia sulle orme del Vangelo e operano per far sorgere “una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile” (Benedetto XVI, Omelia, Cagliari, 7 settembre 2008» (PSCM 9).

Occorre promuovere una «cultura del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità». Questi sono «i capisaldi che attendono di essere sostenuti e promossi all’interno di un grande progetto educativo. La Chiesa deve alimentare costantemente le risorse umane e spirituali da investire in tale cultura per promuovere il ruolo attivo dei credenti nella società» (PSCM 16).

Puntando sull’educazione integrale dell’uomo si possono sconfiggere le radici di un problema etico, culturale e antropologico. In questa prospettiva «è necessario impegnarsi in una nuova proposta educativa», che ammaestri «al gratuito e persino al grazioso, e non solo all’utile e a ciò che conviene; al bello e persino al meraviglioso, e non solo al gusto e a ciò che piace; alla giustizia e persino alla santità, e non solo alla convenienza e all’opportunità». In questo ruolo educativo sono particolarmente impegnate le nostre parrocchie, le scuole, «la famiglia e, al suo interno, in particolare la presenza tradizionale e ricca di sapienza della donna» (PSCM 17).

L’esemplarità del “Progetto Policoro”

I Vescovi citano tra i «segnali concreti di rinnovamento e di speranza che hanno per protagonisti i giovani» il “Progetto Policoro”, nato all’indomani del Convegno Ecclesiale di Palermo su iniziativa di mons. Mario Operti, allora Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, con il coinvolgimento del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile e di Caritas Italiana.

Il “Progetto Policoro” affronta «il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile e costruendo rapporti di reciprocità e sostegno tra le Chiese del Nord e quelle del Sud, potendo contare sulla fattiva collaborazione di aggregazioni laicali che si ispirano all’insegnamento sociale della Chiesa» (PSCM 12). Esso, dopo 15 anni di esperienza e oltre 500 realtà imprenditoriali e cooperative suscitate, può essere a buon diritto considerato un’iniziativa ecclesiale che mira «a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile» e sollecita i giovani a «una conoscenza più approfondita dell’insegnamento sociale della Chiesa, che aiuti a coniugare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza delle opere di giustizia e di solidarietà» (PSCM 12).

Chiamati a vivere la speranza, ogni giorno

Il documento dei Vescovi italiani si conclude con un appello: «bisogna osare il coraggio della speranza! Vorremmo congedarci da voi incoraggiandovi a uno a uno… scriviamo a voi, sacerdoti, come a figli e amici… consacrati e consacrate all’amore del Signore, lampade di speranza… famiglie, cellule vive della Chiesa… giovani, perché sappiate che in voi Cristo vuole operare cose grandi… uomini e donne di buona volontà, cercatori di giustizia e di pace» (PSCM 20).

Viviamo questo appello alla speranza e ciascuno di noi, anche se sconosciuto al mondo, ma conosciutissimo da Dio (cfr 2Cor 6,9), è invitato dai Vescovi italiani ad amare le proprie terre e spendersi per esse, attraverso il quotidiano impegno nella vita e nella Chiesa, «testimone credibile della verità e luogo sicuro dove educare alla speranza per una convivenza civile più giusta e serena» (PSCM 11).

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*Mons. Angelo Casile è Direttore dell'Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro.

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Italia


Mons. Crociata: "Più che le nuove tecnologie, ci sta a cuore l'uomo"
Intervento del Segretario generale della Cei al convegno "Testimoni digitali"

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- “Più che le nuove tecnologie, ci sta a cuore l’uomo; e se ci misuriamo con esse, lo facciamo nella consapevolezza di quanto concorrano a tratteggiare le coordinate della storia e della cultura, fino a diventare l’ambiente in cui ci muoviamo e come l’aria che respiriamo”: è questa, secondo mons. Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), la chiave interpretativa del convegno “Testimoni digitali. Volti e linguaggi nell’era cross mediale” che si è aperto giovedì a Roma otto anni dopo “Parabole mediatiche”.

“La sollecitudine per il bene dell’uomo e della società – ha affermato Crociata rivolto agli animatori della comunicazione e della cultura riuniti all’Hotel Summit - è dunque alla base di questo nostro convenire da tutto il Paese per riflettere insieme sulle frontiere aperte dalla tecnologia digitale”.

“Non è nostra intenzione – ha sottolineato il segretario generale della Cei facendo eco alle affermazioni di Benedetto XVI nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali – «occupare il web», quanto piuttosto offrire anche in questo contesto la nostra testimonianza per alimentare la cultura e quindi contribuire alla costruzione del futuro del Paese”.

In che modo? Evitando di “demonizzare il nuovo” così come di “considerare obsoleto o inutile il patrimonio di cultura che ci portiamo sulle spalle” e valorizzando “lo straordinario potenziale costituito dalle nuove tecnologie” con l’impegno ad “introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo ed informativo i valori su cui poggia la nostra vita”.

Nell’affrontare questa sfida giunge in soccorso il cammino già compiuto nella Chiesa italiana nello scorso decennio sulla scorta degli Orientamenti pastorali “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” che sottolineavano il ruolo delle nuove tecnologie di comunicazione e che hanno portato alla pubblicazione del “Direttorio sulle comunicazioni sociali”.

Il segretario generale della Cei ha quindi ricordato il contributo dei diversi strumenti sostenuti dalla Chiesa italiana nel campo della comunicazione: il circuito radiofonico “InBlu”, l’emittente televisiva “Tv2000”, il quotidiano “Avvenire”, l’Agenzia di notizie “Sir” e le 180 testate che fanno parte della Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc). A questo si aggiungono i numerosi siti Internet di ispirazione cattolica e l’azione formativa, anche a distanza, per gli animatori della cultura e della comunicazione.

