domenica 18 aprile 2010

[ZI100417] Il mondo visto da Roma

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Il mondo visto da Roma

Servizio quotidiano - 17 aprile 2010

Santa Sede

Interviste

Documenti


Santa Sede


Il Signore ama la Chiesa, nonostante i peccati dei suoi figli
Parole di Benedetto XVI ai giornalisti presenti sul volo per Malta

LA VALLETTA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Cristo ama la Chiesa, nonostante i peccati dei suoi figli. E' quanto ha detto questo sabato Benedetto XVI in un breve discorso rivolto ai giornalisti presenti sul volo papale diretto a Malta.

Il Pontefice si trovava a bordo dell'Airbus 320 Alitalia, all'inizio del suo quattordicesimo viaggio internazionale, per celebrare il 1950° anniversario del naufragio dell'apostolo Paolo su quest'isola del Mediterraneo.

La Chiesa, ha spiegato parlando in italiano, è il Corpo di Cristo, e “anche se questo Corpo è ferito dai nostri peccati, il Signore tuttavia ama questa Chiesa, e il suo Vangelo è la vera forza che purifica e guarisce”.

L'incontro, durante il volo di un'ora e mezza, è stato più breve rispetto alle altre occasioni. Il Vescovo di Roma si è limitato ad affrontare i tre temi alla base del suo pellegrinaggio a Malta che si concluderà domenica notte.

Precedentemente, il Papa aveva ricevuto da padre Federico Lombardi S.I., direttore della Sala Stampa della Santa Sede, una serie di domande proposte dai giornalisti

Innanzitutto, il Santo Padre ha spiegato di essere voluto venire in quest'isola per ricordare il naufragio di san Paolo raccontato negli Atti degli Apostoli ed ha sintetizzato il senso del suo viaggio prendendo a prestito le parole scritte dall'Apostolo delle Genti nella lettera ai Galati: “fede operante nella carità”.

“Queste sono le cose importanti anche oggi – ha sottolineato –: la fede, la relazione con Dio, che si trasforma poi in carità. Ma penso anche che il motivo del naufragio parla per noi”.

“Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede; così possiamo pensare anche noi che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio per noi e possono anche essere utili per nuovi inizi nella nostra vita”.  

Il secondo motivo, illustrato dal Papa, è il desiderio di confermare nella fede un “Chiesa vivace che è quella di Malta, che è feconda nelle vocazioni anche oggi, piena di fede, in mezzo al nostro tempo, e che risponde alle sfide del nostro tempo”.

“So che Malta ama Cristo e ama la sua Chiesa che è il suo Corpo e sa che, anche se questo Corpo è ferito dai nostri peccati, il Signore tuttavia ama questa Chiesa, e il suo Vangelo è la vera forza che purifica e guarisce”, ha detto.

Il terzo motivo della visita è legato invece alla stretta attualità: Malta è divenuta, infatti, una terra di passaggio per i profughi africani che puntano a mettere piede in Europa.

“Questo è un grande problema del nostro tempo, e, naturalmente, non può essere risolto dall’isola di Malta – ha osservato –. Noi tutti dobbiamo rispondere a questa sfida, lavorare perché tutti possano, nella loro terra, vivere una vita dignitosa e dall’altra parte fare il possibile perché questi profughi trovino qui dove arrivano, trovino, in ogni caso, uno spazio di vita dignitosa”.

“Una risposta ad una grande sfida del nostro tempo: Malta ci ricorda questi problemi e ci ricorda anche che proprio la fede è la forza che dà carità, e dunque anche la fantasia per rispondere bene a queste sfide”, ha quindi concluso.



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Portavoce vaticano: il Papa continua a far brillare la luce di Cristo
Padre Lombardi traccia un bilancio di questi cinque anni di pontificato
ROMA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- “Un bilancio ricco e pieno” di un pontificato speso al “servizio di Dio e dell’umanità”. Così padre Federico Lombardi, Direttore della Sala Stampa vaticana, descrive i primi cinque anni di governo di Benedetto XVI, in vista dell'anniversario che si celebrerà questo lunedì.

“Il tempo è passato rapido e le vicende sono state intense nei cinque anni ormai compiuti di questo pontificato”, ha affermato padre Lombardi nell'editoriale per Octava Dies, il settimanale informativo del Centro Televisivo Vaticano.

“Per leggerli correttamente – ha spiegato – è d’obbligo tornare col pensiero alla Cappella Sistina, la mattina dopo l’elezione, quando il nuovo Papa raccoglieva l’eredità spirituale del suo grande predecessore e indicava le priorità che avrebbero orientato il suo servizio 'nella vigna del Signore'”.

“Il rapporto dell’uomo con Dio, rivelatoci da Gesù Cristo, incontrato in particolare nell’Eucarestia, nel culto della Chiesa – ha detto –. L’impegno 'senza risparmio di energie' per ricostituire 'la piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo'. Il desiderio di rispondere alla 'richiesta di aiuto da parte dell’odierna umanità che, turbata da incertezze e timori, si interroga sul suo futuro'”.

“Il dialogo 'aperto e sincero' con i seguaci delle altre religioni o con coloro che semplicemente cercano risposta alle domande fondamentali dell’esistenza, 'per la ricerca del vero bene dell’uomo e della società'”, ha ricordato.

“Non c’è dubbio che queste siano state le priorità reali del pontificato – ha osservato il sacerdote gesuita – . Perseguite con coerenza e coraggio in un contesto spesso non privo di tensioni e di ostacoli. Ma Benedetto XVI diceva che non avrebbe cercato di far brillare la luce propria, ma quella di Cristo”.

“Auschwitz, Istanbul, New York, Sydney, Parigi, l’Africa, Gerusalemme. Sinagoghe e moschee, encicliche sulla carità, sulla speranza, sull’etica nello sviluppo, nell’economia e nel rispetto dell’ambiente. Un bilancio ricco e pieno, di servizio di Dio e dell’umanità. Un cammino da continuare con una rotta sicura”, ha infine concluso.

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Interviste


Il rispetto per la vita fa parte dell'identità nazionale maltese
Intervista al Primo Ministro Lawrence Gonzi

di Serena Sartini

LA VALLETTA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il rispetto per la vita umana non è solamente un valore che sta a cuore a molti maltesi, ma è parte integrante dell'identità nazionale, sostiene il Primo Ministro di Malta.

Lawrence Gonzi, 56 anni, ha rivelato che in vista della visita di Benedetto XVI, il suo Ufficio ha organizzato una mostra per evidenziare il rapporto tra san Paolo, la vita umana e l'identità nazionale maltese.

Nell'intervista concessa a ZENIT alla vigilia del viaggio di due giorni del Papa in quest'isola del Mediterraneo, il Primo Ministro parla delle sue aspettative sulla visita del Pontefice e del ruolo di Malta nel promuovere i valori cristiani dell'Europa.

Papa Benedetto XVI visiterà Malta per la prima volta. Quali speranze e quali aspettative ripone il suo Paese in questa visita?

Lawrence Gonzi: La maggior parte di noi si aspetta che offra una variazione, a partire da un lato specifico, del grande tema costante di tutti i suoi discorsi: come rispondere alle sfide geo-storiche che ci interpellano alla luce degli insegnamenti cristiani di cui non manca di sottolineare le implicazioni concrete e di vasta portata. Ne è un esempio la sua ultima Enciclica in cui fa riferimento alla crisi globale delle strutture economiche prevalenti.

La visita di Benedetto XVI è per noi come un proseguimento delle due visite del suo predecessore, Giovanni Paolo II. In quelle due occasioni, il Papa aveva evidenziato due compiti del nostro paese: primo, testimoniare in Europa i valori umani ispirati al cristianesimo; secondo, promuovere il dialogo tra le sponde a Nord e a Sud del Mediterraneo. Siamo sicuri che Benedetto XVI contribuirà a collocare questi due compiti nella prospettiva del suo sviluppo personale del multiculturalismo e della Dottrina sociale della Chiesa.

Che cosa pensa delle radici cristiane di Malta? Ritiene che possano essere rigenerate dalla visita del Papa nell'anniversario del naufragio di san Paolo?

Lawrence Gonzi: In vista della visita del Papa, il mio Ufficio ha organizzato una mostra su san Paolo e la formazione dell'identità nazionale maltese. Nella iconografia tradizionale maltese san Paolo viene ritratto sempre come il soccorritore e come il glorificatore della santità della vita – un valore che costituisce una parte importante, centrale della nostra identità. Papa Benedetto insiste costantemente sul fatto che la dignità della persona umana e l'integrità ecologica del mondo hanno le loro più salde fondamenta nella nostra fede cristiana. Il suo messaggio ci richiama nuovamente alle nostre fonti e a una contemporanea riscoperta della nostra identità come popolo.

Qual è il ruolo di Malta nell'Unione Europea?

Lawrence Gonzi: Malta ha contribuito in maniera decisiva a rendere l'Unione Europea cosciente del fatto che il suo mare territoriale gode della stessa importanza del suo ambito territoriale in senso stretto. E' risaputo che Malta ha reso possibile l'introduzione nel diritto internazionale del principio secondo il quale i fondali marini sono un "patrimonio comune dell'umanità", come sviluppo iniziale della visione tracciata dal Papa Giovanni XXIII nella Pacem in Terris. Malta ha avuto successo nel fare ciò poiché, grazie alle sue ridotte dimensioni, non può mai essere sospettata di ambizioni imperialiste. Benedetto XVI ci sta offrendo un esempio di come la Chiesa possa promuovere la sua visione del mondo non attraverso il potere e l'imposizione ma piuttosto umilmente e amorevolmente.

Lo sbarco di immigrati e i respingimenti rappresentano un punto controverso comune a parecchi Stati. Qual è la sua opinione in proposito? Lei ritiene che il Papa possa contribuire a una sua soluzione?

