mercoledì 13 gennaio 2010

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ZENIT

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Servizio quotidiano - 13 gennaio 2010

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La Chiesa si rende credibile attraverso la povertà e la solidarietà
Benedetto XVI parla degli Ordini mendicanti dei francescani e dei domenicani

ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Nell'annuncio del Vangelo la Chiesa si rende credibile quando dà testimonianza di povertà e solidarietà. Lo ha detto Benedetto XVI all'Udienza generale di questo mercoledì, tenutasi nell'Aula Paolo VI alla presenza di circa novemila persone.

Nel tradizionale incontro con i pellegrini e i fedeli da tutto il mondo il Papa ha parlato della nascita e dello sviluppo nel XIII secolo dei due maggiori Ordini mendicanti, quello dei francescani e quello dei domenicani, fondati rispettiamente da san Domenico di Guzman e da san Francesco d’Assisi, e indicandoli come un esempio prezioso per l'umanità odierna.

La loro costituzione, ha detto il Papa, fu una risposta alla sfida lanciata alla Chiesa di allora dai “movimenti pauperistici”, che “contestavano aspramente il modo di vivere dei sacerdoti e dei monaci del tempo, accusati di aver tradito il Vangelo e di non praticare la povertà come i primi cristiani”.

Questi movimenti, inoltre, “per giustificare le proprie scelte, diffusero dottrine incompatibili con la fede cattolica”, com'è il caso dei Catari o Albigesi che predicavano “la svalutazione e il disprezzo del mondo materiale - l’opposizione contro la ricchezza diventa velocemente opposizione contro la realtà materiale in quanto tale - la negazione della libera volontà, e poi il dualismo, l'esistenza di un secondo principio del male equiparato a Dio”.

Al contrario, ha spiegato il Papa, “i francescani e i domenicani, sulla scia dei loro fondatori, mostrarono, invece, che era possibile vivere la povertà evangelica, la verità del Vangelo come tale, senza separarsi dalla Chiesa; mostrarono che la Chiesa rimane il vero, autentico luogo del Vangelo e della Scrittura”.

“Anzi – ha precisato –, Domenico e Francesco trassero proprio dall’intima comunione con la Chiesa e con il Papato la forza della loro testimonianza”.

E fu proprio la pietà, l’umanità e la profonda semplicità del loro insegnamento cristiano a stimolare la nascita di associazioni di fedeli laici, desiderose di vivere secondo la loro spiritualità.

“In altri termini, la proposta di una ‘santità laicale’ conquistò molte persone – ha detto il Papa –. Come ha ricordato il Concilio Ecumenico Vaticano II, la chiamata alla santità non è riservata ad alcuni, ma è universale. In tutti gli stati di vita, secondo le esigenze di ciascuno di essi, si trova la possibilità di vivere il Vangelo”.

“Anche oggi – ha continuato –, pur vivendo in una società in cui spesso prevale l’‘avere’ sull’‘essere’, si è molto sensibili agli esempi di povertà e di solidarietà, che i credenti offrono con scelte coraggiose. Anche oggi non mancano simili iniziative: i movimenti, che partono realmente dalla novità del Vangelo e lo vivono con radicalità nell’oggi, mettendosi nelle mani di Dio, per servire il prossimo”.

“È questa una lezione da non dimenticare mai nell’opera di diffusione del Vangelo: vivere per primi ciò che si annuncia, essere specchio della carità divina”, ha infine concluso.

Secondo quanto riferito da L'Osservatore Romano, all'Udienza generale di oggi erano presenti tremilacinquecento ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori provenienti dalla Campania e accompagnati dal Vescovo Pietro Farina.

Al Papa sono state presentate due concrete testimonianze di carità e di servizio ai sofferenti dalla congregazione di san Damiano de Veuster, venuta a ringraziare per la canonizzazione dell'ottobre scorso, e dai centosessanta assistenti spirituali dell'Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali (Unitalsi) a conclusione del Convegno nazionale.

Benedetto XVI ha quindi benedetto la corona per l'immagine della Madre di Dio realizzata con gli oggetti personali donati dai parrocchiani dell'Immacolata Concezione di Macchia di Montecorvino Rovella, nel salernitano.

I fedeli, presenti in gran numero all'udienza, hanno sostenuto anche la costruzione della prima chiesa della piccola frazione che sarà inaugurata il 14 febbraio.

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Appello del Papa in favore dei terremotati di Haiti

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Un appello alla solidarietà in favore della popolazione di Haiti è stato lanciato questo mercoledì, al termine dell'Udienza generale, da Benedetto XVI in seguito al terremoto di magnitudo 7, verificatosi nel pomeriggio di martedì 12 gennaio e con epicentro a pochi chilometri dalla capitale Port-au-Prince, che conta due milioni di abitanti.

“Invito tutti ad unirsi alla mia preghiera al Signore per le vittime di questa catastrofe e per coloro che ne piangono la scomparsa”, ha detto il Papa, che ha poi assicurato la sua “vicinanza spirituale a chi ha perso la propria casa e a tutte le persone provate in vario modo da questa grave calamità”.

“Mi appello alla generosità di tutti, affinché non si faccia mancare a questi fratelli e sorelle che vivono un momento di necessità e di dolore, la nostra concreta solidarietà e il fattivo sostegno della Comunità Internazionale”, ha quindi aggiunto.

“La Chiesa Cattolica – ha sottolineato il Pontefice – non mancherà di attivarsi immediatamente tramite le sue Istituzioni caritative per venire incontro ai bisogni più immediati della popolazione”. 

Stando alle prime informazioni, il terremoto – il più violento degli ultimi 200 anni – ha completamente distrutto il centro della città, provocando il crollo di tre ospedali e di alcuni edifici governativi. Inoltre, le comunicazioni telefoniche sono interrotte.

In un drammatico racconto all'agenzia Fides, il Nunzio apostolico ad Haiti, l’Arcivescovo Bernardito Auza, ha detto che “Port-au-prince è totalmente devastata. La Cattedrale, l’Arcivescovado, tutte le grandi chiese, tutti i seminari sono ridotti a macerie”.

“Il parroco della Cattedrale – ha aggiunto –, che si è salvato, mi ha detto che l'Arcivescovo di Port-au-prince sarebbe morto sotto le macerie, insieme a centinaia di seminaristi e sacerdoti che sono sotto le macerie”.

L'Arcivescovo Joseph Serge Miot aveva 63 anni.

“Il palazzo nazionale è a terra. Questa mattina sono andato a esprimere condoglianze e solidarietà al Presidente della Repubblica, che si è salvato perchè era fuori con la famiglia. La sua casa privata è distrutta. Tutti i ministeri, tranne quello della cultura sono distrutti”.

“Il parlamento con i senatori, le scuole con i bambini, I supermercati sono ridotti a nulla. Il quartier generale della Minustah (sede dell’Onu per l’aiuto ad Haiti) è ridotto ad un cumulo di cemento e centinaia di persone sono intrappolate, compreso il Capo delegazione Hedi Annabi, mi hanno riferito delle persone che abitano di fronte al quartiere generale”.

“Ho trovato preti e suore per strada, senza più case – ha detto il Nunzio apostolico ad Haiti –. Il Rettore del seminario si è salvato, così il decano degli studi, ma i seminaristi sono sotto le macerie. Ovunque si sentivano grida da sotto le macerie. Il Cifor - istituto di studi per i religiosi e le religiose – è crollato con gli studenti dentro che partecipavano ad una conferenza”.

“Avremo problemi di acqua e cibo fra non molto – ha continuato –. Non possiamo entrare o stare molto dentro casa perchè la terra continua a tremare, così siamo accampati nel giardino”.

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Il Papa incontra la ragazza che lo ha fatto cadere la notte di Natale
Dichiarazione del portavoce vaticano, padre Lombardi

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Dopo l'Udienza generale di questo mercoledì, Papa Benedetto XVI ha incontrato brevemente in privato, nella sala attigua all'Aula Paolo VI, Susanna Maiolo, la ragazza italo-svizzera di 25 anni che si è avventata su di lui la notte di Natale.

Lo afferma in un comunicato il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, aggiungendo che la giovane, accompagnata da due familiari, “ha espresso al Santo Padre il suo dispiacere per quanto avvenuto”.

“Il Papa ha voluto manifestarle il suo perdono, come pure il proprio cordiale interessamento e augurio per la sua salute”, aggiunge il portavoce vaticano.

Come in occasioni precedenti, padre Lombardi ha poi confermato che l’istruttoria avviata dalla magistratura dello Stato della Città del Vaticano “essa continuerà il suo iter fino ad espletamento”.

L'incidente è avvenuto durante la processione di ingresso della Messa di Mezzanotte, nella basilica di San Pietro, quando Susanna Maiolo, affetta da disturbi psichici, si è gettata su Papa Benedetto XVI dopo aver scavalcato la barriera di sicurezza.