“Se queste iniziative sono rilevanti – ha sottolineato Crociata -, l’ambito che ci sta maggiormente a cuore rimane comunque quello locale”. È sul territorio, infatti, che “la figura dell’animatore della cultura e della comunicazione è chiamato a muoversi da un lato verso chi è già impegnato nella pastorale, al fine di aiutarlo ad inquadrare meglio il suo operato nel nuovo contesto socio-culturale dominato dai media, dall’altro nell’aprire nuovi percorsi, attraverso i quali raggiungere persone ed ambiti spesso periferici, quando non addirittura estranei alla vita della Chiesa e alla sua missione”.

“La presenza di mezzi di comunicazione promossi esplicitamente dalla comunità ecclesiale, infatti – ha ribadito Crociata citando il ‘Direttorio sulle comunicazioni sociali’ non deve essere intesa in alternativa ad un impegno negli altri media, con i quali, anzi, si avverte l’esigenza di intensificare il dialogo e la collaborazione”.

Il segretario generale della Cei non ha nascosto i ritardi della Chiesa nell’affrontare la sfida del mondo digitale, sottolineandone espressamente due.

Innanzitutto “l’autoreferenzialità del linguaggio”, “quasi di nicchia”, in un contesto culturale che “è cambiato profondamente e che ci porta a confrontarci con una generazione che, quanto a formazione religiosa, non possiede ormai più il nostro vocabolario”. Una generazione di “nativi digitali”, ha ribadito Crociata, che “non si pone contro Dio o contro la Chiesa, ma che sta imparando a vivere senza Dio e senza la Chiesa”.

Ne deriva che “l’impegno di coltivare una nuova alfabetizzazione va portato avanti con la consapevolezza che non si tratta semplicemente di sviluppare una vicinanza empatica alle tecnologie digitali, quanto di essere presenti anche in questo ambiente con modalità che non disperdano l’identità cristiana, l’eccedenza rappresentata dal Vangelo”.

“Deve starci a cuore – ha affermato Crociata citando nuovamente Benedetto XVI – più che la mano dell’operatore, un cuore credente”.

La seconda difficoltà, per il segretario generale della Cei, è quella di “mettere a fuoco, all’interno dei piani pastorali delle nostre diocesi, un progetto organico per le comunicazioni sociali, che integri queste ultime negli altri ambiti”.

Va abbandonata l’idea di “considerare la comunicazione come un ulteriore segmento della pastorale o un settore dedicato ai media, per intenderla invece come lo sfondo per una pastorale interamente e integralmente ripensata a partire da ciò che la cultura mediale è e determina nelle coscienze e nella società”.

E’ giunto il momento, per Crociata, di “scongelare veramente la figura dell’animatore della cultura e della comunicazione, figura sulla quale finora si è investito ancora troppo poco o comunque con scarsa convinzione”.

“In una pastorale concepita come azione a tutto campo, e non solo tra le mura ecclesiastiche” vanno intercettate quelle persone che “per impegni professionali o altri motivi non possono operare in parrocchia, ma volentieri darebbero il loro contributo se l’impegno fosse maggiormente collegato alle proprie competenze e gestibile con elasticità”. Occorre scongiurare il rischio che “doni e carismi restino inutilizzati per la scarsa attenzione prestata ai settori della cultura e della comunicazione”.

“Compito a casa” per tutti i partecipanti al convegno sono “un linguaggio credente ed un progetto organico per le comunicazioni sociali sul quale applicarsi fin dal nostro ritorno”. Queste sono, altresì, “le condizioni per elaborare una strategia comunicativa missionaria, che sia capace di coinvolgere tutti gli ambiti pastorali e di incidere sulla cultura della società”.

“Sarà questa – ha concluso Crociata - la sfida del decennio che inauguriamo, non a caso incentrato sull’educazione”.

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Per un ritorno ai media come strumenti di relazione vera
Scenari digitali e nuove forme di presenza della Chiesa

di Chiara Santomiero

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Non solo usare “intelligentemente” i media della rete ma anche, in qualche modo “rifondarli”, facendo in modo che tornino ad essere strumenti di relazione vera: a questo si è chiamati “come uomini e come cristiani”, secondo Francesco Casetti, direttore del Dipartimento di Scienze della comunicazione dell'Università cattolica di Milanto, intervenuto giovedì al convegno “Testimoni digitali” in corso a Roma.

“I social network nati con il web 2.0 – ha spiegato Casetti - tendono spesso ad offrire quello che è un puro e semplice contatto”. Quello che conta, è “l’accessibilità, e cioè il raggiungere e l’essere raggiunti”. Basti pensare a Facebook, o anche a Twitter. “Ma un contatto – ha sottolineato Casetti - non esaurisce il senso di una relazione: quest’ultima si basa su una offerta di sé e insieme su un ascolto reciproco”.

Che cosa dà verità alla relazione che il web sembra offrire?

Occorre secondo Casetti “un supplemento di ascolto, corresponsabilità, carità”. In questo i cristiani sono chiamati ad “articolare meglio carità e verità perché questa comunicazione di cui la relazione è il punto di partenza chiede carità”.

“Il soggetto che fruisce della rete – ha proseguito Casetti - non è debole, come siamo abituati a pensarlo, ma più 'drammaticamente' impegnato in un quadro relazionale”. Come aiutarlo ad assumersi una responsabilità?

“Tre elementi – afferma Casetti - ci vengono chiesti : una dimensione di gratuità; un ascolto che si apra all'altro in una relazione di intimità, non superficiale; e un senso di fedeltà, di permanenza contro la labilità della permanenza in rete”.