Lawrence Gonzi: Ci sono due principi nell'ambito della questione dell'immigrazione che il Papa contribuisce sicuramente a sostenere e ciò è di importanza vitale sia per noi che per molti altri. Il primo è la solidarietà umana, che interpella tutti noi a essere ospitali verso coloro che sono costretti all'esilio da qualunque tipo di ingiustizia, compresi i primi esempi di guerre causate dai cambiamenti climatici che il mondo sta sperimentando. Il secondo è che gli oneri che i paesi ospitanti devono sostenere dovrebbero venire suddivisi il più equamente possibile, in particolare al livello europeo. L'esperienza della Santa Sede potrebbe rivelarsi inestimabile nello sviluppare dei sistemi internazionali per entrambi gli scopi.

Che cosa ne pensa della decisione della Corte di Strasburgo di rimuovere i crocifissi dalla aule scolastiche in Italia? Pensa che un tribunale europeo possa esprimere giudizi su questioni, così legate ai diritti umani, come la libertà religiosa?

Lawrence Gonzi: Non capiamo come la Corte di Strasburgo possa giudicare che i crocifissi nelle scuole e negli altri luoghi pubblici siano un'infrazione del diritto alla libertà religiosa di qualcuno, qualunque siano le sue credenze o non credenze. La figura del Cristo crocifisso rimanda semplicemente alla fonte di quei valori che ognuno custodisce nel proprio animo e che non sono offensivi per nessuno. Nella Convenzione che ha preceduto il Trattato di Lisbona, si è parlato molto chiaramente del fatto che le questioni legate alla religione, poiché sono così strettamente intrecciate all'identità nazionale, sono di competenza nazionale, e non europea. Lo stesso si applica a questioni come le leggi sull'aborto malgrado le risoluzioni del Parlamento Europeo in materia.

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La spiritualità del quotidiano
Padre Pietro Schiavone riflette sul discernimento

di Maurizio Tripi

ROMA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il libro “Il discernimento. Teoria e prassi” (Paoline edizioni) di padre Pietro Schiavone è “uno studio completo, ricco e profondo (...) un'arte complessa ma necessaria per non cedere alle aggressioni del soggettivismo e del relativismo”.

Così precisa nella prefazione, al libro, il Cardinale Salvatore De Giorgi, Presidente della Federazione Italiana Esercizi Spirituali.

Frutto di anni di ricerca e insegnamento, di direzione spirituale e pratica pastorale, il volume offre, fin dalle prime pagine, un’ampia chiarificazione dell’espressione “discernimento degli spiriti”, soffermandosi a lungo sul significato del termine “discrezione” ed esponendo le finalità, l’importanza e l’attualità dell’argomento, sia per la vita spirituale personale che per l’opera di evangelizzazione.

Molti i riferimenti al Magistero e soprattutto ai grandi dottori e mistici della storia della spiritualità, con un posto particolare riservato a Ignazio di Loyola, con i suoi Esercizi Spirituali.

Il Cardinale De Giorgi ha presentato Pietro Schiavone al Santo Padre Benedetto XVI come “degno discepolo di sant’Ignazio e insigne maestro di Esercizi Spirituali”.

“Lo dicevo – ha scritto il porporato - con motivata convinzione e con gratitudine per il notevole e prezioso contributo che padre Pietro ha dato, dà e darà alla promozione degli Esercizi Spirituali secondo sant’Ignazio”.

Pietro Schiavone è infatti uno dei massimi esperti in assoluto dell’argomento. Ed il libro appena pubblicato è considerata “l’opera più completa sul discernimento”.

Il volume è particolarmente indirizzato a quanti guidano Esercizi Spirituali, docenti e studenti di teologia spirituale, o a quanti vogliono semplicemente accostarsi agli Esercizi ignaziani.

Per approfondire un tema così interessante ZENIT ha intervistato padre Schiavone.

Padre, il suo libro si può definire uno studio completo, ricco e profondo sul “discernimento”. Ci può dare, in sintesi, una definizione di questo termine?

Schiavone: Con discernimento si intende il vagliare ogni cosa per tenere ciò che è buono e astenersi da ogni specie di male. In particolare: dobbiamo distinguere tra discernimento spirituale e discernimento delle mozioni degli spiriti. Il primo consiste nella ricerca delle motivazioni a favore e/o contrarie a una scelta. L'aggettivo spirituale si riferisce al necessario collegamento con lo Spirito Santo e, quindi, all'attenzione alle motivazioni che hanno rapporto con la gloria di Dio e la promozione umana integrale. Motivazioni di ordine economico, finanziario, psicologico… hanno un loro posto, ma quello che deve essere preso in più seria considerazione è l'edificazione del Corpo mistico e la costruzione della città terrena. Il discernimento delle mozioni degli spiriti riguarda le sollecitazioni che le forze di bene e di male, operano in noi per rasserenare e distendere (consolazione), oppure agitare e scoraggiare (desolazione).

Si dice che il discernimento sia un’arte difficile da apprendere e riservata agli addetti ai lavori. È vero? Si può sfatare questa idea?

Schiavone: I padri e le madri spirituali, i superiori e le superiore, i responsabili di formazione, chiunque altro preposto al governo di una diocesi, di una parrocchia, di una comunità e anche di una famiglia, di un ente, di un ufficio, non possono non rendersi conto del perché di una scelta. Si consideri il caso: di chi deve scegliere la facoltà universitaria, la scuola di specializzazione, il mestiere; di chi bussa alle porte di un seminario o di un noviziato; di chi intende sposarsi, iscriversi a un'associazione di volontariato, prestare un servizio che richiede particolare impegno.

In un mondo sempre più globalizzato perché si rende sempre più necessaria la pratica del discernimento?

Schiamone: Per vivere effettivamente da persone adulte e mature, per essere fedeli agli impegni, per impostare la propria, unica vita non sul capriccio e sull'istinto, ma su motivazioni che danno senso e sapore all’esistenza, che, quindi, realizzano, che fanno affrontare con maggiore speranza di riuscita le inevitabili difficoltà.

Quando e perché fare discernimento?

Schiavone: Quando? Soprattutto in caso di scelte di maggiore importanza, che impegnano per un periodo prolungato, a maggior ragione se per tutta la vita. Perché? Chiamati a prestare culto spirituale a Dio, dobbiamo offrire quello che è a Lui gradito, dobbiamo, cioè, “farne”, con e nella vita, la volontà. Evidentemente dopo averla cercata e trovata. Per mezzo del discernimento.

Si può imparare da soli ad apprendere l’arte del discernimento oppure c’è bisogno di una guida?

Schiavone: Dotati di intelligenza, dobbiamo, tutti, riflettere e ragionare, motivare e scegliere. Non a caso si parla di età della discrezione, di capacità di associare, paragonare, considerare vantaggi e svantaggi. Questo richiede che si vada a scuola e che si studi, che si facciano esercizi di analisi

logica e grammaticale, di matematica e di traduzione. A maggior ragione nel caso di discernimento delle mozioni. Anche perché si può prendere per ispirazione, illuminazione (e anche apparizione e rivelazione!) di Dio quanto, invece, è o capriccio umano (vanagloria, malizia, tornaconto), o frutto di fantasia, o, peggio, azione di spirito cattivo, che, come scrive Paolo, si maschera da angelo di luce; o di quel mondo che propone principi e modelli antievangelici.

A chi consiglia questo suo studio, frutto di anni di ricerca, di insegnamento?

Schiavone: Oltre a quelli elencati nella risposta alla seconda domanda, lo consiglierei a tutti, a condizione che si abbia un minimo di cultura. Per il semplice fatto che tutti dovremmo essere più attenti a operare scelte a occhi aperti e, come si suole dire, a ragion veduta.

La sua esperienza pastorale cosa le ha insegnato? Di che cosa hanno bisogno l’uomo e la donna di oggi?

Schiavone: Di ragionare, riflettere, capire, agire con consapevolezza e convinzione, da una parte; di dare spazio, dall’altra, all’affettività spirituale: per percepire i “tocchi dello Spirito” (le consolazioni e le desolazioni) e decifrare questo “linguaggio di Dio nella sua conversazione con l'anima".

Può elencare i punti indispensabili da tener presente quando si deve decidere su qualcosa di importante?

Schiavone: Dio è Padre e, come tutti i “papà” (si ricordi che Gesù ci ha insegnato di chiamarlo Abbà!), ha un suo sogno per ciascuno dei suoi figli; lo Spirito del Padre e del Figlio è sempre amorosamente presente e sempre agisce per aprirci a questa paterna, realizzante volontà; esistono altre forze di bene, e anche di male, che operano per portare, rispettivamente, su vie di bene o di male; lasciarsi condurre dallo Spirito di Amore, collaborare con Lui e responsabilmente operare scelte di vita; sintonizzarsi con il Signore Gesù, che della volontà del Padre ha fatto la sua ragion d'essere, tenendo conto della propria spiritualità (carisma) come vissuta e trasmessa dal proprio protettore e/o fondatore; mettersi sotto la protezione della Madonna dell’Annunciazione, virgo prudens, meglio discernens.

Dove e come allenarci al discernimento?

Schiavone: La palestra che meglio inizia ai due tipi di discernimento sono gli Esercizi Spirituali. Si veda quanto ho riportato a p.24: “Non pochi pensatori cristiani hanno elaborato criteri di discernimento, ma Ignazio sta al 'vertice di questi tentativi'” (Boros). Ritengo di potere affermare che filo conduttore dello studio è Rm 12,1-2: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Faccio, infine, notare che lo studio esamina anche le classiche regole di discernimento che il Santo di Loyola pone alla fine degli Esercizi.

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Documenti


Trascrizione della conferenza stampa del Papa sul volo per Malta

CITTA' DEL VATICANO, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della trascrizione della conferenza stampa tenuta questo sabato da Benedetto XVI durante il volo per Malta.