Nonostante il rapido intervento degli agenti, la giovane è riuscita ad appendersi al pallio del Pontefice, facendolo cadere a terra, anche se la caduta non ha avuto conseguenze. Nel trambusto il Cardinale Roger Etchegaray, di 87 anni, si è fratturato il femore, venendo operato pochi giorni dopo al Policlinico Gemelli di Roma.

Susanna Maiolo è stata ricoverata in un centro sanitario per ricevere delle cure. Nella struttura, come ha confermato il 3 gennaio padre Lombardi, ha ricevuto la visita di monsignor Georg Gaenswein, segretario personale del Papa, che le ha trasmesso l'interesse del Santo Padre per la sua situazione.

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Una conferenza per illustrare i rapporti tra gli ebrei e i Pontefici
In occasione della visita papale alla mostra "Et ecce gaudium"

ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- In occasione della visita di Papa Benedetto XVI alla mostra “Et ecce gaudium. Gli ebrei romani e la cerimonia di insediamento dei Pontefici”, durante la sua visita alla comunità ebraica di Roma prevista per questa domenica, 17 gennaio, si svolgerà martedì 19 la conferenza “Iudei quoque non deerant”.

L'evento è organizzato dall’Ambasciata d’Israele presso la Santa Sede e dall'Associazione Cattolici Amici d’Israele, e si svolgerà dalle 9.30 presso la Sala Conferenze del Centro Bibliografico UCEI (Lungotevere Sanzio 5, Roma).

I lavori del colloquium verranno aperti dai saluti dell'avvocato Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, del Cardinale Raffele Farina, Archivista dell'Archivio Segreto Vaticano e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, del dottor Giovanni Cubeddu, Presidente dell’Associazione Cattolici Amici d’Israele, e di Mordechay Lewy, Ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede.

Seguiranno poi gli interventi “Il Papa e gli ebrei di Roma (XVI e XVIII secolo)”, della professoressa Anna Foa, dell'Università La Sapienza di Roma; “La tradizione della Festa a Roma tra il XVI e il XVIII secolo”, del professor Marcello Fagiolo, del Centro di Studi sulla Cultura e l'Immagine di Roma; “The Ritual Encounter of Pope and Jews from the Middle Ages to Modern Times: the papal possession in Rome”, del professor Amnon Linder, dell'Università Ebraica di Gerusalemme, e “Atti di omaggio e doni preziosi dagli ebrei di Roma ai nuovi Pontefici”, della dottoressa Daniela Di Castro, Direttore Museo Ebraico di Roma.

Sarà disponibile un servizio di traduzione simultanea.

La mostra “Et ecce gaudium. Gli ebrei romani e la cerimonia di insediamento dei Pontefici” sarà visitabile presso il Museo Ebraico di Roma dal 18 gennaio all'11 marzo.

Per ulteriori informazioni sul colloquium, 06-36198690; info-vat@holysee.mfa.gov.il

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Benedetto XVI incoraggia i giovani a cercare Cristo
Presenta l'esempio eroico di san Ilario
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Questo mercoledì, al termine dell'Udienza generale, Benedetto XVI ha incoraggiato i giovani a cerca Cristo.

Nel salutare i tanti ragazzi presenti nell'Aula Paolo VI così come i malati e gli sposi novelli, il Pontefice ha indicato come esempio san Ilario, che visse in Francia nel IV secolo, e fu Vescovo di Poitiers.

San Ilario combattè strenuamente contro l'arianesimo tanto che l'imperatore Costanzo, sostenitore delle decisioni del sinodo ariano di Béziers del 356, lo mandò in esilio in Frigia.

“Il suo esempio sostenga voi, cari giovani, nella costante e coraggiosa ricerca di Cristo”, ha detto il Pontefice rivolgendosi ai ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori della diocesi di Caserta.

“Grazie per la vostra presenza e grazie per il vostro impegno nella fede, vedo e sento la forza della vostra fede”, ha affermato.

Successivamente, si è rivolto ai malati, molti dei quali sulla sedia a rotelle, invitandoli “ad offrire le vostre sofferenze affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo”.

Infine ha salutato gli sposi novelli, giunti con gli abiti da cerimonia, incoraggiandoli a “essere testimoni dell'amore di Cristo nella vita familiare”.

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Coro della Cappella Sistina: voci che elevano lo spirito nella liturgia
Intervista a monsignor Giuseppe Liberto, direttore del "coro del Papa"

di Carmen Elena Villa


CITTÀ DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Si è concluso il periodo natalizio. Nelle cerimonie liturgiche celebrate durante questo tempo liturgico in Vaticano, oltre al Papa e ai concelebranti, era presente anche un gruppo di persone che ha lavorato strenuamente perché queste cerimonie risultassero più belle e solenni.

Si tratta del Coro della Cappella musicale pontificia “Sistina”, composto da 55 voci maschili, tra fanciulli e adulti. Il coro è stato fondato nel VI secolo sotto il pontificato di San Gregorio Magno con il nome di Schola Canotum Romana.

ZENIT ha parlato con l’attuale direttore, monsignor Giuseppe Liberto, nato a Chiusa Sclafani, in provincia di Palermo. Questo musicista professionista, con un’ampia produzione artistica alle spalle in cui esprime la ricerca dell’interpretazione della Riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo, dirige il coro dal 1997, da quando cioè è stato nominato dal Papa Giovanni Paolo II.

Durante i suoi quasi 15 secoli di esistenza, il Coro della Cappella musicale “Sistina” ha attraversato numerosi cambiamenti. Il suo lavoro è stato interrotto nei momenti di crisi interni alla Chiesa, come quando ci fu il trasferimento della sede pontificia ad Avignone (1309-1377). Nel 1471 gli è stato attribuito il nome attuale, con il Papa Sisto IV che ha riorganizzato il Collegio dei cantori papali.

L'attuale coro è composto da 20 cantori adulti e 35 “Pueri cantores”, che sono bambini tra i 10 e 14 anni, tra la quarta elementare e la seconda media, età in cui normalmente cambia il tono di voce. Monsignor Liberto li chiama i “piccoli professionisti della musica”. Questa sezione del coro è stata istituita nel 1956 dall’allora direttore Domenico Bartolucci.

“La liturgia del Papa, la liturgia di San Pietro, deve essere la liturgia esemplare per il mondo”, ha detto monsignor Liberto. “Perciò è così importante, che la Cappella Sistina sia un esempio di come si deve dare bellezza nel canto per la lode di Dio”.

Ogni anno, a settembre, si rinnova la sezione dei “Pueri cantores”. Escono i bambini più grandi ed entrano i più piccoli, che sono ammessi dopo un rigoroso procedimento di selezione in cui passano circa 700 candidati provenienti generalmente dai cori delle diverse parrocchie di Roma.

Dopo aver studiato per un anno canto, musica, solfeggio e tecnica vocale, inizia il processo di immersione nel coro: “è sempre un lavoro continuo e costante, faticoso ma affascinante”, ha detto monsignor Liberto.

I bambini intercalano così i loro studi accademici con l’attività musicale. Per questo esiste una piccola scuola denominata Schola Puerorum della Cappella Sistina, frequentata solo da loro, che comprende gli ultimi anni della scuola elementare e della scuola media. I bambini, oltre ai corsi normali di matematica, scienze naturali o geografia, studiano anche solfeggio, musica e tecnica vocale.

Il Collegio si trova al primo piano dell’edificio dove si svolgono le prove. La sede di questo coro è situata nel centro di Roma, dietro la chiesa di Sant’Andrea della Valle. I ragazzi provano tre volte alla settimana per due ore, ma nei periodi di maggiore attività liturgica, come quello appena concluso, le prove si intensificano.

Da parte loro, le 20 voci adulte sono divise in cinque bassi, quattro baritoni, cinque tenori e sei tenori primi. Queste voci non cambiano regolarmente come avviene per i più piccoli.

Per monsignor Liberto, l’incarico di direttore, più che un onore è un servizio alla Chiesa: “la Cappella Sistina è la cappella del Papa. Non è la cappella del direttore che la usa e abusa come vuole”, dice.

Sebbene la sua missione principale è di cantare nelle messe pontificie, il coro realizza anche alcune trasferte all’estero e in altre città italiane dove si presenta in concerto. Sono stati in Giappone, Ungheria, Malta, Spagna, Germania e altri Paesi. In Italia hanno visitato città come Assisi, Firenze, Loreto e Verona.

“Il concerto è questa catechesi all'interno delle diocesi. Il programma è sempre in rapporto al patrimonio musicale della Capella e riguarda, fondamentalmente, canti gregoriani, polifonie palestriniane cinquecentesche, e polifonie e musiche dei maestri della Capella Sistina”, ha indicato monsignor Liberto.