“Nel web 2.0 – ha affermato Michele Sorice, docente di sociologia della comunicazione e media research della Luiss – i rapporti che nascono sono riformulazioni di rapporti già esistenti: essi vengono riallocati nella dimensione di rete”. Due sono i concetti chiave che li caratterizzano: “logica della compartecipazione della conoscenza secondo una relazione paritaria, orizzontale” e “prossimità, parziale ed episodica ma ugualmente significativa”.

Vengono fondate, ha aggiunto, “forme di coinvolgimento sociale che diventa più importante dell'esserci”. Si parla a volte di “disintermediazione; sembra, cioè, che non ci sia più la mediazione operata dai media o dalle agenzie tradizionali come i partiti ma in realtà viene sostituita da una logica di re-intermediazione, intermediazione in rete”.

Questo può portare a una nuova forma della cittadinanza, determinata dall'accesso in rete, nelle sue varie modalità fino all'introduzione di contenuti da parte dello stesso utente. Tuttavia, ha avvertito Sorice, “l'accesso non è ancora la cittadinanza, è un elemento”. L'altro è “l'interazione con il coinvolgimento emotivo che la rete riesce a produrre” cui si collega il rischio “della connessione come illusione di interazione: per cui ciascuno è solo con altri 'soli' interconnessi”. Resta tuttavia l'aspetto dell'opportunità: “la rete come stimolo alle relazioni tra i soggetti che anima comunità in cui il coinvolgimento diventi cifra distintiva”.

Per riuscire a parlare di cittadinanza, secondo Sorice: “occorre la partecipazione intesa come possibilità di intervenire non solo nei contenuti, ma anche nel controllo dei processi distributivi delle comunicazione”.

Tutto questo deve essere per la comunità ecclesiale oggetto di approfondimento: “il web che non vogliamo invadere – ha affermato Sorice - ma abitare come spazio del nostro tempo, ci impone la centralità delle nuove forme di comunicazione”.

Per non correre il rischio “di perdere un'occasione storica”, è necessario “aiutare con coraggio il nuovo paesaggio mediale facendoci ibridare dalla logica della comunicazione come compartecipazione e dialogo, e imboccare una strada alla quale non possiamo rinunciare se non vogliamo perdere l'influenza sulle nuove generazioni”.

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Cresce il cattolicesimo in Internet

di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Seppure con un leggero ritardo, la Chiesa italiana, i gruppi cattolici, le parrocchie, gli ordini religiosi ecc, stanno conquistando spazi sempre più vasti nella galassia telematica.

Da un sondaggio condotto da ricercatori presso l'Istituto di Informatica e Telematica del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano di Pisa (IIT-CNR) risulta che con trentamila siti, oltre mezzo milione di pagine web, quasi 2000 blog, la religione cattolica ha una forte presenza sui siti web italiani.

Il numero di 562.574 pagine contenenti riferimenti al cattolicesimo rappresentano l’1,76% del totale del campione analizzato, ma la percentuale è significativa se si pensa che le pagine del web con riferimenti alla politica, uno degli argomenti più “caldi” nella Rete italiana, sono circa 930mila (2,9% del campione).

La forza del cattolicesimo in rete e della sua continua crescita è stato sottolineato da Francesco Diani curatore del sito (www.siticattolici.it), il quale lavorando alla sua tesi “Pastorale e informatica” ha iniziato a contare e catalogare i siti cattolici italiani che alla fine degli anni '90 erano appena 243.

Adesso, sono quasi 14mila i siti cattolici catalogati da Diani. Di questi un quarto (3.460) è rappresentato da parrocchie, chiese, oratori, gruppi parrocchiali. Seguono 2.545 siti di Associazioni e Movimenti ecclesiali. Al terzo posto con 1689 siti, gli ordini e gli istituti religiosi.

In termini di crescita Diani ha rilevato negli ultimi tre anni una crescita costante pari al +24,2%, che è una delle più impetuose del WEB. Per quanto riguarda la geografia la Lombardia è in testa con 740 realtà web, davanti a Triveneto (376), Sicilia (334) e Lazio (314); mentre tra gli ordini e istituti religiosi i Francescani (166 siti) sono i più presenti in rete.

Per quanto riguarda il modo con cui i sacerdoti usano le nuove tecnologie per l’attività pastorale, il 15 aprile scorso alla conferenza stampa di presentazione del convegno “Testimoni digitali", Lorenzo Cantoni, docente alla facoltà di scienze della comunicazione all’Università della Svizzera italiana, ha illustrato i scultati della ricerca Picture, acronimo di Priests’ Ict use in their Religious Experience.

La ricerca è stata condotta con il sostegno della Congregazione per il Clero, realizzata dai laboratori NewMinE-New Media in Education Lab e webatelier.net dell’Università della Svizzera italiana di Lugano in collaborazione con la Facoltà di Comunicazione sociale istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce di Roma.

I risultati sono sorprendenti: il 92,9% dei preti intervistati in Italia dichiara di accedere tutti i giorni ad internet, in misura leggermente superiore alla media mondiale (90,4%).

Per quanto riguarda l’utilità della rete per la preparazione delle omelie il 49,5% dei sacerdoti in Italia cerca materiale online almeno una volta alla settimana, di questi, il 9,2% lo fa tutti i giorni. Il 35,2% lo fa occasionalmente (una volta al mese o qualche volta all’anno). Solo il 15,3% dichiara di non farlo mai.

Per la formazione, il 27,7% dei sacerdoti in Italia studia online quasi tutti i giorni, il 59% almeno una volta alla settimana, mentre solo il 13,3% non lo fa mai.