* * *

 



PADRE FEDERICO LOMBARDI

Cari amici, ecco che Sua Santità è di nuovo con noi per il primo di quei cinque viaggi di quest’anno che sono già in programma. Siamo molto contenti di averlo con noi anche all’inizio di questo viaggio perché possiamo così fargli pure gli auguri per i due anniversari di questi giorni, quello di ieri, il compleanno, e quello di lunedì prossimo. Il Santo Padre ha ricevuto le domande che alcuni di voi hanno presentato e che interpretano un po’ le attese che tutti abbiamo all’inizio di questo viaggio e quindi ci farà alcune riflessioni, alcune considerazioni, sulla base di queste nostre attese. Non seguiremo lo schema delle altre volte di domanda-risposta, lasciamo che il Santo Padre, da par suo, ci faccia un suo discorso sintetico. Grazie Santità e buon viaggio


BENEDETTO XVI

Cari amici, buonasera! Auguriamoci un buon viaggio, senza questa nuvola oscura che sta sopra parte dell’Europa.

Allora, perché  questo viaggio a Malta? I motivi sono molteplici. 

Il primo è San Paolo. E’ finito l’Anno paolino della Chiesa universale, ma Malta festeggia 1950 anni dal naufragio e questa è per me un’occasione per mettere ancora una volta in luce la grande figura dell’Apostolo delle genti, con il suo messaggio importante proprio anche per oggi. Io penso si possa sintetizzare l’essenziale del suo viaggio con le parole che lui stesso ha riassunto alla fine della lettera ai Galati: fede operante nella carità.

Queste sono le cose importanti anche oggi: la fede, la relazione con Dio, che si trasforma poi in carità. Ma penso anche che il motivo del naufragio parla per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede; così possiamo pensare anche noi che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio per noi e possono anche essere utili per nuovi inizi nella nostra vita.  

Il secondo motivo: mi fa piacere di vivere in mezzo ad una Chiesa vivace che è quella di Malta, che è feconda nelle vocazioni anche oggi, piena di fede, in mezzo al nostro tempo, e che risponde alle sfide del nostro tempo. So che Malta ama Cristo e ama la sua Chiesa che è il suo Corpo e sa che, anche se questo Corpo è ferito dai nostri peccati, il Signore tuttavia ama questa Chiesa, e il suo Vangelo è la vera forza che purifica e guarisce. 

Terzo punto: Malta è il punto dove le correnti dei profughi arrivano dall’Africa e bussano alla porta dell’Europa. Questo è un grande problema del nostro tempo, e, naturalmente, non può essere risolto dall’isola di Malta. Noi tutti dobbiamo rispondere a questa sfida, lavorare perché tutti possano, nella loro terra, vivere una vita dignitosa e dall’altra parte fare il possibile perché questi profughi trovino qui dove arrivano, trovino, in ogni caso, uno spazio di vita dignitosa. Una risposta ad una grande sfida del nostro tempo: Malta ci ricorda questi problemi e ci ricorda anche che proprio la fede è la forza che dà carità, e dunque anche la fantasia per rispondere bene a queste sfide. Grazie  



PADRE FEDERICO LOMBARDI

Grazie Santità  e buon viaggio allora, l’accompagneremo anche con il nostro lavoro e la nostra informazione.

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Omelia di Benedetto XVI per la messa con la Pontificia Commissione Biblica
È necessario riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita

CITTA' DEL VATICANO, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la messa presieduta giovedì mattina, 15 aprile,  nella Cappella Paolina, con i membri della Pontificia Commissione Biblica.





* * *

Cari fratelli e sorelle,

non ho trovato il tempo di preparare una vera omelia. Vorrei soltanto invitare ciascuno alla personale meditazione proponendo e sottolineando alcune frasi della Liturgia odierna, che si offrono al dialogo orante tra noi e la Parola di Dio. La parola, la frase che vorrei proporre alla comune meditazione è questa grande affermazione di san Pietro: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5, 29). San Pietro sta davanti alla suprema istituzione religiosa, alla quale normalmente si dovrebbe obbedire, ma Dio sta al di sopra di questa istituzione e Dio gli ha dato un altro «ordinamento»: deve obbedire a Dio. L'obbedienza a Dio è la libertà, l'obbedienza a Dio gli dà la libertà di opporsi all'istituzione.

E qui gli esegeti attirano la nostra attenzione sul fatto che la risposta di san Pietro al Sinedrio è quasi fino ad verbum identica alla risposta di Socrate al giudizio nel tribunale di Atene. Il tribunale gli offre la libertà, la liberazione, a condizione però che non continui a ricercare Dio. Ma cercare Dio, la ricerca di Dio è per lui un mandato superiore, viene da Dio stesso. E una libertà comprata con la rinuncia al cammino verso Dio non sarebbe più libertà. Quindi deve obbedire non a questi giudici — non deve comprare la sua vita perdendo se stesso — ma deve obbedire a Dio. L'obbedienza a Dio ha il primato.

Qui è importante sottolineare che si tratta di obbedienza e che è proprio l'obbedienza che dà libertà. Il tempo moderno ha parlato della liberazione dell'uomo, della sua piena autonomia, quindi anche della liberazione dall'obbedienza a Dio. L'obbedienza non dovrebbe più esserci, l'uomo è libero, è autonomo: nient'altro. Ma questa autonomia è una menzogna: è una menzogna ontologica, perché l'uomo non esiste da se stesso e per se stesso, ed è anche una menzogna politica e pratica, perché la collaborazione, la condivisione della libertà è necessaria. E se Dio non esiste, se Dio non è un'istanza accessibile all'uomo, rimane come suprema istanza solo il consenso della maggioranza. Di conseguenza, il consenso della maggioranza diventa l'ultima parola alla quale dobbiamo obbedire. E questo consenso — lo sappiamo dalla storia del secolo scorso — può essere anche un «consenso nel male».

Così vediamo che la cosiddetta autonomia non libera veramente l'uomo. L'obbedienza verso Dio è la libertà, perché è la verità, è l'istanza che si pone di fronte a tutte le istanze umane. Nella storia dell'umanità queste parole di Pietro e di Socrate sono il vero faro della liberazione dell'uomo, che sa vedere Dio e, in nome di Dio, può e deve obbedire non tanto agli uomini, ma a Lui e liberarsi, così, dal positivismo dell'obbedienza umana. Le dittature sono state sempre contro questa obbedienza a Dio. La dittatura nazista, come quella marxista, non possono accettare un Dio che sia al di sopra del potere ideologico; e la libertà dei martiri, che riconoscono Dio, proprio nell'obbedienza al potere divino, è sempre l'atto di liberazione nel quale giunge a noi la libertà di Cristo.

Oggi, grazie a Dio, non viviamo sotto dittature, ma esistono forme sottili di dittatura: un conformismo che diventa obbligatorio, pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti, e le sottili aggressioni contro la Chiesa, o anche quelle meno sottili, dimostrano come questo conformismo possa realmente essere una vera dittatura. Per noi vale questo: si deve obbedire più a Dio che agli uomini. Ma ciò suppone che conosciamo veramente Dio e che vogliamo veramente obbedire a Lui. Dio non è un pretesto per la propria volontà, ma è realmente Lui che ci chiama e ci invita, se fosse necessario, anche al martirio. Perciò, confrontati con questa parola che inizia una nuova storia di libertà nel mondo, preghiamo soprattutto di conoscere Dio, di conoscere umilmente e veramente Dio e, conoscendo Dio, di imparare la vera obbedienza che è il fondamento della libertà umana.

Scegliamo una seconda parola dalla Prima Lettura: san Pietro dice che Dio ha innalzato Cristo alla sua destra come capo e salvatore (cfr. v. 31). Capo è traduzione del termine greco archegos, che implica una visione molto più dinamica: archegos è colui che mostra la strada, che precede, è un movimento, un movimento verso l'alto. Dio lo ha innalzato alla sua destra — quindi parlare di Cristo come archegos vuol dire che Cristo cammina avanti a noi, ci precede, ci mostra la strada. Ed essere in comunione con Cristo è essere in un cammino, salire con Cristo, è sequela di Cristo, è questa salita in alto, è seguire l'archegos, colui che è già passato, che ci precede e ci mostra la strada.

Qui, evidentemente, è importante che ci venga detto dove arriva Cristo e dove dobbiamo arrivare anche noi: hypsosen — in alto — salire alla destra del Padre. Sequela di Cristo non è soltanto imitazione delle sue virtù, non è solo vivere in questo mondo, per quanto ci è possibile, simili a Cristo, secondo la sua parola, ma è un cammino che ha una meta. E la meta è la destra del Padre. C'è questo cammino di Gesù, questa sequela di Gesù che termina alla destra del Padre. All'orizzonte di tale sequela appartiene tutto il cammino di Gesù, anche l'arrivare alla destra del Padre.

In questo senso la meta di questo cammino è la vita eterna alla destra del Padre in comunione con Cristo. Noi oggi abbiamo spesso un po' paura di parlare della vita eterna. Parliamo delle cose che sono utili per il mondo, mostriamo che il Cristianesimo aiuta anche a migliorare il mondo, ma non osiamo dire che la sua meta è la vita eterna e che da tale meta vengono poi i criteri della vita. Dobbiamo capire di nuovo che il Cristianesimo rimane un «frammento» se non pensiamo a questa meta,  che vogliamo seguire l'archegos all'altezza di Dio, alla gloria del Figlio che ci fa figli nel Figlio e dobbiamo di nuovo riconoscere che solo nella grande prospettiva della vita eterna il Cristianesimo rivela tutto il senso. Dobbiamo avere il coraggio, la gioia, la grande speranza che la vita eterna c'è, è la vera vita e da questa vera vita viene la luce che illumina anche questo mondo.

Se si può  dire che, anche prescindendo dalla vita eterna, dal Cielo promesso, è meglio vivere secondo i criteri cristiani, perché vivere secondo la verità e l'amore, anche se sotto tante persecuzioni, è in sé stesso bene ed è meglio di tutto il resto, è proprio questa volontà di vivere secondo la verità e secondo l'amore che deve anche aprire a tutta la larghezza del progetto di Dio con noi, al coraggio di avere già la gioia nell'attesa della vita eterna, della salita seguendo il nostro archegos. E Soter è il Salvatore, che ci salva dall'ignoranza, cerca le cose ultime. Il Salvatore ci salva dalla solitudine, ci salva da un vuoto che rimane nella vita senza l'eternità, ci salva dandoci l'amore nella sua pienezza. Egli è la guida. Cristo, l'archegos, ci salva dandoci la luce, dandoci la verità, dandoci l'amore di Dio.