Alcuni membri della sezione degli adulti, nella loro infanzia facevano parte dei Pueri cantores. Tre di loro hanno anche i propri figli nel coro. Un ambiente familiare e soprattutto di grande disciplina è quello che si vive nell’Aula Pio XII, il luogo dove provano i cantori, decorato con fotografie di diversi Pontefici e manifesti promozionali dei concerti che sono stati offerti negli ultimi anni.

Alla fine della sua chiacchierata con ZENIT, monsignor Liberto ha gettato uno sguardo all’orologio e ha visto che era quasi mezzogiorno: ora delle prove. Subito dopo sono cominciati ad arrivare ad uno ad uno i cantori adulti. Poi sono arrivati i bambini, tutti insieme al termine della giornata scolastica, che hanno cominciato a cantare con le loro dolci voci, con la tecnica della “bocca chiusa”.

Le voci della Cappella musicale “Sistina” invitano al raccoglimento, alla riflessione e alla preghiera, nelle liturgie presiedute dal Santo Padre. Melodie sacre che, come ha detto una volta il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, devono essere “all’altezza del grande mistero che si celebra”.


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In Portogallo, Benedetto XVI "parlerà per tutti"

FATIMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Riuniti questo martedì a Fatima, i Vescovi portoghesi hanno affermato che in occasione della sua visita in Portogallo, in programma dall'11 al 14 maggio prossimi, Benedetto XVI parlerà per tutti, credenti o non credenti.

“Il Papa parlerà per tutti”, ha affermato padre Manuel Morujão, portavoce e segretario della Conferenza Episcopale Portoghese (CEP), come rende noto l'ufficio stampa del Santuario.

“La Chiesa non chiude la porta a nessuno e apre il suo cuore a tutti”, ha aggiunto.

Nel corso di una conferenza stampa dopo i lavori della riunione del Consiglio Permanente della CEP, padre Morujão ha anche detto che nella prossima riunione del Consiglio, il 9 febbraio a Fatima, verrà presentata una Nota Pastorale relativa alla visita del Papa in Portogallo.

La Nota “rappresenterà un beneficio per la qualità di vita della Chiesa e della società”, ha dichiarato.

La decisione del Vescovo di Roma di visitare il Portogallo è stata annunciata nel settembre 2009. Nel mese di dicembre è stato diffuso il programma, che prevede la presenza del Pontefice a Lisbona, Fatima e Porto.

Benedetto XVI si recherà nel Paese in pellegrinaggio e in visita ufficiale, su invito della Conferenza Episcopale Portoghese e della Presidenza della Repubblica del Portogallo.

Il programma della visita papale è disponibile su www.fatima.pt

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Notizie dal mondo


La fondatrice della Pastorale del Bambino muore nel terremoto di Haiti
Il medico Zilda Arns, 75 anni, sorella del Cardinale Paulo Evaristo Arns
di Alexandre Ribeiro

SAN PAOLO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La fondatrice della Pastorale del Bambino, il medico Zilda Arns, 75 anni, è morta nel terremoto che ha devastato Haiti questo martedì.

Secondo le informazioni diffuse dal Governo brasiliano, al momento del terremoto la Arns camminava per le vie di Port-au-Prince accanto a due soldati. Era a Haiti per una missione della Pastorale del Bambino.

La Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB), colpita dalla tragedia, ha inviato il segretario generale dell'organismo, monsignor Dimas Lara Barbosa, a Port-au-Prince su un volo dell'Aeronautica brasiliana.

Zilda Arns, pediatra, era sorella dell'Arcivescovo emerito di San Paolo, il Cardinale Paulo Evaristo Arns. Madre di cinque figli e vedova dal 1978, ha dedicato tutta la sua vita a cause umane e solidali.

Nel 1983 aveva fondato la Pastorale del Bambino, organismo di azione sociale legato alla CNBB, che ha come obiettivo lo sviluppo integrale dei bambini poveri e promuove, in funzione di questi, anche le loro famiglie e comunità.

La Pastorale del Bambino agisce in Brasile attraverso 261.000 volontari, che accompagnano più di 1,8 milioni di bambini e 95.000 gestanti in oltre 42.000 comunità e 4.066 municipi brasiliani.

Il Cardinale Evaristo Arns, in una nota diffusa alla stampa, ha confermato di aver “appreso con dolore che la mia carissima sorella Zilda Arns Neumann ha sofferto con il buon popolo di Haiti i tragici effetti del terremoto”.

“Dio, nella sua misericordia, accolga in cielo quanti sulla terra hanno lottato per i bambini e gli indifesi. Non è il momento di perdere la speranza”, ha aggiunto.

Nel 2001, Zilda Arns era stata candidata al Premio Nobel per la Pace. In un'intervista concessa a ZENIT in quell'anno, aveva dichiarato che i maggiori successi che aveva ottenuto fino a quel momento in Brasile erano stati “la riduzione del 60% della mortalità infantile e del 50% della denutrizione, e la diminuzione della violenza all'interno delle famiglie”.

Per ottenere buoni risultati, sottolineava, è importante “una grande attenzione al tessuto sociale”. “L'obiettivo è aumentare l'autostima dei poveri e il loro potenziale umano. A volte troviamo donne con 4 o 5 figli, analfabete, che si sentono una nullità. Quando la Pastorale le sottrae alle privazioni, le alfabetizza e dà loro una speranza riescono a iniziare una vita nuova per se stesse e per i figli”.

Quanto all'aborto, ricordava che la sua legalizzazione non portava alla diminuzione della mortalità materna, che si raggiunge invece con un buon servizio prenatale e migliorando le condizioni di vita delle persone.

“E' possibile lavorare a favore della vita in abbondanza e allo stesso tempo salvare vite perché non vengano abortite”, affermava.

[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]

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L'Arcivescovo di Port-au-Prince muore nel terremoto
I missionari ad Haiti si mobilitano
ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'Arcivescovo di Port-au-Prince, monsignor Joseph Serge-Miot, è morto nel violento terremoto che ha devastato questo martedì la capitale di Haiti. Il suo corpo è stato rinvenuto tra le macerie dell'Arcivescovado, secondo quanto hanno confermato a Roma fonti missionarie.

Il vicario generale dell'Arcidiocesi, monsignor Benoît Seguiranno, al momento della chiusura di questa edizione risultava disperso, ha aggiunto l'agenzia Missionary International Service News Agency (MISNA) citando i missionari della Società di San Giacomo, presenti ad Haiti da 40 anni.

Monsignor Serge-Miot, 63 anni, era Arcivescovo da due ed era stato coadiutore dell'Arcidiocesi per più di dieci. Era stato consacrato Vescovo nel 1997 da monsignor Christophe Pierre, allora Nunzio Apostolico ad Haiti e attualmente rappresentante papale in Messico.

“Siamo a terra”, ha spiegato in un messaggio di posta elettronica padre Andre Siohan, dei missionari di San Giacomo, a MISNA.

“Sono stato in centro città stamani per visitare le comunità religiose amiche: la zona è totalmente devastata e ci sono migliaia di vittime. E' terribile. Tutti noi stiamo bene, ma siamo senza notizie di alcuni nostri seminaristi. Qualcuno è ferito, forse qualcuno è morto. Pregate per noi”, scrive ancora il missionario, che riesce a comunicare soltanto grazie a un sistema satellitare.

Per telefono, ha continuato il racconto a MISNA un confratello di Siohan, padre Pierre Le Beller, tornato in Francia dopo circa trent'anni di lavoro a Haiti.

“Sotto le tende allestite nel giardino della nostra casa danneggiata dal terremoto si trovano in questo momento i nostri confratelli, alcuni seminaristi, amici e vicini del quartiere di Pacot. Temiamo un numero altissimo di feriti: la vera emergenza sarà quella di curarli”, ha detto Le Beller, sottolineando che già in tempi normali i servizi ospedalieri sono carenti. Haiti è il Paese più povero della zona caraibica.

“I racconti sono raccapriccianti, si sentono le urla e i pianti di gente ferita, ci chiediamo quanti sono intrappolati sotto le macerie. Ci dicono che la cattedrale è crollata, così come il Palazzo nazionale e quello dell'ONU, un edificio a cinque piani, sulla strada che porta verso il quartiere residenziale di Petionville”.

Per padre Le Beller è molto difficile andare avanti nel riferire le notizie, soprattutto quelle della distruzione del Centro Caritas nel quartiere centrale di Saint Antoine, una struttura di aiuto, accoglienza e reinserimento dei ragazzi di strada che lui stesso aveva creato e al quale aveva dedicato anima e corpo. Per fortuna, per ora, sembra che tutti i giovani del centro siano vivi.

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India: i cristiani ricostruiscono una cappella devastata dagli estremisti
Con il sostegno dell'associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre

ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L'associazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), che sostiene i cristiani oppressi e perseguitati nel mondo, fornirà un contributo di 20.000 euro per la ricostruzione del santuario di Sant'Antonio nell'isola di Rameswaram, nello Stato indiano del Tamil Nadu.