Il 37,8% è d’accordo con l’affermazione che le tecnologie permettono di migliorare la formazione dei sacerdoti, e il 53,7% è d’accordo o molto d’accordo.

Alla domanda su quali strumenti siano ritenuti molto o moltissimo utili per imparare, il 18,8% dei rispondenti ha indicati i libri e le riviste, seguiti dai motori di ricerca (18,3%) e dalle lezioni in aula (16,4%).

La lettura combinata di questi dati mostra un interesse all’uso delle tecnologie digitali, combinate però con tutte le altre strategie d’apprendimento.

Il 39,9% dei sacerdoti italiani non utilizza mai internet per pregare, ma il 19,1% lo usa tutti i giorni per questo scopo (principalmente per recitare la liturgia delle ore).

Solo il 14,2% di sacerdoti in Italia considera internet molto utile per pregare (9.9% nel mondo), mentre il 40,1% non lo considera per niente utile a questo scopo (32.3% nel mondo).

Inoltre più del 51% dei sacerdoti è molto positivo sull’utilità di internet per la diffusione della fede, e più del 63% è d’accordo o molto d’accordo nel considerare le nuove tecnologie come mezzi d’inculturazione della fede.

In particolare il 61,1% è d’accordo o molto d’accordo con l’affermazione che le nuove tecnologie permettono di evangelizzare meglio i giovani; peraltro, il 38.9% è solo abbastanza d’accordo o non è per niente d’accordo.

Circa la comunicazione il 68,3% dei sacerdoti ritiene internet utile per comunicare con le altre persone. Il 30,6% accede ai social network tutti i giorni, il 17,1% vi accede solo settimanalmente, il 7,0% mensilmente e l’8,9% qualche volta all’anno, mentre il 36,4% dichiara di non accedervi mai.

Nella comunicazione con altri sacerdoti, il 43,0% non usa mai i social network e il 34,4% non usa le chat o altri servizi vocali online.

Alla domanda su quanto l’uso delle nuove tecnologie abbia migliorato il modo in cui compiono la loro missione sacerdotale, il 33,4% ritiene tale uso molto positivo (valori 5 e 4), il 50,6% lo ritiene di qualche importanza (valori 3 e 2), mentre il 15,9% vi vede un contributo molto limitato o nullo (valori 0 e 1).

Quanto ai pericoli delle tecnologie, il 35,7% ritiene che le opportunità siano superiori ai rischi mentre il 18,1% ritiene che i pericoli sono maggiori rispetto alle opportunità che offrono.

I siti web indicati come maggiormente utili nell’esperienza sacerdotale da più di 100 sacerdoti sono stati: vatican.va, qumran.net, chiesacattolica.it e avvenire.it, maranatha.it, lachiesa.it, zenit.org.

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Segnalazioni


Incontro internazionale di portavoce della Chiesa a Roma
Dal 26 al 28 aprile alla Pontificia Università della Santa Croce

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Trecento comunicatori della Chiesa si danno appuntamento a Roma dal 26 al 28 aprile per discutere sul tema Identità e dialogo, nel contesto del VII Seminario professionale promosso dalla Facoltà di Comunicazione Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce.

Secondo il presidente del Seminario, il rev. prof. José María La Porte, “il bene delle persone è prioritario rispetto alla buona immagine delle istituzioni, come ancora una volta ha dimostrato il Papa nell’affrontare la questione degli abusi sui minori. Un’identità chiara e definita, come quella della Chiesa cattolica, non rappresenta pertanto un ostacolo ma un punto di forza nella comunicazione”.

Tra i relatori, Helen Osman, portavoce della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, mons. Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa Vaticana, e operatori della comunicazione come Michael Levy (Brand Strategy Consulting, New York) e Marco Pogliani (Moccagatta, Pogliani e associati, Milano). Da parte sua, la teologa tedesca Jutta Burggraf spiegherà come “comunicare l’identità cristiana in una società postmoderna”.

Il Seminario prevede anche due diverse tavole rotonde con i portavoce delle Conferenze Episcopali d’Italia, Stati Uniti e Slovacchia, e i giornalisti vaticanisti delle testate Frankfurter Allgemeine Zeitung, The New York Times, De Telegraaf e Corriere della Sera.

Nel corso dei lavori è prevista anche la presentazione di esperienze e strategie di comunicazione. Ci sarà una sessione sul tema degli abusi sui minori, compresa la copertura fatta dal The New York Times, e verranno offerte analisi su diversi eventi ecclesiali tra cui la GMG Madrid 2011 e il viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra e la beatificazione del Card. Newman.

Inoltre, si presenterà la copertura informativa della visita del Papa alla Sinagoga di Roma ed è previsto un incontro sulle possibilità che i social networks offrono alla Chiesa. Altro tema riguarderà la comunicazione ecclesiale in contesti culturali non cristiani. Infine, sarà trasmesso in anteprima un documentario sull’Arcivescovo americano Fulton J. Sheen.

[Per maggiori informazioni: http://www.pusc.it/csi/conv/conv10/]

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Interviste


Il messaggio di Giovanni Paolo II sulla sofferenza
Intervista a don Silvio Longobardi, direttore del periodico "Punto Famiglia"

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- “L'uomo dinanzi al dolore. La sofferenza nella vita e nelle parole di Giovanni Paolo II” è il titolo del libro scritto da don Silvio Longobardi, direttore del periodico “Punto Famiglia”, che mira a gettare nuova luce sulla sofferenza e sull'esempio dato a questo proposito da Papa Karol Wojtyła.

Il testo verrà presentato a Ravello (Salerno) questo sabato 24 aprile alle 19.00 presso il Santuario di SS. Cosma e Damiano. Accanto a don Silvio, interverranno padre Gianfranco Grieco, capo Ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, e monsignor Giuseppe Imperato, parroco del Duomo di Ravello.