Poi soffermiamoci ancora su un versetto: Cristo, il Salvatore, ha dato a Israele conversione e perdono dei peccati (v. 31) — nel testo greco il termine è metanoia — ha dato penitenza e perdono dei peccati. Questa per me è un'osservazione molto importante: la penitenza è una grazia. C'è una tendenza in esegesi che dice: Gesù in Galilea avrebbe annunciato una grazia senza condizione, assolutamente incondizionata, quindi anche senza penitenza, grazia come tale, senza precondizioni umane. Ma questa è una falsa interpretazione della grazia. La penitenza è grazia; è una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, è una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere. Penitenza, poter fare penitenza, è il dono della grazia. E devo dire che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione, della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento, è opera della misericordia divina. E così queste due cose che dice san Pietro — penitenza e perdono — corrispondono all'inizio della predicazione di Gesù: metanoeite, cioè convertitevi (cfr. Mc 1, 15). Quindi questo è il punto fondamentale: la metanoia non è una cosa privata, che parrebbe sostituita dalla grazia, ma la metanoia è l'arrivo della grazia che ci trasforma.

E infine una parola del Vangelo, dove ci viene detto che chi crede avrà la vita eterna (cfr. Gv 3, 36). Nella fede, in questo «trasformarsi» che la penitenza dona, in questa conversione, in questa nuova strada del vivere, arriviamo alla vita, alla vera vita. E qui mi vengono in mente due altri testi. Nella «Preghiera sacerdotale» il Signore dice: questa è la vita, conoscere te e il tuo consacrato (cfr. Gv 17, 3). Conoscere l'essenziale, conoscere la Persona decisiva, conoscere Dio e il suo Inviato è vita, vita e conoscenza, conoscenza di realtà che sono la vita. E l'altro testo è la risposta del Signore ai Sadducei circa la Risurrezione, dove, dai libri di Mosè, il Signore prova il fatto della Risurrezione dicendo: Dio è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe (cfr. Mt 22, 31-32; Mc 12, 26-27; Lc 20, 37-38). Dio non è Dio dei morti. Se Dio è Dio di questi, sono vivi. Chi è scritto nel nome di Dio partecipa alla vita di Dio, vive. E così credere è essere iscritti nel nome di Dio. E così siamo vivi. Chi appartiene al nome di Dio non è un morto, appartiene al Dio vivente. In questo senso dovremmo capire il dinamismo della fede, che è un iscrivere il nostro nome nel nome di Dio e così un entrare nella vita.

Preghiamo il Signore perché questo succeda e realmente, con la nostra vita, conosciamo Dio, perché il nostro nome entri nel nome di Dio e la nostra esistenza diventi vera vita: vita eterna, amore e verità. 

[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 18 aprile 2010]

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Discorso di Benedetto XVI alla Chiesa di San Paolo
"Invito ciascuno di voi a far propria la sfida esaltante della nuova evangelizzazione"

RABAT, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo sabato sera da Benedetto XVI dopo aver visitato la Chiesa di San Paolo, a Rabat, posta sopra la Grotta, dove, secondo la tradizione, l’Apostolo delle Genti passò tre mesi a predicare, dopo il suo naufragio nell’Isola.



 

* * *

Caro Arcivescovo Cremona,
Cari fratelli e sorelle,

il mio pellegrinaggio a Malta è iniziato con un momento di preghiera silenziosa nella grotta di san Paolo, che per primo portò la fede in queste isole. Sono venuto sulle orme di quegli innumerevoli pellegrini lungo i secoli, che in questo santo luogo hanno pregato, affidando se stessi, le loro famiglie e la prosperità di questa Nazione all’intercessione dell’Apostolo dei Gentili. Mi rallegro di essere finalmente tra di voi e vi saluto tutti con grande affetto nel Signore.

Il naufragio di Paolo e la sua sosta per tre mesi a Malta hanno lasciato un segno indelebile nella storia del vostro Paese. Le sue parole ai compagni prima di giungere a Malta sono ricordate per noi negli Atti degli Apostoli e sono state un tema speciale nella vostra preparazione alla mia visita. Queste parole - "Jeħtieg iżda li naslu fi gżira" ["Dovremo però andare a finire su qualche isola"] (At 27,26) – nel contesto originale sono un invito al coraggio di fronte all’ignoto e alla fiducia incrollabile nella misteriosa provvidenza di Dio. I naufraghi, infatti, furono calorosamente accolti dalla gente di Malta, a seguito dell’esempio dato da san Publio. Nel piano di Dio, san Paolo divenne perciò il vostro padre nella fede cristiana. Grazie alla sua presenza tra voi, il Vangelo di Gesù Cristo si radicò saldamente e portò molto frutto non soltanto nella vita degli individui, delle famiglie e delle comunità, ma anche nella formazione dell’identità nazionale di Malta, come pure nella sua vibrante e particolare cultura.

Le fatiche apostoliche di Paolo portarono pure una ricca messe nella generazione di predicatori che seguirono le sue orme, e particolarmente nel gran numero di sacerdoti e religiosi che imitarono il suo zelo missionario lasciando Malta per andare a portare il Vangelo in lidi lontani. Sono lieto di aver avuto l’opportunità di incontrarne oggi così tanti in questa Chiesa di san Paolo, e di incoraggiarli nella loro vocazione piena di sfide e spesso eroica. Cari missionari: ringrazio ciascuno di voi, a nome di tutta la Chiesa, per la vostra testimonianza al Signore Risorto e per le vite spese al servizio degli altri. La vostra presenza ed attività in così tanti Paesi del mondo fa onore alla vostra Patria e testimonia la spinta evangelica innestata nella Chiesa a Malta. Preghiamo il Signore affinché susciti ancor più uomini e donne, che continuino la nobile missione di proclamare il Vangelo e di operare per il progresso del Regno di Dio in ogni terra e in tutti i popoli!

L’arrivo di san Paolo a Malta non era programmato. Come sappiamo, si stava recando a Roma quando sopraggiunse un violento temporale e la sua nave fu scaraventata su quest’isola. I marinai possono tracciare una rotta, ma Dio, nella sua sapienza e provvidenza, dispiega il proprio itinerario. Paolo, che aveva incontrato in maniera drammatica il Signore Risorto sulla via di Damasco, lo sapeva molto bene. Il corso della sua vita cambiò improvvisamente; per lui, pertanto, vivere era Cristo (cfr Fil 1,21); ogni sua azione ed ogni suo pensiero erano diretti ad annunciare il mistero della croce ed il suo messaggio d’amore di Dio che riconcilia.

Quella stessa parola, la parola del Vangelo, ha tutt’oggi il potere di irrompere nelle nostre vite e di cambiarne il corso. Oggi lo stesso Vangelo che Paolo predicò continua a esortare il popolo di queste isole alla conversione, ad una nuova vita e ad un futuro di speranza. Mentre mi trovo fra voi come Successore dell’apostolo Pietro, vi invito ad ascoltare la parola di Dio con animo nuovo, come fecero i vostri antenati, e di lasciare che essa sfidi i vostri modi di pensare e la maniera in cui trascorrete la vostra vita.

Da questo luogo santo dove la predicazione apostolica si diffuse per prima in queste isole, invito ciascuno di voi a far propria la sfida esaltante della nuova evangelizzazione. Vivete la vostra fede in maniera ancor più piena assieme ai membri delle vostre famiglie, ai vostri amici, nei vostri quartieri, nei luoghi di lavoro e nell’intero tessuto della società maltese. In modo particolare esorto genitori, insegnanti e catechisti a parlare agli altri del vostro stesso incontro vivo con Gesù risorto, specialmente ai giovani che sono il futuro di Malta. "La fede si rafforza quando viene offerta agli altri" (cfr Redemptoris missio, 2). Sappiate che i vostri momenti di fede assicurano un incontro con Dio, il quale nella sua onnipotenza tocca il cuore dell’uomo. Così, introdurrete i giovani alla bellezza e alla ricchezza della fede cattolica, offrendo loro una solida catechesi ed invitandoli ad una partecipazione sempre più attiva alla vita sacramentale della Chiesa.

Il mondo ha bisogno di tale testimonianza! Di fronte a così tante minacce alla sacralità della vita umana, alla dignità del matrimonio e della famiglia, non hanno forse bisogno i nostri contemporanei di essere costantemente richiamati alla grandezza della nostra dignità di figli di Dio e alla vocazione sublime che abbiamo ricevuto in Cristo? Non ha forse bisogno la società di riappropriarsi e di difendere quelle verità morali fondamentali che sono alla base dell’autentica libertà e del genuino progresso?

Proprio ora, mentre stavo davanti a questa grotta, riflettevo sul grande dono spirituale (cfr Rm 1,11) che Paolo diede a Malta, ed ho pregato che voi possiate mantenere integra l’eredità consegnatavi dal grande Apostolo. Possa il Signore conservare voi e le vostre famiglie nella fede che opera mediante l’amore (cfr Gal 5,6), e rendervi gioiosi testimoni di quella speranza che non delude (cfr Rm 5,5). Cristo è risorto! Egli è veramente risorto! Alleluia!

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Discorso del Papa per la cerimonia di benvenuto a Malta
"Vengo come Successore di san Pietro per confermarvi nella fede"

LUQA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo sabato da Benedetto XVI una volta arrivato all’aeroporto internazionale di Malta a Luqa.

 


* * *

Signor Presidente,

Venerati Fratelli nell’Episcopato,

Distinte Autorità,

Signore e Signori,

Jien kuntent ħafna li ninsab fostkom! [Sono lieto di essere in mezzo a voi!]

E’ per me motivo di gioia essere oggi qui a Malta tra di voi. Giungo come pellegrino per adorare il Signore e lodarlo per le meraviglie che qui ha compiuto. Vengo inoltre come Successore di san Pietro per confermarvi nella fede (cfr Lc 22,32) ed unirmi a voi nella preghiera all’unico Dio vivo e vero, in compagnia di tutti i Santi, incluso il grande Apostolo di Malta, san Paolo. Anche se la mia visita sarà breve, prego che essa porti molti frutti.