La cappella è stata danneggiata gravemente dagli estremisti religiosi dopo essere stata bersaglio di più attacchi tra il giugno e l'agosto 2008, in concomitanza con l'ondata di violenza anticristiana che ha colpito lo Stato dell'Orissa provocando oltre 80 morti.

Il parroco, padre Michael Raj, ha detto ad ACS che a tutt'oggi ci sono persone che “pianificano di rimuovere i simboli cristiani da questo luogo”, ricordando che “ci sono intrusi che spezzano la croce”.

La nuova cappella avrà come ulteriore protezione un muro, e si progetta di costruire anche una casa per i pellegrini che la visitano.

Secondo il sacerdote, dietro agli attacchi ci sono dei “gruppi religiosi fanatici”.

“Ad ogni modo – ha sottolineato –, la nostra fede è più forte e siamo sicuri che il Dio in cui crediamo, tra tutte queste difficoltà, salverà la nostra fede e il nostro luogo di adorazione”.

Anche se si sospetta che il motivo degli attacchi sia stato religioso, il parroco ha affermato che la maggior parte dei membri delle altre comunità religiose dell'isola sostiene la campagna per salvare la cappella.

“C'è anche un numero ragionevole di indù e musulmani che vengono in questo luogo come pellegrini e visitatori”, ha ricordato.

Nell'isola di Rameswaran c'è un santuario dedicato a Sant'Antonio fin dall'arrivo dei primi missionari nel XIX secolo. La cappella originale è stata distrutta da un ciclone nel 1964 e un suo sostituto è stato gravemente danneggiato dallo tsunami del 2004.

Visto che Sant'Antonio è considerato patrono dei marinai e dei pescatori, il tempio attira molti visitatori sull'isola, la cui popolazione dipende in gran parte dal mare, e gli attacchi non hanno impedito ai devoti di continuare ad arrivare.

L'intero progetto di restauro costerà 42.500 euro. La popolazione locale ha già raccolto più di 11.000 euro, anche se appartiene alle fasce più povere.

“Anche se la nostra gente è all'ultimo posto della società in ogni settore, è nota per la fede e l'impegno nei confronti della Santa Madre Chiesa”, ha commentato il parroco.


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Spirito della Liturgia


Il sacerdote nei riti iniziali della Santa Messa
Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi
ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- In questo articolo, con cui riprendiamo nel nuovo anno la nostra rubrica, padre Paul Gunter, Docente presso il Pontificio Istituto Liturgico e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ci offre una panoramica efficace sul ruolo del sacerdote celebrante nei riti iniziali della Messa, mettendo a confronto i due Messali attualmente in vigore: quello della forma ordinaria e quello della forma straordinaria del Rito Romano (don Mauro Gagliardi).

 



***

padre Paul Gunter, OSB

 

Nella prima parte della Messa, i riti sembrano parlare di per se stessi. Non siamo ancora giunti alla Liturgia della Parola, che proclama la Sacra Scrittura, né abbiamo ancora preparato l'altare per il Sacrificio. Nondimeno, in qualche modo abbiamo già fatto queste cose, perlomeno nella disposizione interiore del sacerdote. Quando si compiono i riti iniziali, sono infatti già stati posti diversi atti, sebbene non visibili all'assemblea. E sono questi che non solo fanno da sfondo a ciò che di più santo esiste, ma anche determinano nella vita di un prete il modo col quale egli si presenta all'appuntamento con l'altare, sicché le preoccupazioni della vita quotidiana non facciano guerra alla sacralità raccolta, che è richiesta dalla celebrazione della Santa Messa.

Il sacerdote ha fatto la sua preparazione privata, che è delineata nel Messale sia della forma ordinaria (o di Paolo VI), che di quella straordinaria (o di san Pio V). La distinzione tra le due forme è qui evidenziata non solo perché esse rappresentano l'uso corrente del Rito Romano, ma anche perché si complementano a vicenda nello scopo di «far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo»[1]. La Praeparatio ad Missam di entrambe le forme ha in comune una preghiera di sant'Ambrogio, una di san Tommaso d'Aquino ed una preghiera alla Beata Vergine Maria[2]. La «formula di intenzione» ricorda al sacerdote che egli consacra il Corpo e il Sangue di Cristo a beneficio di tutta la Chiesa e per tutti coloro che si sono raccomandati alle sue preghiere. Siccome questa preghiera si trova in entrambe le forme del rito, è chiaro che tutte e due mantengono la dimensione ecclesiologica della Messa[3]. Anche il sacerdote che celebra in privato non celebra la Messa solo per se stesso. L'IGMR 93, nello spiegare ciò, descrive anche le disposizioni che deve avere il celebrante:

«[...] il presbitero, che nella Chiesa ha il potere di offrire il sacrificio nella persona di Cristo in virtù della sacra potestà dell'Ordine[4], presiede il popolo fedele radunato [...], ne dirige la preghiera, annuncia ad esso il messaggio della salvezza, lo associa a sé nell'offerta del sacrificio a Dio Padre per Cristo nello Spirito Santo, distribuisce ai fratelli il pane della vita eterna e lo condivide con loro. Pertanto, quando celebra l'Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo»[5].

Di conseguenza, i riti iniziali suppongono che il prete arrivi all'altare pronto a svolgere le sue sacre funzioni. Allo stesso tempo, non ci si aspetta di meno dal popolo di Dio: i fedeli presenti devono unire se stessi all'azione della Chiesa ed evitare ogni atteggiamento di individualismo o di divisione[6]. «Questa unità appare molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme»[7].

I riti iniziali nella forma straordinaria

La forma straordinaria, mentre ci ricorda che il sacerdote che indossa i paramenti si avvicina all'altare dopo aver fatto i necessari atti di riverenza, si preoccupa anche di illustrare la cura con la quale il celebrante deve fare il segno di croce[8]. I riti iniziali della forma straordinaria, più estesi di quelli della forma ordinaria, sono composti innanzitutto dal Salmo 42 con la sua famosa antifona Introibo ad altare Dei ad Deum qui laetificat iuventutem meum, recitata tra il prete e il ministrante. Il Confiteor è pregato due volte, la prima dal sacerdote e la seconda dal ministrante, che recita anche il Misereatur dopo il Confiteor del sacerdote. Dopo il secondo Confiteor, il Misereatur - che è stato conservato nella forma ordinaria della Messa, ma che lì domanda il perdono dei peccati in genere, invece di evidenziare la distinzione tra i peccati del sacerdote e quelli del popolo - è seguito dalla formula Indulgentiam, durante la quale il sacerdote fa il segno di croce, mentre prega per la remissione dei peccati di tutti. Seguono alcuni versetti dal Salmo 84. Guéranger descrive il loro scopo in questo modo:

«La pratica di recitare questi versetti è molto antica. L'ultimo ci trasmette le parole di Davide, il quale, nel suo Salmo 84, prega per la venuta del Messia. Nella Messa, prima della Consacrazione, noi attendiamo la venuta di Nostro Signore, così come coloro che vissero prima dell'Incarnazione avevano atteso il Messia promesso. Non dobbiamo comprendere la parola "misericordia", che si trova qui perché usata dal Profeta, come riferita alla bontà di Dio; al contrario, noi chiediamo a Dio che accordi di inviarci Lui, [...] il Salvatore, dal quale attendiamo su di noi la salvezza. Queste poche parole del Salmo ci riportano indietro, nello spirito, al tempo di Avvento, nel quale noi invochiamo continuamente Colui che deve venire»[9].

Il sacerdote, nell'ascendere all'altare, dice in segreto l'orazione Aufer a nobis, pregando che Dio possa rimuovere i nostri peccati e che le nostre menti possano essere ben disposte nel momento in cui entriamo nel Santo dei Santi. Dopo, bacia l'altare e prega - invocando i meriti dei santi, in particolare di quelli le cui reliquie si trovano nell'altare - che Dio sia indulgente verso i suoi peccati. Nella «Messa alta» [Messa solenne], il prete incensa il crocifisso e poi l'altare[10] e lo fa in modo tale da coprire di incenso ogni parte dell'altare. Un diagramma del Messale descrive il modo preciso in cui ciò va fatto. Questo atto ci ricorda che l'altare rappresenta Cristo. Dom Guéranger riporta il significato scritturistico di quest'uso:

«La santa Chiesa ha preso in prestito questa cerimonia dal Cielo stesso, dove l'ha contemplata san Giovanni. Nella sua Apocalisse, egli ha visto un angelo ritto in piedi, con un incensiere d'oro, presso l'altare sul quale si trovava l'Agnello, circondato dai ventiquattro vegliardi (cf. Ap 8,3-4). Egli ci descrive quest'angelo mentre offre a Dio le preghiere dei santi, che sono simboleggiate dall'incenso. Perciò la nostra santa Madre, la Chiesa, la Sposa fedele di Cristo, desidera fare come si fa in Cielo»[11].