Il ricavato della vendita del libro sarà destinato alla costruzione del Centro Jean Paul II per i giovani in Burkina Faso.

Don Silvio Longobardi, presbitero della Diocesi di Nocera-Sarno, è l’ispiratore della Fraternità di Emmaus, una realtà ecclesiale nata negli anni Novanta che si propone, attraverso itinerari di fede, di aiutare battezzati, vergini e sposi ad accogliere la vocazione alla santità.

Licenziato in Teologia Morale presso l’Accademia Alfonsiana di Roma, ha conseguito il diploma di perfezionamento in Bioetica presso l’Università Cattolica di Roma ed è Direttore del Centro Diocesano di Formazione Sant’Alfonso Maria de' Liguori, della Diocesi di Nocera Inferiore – Sarno.

Nel 1993 ha promosso la Federazione Progetto Famiglia onlus, che si impegna a favore della famiglia e dei minori. Nel 2006 ha fondato la rivista “Punto Famiglia”, che si occupa di tematiche familiari e che egli stesso dirige. Ha pubblicato diversi testi, tra cui “Sulle orme di Nazaret” (EDB, 1999), “Famiglia piccola Chiesa, appunti di pastorale familiare” (Gaia, 2008), “Sulla strada di Emmaus” (Gaia 2009).

In questa intervista concessa a ZENIT, spiega il perché di un libro sulla sofferenza e come Giovanni Paolo II sia riuscito a imprimere un senso nuovo a questa realtà.

Si prova sempre un certo imbarazzo a parlare del dolore, eppure questa esperienza è connaturale all’esistenza dell’uomo. Qual è la motivazione che l'ha spinta a scrivere un libro sulla sofferenza?

Don Silvio Longobardi: Ognuno di noi porta con sé un carico di dolore. Avvolgere di silenzio questa esperienza contribuisce ad aumentare la solitudine dell’uomo e rende ancora più insolubili quelle ineludibili domande sul senso della vita che nascono quando il dolore mette radici nell’esistenza. Nella mia vita c’è un’esperienza significativa: dieci anni fa, ho dovuto accompagnare mio nipote Antonio, di soli 4 anni, colpito da un male incurabile, nel calvario che nel giro di pochi mesi lo ha consumato fino alla morte. Questa esperienza, e in seguito tante altre di persone care, mi ha fatto guardare in modo nuovo l’abisso del dolore nel quale ogni giorno è immersa tanta parte dell’umanità. Una di queste esperienze riguarda Simone, un giovane chiamato troppo presto a scontrarsi con il dolore e che mi ha posto molti interrogativi sul perché della sofferenza. A lui ho voluto dedicare queste pagine.

Un libro che nasce dall’esperienza …

Don Silvio Longobardi: Sì, e difatti oltre alla testimonianza di Giovanni Paolo II ho voluto riportare altre esperienze – tra cui quella bellissima e poco conosciuta del Cardinale americano Joseph Bernardin, morto alcuni anni fa. Quando scoprì di essere ammalato, ebbe l’impressione di restare come schiacciato dal dolore. Poi iniziò a guardare quell’esperienza con gli occhi della fede, ebbe il coraggio di comunicarlo alla sua Diocesi, tanti ammalati gli scrissero lettere commoventi in cui chiedevano preghiere. Ed egli comprese così che la sofferenza era per lui un altro e più fecondo ministero che il Signore gli aveva affidato.

Il libro parla anche di un film…

Don Silvio Longobardi: Si tratta di un film piuttosto recente – “Lo scafandro e la farfalla” –, che pochi forse conoscono. Racconta la storia vera di un uomo, un giornalista di successo, che si ritrova d’improvviso in ospedale; tutte le sue funzioni sono bloccate, può muovere solo un occhio e con quello impara a comunicare, fino al punto da scrivere un libro, quello da cui è stato tratto poi il film. Una vicenda bellissima e controcorrente rispetto alla vulgata attuale che presenta l’eutanasia nella lista delle istruzioni per la vita, una scelta inevitabile quando la malattia imprigiona la libertà.

Nel suo libro lei tocca il rapporto dell’uomo con il dolore, pone una riflessione che chiama in causa anche Dio. La sofferenza suscita turbamento e paura, ribellione e chiusura. Come vivere tutto questo?

Don Silvio Longobardi: L’immagine di Dio che la cultura odierna spesso amplifica è quella di un padre ingiusto e crudele, che pone sulle spalle degli uomini pesi insopportabili. In tal modo dimentichiamo che la specificità della rivelazione cristiana consiste proprio nel presentare il volto di un Dio che ha indossato i panni dell’uomo e ha condiviso la sua condizione di fragilità, accettando anche la sofferenza, fino alla morte. Ma la sofferenza non genera necessariamente una rivolta contro Dio. La fede apre il credente alla fiducia, egli sa che Dio non rimane indifferente al dolore dell’uomo. Come un beduino nel deserto raccoglie l’acqua in un recipiente, così Dio raccoglie le lacrime dei poveri. Evidentemente sono preziose ai suoi occhi. Nella fragilità l’uomo sperimenta la misericordia di Dio, comprende che può sempre contare su di Lui.

Quali sono i passi per avvicinarsi a una persona che soffre? Come aiutarla a vivere il dolore in una prospettiva di fede?