Le sono grato, Signor Presidente, per le parole gentili con le quali mi ha dato il benvenuto a nome suo e del Popolo maltese. La ringrazio per l’invito e per il duro lavoro che Lei ed il Governo hanno posto in atto per preparare la mia visita. Ringrazio il Primo Ministro, le Autorità civili e militari, il Corpo Diplomatico e ognuno di voi qui convenuto per onorare questa circostanza mediante la vostra presenza e il vostro cordiale benvenuto.

Saluto in modo speciale l’Arcivescovo Paolo Cremona, il Vescovo Mario Grech e l’Ausiliare Annetto Depasquale, come pure tutti gli altri Vescovi presenti. Nel salutare voi, desidero esprimere il mio affetto ai sacerdoti, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose ed a tutti i fedeli laici affidati alle vostre cure pastorali.

L’occasione della mia visita a queste isole è il 1950° anniversario del naufragio di san Paolo sulle spiagge dell’isola di Malta. San Luca descrive questo evento negli Atti degli Apostoli, ed è dal suo racconto che avete scelto il tema della visita odierna: "Jeħtieg iżda li naslu fi gżira" ["Dovremo però andare a finire su qualche isola"] (At 27,26). Qualcuno potrebbe considerare l’arrivo di san Paolo a Malta, attraverso un evento umanamente imprevisto, come un semplice accidente della storia. Gli occhi della fede, tuttavia, ci permettono di riconoscervi l’opera della Divina Provvidenza.

In realtà, Malta è stata un crocevia di molti dei grandi eventi e degli scambi culturali nella storia europea e mediterranea, fino ai nostri stessi giorni. Queste isole hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo politico, religioso e culturale dell’Europa, del Vicino Oriente e del Nord Africa. A questi lidi, pertanto, secondo gli arcani disegni di Dio, il Vangelo fu recato da san Paolo e dai primi seguaci di Cristo. La loro opera missionaria ha portato molti frutti lungo i secoli, contribuendo in innumerevoli modi a plasmare la ricca e nobile cultura di Malta.

Quanto alla loro posizione geografica, queste isole sono state di grande importanza strategica in più di un’occasione, anche in tempi recenti: la "Georg Cross" posta sulla bandiera nazionale offre fiera testimonianza del grande coraggio del vostro popolo durante i giorni bui dell’ultima guerra mondiale. Allo stesso modo, le fortificazioni che risaltano in maniera così prominente nell’architettura dell’isola parlano di lotte precedenti, quando Malta contribuì moltissimo alla difesa della cristianità sia per terra che per mare. Voi continuate a giocare un valido ruolo nei dibattiti odierni sull’identità, la cultura e le politiche europee. Allo stesso tempo, sono lieto di rilevare l’impegno del Governo nei progetti umanitari ad ampio raggio, specialmente in Africa. E’ da auspicare vivamente che ciò possa servire per promuovere il benessere dei meno fortunati di voi, quale espressione di genuina carità cristiana.

In realtà, Malta ha molto da offrire in campi diversi, quali la tolleranza, la reciprocità, l’immigrazione ed altre questioni cruciali per il futuro di questo Continente. La vostra Nazione dovrebbe continuare a difendere l’indissolubilità del matrimonio quale istituzione naturale e sacramentale, come pure la vera natura della famiglia, come già sta facendo nei confronti della sacralità della vita umana dal concepimento sino alla morte naturale, e il vero rispetto che si deve dare alla libertà religiosa secondo modalità che portino ad un autentico sviluppo integrale sia degli individui sia della società.

Malta gode di stretti vincoli con il Vicino Oriente, non soltanto in termini culturali e religiosi, ma anche linguistici. Permettetemi di incoraggiarvi a porre questo insieme di abilità e di punti di forza a favore di un suo uso più grande, per poter servire da ponte nella comprensione tra i popoli, le culture e le religioni presenti nel Mediterraneo. Molto deve essere ancora fatto per costruire rapporti di genuina fiducia e di dialogo fruttuoso, e Malta si trova in buona posizione per stendere la mano dell’amicizia ai propri vicini a nord e a sud, ad est e ad ovest.

Il popolo maltese, illuminato per quasi due millenni dagli insegnamenti del Vangelo e continuamente irrobustito dalle proprie radici cristiane, è giustamente fiero del ruolo indispensabile che la fede cattolica ha avuto nello sviluppo della propria Nazione. La bellezza della nostra fede viene espressa qui in vari e complementari modi, non ultimo nelle vite di santità che hanno portato i maltesi a donare se stessi per il bene degli altri. Tra di loro dobbiamo includere Dun Ġorɍ Preca, che ho avuto la gioia di canonizzare tre anni orsono (3 giugno 2007). Invito tutti voi ad invocare la sua intercessione perché questa mia prima visita pastorale fra voi porti molti frutti spirituali.

Attendo di pregare con voi durante il tempo che trascorrerò a Malta e vorrei, come padre e fratello, assicurarvi del mio affetto nei vostri confronti, come pure del desiderio di condividere questo tempo nella fede e nell’amicizia. Con tali pensieri, affido tutti voi alla protezione di Nostra Signora di Ta’Pinu e del vostro padre nella fede, il grande Apostolo Paolo.

Il-Mulej ibierek lill-poplu kollu ta’ Malta u ta’ Għawdex! [Dio benedica tutta la gente di Malta e di Gozo!].

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Preghiera e azione in difesa dei bambini e contro la pedofilia
La Lettera di don Fortunato Di Noto per la Giornata del 25 aprile prossimo
ROMA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera di don Fortunato Di Noto, per la XIV Giornata Nazionale Bambini Vittime della violenza, dello sfruttamento e della indifferenza, contro la pedofilia, che si celebrerà il 25 aprile prossimo sul tema “Povertà e minori. Responsabilità condivise”.



* * *

Carissimi amici,

Risuonano ancora nel cuore di tutti le parole di “ricordo”, che il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto il 3 maggio dello scorso anno al Regina Coeli da Piazza S. Pietro (per la Giornata Nazionale dei bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e della indifferenza). E’ la Giornata contro la pedofilia che l’Associazione Meter celebra ogni anno dal 25 aprile alla prima domenica di maggio.

Le parole di Papa Benedetto XVI sono state, per noi di Meter, parole di incoraggiamento e di vicinanza nella preghiera per l’opera di tutela e di difesa dei diritti inviolabili dei bambini, che Meter con la predetta Giornata, da 14 anni, celebra per sollecitare una maggiore attenzione e un intenso impegno da tradursi nella pastorale ordinaria della Chiesa e nelle azioni sociali. Preghiera e Azione caratterizzano, infatti, la settimana di celebrazioni che si svolgeranno in tutta Italia e anche all’estero.

Quest’anno il tema scelto per la XIV Giornata Nazionale Bambini Vittime è: “Povertà e minori. Responsabilità condivise”. Siamo consapevoli che la povertà condanna sempre più le fasce vulnerabili. Non abbiamo né formule né l’ambizione assoluta di alleviare considerevolmente la popolazione mondiale dall’estrema povertà, dalla fame, dall’analfabetismo, dalle malattie che in molti casi favoriscono gli abusi sui minori, rendendo loro, già precaria per le condizioni di vita, vittime ulteriori di “corruttori e sfruttatori” della loro innocenza. Una povertà che non è solo privazione materiale, ma anche e soprattutto, in una società ricca e opulenta, privazione di affetti, di legami che incidono profondamente nella crescita sana ed equilibrata dei bambini.

La violenza sui bambini è, oggi più di ieri, una “vergogna”, un peccato contro Dio e un grave reato che richiede azioni concrete affinchè non accadano mai più atti così esecrabili. Non si può infatti reagire solo quando accadono o solo quando si viene a conoscenza, (anche a distanza di tempo), di queste dolorose vicende. Occorre un impegno quotidiano di prevenzione e di sensibilizzazione rivolto alle famiglie e alle altre agenzie educative, responsabili di un corretto sviluppo psico-fisico dei bambini.

Confido nella Vostra preghiera, nel Vostro sostegno, impegno e nella diffusione e celebrazione della Giornata. Maggiori dettagli della XIV Giornata dei Bambini Vittime saranno disponibili attraverso il portale dell’Associazione Meter onlus www.associazionemeter.org

Vi benedico nel Signore.

Avola (SR), 21 marzo 2010

don Fortunato Di Noto



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L'era digitale e la sua valenza antropologica: i nativi digitali

ROMA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo del prof. Tonino Cantelmi, docente di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione alla LUMSA (Roma) e docente di Psicopatologia alla Pontificia Università Gregoriana (Roma).

 

* * *

1. Introduzione: la Rete delle Reti ed il suo impietoso fascino sulla mente umana

Il fascino impietoso e seduttivo di Internet non sembra lasciar scampo: la Rete delle Reti è ora demonizzata ed assimilata ad un invicibile mostro divorante, ora invece esaltata e beatificata per le sue immense potenzialità. No, non c’è dubbio: la Rete delle Reti rappresenta comunque la vera, straordinaria novità del III millennio: presto gran parte dell’umanità sarà in Rete. Stiamo assistendo dunque ad un cambiamento radicale e siamo forse di fronte ad un passaggio evolutivo. L’uomo del terzo millennio, in altri termini, sarà diverso: la mente in Internet produrrà eventi e cambiamenti che non potremo ignorare.

Tuttavia Internet è solo uno dei tanti cambiamenti indotti dalla rivoluzione digitale, la cui tecnologia non può essere semplicemente interpretata come “strumenti”: la rivoluzione digitale è tale perché la tecnologia è divenuta un ambiente da abitare, una estensione della mente umana, un mondo che si intreccia con il mondo reale e che determina vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali dell’esperienza, capace di rideterminare la costruzione dell’identità e delle relazioni, nonchè il vissuto dell’esperire.