I riti iniziali nella forma ordinaria

La forma ordinaria del Rito Romano inizia enfatizzando la presenza del popolo radunato, prima di menzionare la processione del sacerdote e dei ministri verso l'altare, processione accompagnata dal canto introitale. La sostituzione degli inni con le antifone di introito e di comunione ha in effetti implicato la perdita di questi testi propri della Messa. Sebbene essi siano stati tradotti nelle lingue vernacole assieme agli altri testi, è in verità raro sentirli cantare, soprattutto nelle parrocchie. Nondimeno, la liturgia inizia con il canto, durante il quale il prete può incensare l'altare. Le parole iniziali della Messa sono le stesse in entrambe le forme: «Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo». Gudati dal celebrante, sacerdote e fedeli fanno insieme questo gesto, superando così il tempo che è trascorso tra la morte storica di Cristo sulla croce e il Sacrificio di Cristo sul Calvario, reso presente sull'altare ogni volta che viene celebrata la Messa. Come scrive padre Jeremy Driscoll, «I nostri corpi saranno trasportati nel corpo che fu appeso sulla croce, e questa partecipazione alla morte di Cristo è la rivelazione del mistero trinitario»[12].

«Nel nome» suggerisce che noi affidiamo la celebrazione al nome della Trinità. Con il battesimo, noi siamo immersi ed affidati al nome di Dio. Come nel battesimo veniamo sepolti e risuscitiamo con Cristo, così nel fare il segno di croce, noi rinnoviamo attivamente la nostra fede nel nome trinitario di Dio. Il segno della croce non è solo il modo tradizionale con cui i cattolici iniziano a pregare, ma è al contrario il modo più ovvio e più forte di iniziare a farlo. L'Amen è l'assenso solenne di coloro che rispondono.

Il «saluto apostolico» accoglie l'assemblea. Viene chiamato così perché è ispirato alle lettere di san Paolo. Il sacerdote può usare il Dominus Vobiscum, oppure può scegliere tra diverse formule. Qualunque sia la sua scelta, certamente non dovrà banalizzare tale saluto dicendo «Buon giorno». Il saluto liturgico è formalizzato perché il sacerdote saluta i fedeli nel suo specifico ruolo sacramentale per cui, in persona Christi capitis[13], egli saluta l'assemblea radunata da Dio. L'assemblea perciò non risponde «Buon giorno, padre», bensì «e con il tuo spirito». Scrive ancora Driscoll: «I fedeli si rivolgono allo "spirito" del sacerdote; cioè, a quella profondissima parte interiore del suo essere, nella quale egli è stato ordinato esattamente per guidare il popolo in questa sacra azione»[14].

Il sacerdote, poi, guida i fedeli col rito penitenziale, nel richiamare il popolo a riconoscere i propri peccati e a chiedere la misericordia di Dio. Nel Messale della forma ordinaria c'è una certa varietà di scelta. Il Confiteor, che qui è detto tutti insieme, incoraggia ognuno a pregare per l'altro e invoca la comunione dei santi perché ci assista. Un'altra forma richiama i versetti che seguono l'Indulgentiam nella forma straordinaria[15]. Entrambe le forme dell'atto penitenziale sono seguite dal Misereatur e dal Kyrie, la cui ripetizione indica le persistenti suppliche di misericordia. La terza forma consiste in una serie di petizioni, spesso legate al tempo liturgico, dette anche «tropi», seguiti dall'invocazione Kyrie eleison oppure Christe eleison[16]. La domenica, nelle feste o in occasioni speciali, il prete intona di seguito il Gloria, il canto degli angeli, cui si uniscono i presenti, o che è cantato dal coro che rappresenta i fedeli.

L'orazione principale, o colletta, conclude il ruolo del sacerdote nei riti iniziali della Messa. L'invito «Preghiamo» è seguito da un breve silenzio. Il silenzio parla profondamente all'essere interiore. Nella forma straordinaria esso è una componente naturale, nella forma ordinaria è considerato una risposta adeguata e umile al mistero. Il nome di «colletta» dato a questa orazione viene dal verbo latino colligere che indica il mettere insieme pezzi sparsi, per formare un'unità. La liturgia della Chiesa, attraverso la bocca del sacerdote, mette nei cuori dei fedeli una preghiera che riassume ciò per cui tutti dovremmo pregare. Non solo la colletta ci incoraggia a guardare oltre la piccolezza dei nostri bisogni e richieste, ma anche ad ascoltare la preghiera letta o cantata dal solo sacerdote a nome di tutta la Chiesa, per farne la preghiera di ciascuno di noi. Dopo di ciò, orientati verso Dio e dediti al culto della beata Trinità nel servizio della sacra liturgia della Chiesa, prete e fedeli insieme possono essere meglio sintonizzati per ascoltare la dolce voce che ci chiama affinché con la grazia di Dio giungiamo finalmente «alle più alte cime di scienza e di virtù»[17].


[Traduzione dall'inglese di don Mauro Gagliardi]


Note

1) Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 1.

2) La Praeparatio nel Missale Romanum del 1962 è più ampia.

3) Missale Romanum, Editio Typica Tertia, Typis Vaticanis 2002, 1289-1291.

4) Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 28.

5) Institutio Generalis Missalis Romani (IGMR), n. 93.

6) Cf. IGMR, n. 95.

7) IGMR, n. 96.

8) «[...] signat se signo crucis a fronte ad pectus, et clara voce dicit...»: Missale Romanum 1962.

9) P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, tr. L. Shepherd, Stanbrook Abbey, Worcestershire 1885, 7.

10) A. FORTESCUE - J.B. O'CONNELL - A. REID, The Ceremonies of the Roman Rite Described, 14th ed., St Michael's Abbey Press, Farnborough 2003, 142.

11) P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, 8.

12) J. DRISCOLL, What happens at Mass, Gracewing Publishing, Leominster 2005, 21.

13) «Nella persona di Cristo Capo».

14) J. DRISCOLL, What happens at Mass, 25.

15) «Ostende nobis Domine misericordiam tuam...».

16) Un tropo, dal latino tropus, e a volte riferito spregiativamente a farsato, era in origine una frase o un versetto aggiunto come abbellimento o come inserzione nella Messa cantata nel medioevo. Ad esempio il «Kyrie Lux et Origo eleison» della Missa I in Tempore Paschali. Il Messale di san Pio V li eliminò.

17) Regola di san Benedetto, capitolo 73.

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Italia


Il Forum delle associazioni familiari contro il divorzio breve
Il rischio per la società è la "privatizzazione delle relazioni familiari"
ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Dopo la riduzione del periodo tra separazione e divorzio da 5 a 3 anni, si torna ora a chiedere un'ulteriore abbreviamento dei tempi, arrivando a un anno o addirittura a sei mesi. 

“Nella sostanza si vuole un divorzio cash and carry (...) trasformando sempre più la separazione legale a semplice e scomoda anticamera dello scioglimento del vincolo”, ha commentato a questo proposito Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari.

“Oggi come negli anni passati ribadiamo il nostro 'no' a scelte di questo genere”, ha spiegato.

“Non si tratta, ovviamente, di mettere i bastoni tra le ruote alle coppie che vogliono dividersi definitivamente o, addirittura, di assumere un ruolo punitivo nei loro confronti. Nel massimo della comprensione per la sofferenza che accompagna la rottura di un progetto di vita, crediamo che il valore sociale è la stabilità matrimoniale che inevitabilmente va in rotta di collisione con un concetto 'liquido' del matrimonio e delle responsabilità assunte nei confronti della società”.

“La privatizzazione delle relazioni familiari è il vero rischio che sta correndo la nostra società – ha sottolineato –: è evidente che le scelte personali sono e restano tali, ma è altrettanto evidente, oltre che costituzionale, che esse hanno implicazioni di primaria importanza per la società”.

Per questo, Belletti ha chiesto a nome del Forum “che il Parlamento, se di divorzio si deve occupare, non tenti di introdurre percorsi di 'facilitazione' alla rottura dei legami”, “ma costruisca finalmente una rete di servizi di protezione e prevenzione che abbia come obiettivo l’aiuto alle coppie in difficoltà a proseguire il loro cammino di famiglia”.

Nel frattempo, un primo esempio di “divorzio rapido” si è verificato a Firenze, dove due coniugi – lui spagnolo e lei fiorentina – hanno ottenuto il divorzio poco più di un anno dopo il matrimonio, avvenuto in Italia, senza passare quindi per la separazione triennale.

La coppia ha vissuto prevalentemente in Spagna, cosa che ha permesso agli avvocati della donna di chiedere al giudice di Firenze l’applicazione della legge sul “divorzio breve” entrata in vigore in Spagna nel 2005, che permette di chiedere lo scioglimento del matrimonio già tre mesi dopo le nozze e di ottenerlo in un periodo che oscilla tra i tre e i sei mesi.