Don Silvio Longobardi: La sofferenza resta uno scandalo anche per i credenti, per dirla con Santa Teresa, alza un muro che spesso impedisce di vedere il cielo, un interrogativo al quale non è facile rispondere. È una realtà difficile da vedere e da comprendere. Eppure tanti credenti sono passati per questa via stretta senza perdere la gioia e senza cadere nella rassegnazione. Anzi, alcuni hanno vissuto questa esperienza come una grazia speciale. Hanno attinto forza dalla parola del Vangelo che invita a vedere nella sofferenza una partecipazione alla redenzione del mondo. È questo il cammino che ha percorso anche Giovanni Paolo II. Anzi, devo dire che la sua testimonianza mi ha fatto comprendere in modo nuovo quell’oscuro capitolo della vita che si chiama sofferenza.

Quale luce nuova getta questo libro su Giovanni Paolo II?

Don Silvio Longobardi: Il modo in cui Papa Wojtyła vive il suo dolore è forse l’elemento più sorprendente di un’esistenza vissuta interamente nella logica del dono di sé. La progressiva debolezza non ferma la sua volontà di annunciare il Vangelo. Non è stato facile per lui accettare la sua infermità, farsi vedere con i segni di una debolezza fisica sempre più devastante. Non era facile mostrarsi così davanti a tutti: i gesti diventavano sempre più lenti, le parole più stentate, a volte perfino la bava alla bocca. Ha accettato tutto questo per amore del Signore, ha messo da parte ogni interesse personale per dare spazio unicamente all’annuncio del Vangelo.

Qual è il messaggio che Papa Wojtyła ha lasciato sulla sofferenza?

Don Silvio Longobardi: Presentandosi al mondo con la sua infermità e continuando a svolgere fino in fondo il suo ministero, nonostante il male che devastava e progressivamente imprigionava il suo corpo, egli ha testimoniato fedelmente quella verità che negli anni precedenti aveva saputo annunciare attraverso i suoi scritti. La riflessione sulla sofferenza non ha sempre trovato ampio e adeguato spazio nel magistero. Nei documenti del Vaticano II, ad esempio, il tema è appena accennato. La Lettera Salvifici doloris del 1984 di Giovanni Paolo II è il primo documento pontificio che offre una riflessione sistematica sulla sofferenza e invita tutti gli uomini a ripensare il significato e il valore di questa esperienza. La Lettera è destinata alla comunità ecclesiale, ma il tema che essa affronta è così universale da interpellare tutti.

Uno degli aspetti peculiari, su cui Giovanni Paolo II ritorna nella sua Lettera, riguarda il ruolo degli ammalati. Qual è questo ruolo, e come restare accanto a chi soffre?

Don Silvio Longobardi: È vero che gli ammalati devono essere oggetto di cura premurosa e costante, ma è vero anche che nella prospettiva evangelica essi sono soggetti di una feconda e misteriosa azione salvifica. È questo il punto più originale e qualificante della proposta evangelica e deve perciò diventare il cuore di tutta la pastorale sanitaria: comunicare e far crescere nei malati la consapevolezza di essere chiamati a prendere parte alla sofferenza stessa di Cristo e quindi alla sua stessa missione salvifica. Inoltre stare accanto ai malati non significa solo esercitare una doverosa compassione, richiesta dalla carità, ma anche aprire loro gli orizzonti di una missione che non viene intessuta di opere, ma ricamata con l’offerta quotidiana della sofferenza.

Il ricavato della vendita del libro sarà destinato alla costruzione del Centro Jean Paul II del Burkina Faso. Qual è la sua missione?

Don Silvio Longobardi: Studiare è un diritto, è la premessa per conoscere la realtà e apprendere quelle competenze che sono fondamentali per diventare adulti e protagonisti. Per la maggior parte dei giovani, in Burkina Faso, questo diritto è negato. Per dare una risposta concreta, l’associazione Progetto Famiglia – Cooperazione, che opera in Burkina Faso da alcuni anni, sta realizzando il Centro Jean Paul II. Questa struttura intende offrire ai giovani la possibilità di acquisire una buona formazione scolastica e, più ampiamente, una capacità di elaborazione culturale e imprenditoriale. Il progetto non si basa su una prospettiva di tipo assistenziale (donare le spese di scolarità), ma intende offrire spazi e mezzi di formazione e nello stesso tempo coinvolgere gli stessi giovani in un processo educativo che li rende protagonisti e si apre sul mondo del lavoro.

Per richiedere il libro: info@centrodiocesanodiformazione.it

Tel e fax: 081-513 57 11

Cell: 347- 74 49 662

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Tutto Libri


La Trinità come relazione d'amore
René Laurentin spiega il mistero cristiano

di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Per le Edizioni ART è uscito nelle librerie un libro di Renè Laurentin dal titolo “Trattato sulla Trinità. Principio, modello e termine di ogni amore”.

L’autore, noto professore in università francesi ed estere, già esperto del Concilio Vaticano II, membro del Consiglio di redazione della rivista teologica “Concilium”, autore di oltre un centinaio di libri e saggi, riconosciuto con 12 premi internazionali, spiega in maniera chiara e avvincente, il mistero più grande, cioè “la Trinità”.

“Questo libro è il mio testamento teologico – ha detto a ZENIT Laurentin - perché lo studio arduo e strenuo mi ha portato la luce sulla teologia, su tutta la filosofia, le scienze e soprattutto sull’uomo: la famiglia, la società, il genere umano”.

Il libro di 400 pagine è composto di quattro parti: la rivelazione della Trinità nella Bibbia, la storia bimillenaria del dogma, un’evocazione contemplativa che dà luce a tutto, come vivere il Mistero della Trinità seguendo l’esempio di Maria. 

Intervistato da ZENIT Laurentin ha spiegato che “per capire la Trinità bisogna conoscere e comprendere che Dio è amore e che l’amore si rivela e si esprime attraverso la relazione”.