Come per ogni innovazione tecnologica, accanto agli iniziali entusiasmi giustificati dalle enormi potenzialità di questo media, sempre più specialisti si sono interrogati sui rischi psicopatologici connessi all’uso e soprattutto all’abuso della Rete. In particolare si è ipotizzata l’esistenza di una forma di dipendenza dalla Rete, definita IAD: Internet Addiction Disorder. In realtà non dovremmo trascurare il fatto che tutto nacque per un fantastico scherzo planetario: uno psichiatra americano fece girare in Rete i criteri diagnostici per la dipendenza da Internet, mutuati dal DSM IV. Come spesso succede in Rete, la fantasia fu superata dalla realtà, sia pure virtuale: la dipendenza divenne un argomento straordinariamente attuale. Dibattuta, demonizzata, esaltata: la Rete non colse la differenza fra realtà e scherzo. Altra beffa clamorosa fu l'invenzione di gruppi on line di auto-aiuto per retomani. L’Internet Addiction Disorder, quella vera e non la beffa, divenne un fenomeno noto al di fuori della Rete quando nel 1996 la dottoressa statunitense Kimberly Young, dell’Università di Pittsburg, pubblicò la ricerca “Internet Addiction: the emergence of a new clinical disorder” (1996), relativa allo studio di un campione di soggetti dipendenti dalla Rete. Da allora ad oggi sulla stampa vengono continuamente riportate le vicissitudini dei soggetti affetti da questa nuova patologia. Anche le ricerche che ho presentato in Italia dal 1998 hanno avuto una eco sorprendente sulla stampa, amplificata dalle TV e dalle radio. L’eccessivo clamore dato dai mass media a tale argomento ha giustamente irritato gli utilizzatori di Internet, che hanno percepito una sorta di ingiustificato attacco alla Rete. Cosicchè ho scoperto di essere stato oggetto di discussioni e in alcune chat, ora nei blog e di subire insulti ed attacchi sui più noti social network. Questa reazione, se da un lato è assolutamente comprensibile, dimostra anche che le ricerche sulle cosiddette condotte psicopatologiche on line hanno un reale interesse. Tuttavia, al di là del sensazionalismo, i problemi psicopatologici Internet-correlati sono per alcuni psichiatri e psicologi (sempre più numerosi), tra cui me, affascinanti e nuovi, ma questo non vuol dire affatto che la Rete sia un qualcosa di pericoloso e da evitare: più semplicemente ritengo che sia inevitabile studiare l’impatto che un mezzo così straordinario e, direi, così vitale ha sulla mente umana. Fenomeni che per ora sono descritti come psicopatologici potrebbero in realtà essere gli indicatori di una curiosa ed a tratti incomprensibile evoluzione dell’uomo del terzo millennio (homo tecnodigitalicus).

In effetti le nuove tecnologie mediatiche, oltre ad essere uno straordinario motore di cambiamento sociale e di trasformazione culturale, stanno aprendo territori sconfinati di studio e di ricerca per antropologi, sociologi, psicologi e psichiatri.

La Rete delle Reti, dunque, è l’unica, vera ed inarrestabile novità del terzo Millennio: come ogni novità porta con sé inevitabili contraddizioni ed ineludibili problematiche. L’effetto dell’incontro tra l’uomo e tecnologie così straordinarie è senza dubbio un oggetto di studio interessante: gli psichiatri non hanno saputo resistere al suo fascino. Ecco perché ci incuriosiscono i net-dipendenti, i depressi della realtà virtuale, i cybersex-dipendenti, i cybertravestiti, i prigionieri delle MUD, gli innamorati in chat e tanti altri ancora, dai protagonisti delle flame wars, le liti furibonde in chat, a coloro che non possono smettere di informarsi, affetti come sono da quella strana patologia definita “Information Overload Addiction”.

La ragnatela mondiale cattura, avanza inarrestabile, esalta ed eccita: è lei la straordinaria protagonista dell’epoca della rivoluzione digitale. Che cos’è la Rete, se non un immenso e sconfinato labirinto, luogo senza centro, anarchicamente disegnato e ridisegnato, spazio di ricerca al servizio di un’impresa conoscitiva straordinaria, ma anche dimensione dello smarrimento del sé e del percorso, attraverso la perdita del fine e dello scopo?

È dunque in atto una rivoluzione, la rivoluzione digitale, che, inaugurando affascinanti universi di conoscenza e di esperienza, ha già da ora modificato il registro delle nostre possibilità mentali e sensoriali, contribuendo a plasmare una nuova cultura e differenti forme e modalità di sentire il rapporto con se stesso, con l’altro da sé e con il mondo. Proprio perché cariche di fascino, queste possibilità devono indurci a percepire ed a riflettere criticamente circa i loro effetti sulla vita psichica e relazionale. Le dinamiche della vita reale si possono rivelare insufficienti ed inadeguate ad una vita in Rete che è davvero tutta da inventare.

La comunicazione virtuale è caratterizzata da ipertestualità, ipermedialità, elevata velocità, sostanziale anonimato, giochi di identità, superamento dei normali vincoli spaziotemporali, parificazione dello status sociale, accesso a relazioni multiple, insorgenza di emozioni imprevedibili, anarchia e libertà di trasgressione: ingredienti straordinari per trasformare il cyberspazio in un’affascinante dimensione del nostro stesso vivere. In Rete, dunque, è possibile amare, studiare, comprare, sognare, è possibile, in altre parole, vivere.

Le caratteristiche della comunicazione virtuale possono rendere la Rete più agevole della realtà, anzi tanto gradevole da instaurare una sorta di dipendenza. Alcuni studi, che ho condotto con la collaborazione di molti psichiatri e psicologi, indicano che il 10% dei navigatori è esposto a questo rischio: un dato inquietante e a mio parere eccessivo. È necessario studiare questo strano fenomeno dei net-dipendenti quando Internet non sarà più un evento ma una ineludibile realtà. Alcuni soggetti poi presentano curiose regressioni. Ecco allora l’insorgere di un ritiro autistico, che prelude a fenomeni dissociativi anche gravi: la Trance Dissociativa da videoterminale, patologia rara, almeno per ora, che in Italia ha colpito poche decine di irriducibili navigatori. Fragilità pregresse impietosamente esaltate dalla Rete? Forse. Potenza straordinaria della Rete stessa? Forse. I prossimi studi definiranno meglio la faccenda. Intanto osserviamo alcune forme di navigazione patologica: cybersex addiction, compulsive on line gambling, cyber relationship addiction, MUDs addiction, information overload addiction. E ancora: come interpretare il diffusissimo fenomeno del cybertravestitismo? I mondi virtuali consentono la creazione di identità talmente fluide e multiple da trasformare i limiti del concetto stesso di identità. L’esperienza del cyberspazio è la concretizzazione di un altro modo di considerare il sé, non più come unitario, ma multiplo. Esperienza questa non del tutto negativa, visto che può consentire al nostro io di accedere ed elaborare i nostri molti sé. Il concetto di addiction non mi sembra che possa esaurire un fenomeno così complesso come le condotte psicopatologiche on line. Per questo preferisco parlare di Internet Related Psychopathology (IRP), nella quale comprendere una costellazione di disturbi e di comportamenti molto lontani dall’essere sistematizzati e definiti. Tuttavia tutti questi segnali indicano qualcosa di nuovo: siamo cioè alle soglie di una mutazione dell’umano, che, forse, più che psicologica e sociale, è antropologica.

Tanti sono ancora gli aspetti da chiarire, tuttavia è prevedibile che in futuro, in considerazione dell’inarrestabile diffusione della Rete, fenomeni, per così dire, “psicopatologici” connessi ad Internet potranno assumere dimensioni più ampie e contorni più definiti. Inoltre presto Internet riguarderà non solo giovani-adulti (la maggioranza degli utenti oggi in Italia), ma anche adolescenti e bambini. È perciò ineludibile la necessità di studiare con attenzione l’impatto che una così potente tecnologia ha sulla psiche dell’uomo.

Non possiamo dunque non chiederci “dove stiamo andando?”: l’espansione della ragnatela è di per sé inarrestabile ed apportatrice di novità straordinarie. Nessuno vorrà rinunciare agli enormi benefici che ne derivano. L’uomo scopre tuttavia nuove ed altrettanto potenti gratificazioni, connesse con le caratteristiche stesse della comunicazione virtuale ed interattiva propria della Rete. Non allarmismi: il popolo della Rete ha protestato contro il clamore che stampa, TV e radio hanno dato agli studi condotti da me e dai collaboratori. Mi sono attirato le critiche del popolo di Facebook quando ho dichiarato che FB è un luogo per “occidentali viziati e narcisisti”, dove il concetto di “amicizia” viene banalizzato in modo estremo e dove prevale la necessità di esporre in vetrina se stessi in modo inconcludente e superficiale. Le critiche sono in parte giustificate: i nostri dati sono ancora incerti, mal definiti e nebulosi e la Rete è un fenomeno così complesso da apparire indescrivibile. E in definitiva non è detto che i “paradisi telematici” siano più dannosi di quelli “artificiali” dell’oppio: anzi, per certi versi, aprono prospettive affascinanti attraverso le quali è possibile intravedere potenzialità davvero interessanti. La Rete delle Reti si propone come una sorta di cervello planetario, dai confini incerti ed indefinibili e dalle potenzialità straordinarie.

Siamo dunque alle soglie di una fase evolutiva dell’umanità, caratterizzata da tecnologie sempre più umanizzate e da uomini sempre più tecnologizzati. I fenomeni che osserviamo e che per ora percepiamo come psicopatologici potrebbero essere i segni di un cambiamento: l’uomo del III millennio, comunque, sarà diverso.

2. La tecnomediazione della relazione nell’epoca della modernità liquida

Molti osservatori hanno evidenziato come l’inizio del III millennio sia stato contrassegnato dalla più straordinaria ed epocale crisi della relazione interpersonale. Cosa ha determinato la crisi della relazione interpersonale? In fondo la tecnologia digitale ne è la risposta e forse anche una concausa, come se, in una sorta di causalità circolare, l’esplodere della rivoluzione digitale avesse intercettato una crisi della relazione in parte già esistente e al tempo stesso ne avesse accelerato drammaticamente lo sviluppo. Tuttavia sostengo che alla base della crisi della relazione interpersonale ci siano almeno tre fenomeni, essi stessi amplificati a dismisura dalla inarrestabile rivoluzione digitale.