Nel nostro Paese, il divorzio senza separazione è possibile solo in casi particolari, come la condanna di uno dei due coniugi all'ergastolo.

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Segnalazioni


La Sindone e la scienza

ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Il Master in Scienza e Fede dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, giunto al suo ottavo anno d’attività, ha organizzato recentemente alcuni convegni e una mostra permanente sul tema della Sacra Sindone.

Un ulteriore contributo a questo percorso di ricerca sarà dato dalla conferenza “La Sindone e la scienza”, che sarà tenuta da padre Manuel Carreira, SJ, dell’Universidad Pontificia Comillas di Madrid.

La conferenza, con ingresso libero, si terrà a Roma, martedì 19 gennaio prossimo, alle ore 17,00, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (via degli Aldobrandeschi 190), e sarà trasmessa in videoconferenza anche a Bologna, presso l’Istituto Veritatis Splendor.

In occasione della conferenza sarà possibile visitare la mostra permanente “Chi è l’uomo della Sindone?” che ospita, fra l’altro, una copia della Sindone di Torino, un ologramma e una scultura che cercano di ricostruire in tre dimensioni il corpo dell’uomo sul lenzuolo, ed una riproduzione della corona di spine, dei chiodi e dei flagelli utilizzati, secondo quanto è stato possibile rilevare dall’immagine.

Inoltre alcuni grandi pannelli ripercorrono la storia della Sindone e illustrano le principali ricerche scientifiche degli ultimi anni, con particolare riferimento ai recenti studi nel settore della botanica.

Il Master in Scienza e Fede dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum rientra nel quadro del Progetto STOQ (Science, Theology and the Ontological Quest), portato avanti dallo stesso ateneo insieme ad altre cinque università pontificie: Lateranense, Gregoriana, Santa Croce, Salesiana e San Tommaso d’Aquino, sotto gli auspici del Pontificio Consiglio della Cultura e con il supporto della John Templeton Foundation.


Per informazioni: Tel. 06 665431 – Sito: www.upra.org



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Udienza del mercoledì


Catechesi del Papa sulla nascita degli Ordini francescano e domenicano
In occasione dell'Udienza generale del mercoledì
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale nell'aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Continuando la catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, il Papa si è soffermato su due grandi Ordini mendicanti (francescani e domenicani).




* * *

Cari fratelli e sorelle,

all'inizio del nuovo anno guardiamo alla storia del Cristianesimo, per vedere come si sviluppa una storia e come può essere rinnovata. In essa possiamo vedere che sono i santi, guidati dalla luce di Dio, gli autentici riformatori della vita della Chiesa e della società. Maestri con la parola e testimoni con l’esempio, essi sanno promuovere un rinnovamento ecclesiale stabile e profondo, perché essi stessi sono profondamente rinnovati, sono in contatto con la vera novità: la presenza di Dio nel mondo. Tale consolante realtà, che in ogni generazione cioè nascono santi e portano la creatività del rinnovamento, accompagna costantemente la storia della Chiesa in mezzo alle tristezze e agli aspetti negativi del suo cammino. Vediamo, infatti, secolo per secolo, nascere anche le forze della riforma e del rinnovamento, perché la novità di Dio è inesorabile e dà sempre nuova forza per andare avanti. Così accadde anche nel secolo tredicesimo, con la nascita e lo straordinario sviluppo degli Ordini Mendicanti: un modello di grande rinnovamento in una nuova epoca storica. Essi furono chiamati così per la loro caratteristica di "mendicare", di ricorrere, cioè, umilmente al sostegno economico della gente per vivere il voto di povertà e svolgere la propria missione evangelizzatrice. Degli Ordini Mendicanti che sorsero in quel periodo, i più noti e i più importanti sono i Frati Minori e i Frati Predicatori, conosciuti come Francescani e Domenicani. Essi sono così chiamati dal nome dei loro Fondatori, rispettivamente Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Questi due grandi santi ebbero la capacità di leggere con intelligenza "i segni dei tempi", intuendo le sfide che doveva affrontare la Chiesa del loro tempo.

Una prima sfida era rappresentata dall’espansione di vari gruppi e movimenti di fedeli che, sebbene ispirati da un legittimo desiderio di autentica vita cristiana, si ponevano spesso al di fuori della comunione ecclesiale. Erano in profonda opposizione alla Chiesa ricca e bella che si era sviluppata proprio con la fioritura del monachesimo. In recenti Catechesi mi sono soffermato sulla comunità monastica di Cluny, che aveva sempre più attirato giovani e quindi forze vitali, come pure beni e ricchezze. Si era così sviluppata, logicamente, in un primo momento, una Chiesa ricca di proprietà e anche immobile. Contro questa Chiesa si contrappose l'idea che Cristo venne in terra povero e che la vera Chiesa avrebbe dovuto essere proprio la Chiesa dei poveri; il desiderio di una vera autenticità cristiana si oppose così alla realtà della Chiesa empirica. Si tratta dei cosiddetti movimenti pauperistici del Medioevo. Essi contestavano aspramente il modo di vivere dei sacerdoti e dei monaci del tempo, accusati di aver tradito il Vangelo e di non praticare la povertà come i primi cristiani, e questi movimenti contrapposero al ministero dei Vescovi una propria "gerarchia parallela". Inoltre, per giustificare le proprie scelte, diffusero dottrine incompatibili con la fede cattolica. Ad esempio, il movimento dei Catari o Albigesi ripropose antiche eresie, come la svalutazione e il disprezzo del mondo materiale – l’opposizione contro la ricchezza diventa velocemente opposizione contro la realtà materiale in quanto tale - la negazione della libera volontà, e poi il dualismo, l'esistenza di un secondo principio del male equiparato a Dio. Questi movimenti ebbero successo, specie in Francia e in Italia, non solo per la solida organizzazione, ma anche perché denunciavano un disordine reale nella Chiesa, causato dal comportamento poco esemplare di vari esponenti del clero.

I Francescani e i Domenicani, sulla scia dei loro Fondatori, mostrarono, invece, che era possibile vivere la povertà evangelica, la verità del Vangelo come tale, senza separarsi dalla Chiesa; mostrarono che la Chiesa rimane il vero, autentico luogo del Vangelo e della Scrittura. Anzi, Domenico e Francesco trassero proprio dall’intima comunione con la Chiesa e con il Papato la forza della loro testimonianza. Con una scelta del tutto originale nella storia della vita consacrata, i Membri di questi Ordini non solo rinunciavano al possesso di beni personali, come facevano i monaci sin dall’antichità, ma neppure volevano che fossero intestati alla comunità terreni e beni immobili. Intendevano così testimoniare una vita estremamente sobria, per essere solidali con i poveri e confidare solo nella Provvidenza, vivere ogni giorno della Provvidenza, della fiducia di mettersi nelle mani di Dio. Questo stile personale e comunitario degli Ordini Mendicanti, unito alla totale adesione all’insegnamento della Chiesa e alla sua autorità, fu molto apprezzato dai Pontefici dell’epoca, come Innocenzo III e Onorio III, i quali offrirono il loro pieno sostegno a queste nuove esperienze ecclesiali, riconoscendo in esse la voce dello Spirito. E i frutti non mancarono: i gruppi pauperistici che si erano separati dalla Chiesa rientrarono nella comunione ecclesiale o, lentamente, si ridimensionarono fino a scomparire. Anche oggi, pur vivendo in una società in cui spesso prevale l’"avere" sull’"essere", si è molto sensibili agli esempi di povertà e di solidarietà, che i credenti offrono con scelte coraggiose. Anche oggi non mancano simili iniziative: i movimenti, che partono realmente dalla novità del Vangelo e lo vivono con radicalità nell’oggi, mettendosi nelle mani di Dio, per servire il prossimo. Il mondo, come ricordava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, ascolta volentieri i maestri, quando sono anche testimoni. È questa una lezione da non dimenticare mai nell’opera di diffusione del Vangelo: vivere per primi ciò che si annuncia, essere specchio della carità divina.