Nel libro viene, l’autore cerca di approfondire il senso della relazione come atto di amore, anche in ambito metafisico.

Secondo Laurentin in tutta la Bibbia Dio si presenta come creatore, come colui che esiste, un essere che si può conoscere attraverso la comprensione dell’amore che ha espresso nei confronti dell’umanità e del creato.

“Dio è amore, è fonte suprema dell’amore – ha sottolineato l’autore -. La creazione dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio è espressione del suo amore”.

Alla domanda sul perchè Trino, Laurentin ha fatto riferimento all’Antico Testamento quando Dio si presenta al plurale, e dice talvolta “noi”, specialmente quando crea l’uomo a sua immagine: uno e molteplice, uomo e donna. E invita gli uomini e le donne a moltiplicarsi e a riempire la terra, creando altre persone con Dio (Genesi 1,27-28).

Per lo scrittore francese, “l’essenza di questo testo è che Dio crea l’uomo a sua immagine, vale a dire uno e molteplice”.

La Trinità quindi sarebbe l’immagine della famiglia umana. Non solo amore di Dio per l’uomo ma indicazione trinitaria per precisare la relazione d’amore della famiglia da cui dipende la moltiplicazione e continuità dell’umanità.

L’uomo e la donna vengono quindi creati per amarsi l’un l’altro e creare la famiglia che educa e distribuisce amore, procreando ed educando.

Nella dimensione metafisica c’è il Padre e il Figlio, ma come si spiega e chi è lo Spirito Santo?

A questa domanda Laurentin ha risposto che lo Spirito Santo è la luce che si genera dall’amore e che tutto illumina.

“Lo Spirito Santo è dietro di noi e ci dà la luce per illuminare la nostra vita interiore”, ha aggiunto.

“Lo Spirito Santo è l’amore del Padre e del Figlio in correlazione perpetua e reciproca, è l’amore che unisce le tre persone della trinità ed è lo stesso di quello che unisce le persone umane”.

Laurentin sostiene che è l’amore a muovere il mondo: “l’amore di un uomo verso la donna e viceversa, l’amore che i due genitori provano per i figli, per le persone anziane, per i parenti e per gli amici, il senso della famiglia. Questo è l’amore alla base della civilizzazione, una vita senza amore è una vita perduta, una vita per amore salva l’umanità intera”.

“Nella Trinità ogni persona è pronta a dare tutto per l’altro, il Padre tutto per il Figlio ed il Figlio tutto per il Padre, con lo Spirito Santo che muove e illumina tutti”.

“La comunità umana come nella Trinità - ha affermato - non è riducibile ad un bambino o una persona, ma alla loro relazione. Il senso della loro esistenza si misura nella unità, nel loro scambio di amore, unità che è fusione e dà vita alla nuove generazioni”.

Da questo punto di vista si comprende la creazione come “atto di amore. Infatti la pietà di Dio è principio vitale, è fonte di vita. Tutto il mondo è energia e la vita è via”.

Laurentin ha spiegato a ZENIT che la relazione d’amore come fonte di vita è alla base della stessa struttura fondamentale che troviamo nell’infinitamente piccolo e nell’infinitamente grande, come per esempio nel nucleo con l’elettrone o nelle stelle in relazione con i pianeti.

Per il professore francese “la loro esistenza dipende dalla relazione” e nell’umano come nel divino, “non c’è amore senza relazione tra persone”, quindi “la Trinità non può essere ridotta”.

Laurentin ha precisato che tutto quello che limita o interrompe la relazione genera il peccato, con il divorzio non c’è più amore tra uomo e donna, con l’aborto non c’è più amore tra madre e figlio. Quando l’amore diventa possessione dell’altro si viola la legge dell’amore.

Quando però l’amore è dono gratuito ne beneficiano tutti. Il vero amore è quello che dice “voglio fare la tua felicità, lo faremo insieme per sempre, sono pronto a dare la vita per te”.

Le conclusioni del volume riaffermano che “Dio è Amore” e che l’amore si sviluppa attraverso la relazione, per questo bisogna dare vita ad una teologia della Relazione.

Laurentin è convinto che uno dei problemi più grandi della scienza moderna sia il riduzionismo, dettato dal fatto che le scienze hanno abbandonato la sostanza e non hanno pensato più in termini di relazione, con il rischio di cadere nel relativismo e nell’agnosticismo.

La teologia, invece, non ha smesso di dare sempre più importanza alla relazione a partire dall’ultima parola della Scrittura: Dio è Amore. Dio, dunque, è relazione, modello, principio e termine di ogni relazione.

In questo senso il libro di Laurentin emette una luce che unifica teologia e scienze, esorcizzando così il relativismo e indicando percorsi che conducono alla verità.

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Discorso di Benedetto XVI all'ambasciatore della Repubblica di Macedonia
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 22 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso rivolto questo giovedì da Benedetto XVI al signor Gioko Gjorgjevski, nuovo ambasciatore dell’ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia, in occasione della presentazione delle Lettere credenziali.





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Signor Ambasciatore!

Sono lieto di accogliere Vostra Eccellenza per la presentazione delle Lettere Credenziali quale Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia presso la Santa Sede. Le sono grato per le cordiali espressioni che ha voluto rivolgermi, anche a nome delle Autorità e della nobile Nazione che Ella rappresenta. Le chiedo di far loro pervenire l’espressione della mia stima e della mia benevolenza, unite all’assicurazione della mia preghiera per la concordia e lo sviluppo armonico dell’intero Paese.