I tre fenomeni sono i seguenti:

- l’incremento del tema narcisistico nelle società postmoderne (di cui gli innamoramenti in chat e le amicizia in facebook sembrano essere i corrispettivi telematici), sostenuto da una civiltà dell’immagine senza precedenti nella storia dell’umanità;

- il fenomeno del sensation seeking, caratterizzato da una sorta di ricerca di emozioni, anche estreme, capace di parcellizzare e scomporre l’esperienza interumana facendola coincidere con l’emozione stessa (è come se tutta la relazione interpersonale coincidesse con l’emozione);

- il tema dell’ambiguità, cioè la rinuncia all’identità e al ruolo in favore di una assoluta fluidità dell’identità stessa e dei ruoli, con la conseguente rinuncia alla responsabilità della relazione ed alle sue caratteristiche generative.

Il trionfo dell’ambiguità e della fluidità dell’identità impedisce una stabile assunzione di identità (esserci), che a sua volta si riflette nella instabilità della relazione (esserci con), la quale infine mina profondamente le possibilità generative e progettuali della relazione stessa (esserci per).

Questi fenomeni, unitamente al tema della “velocità”, sono alla base della profonda crisi della relazione interpersonale, che sempre più acquista modalità “liquide”, indefinite, instabili e provvisorie. In questo senso la tecnomediazione della relazione (chat, blog, sms, social network) offre all’uomo del III millennio una risposta formidabile e affascinante: alla relazione si sostituisce la “connessione”, che costituisce la nuova privilegiata forma di relazione interpersonale. E’ fluida, consente espressioni narcisistiche di sé, esalta l’”emotivismo”, è provvisoria, liquida e senza garanzie di durata, è ambigua e indefinita: la connessione (cioè l’insieme della tecnomediazione della relazione grazie alla tecnologia digitale) è dunque la più straordinaria ed efficace forma di relazione per l’uomo “liquido”.

3. La crisi dell’identità nella società postmoderna e la tecnologia digitale

Esserci, esserci-con, esserci-per: questa è la “progressione magnifica” che permette di partire da un Io (l’esserci), per passare ad un Tu (l’esserci-con) e infine giungere ad un Noi (l’esserci-per), dimensione ultima e sola che apre alla generatività, alla creatività ed all’oblatività. Il punto di partenza della “progressione magnifica” è l’esserci, che in ultima analisi richiama all’identità. Nella “cultura del narcisismo”, per usare la definizione di Christopher Lash, anche le espressioni più progressiste dell’identità sono contaminate da una straordinaria enfatizzazione dell’ego, dalla elefantiasi dei bisogni di autoaffermazione e da una sorta di emergenza di uomini e donne “senza qualità”, come direbbe Robert Musil. Ma cosa vuol dire “esserci” nella società liquida di cui parla Baumann? Esserci vuol dire rinunciare ad una identità stabile, per entrare nell’unica dimensione possibile: quella della liquidità, ovverossia dell’identità mutevole, difforme, dissociata e continuamente ambigua di chi è e al tempo stesso non è. In fondo la tecnologia digitalica consente all’uomo ed alla donna del terzo millennio di essere senza vincoli, di tecnomediare la relazione senza essere in relazione, di connettersi e di costruire legami liquidi, mutevoli, cangianti e in ogni istante fragili, privi di sostanza e di verifica, pronti ad essere interrotti. Cosicché si è passati dall’uomo-senza-qualità di Musil all’uomo-senza-legami di Baumann in una sorta di continuità-sovrapposizione che viene a definire il nuovo orizzonte del tema identitario. Ed ecco che l’esserci è minato alla sua origine. La crisi dell’identità maschile e femminile, per esempio, ne è l’espressione più evidente. L’identità, cioè l’idea che ognuno di noi ha di se stesso e il sentirsi che ognuno di noi sente di se stesso, è dunque in profonda crisi, e il nuovo paradigma è l’ambiguità. La crisi dell’esserci ha una prima conseguenza. Se all’uomo d’oggi è precluso il raggiungimento di una identità stabile, che si articola e si declina nelle varie dimensioni, come in quella psicoaffettiva e sessuale, la conseguenza prima è che l’esserci-con (per esempio la coppia) assume nuove e multiformi manifestazioni. L’esserci-con non è più il reciproco relazionarsi fra identità complementari (maschio-femmina per esempio), sul quale costruire dimensioni progettuali nelle quali si dispiegano legittime attese esistenziali, ma diviene l’occasionale incontro tra bisogni individuali che vanno reciprocamente a soddisfarsi, per un tempo minimo, al di là di impegni reciproci e di progetti che superino l’istante. L’esserci-con è fatalmente legato alla soddisfazione di bisogni individuali che solo occasionalmente e per aspetti parziali corrispondono. In altri termini l’incontro tra due persone è fondamentalmente basato sulla soddisfazione narcisistica, individuale e direi solipsistica di un bisogno che incontra un altro bisogno, altrettanto narcisistico, individuale e solipsistico. Questo incontro si dispiega per un tempo limitato alla soddisfazione dei bisogni e l’emergere di nuovi e contrastanti bisogni determina inevitabilmente la rottura del legame e la ricerca di nuovi incontri. La fragilità dell’essere-con dei nostri tempi si evidenzia attraverso la estrema debolezza dei legami affettivi, che manifestano una ampia instabilità ed una straordinaria conflittualità. Se l’identità è liquida, anche il legame interpersonale è liquido, cangiante, mutevole, individualista e fragile. L’uomo del terzo millennio sembra rinunciare alla possibilità di un futuro e concentrasi sull’unica opzione possibile, quella del presente occasionale, del momento, dell’istante.

Fatalmente, il trionfo dell’ambiguità identitaria, la rinuncia al ruolo ed alla conseguente responsabilità, il ridursi dell’esserci-con all’istante ed al bisogno, fatalmente tutto questo mina l’esserci-per, cioè la dimensione generativa e oblativa dell’uomo e della donna. Per esempio, se decliniamo tutto ciò nell’ambito psicoaffettivo e psicosessuale, la rinuncia all’esserci (identità sessuale e relativi ruoli) non può non trasmettersi in una inevitabile mutazione critica della dimensione coniugale (esserci-con), che a sua volta precipita in una crisi senza speranze la dimensione genitoriale (esserci-per). Ed infatti la transizione al ruolo genitoriale sembra divenire una sorta di utopia: la rinuncia alla genitorialità o il suo semplice rimandarlo nel tempo sono un fenomeno sociale tipico dei nostri tempi. Perciò identità liquide fanno coppie liquide, che a loro volta fanno genitori liquidi, dove per liquido possiamo intendere molte cose, ma una soprattutto, la debolezza del legame. La “progressione magnifica”, di cui parlavo all’inizio, diviene dunque una progressione “liquida”. Ma il punto di partenza è nell’esserci, ovvero nel tema dell’identità. Nell’epoca di Facebook, l’identità si virtualizza, come anche le emozioni, l’amore e l’amicizia. La virtualizzazione è la forma massima di ambiguità, perché consente il superamento di vincoli e di confronti, aprendo a dimensioni narcisistiche imperiose e prepotenti. Eppure qualcosa non funziona. Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo liquido, dalla ricerca affannose di vie brevi per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso. Qualcosa dunque non funziona: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo. Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo (una visione ovviamente molto legata al capitalismo). Gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere un progetto, delle idee, una identità. Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della liquidità è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Ecco perché la “magnifica progressione” mantiene anche oggi, e direi soprattutto oggi, un alto valore, proprio per il suo portato anti-liquidità. Costruire dimensioni identitarie stabili e non ambigue, instaurare relazioni solide e che si dispiegano lungo progetti esistenziali che consentono l’apertura alla generatività ed all’oblatività, sono ancora, in ultima analisi, l’unico orizzonte di speranza che si apre per l’uomo del terzo millennio, immerso nel cupo e doloroso paradigma della liquidità.

4. Predigitali, generazione di mezzo, nativi digitali: il silenzio degli adulti e la sfida educativa

Come ho già detto nei paragrafi precedenti, il III millennio sembra essere caratterizzato dalla più clamorosa crisi della “relazione interpersonale”, alla quale sembra rispondere la tecnologia attraverso tutte le nuove modalità di relazione (sms, chat, social network, ecc…). La relazione interpersonale face-to-face sembra lasciare il passo a forme di tecnomediazione della stessa, che l’uomo e la donna sembrano gradire di più. Questa tecnomediazione ha rapidamente guadagnato terreno in molte forme di relazione: l’amicizia, l’amore, l’apprendimento, l’informazione e molti altri ambiti dei rapporti interumani sono profondamente sconvolti dall’incursione della tecnologia digitale. La rivoluzione digitale sembra inoltre essere alla base di una sorta di mutazione antropologica: per questo ho definito gli adulti di oggi “generazione-di-mezzo” (affascinati dalla tecnologia ed alti utilizzatori della stessa, ma dotati di un sistema mente-cervello predigitale e figli di una generazione pre-digitale oggi in estinzione) e i bambini di oggi “nativi-digitali” (cresciuti cioè in costanti immersioni telematiche attraverso i videogiochi, il cellulare, il computer, l’MP3 e pertanto dotati di nuove organizzazioni cognitive-emotive e forse di un cervello diverso). Dal mio punto di vista siamo alle soglie di una sorta di mutazione antropologica. Chi sono dunque i “nativi digitali”?