Francescani e Domenicani furono testimoni, ma anche maestri. Infatti, un’altra esigenza diffusa nella loro epoca era quella dell’istruzione religiosa. Non pochi fedeli laici, che abitavano nelle città in via di grande espansione, desideravano praticare una vita cristiana spiritualmente intensa. Cercavano dunque di approfondire la conoscenza della fede e di essere guidati nell’arduo, ma entusiasmante cammino della santità. Gli Ordini Mendicanti seppero felicemente venire incontro anche a questa necessità: l'annuncio del Vangelo nella semplicità e nella sua profondità e grandezza era uno scopo, forse lo scopo principale di questo movimento. Con grande zelo, infatti, si dedicarono alla predicazione. Erano molto numerosi i fedeli, spesso vere e proprie folle, che si radunavano per ascoltare i predicatori nelle chiese e nei luoghi all’aperto, pensiamo a sant'Antonio, per esempio. Venivano trattati argomenti vicini alla vita della gente, soprattutto la pratica delle virtù teologali e morali, con esempi concreti, facilmente comprensibili. Inoltre, si insegnavano forme per nutrire la vita di preghiera e la pietà. Ad esempio, i Francescani diffusero molto la devozione verso l’umanità di Cristo, con l’impegno di imitare il Signore. Non sorprende allora che fossero numerosi i fedeli, donne ed uomini, che sceglievano di farsi accompagnare nel cammino cristiano da frati Francescani e Domenicani, direttori spirituali e confessori ricercati e apprezzati. Nacquero, così, associazioni di fedeli laici che si ispiravano alla spiritualità di san Francesco e di san Domenico, adattata al loro stato di vita. Si tratta del Terzo Ordine, sia francescano che domenicano. In altri termini, la proposta di una "santità laicale" conquistò molte persone. Come ha ricordato il Concilio Ecumenico Vaticano II, la chiamata alla santità non è riservata ad alcuni, ma è universale (cfr Lumen gentium, 40). In tutti gli stati di vita, secondo le esigenze di ciascuno di essi, si trova la possibilità di vivere il Vangelo. Anche oggi ogni cristiano deve tendere alla "misura alta della vita cristiana", a qualunque stato di vita appartenga!

L’importanza degli Ordini Mendicanti crebbe così tanto nel Medioevo che Istituzioni laicali, come le organizzazioni del lavoro, le antiche corporazioni e le stesse autorità civili, ricorrevano spesso alla consulenza spirituale dei Membri di tali Ordini per la stesura dei loro regolamenti e, a volte, per la soluzione di contrasti interni ed esterni. I Francescani e i Domenicani diventarono gli animatori spirituali della città medievale. Con grande intuito, essi misero in atto una strategia pastorale adatta alle trasformazioni della società. Poiché molte persone si spostavano dalle campagne nelle città, essi collocarono i loro conventi non più in zone rurali, ma urbane. Inoltre, per svolgere la loro attività a beneficio delle anime, era necessario spostarsi secondo le esigenze pastorali. Con un’altra scelta del tutto innovativa, gli Ordini mendicanti abbandonarono il principio di stabilità, classico del monachesimo antico, per scegliere un altro modo. Minori e Predicatori viaggiavano da un luogo all’altro, con fervore missionario. Di conseguenza, si diedero un’organizzazione diversa rispetto a quella della maggior parte degli Ordini monastici. Al posto della tradizionale autonomia di cui godeva ogni monastero, essi riservarono maggiore importanza all’Ordine in quanto tale e al Superiore Generale, come pure alla struttura delle provincie. Così i Mendicanti erano maggiormente disponibili per le esigenze della Chiesa Universale. Questa flessibilità rese possibile l’invio dei frati più adatti per lo svolgimento di specifiche missioni e gli Ordini Mendicanti raggiunsero l’Africa settentrionale, il Medio Oriente, il Nord Europa. Con questa flessibilità il dinamismo missionario venne rinnovato.

Un’altra grande sfida era rappresentata dalle trasformazioni culturali in atto in quel periodo. Nuove questioni rendevano vivace la discussione nelle università, che sono nate alla fine del XII secolo. Minori e Predicatori non esitarono ad assumere anche questo impegno e, come studenti e professori, entrarono nelle università più famose del tempo, eressero centri di studi, produssero testi di grande valore, diedero vita a vere e proprie scuole di pensiero, furono protagonisti della teologia scolastica nel suo periodo migliore, incisero significativamente nello sviluppo del pensiero. I più grandi pensatori, san Tommaso d'Aquino e san Bonaventura, erano mendicanti, operando proprio con questo dinamismo della nuova evangelizzazione, che ha rinnovato anche il coraggio del pensiero, del dialogo tra ragione e fede. Anche oggi c’è una "carità della e nella verità", una "carità intellettuale" da esercitare, per illuminare le intelligenze e coniugare la fede con la cultura. L’impegno profuso dai Francescani e dai Domenicani nelle università medievali è un invito, cari fedeli, a rendersi presenti nei luoghi di elaborazione del sapere, per proporre, con rispetto e convinzione, la luce del Vangelo sulle questioni fondamentali che interessano l’uomo, la sua dignità, il suo destino eterno. Pensando al ruolo dei Francescani e Domenicani nel Medioevo, al rinnovamento spirituale che suscitarono, al soffio di vita nuova che comunicarono nel mondo, un monaco disse: "In quel tempo il mondo invecchiava. Due Ordini sorsero nella Chiesa, di cui rinnovarono la giovinezza come quella di un’aquila" (Burchard d’Ursperg, Chronicon).

Cari fratelli e sorelle, invochiamo proprio all'inizio di quest'anno lo Spirito Santo, eterna giovinezza della Chiesa: egli faccia sentire ad ognuno l’urgenza di offrire una testimonianza coerente e coraggiosa del Vangelo, affinché non manchino mai santi, che facciano risplendere la Chiesa come sposa sempre pura e bella, senza macchia e senza ruga, capace di attrarre irresistibilmente il mondo verso Cristo, verso la sua salvezza.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

E ora mi rivolgo con affetto ai pellegrini di lingua italiana; siete tanti, grazie per il vostro entusiasmo. In particolare, saluto gli Assistenti ecclesiastici dell’UNITALSI, che in questi giorni stanno celebrando il loro Convegno, ed auspico che quest'importante incontro sia per tutti occasione di rinnovato slancio apostolico e di sempre più generoso servizio ai fratelli. Saluto i rappresentanti dell’Associazione "Centro per la salvaguardia del Creato", di Bergamo e li incoraggio a proseguire con entusiasmo nella loro significativa opera di interesse sociale e morale.

Infine, come sempre, mi rivolgo ai giovani, ai malati ed agli sposi novelli presenti. La Liturgia odierna ricorda Sant'Ilario, Vescovo di Poitiers, vissuto in Francia nel IV secolo, che "fu tenace assertore della divinità di Cristo" (Liturgia), difensore della fede e maestro di verità. Il suo esempio sostenga voi, cari giovani, nella costante e coraggiosa ricerca di Cristo: specialmente voi studenti della diocesi di Caserta, grazie per la vostra presenza e grazie per il vostro impegno nella fede, vedo e sento la forza della vostra fede; incoraggi voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze affinché il Regno di Dio si diffonda in tutto il mondo; ed aiuti voi, cari sposi novelli, ad essere testimoni dell'amore di Cristo nella vita familiare.



[APPELLO DEL SANTO PADRE]

Desidero ora rivolgere un appello per la drammatica situazione in cui si trova Haiti. Il mio pensiero va, in particolare, alla popolazione duramente colpita, poche ore fa, da un devastante terremoto, che ha causato gravi perdite in vite umane, un grande numero di senzatetto e di dispersi e ingenti danni materiali. Invito tutti ad unirsi alla mia preghiera al Signore per le vittime di questa catastrofe e per coloro che ne piangono la scomparsa. Assicuro la mia vicinanza spirituale a chi ha perso la propria casa e a tutte le persone provate in vario modo da questa grave calamità, implorando da Dio consolazione e sollievo nella loro sofferenza. Mi appello alla generosità di tutti, affinché non si faccia mancare a questi fratelli e sorelle che vivono un momento di necessità e di dolore, la nostra concreta solidarietà e il fattivo sostegno della Comunità Internazionale. La Chiesa Cattolica non mancherà di attivarsi immediatamente tramite le sue Istituzioni caritative per venire incontro ai bisogni più immediati della popolazione.

[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]

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Saulo/Paolo di Tarso

ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del prof. Romano Penna, docente di Esegesi del Nuovo Testamento e di Origini Cristiane all'Università Lateranense di Roma, contenuto nel "Codex Pauli", un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell'Anno Paolino.




* * *

Tra tutti i personaggi del Nuovo Testamento la vita dell'apostolo Paolo è quella meglio conosciuta. Sia negli Atti degli Apostoli, sia nelle Lettere è possibile cogliere i diversi dati autobiografici riguardanti Saulo/Paolo (il doppio nome era corrente nell'ebraismo del tempo). Anche la letteratura apocrifa sull'Apostolo, come gli Atti di Paolo e Tecla (II/III secolo), può concorrere con le dovute cautele, a questo scopo. Ma mentre le Lettere paoline sono fonte di prima mano, gli Atti degli Apostoli (se si eccettuano le brevi "sezioni-noi"), attingono a fonti di seconda e terza mano. Il periodo più sicuro della vita di Paolo è quello che va dalla sua "conversione" all'arrivo a Roma come prigioniero.