RicevendoLa, il mio pensiero va all’incontro annuale tra il Successore di Pietro e un’autorevole delegazione ufficiale del Suo Paese, che si tiene in occasione della festa dei santi Cirillo e Metodio, venerate guide spirituali dei popoli slavi e compatroni d’Europa. Questo appuntamento, diventato una piacevole consuetudine, attesta le buone relazioni che esistono tra la Santa Sede e la Ex-Repubblica Jugoslava di Macedonia. Si tratta di relazioni bilaterali, sviluppatesi, soprattutto negli ultimi anni, in modo positivo, e caratterizzate da cordiale cooperazione. A tale proposito, desidero manifestare il mio compiacimento per il mutuo impegno profuso nella recente costruzione di nuovi edifici di culto cattolici in diversi luoghi del Paese.

Come Ella ha sottolineato, nel Popolo macedone sono ben visibili i segni dei valori umani e cristiani, incarnati nella vita della gente, che costituiscono l’apprezzato patrimonio spirituale e culturale della Nazione, di cui sono altresì eloquente testimonianza gli stupendi monumenti religiosi, sorti in diverse epoche e località, segnatamente nella città di Ohrid. A questa preziosa eredità, la Santa Sede guarda con grande stima e considerazione, favorendone, per quanto di sua competenza, l’approfondimento storico-documentario, per una maggiore conoscenza del passato religioso e culturale. Attingendo a tale patrimonio, i cittadini del Suo Paese continueranno a costruire anche in futuro la propria storia e, forti della loro identità spirituale, potranno apportare al consorzio dei popoli europei il contributo della loro esperienza. Per questo, auspico vivamente che vadano a buon fine le aspirazioni e i crescenti sforzi di codesto Paese per far parte dell’Europa unita, in una condizione di accettazione dei relativi diritti e doveri e nel reciproco rispetto di istanze collettive e di valori tradizionali dei singoli popoli.

Signor Ambasciatore, nelle parole da Lei pronunciate sull’impegno del Popolo macedone a favorire sempre più il dialogo e la convivenza tra le varie realtà etniche e religiose che costituiscono il Paese, ho colto quell’universale aspirazione alla giustizia e alla coesione interna che da sempre lo anima e che può diventare un esempio per altri nella regione dei Balcani. In effetti, i ponti di interscambio di più ampie intese e strette relazioni religiose tra le diverse componenti della società macedone hanno favorito la creazione di un clima in cui le persone si riconoscono fratelli, figli dello stesso Dio e cittadini dell’unico Paese. E’ certo compito in primo luogo dei responsabili delle Istituzioni individuare modalità per tradurre in iniziative politiche le aspirazioni degli uomini e delle donne al dialogo e alla pace. I credenti, tuttavia, sanno che la pace non è solo frutto di pianificazioni e di attività umane, ma anzitutto dono di Dio agli uomini di buona volontà. Di questa pace, poi, la giustizia e il perdono rappresentano pilastri basilari. La giustizia assicura un pieno rispetto dei diritti e dei doveri, e il perdono guarisce e ricostruisce dalle fondamenta i rapporti tra le persone, che ancora risentono delle conseguenze degli scontri tra le ideologie del recente passato.

Superata la tragica stagione dell’ultima guerra mondiale, dopo la triste esperienza di un totalitarismo negatore dei diritti fondamentali della persona umana, il Popolo macedone è incamminato verso un armonico progresso, dando prova di pazienza, disponibilità al sacrificio e perseverante ottimismo, tenacemente proteso alla creazione di un avvenire migliore per tutti i suoi abitanti. Uno stabile sviluppo sociale ed economico non può non tener conto delle esigenze culturali, sociali e spirituali della gente, come pure deve valorizzare le tradizioni e le risorse popolari più nobili. E ciò nella consapevolezza che il crescente fenomeno della globalizzazione, comportante, da una parte, un certo livellamento delle diversità sociali ed economiche, potrebbe, dall’altra, aggravare lo squilibrio tra quanti traggono vantaggio dalle sempre maggiori possibilità di produrre ricchezza e quanti invece sono lasciati ai margini del progresso.

Signor Ambasciatore, il suo Paese vanta una lunga e luminosa tradizione cristiana risalente ai tempi apostolici. Auspico che in un contesto globale di relativismo morale e di scarso interesse per l’esperienza religiosa, nel quale si muove spesso una parte della società europea, i cittadini del nobile Popolo che Ella rappresenta sappiano operare un saggio discernimento nell’aprirsi ai nuovi orizzonti di autentica civiltà e di vero umanesimo. Per fare questo, occorre mantenere vivi e saldi, a livello personale e comunitario, quei principi che stanno alla base anche della civiltà di codesto Popolo: l’attaccamento alla famiglia, la difesa della vita umana, la promozione delle esigenze religiose specialmente dei giovani. La Chiesa Cattolica nella Sua Nazione, anche se costituisce una minoranza, desidera offrire il suo sincero contributo nella costruzione di una società più giusta e solidale, basata sui valori cristiani che hanno fecondato le coscienze dei suoi abitanti. Sono certo che la comunità cattolica, nella consapevolezza che la carità nella verità "è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera" (Caritas in veritate, n. 1) proseguirà la sua missione caritativa, specialmente in favore dei poveri e dei sofferenti, così apprezzata nel Suo Paese.

Eccellenza, sono certo che anche Ella, nell’adempimento dell’alto compito affidatoLe, contribuirà ad intensificare le già buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e la Nazione macedone, e Le assicuro che potrà contare, a tal fine, sulla piena disponibilità di tutti i miei collaboratori della Curia romana. Con questi fervidi voti, invoco su di Lei, Signor Ambasciatore, sulla Sua famiglia, sui Governanti e su tutti gli abitanti della Nazione che Ella rappresenta, un’abbondanza di Benedizione divina.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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