In alcuni precedenti lavori ho definito “nativi digitali” quanti nati nel III millennio e sottoposti a profonde, pervasive e precoci immersioni nella tecnologia digitale ed ho dichiarato che le osservazioni attuali già ci consentono di notare vere e proprie mutazioni del sistema cervello-mente. I nativi digitali imparano subito a manipolare parti di sé nel virtuale attraverso gli avatar e i personaggi dei videogiochi, sviluppano ampie abilità visuospaziali grazie ad un apprendimento prevalentemente percettivo, viceversa non sviluppano adeguate capacità simboliche (con qualche modificazione di tipo metacognitivo), utilizzano il cervello in modalità multitasking (cioè sanno utilizzare più canali sensoriali e più modalità motorie contemporaneamente), sono abilissimi nel rappresentare le emozioni (attraverso la tecnomediazione della relazione), un po’ meno nel viverle (anzi apprendono a scomporre l’esperienza emotiva e a viverla su due binari spesso non paralleli, quello dell’esperienza propria e quello della sua rappresentazione), sono meno abili nella relazione face-to-face, ma molto capaci nella relazione tecnomediata, e, infine, sono in grado di vivere su due registri cognitivi e socioemotivi, quello reale e quello virtuale. Inoltre non hanno come riferimento la comunità degli adulti, poiché, grazie alla tecnologia, vivono in comunità tecnoreferenziate e prevalentemente virtuali, nelle quali costruiscono autonomamente i percorsi del sapere e della conoscenza.

E’ in questo contesto che si assiste ad un fenomeno straordinario: il silenzio degli adulti e lo smarrimento dei figli, che potremmo definire “figli orfani di maestri”. I “figli orfani di maestri” sono però “nativi digitali”, dunque capaci costruire comunità tecnoreferenziate di bambini e di adolescenti, dotate di tecnologie e saperi propri, che non hanno più bisogno di adulti. Ed ecco profilarsi una nuova emergenza: l’emergenza educativa.

Ho definito i genitori di oggi, utilizzando una metafora altrui divenuta ormai famosa, quella della liquidità, “genitori liquidi”. Si tratta di genitori che appartengono alla generazione-di-mezzo, capaci di utilizzare la tecnologia digitale ed anzi da essa affascinati, che hanno un profilo su facebook come i loro figli, che scimmiottano i figli stessi utilizzando il dialetto tecnologico degli adolescenti e che sono pienamente avvolti dalle dinamiche narcisistiche del contesto attuale. Sono genitori affettuosi, preoccupati per i loro figli, accudenti, ma hanno rinunciato ad educare, cioè a trasmettere visioni della vita, narrazioni, assetti valoriali e di significato, riflessioni di senso. In altri termini vogliono bene ai loro figli, sono affettuosi, accudenti ma non educanti. Il rapporto educativo è sempre l’incontro tra due libertà, tuttavia nell’ambito del rapporto genitori-figli esiste uno sbilanciamento, progressivamente riequilibrato, proprio dei due ruoli. Il genitore liquido però subisce il tema dell’ambiguità, della fluidità dei ruoli, del narcisismo e del bisogno di emozioni e la relazione educativa ne risulta sbiadita proprio nella sua essenza. In questo senso il genitore liquido è un genitore silente, che rinuncia a narrare e a narrarsi, rinuncia a trasmettere una visione della vita, a dare criteri di senso per le scelte, limitandosi ad offrire una molteplicità di scelte che non possono non determinare un profondo smarrimento nel figlio.

D’altro canto la generazione attuale vive due fenomeni a tenaglia, capaci di spegnere progressivamente la fiducia e la speranza. Il primo fenomeno è il silenziamento del desiderio: il bambino “viziato” è quel bambino i cui desideri sono soddisfatti prima ancora che li possa manifestare, sono cioè prevenuti e pertanto privi di desideri. Il secondo fenomeno è caratterizzato dall’affermarsi di una visione del futuro nella quale il futuro stesso è percepito come una minaccia e non come una attesa. I due fenomeni sono alla base di un nichilismo psicologico, che si aggira fra i giovani come un fantasma inquietante e che penetra nelle profondità dell’anima. In questo senso potremmo definire questa epoca come l’epoca delle passioni tristi, in cui sta crescendo una generazione orfana di maestri, profondamente segregata dal mondo degli adulti e, però, capace di riorganizzarsi attraverso comunità tecnoreferenziate, dotate di propri saperi, percorsi, costruzioni della conoscenza e visioni grazie ad una tecnologia capace di costruire ragnatele relazionali nuove, liquide, leggere e infinite.

A proposito dell’educazione si parla oggi di “emergenza educativa”. Gli adulti da almeno un decennio hanno progressivamente rinunciato ad educare. Ma cosa significa educare, se non farsi carico dell’altro attraverso una relazione autentica, piena, autorevole e aperta alla trasmissione di una visione valoriale e densa di significati della vita? In questo senso educare vuol dire riscoprire il valore della relazione e avviene attraverso la riscoperta della narrazione. Narrare se stessi, la propria vita, la vita della famiglia e della società nella quale viviamo significa trasmettere valori e visioni della vita. Questo richiede agli adulti una capacità innanzitutto di stare con i figli, di essere-per e di essere-con, di entrarci in relazione, di essere significativi ed anche affascinanti. Educare vuol dire anche accettare il rischio della libertà dell’altro, che può determinare momenti difficili e conflittuali. Educare vuol dire trasmettere qualcosa che ci è proprio, che è fatto nostro e dunque significa anche mettersi in discussione, perchè educare vuol dire essere autorevoli, e quindi competenti, esperti, ma soprattutto coerenti e responsabili. Se dopo il tempo della liquidità, tornerà il tempo della riscoperta del valore del legame e della relazione, questo sarà perché alcuni adulti coraggiosi avranno accettato la sfida dell’educazione, restituendo così all’umanità del terzo millennio la fiducia nella vita e la speranza nel futuro.

5. Chiesa e byte

In una recente indagine ho analizzato i numerosi siti cattolici, istituzionali e non, presenti in Rete. La Chiesa Cattolica si propone dunque in Rete con già una evidente efficacia, anche se il popolo on line sembra per certi versi ignorare questo sforzo. In Internet, come è noto, c’è tutto ed il contrario di tutto. Cosicché proliferano siti più o meno ambiguamente “religiosi”. Se da una parte la Chiesa Cattolica ha senz’altro colto l’importanza di una pastorale in Rete e non mancano tentativi di evangelizzare la Rete, d’altro canto Internet è come un mondo parallelo, dove accadono cose piuttosto strane, che si declinano nel virtuale con modalità narcisistiche, ambigue ed emozionali proprie di una visione antropologica che sembra appartenere all’abitante della società liquida postmoderna. Per esempio in Rete c’è una sorta di tentativo di dar vita a forme religiose nuove, più adatte alla tecnomediazione: la ricerca di emozioni, che la Rete esalta, può dar corso a varie forme di pseudoreligioni intriganti e inquietanti, senza contare il proliferare degli psicosantoni on line e di tante altre proposte confusive. Osservando però il popolo dei navigatori, credo che potremmo leggere quelle forme esasperate di abuso della Rete come una inconsapevole domanda di senso: è come se l’uomo d’oggi, attraverso forme di ipertecnologia, si interrogasse sul senso profondo della vita. La realtà virtuale costituisce una sorta di sfida e, a modo suo, esprime il perenne bisogno di senso dell’uomo. Tuttavia il senso di onnipotenza che la Rete può far provare può essere un profondo inganno per l’uomo e la rivoluzione digitale promette, in ultima analisi, di sollevare l’uomo dal peso fastidioso di relazioni interpersonali reali e di consegnargli narcisistiche illusioni di felicità.

Poiché dunque il rapporto con i tecnomondi oggi disponibili è ineludibile e nessuno potrà fermare la rivoluzione digitale, la domanda sul tappeto è: come è possibile abitare i mondi telematici e interagire con i nativi digitali senza scolorire o contaminare in modo fatale l’annuncio del vangelo? Il rischio infatti quello di cedere alle modalità narcisistiche, emozionali e ambigue della tecnologia digitale, rinunciando all’autenticità della relazione interpersonale e alla sua feconda generatività.

6. Quale sarà il futuro prossimo venturo?

L’intrecciarsi della rivoluzione digitale con il tema della liquidità appare come un abbraccio fatale tra due fenomeni profondamente complementari, capaci di sostenere una sorta di mutazione antropologica, che ho cercato di descrivere nei paragrafi precedenti e che trova il suo cortocircuito nell’impatto tra il sistema mente-cervello e la tecnologia digitale, disegnando così l’emergere di una generazione che ho definito “nativi digitali”. La tecnomediazione del vangelo, come modalità semplice di interazione con i nativi digitali, ha in sé un rischio: quello di assimilare alla liquidità l’annuncio evangelico, contaminandolo forse in modo fatale con la visione antropologica narcisistico-emotiva propria della rivoluzione digitale. Ovviamente questo non significa ignorare le enormi potenzialità comunicative della tecnologia digitale, ma piuttosto piegarle alle esigenze di un uso più strumentale che collusivo. Tuttavia rimane necessario individuare su quali pilastri rifondare una possibile trama che consenta di articolare risposte risananti ai bisogni dell’uomo, che i paradisi telematici prossimi venturi non potranno comunque colmare. In più circostanze, sollecitato a dare risposte a questo interrogativo, ho sostenuto che occorre puntare su tre processi irrinunciabili:

la necessità di ricostruire percorsi narrativi dell’identità, che consiste nel dare la possibilità di elaborare trame narrative nelle quali connettere i tanti frammenti identitari dell’uomo liquido: questo significa che dopo l’impatto emotivo di ogni risposta-proposta occorre recuperare la fascinazione della narrazione di sé, del proprio gruppo e del mondo, come modalità propria per la costruzione dell’identità;

la necessità di recuperare il gusto del bello: la tecnologia manifesta tutto e utilizza la percezione in modo esaustivo, il bello rimanda sempre a qualcos’altro e utilizza la percezione in modo simbolico e metaforico;

la necessità, questa sì assoluta ed irrinunciabile, di accogliere l’altro nell’ambito di relazioni interpersonali sane e risananti, riscoprendo la potenzialità terapeutica della relazione umana.

Su questi tre punti a mio parere vanno ricostruiti mondi, anche telematici, oltre che reali, che declinino queste necessità nei luoghi, nel tempo e nell’organizzazione sociale.

Bibliografia

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Cantelmi T., Orlando F., “Psicologia del trading on line”, Centro Scientifico Editore, 2002

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