Occorre però precisare che qui una certa sicurezza si ottiene più a livello di cronologia relativa che assoluta: è cioè abbastanza facile ottenere un rapporto più o meno accettabile fra i vari momenti scaglionantisi all'interno dell'esistenza dell'Apostolo, ma lo è meno stabilire un rapporto irrefutabile rispetto alla datazione esterna della storia del I secolo. Restano inoltre interrogativi parzialmente insoluti: come fu la sua vita prima della conversione? E cosa avvenne dopo il biennio trascorso a Roma?

Questioni cronologiche

I punti di riferimento maggiormente documentabili, ma anche discussi, per una biografia paolina sono tre.

II fatto più sicuro, è dato dalla comparizione di Paolo davanti al proconsole Gallione a Corinto (At 18,12-17).

Da una lettera dell'imperatore Claudio scoperta a Delfi nel 1905, combinata con un testo del Corpus inscriptionum latinarum (CIL 1256) e con Dione Cassio (LX 17,3), si può dedurre, con un possibile ma improbabile scarto di un anno, che Gallione fu «proconsole (anthypatos)» di Acaia tra il maggio del 51 e il maggio del 52. Quindi, nel corso di questo anno, Paolo fu certamente a Corinto. Il secondo dato cronologico è l'editto di Claudio, che cacciò gli ebrei da Roma, datato nell'anno 49. Ma ci sono delle difficoltà: dell'editto, Tacito non parla, e anche Giuseppe Flavio non lo conosce.

In terzo luogo occore stabilire l'anno in cui avvenne il cambio del procuratore della Giudea da Antonio Felice a Porcio Festo, verificatosi dopo l'arresto di Paolo a Gerusalemme al termine del terzo viaggio missionario. Mentre l'opinione tradizionale lo colloca verso il 60, sembrerebbe doversi accettare come più probabile l'anno 55, sulla base di queste fonti:

- Giuseppe Flavio (Ant. XX 182) narra che Felice a Roma, dopo la destituzione, fu salvato dalla protezione del fratello Pallante, ministro delle finanze di Claudio e poi di Nerone (diventato imperatore nel 54);

- Tacito (Ann. XII 14) precisa che Pallante cadde in disgrazia verso la fine del 55, poco prima dell'uccisione di Britannico (figlio di Claudio e Messalina e possibile antagonista di Nerone);

- Svetonio (Cl. 27 combinato con ib. 7 e 14) ci dice che Britannico fu avvelenato poco prima del quattordicesimo compleanno, che doveva cadere il 13 febbraio 56.

Stando così le cose, il procuratore Antonio Felice dovette essere destituito entro l'anno 55, ricevendo, come successore Porcio Festo entro quello stesso anno. Pertanto la notizia di At 24,27 («trascorsi due anni») dovrebbe riferirsi al biennio non della prigionia di Paolo, durata pochi mesi, ma della procura di Antonio Felice.

In tal caso, il viaggio di Paolo da Cesarea a Roma si svolge tra l'autunno del 55 e la primavera del 56 (cfr. At 27,12; 28,11), e il biennio da lui trascorso a Roma (At 28,30) sarebbe compreso tra il 56 e il 58.

Su queste basi, si possono proporre due ipotesi di sistemazione cronologica, limitandoci ai fatti maggiori:

A. La cronologia tradizionale pone la conversione nel 34-35; il primo viaggio missionario (Pisidia e Licaonia) nel 45-49; il concilio di Gerusalemme nel 48-49; il secondo viaggio missionario (Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto) nel 50-52; terzo viaggio (Efeso, Macedonia, Corinto, Mileto) nel 53-57/58; l'arresto a Gerusalemme e un biennio di prigionia nel 57-59 o 58-60 (in questi anni avviene il cambio del procuratore); l'arrivo a Roma nel 60-61 e conseguente biennio di prigionia; viaggio in Spagna e ritorno nell'area del Mar Egeo; secondo arresto e martirio a Roma tra il 64 e il 68. Secondo questa cronologia, le lettere (tutte e tredici) si scaglionerebbero tra il 51 e il 67.

B. Tra le molte e discordanti proposte, che si discostano da quella comune, proponiamo la ricostruzione abbastanza recente e originale di G. Lüdemann, che si fonda su Gal 1,6-2,14 e sul criterio delle collette per i poveri di Gerusalemme. Lüdemann struttura la vita di Paolo non secondo i viaggi missionari, ma secondo le visite compiute a Gerusalemme (il tutto con lo scarto di tre anni, a seconda che si ponga la morte di Gesù nell'anno 27, da lui preferito, o nel 30, che qui seguiamo): la conversione nel 33; la prima visita a Gerusalemme («videre Petrum», Gal 1,18) nel 36; il viaggio con Barnaba in Siria-Cilicia (e Galazia del Sud: At 13-14), più il viaggio missionario autonomo a Filippi,Tessalonica, Atene, Corinto fra il 37 e il 41; in concomitanza, la fondazione delle comunità galatiche; la seconda visita a Gerusalemme per il concilio nel 50; a Efeso nel 51; la «visita intermedia» a Corinto nel 52 (e incontro con Gallione); Efeso - Macedonia - Corinto nel 53-55; la terza visita a Gerusalemme per portare le collette nel 55; in quest'anno avviene il cambio del procuratore; l'arrivo a Roma nel 56 e la prigionia biennale fino al 58. Stando a questa cronologia, le lettere (solo sette autentiche) si pongono tra il 41 e il 58. Secondo Dockx, tra il 58 e il 67 si collocherebbe il viaggio di Paolo in Spagna (cfr. Rm 15,28; lClem 5,7) e un nuovo viaggio in Oriente con l'itinerario Creta - Efeso - Macedonia - Nicopoli - Efeso - Troade documentato dalle lettere pastorali. Secondo l'opinione tradizionale, questi ultimi viaggi si collocherebbero tra il 63 e il 67. Molti autori invece ritengono che Paolo abbia subito il martirio immediatamente allo scadere del biennio di prigionia a Roma (a motivo sia della finale tronca degli Atti, sia della inautenticità delle lettere pastorali).

Profilo della vita di Paolo

Saulo nacque non molti anni dopo Gesù a Tarso in Cilicia, nell'attuale Turchia sud-orientale (cfr. At 21,39). Pur appartenendo a una famiglia di fedele osservanza ebraica (cfr. Fil 3,5-6), già alla nascita ebbe in eredità dal padre la cittadinanza romana (cfr. At 16,37-39; 22,25-29; 25,10-12), che gli permetterà di appellarsi al giudizio diretto dell'imperatore (cfr. At 25,1-12; così faranno poi anche altri cristiani, come leggiamo nella Lettera 10,96 di Plinio il Giovane a Traiano all'inizio del II secolo).

Il nome romano di «Paolo», che egli usa sempre nelle lettere («Saulo» è testimoniato solo da Luca negli Atti), può derivare o da uno scambio per assonanza così da adeguarsi meglio all'ambiente culturale non giudaico, oppure dal nome del patrono romano, che può aver trasformato in liberti gli avi dell'apostolo (i quali si sono forse trasferiti dalla Palestina alla Cilicia in seguito all'intervento di Pompeo nel 63 a.C.).

Nella città di Tarso, che già Senofonte definiva «grande e felice», al tempo di Paolo regnava «un grande zelo per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale»; essa fu la patria di non pochi filosofi stoici, tra cui Crisippo e poi Atenodoro, precettore di Augusto. Paolo vi frequentò certamente una buona scuola elementare greca, anche se probabilmente di ambito giudaico, consistente nell'apprendimento della lingua greca e soprattutto della Bibbia greca, con la quale egli si dimostrerà familiarizzato. È probabile che vi abbia appreso anche elementi di retorica, ma che non abbia studiato i classici della letteratura greca (diversamente dal filosofo ebreo, suo coetaneo, Filone di Alessandria). Stando alla testimonianza del retore-filosofo di poco posteriore, Dione di Prusa (cfr. Oratio 33,47), a Tarso si venerava il dio locale Sandam, assimilato a Eracle, secondo forme cultuali misteriche (morte-reviviscenza della vegetazione).

Questa molteplice componente grecizzante si manifesta variamente in Paolo: il tema stoico dell'autàrcheia (autosufficienza, cfr. Fil 4,12), quello della conoscenza naturale di Dio (cfr. Rm 1,19-20), il metodo retorico della diatriba (cfr. Rm 2,27-3,8), un certo vocabolario antropologico (cfr. 2Cor 4,16-5,9), la conoscenza dei giochi nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27), una citazione di Menandro (ma forse in termini proverbiali: 1Cor 15,33), il concetto di coscienza (cfr. Rm 2,15; 13,5 ecc.).

Nato nella diaspora greca, Paolo si recò a Gerusalemme (dove doveva avere legami di parentela: cfr. At 23,16) per approfondire la sua specifica formazione ebraica ai piedi del grande rabbino Gamaliele I (cfr. At 22,3); qui acquisì anche la tipica conoscenza delle sacre Scritture e in particolare della Torah secondo la scuola dei farisei. Seguendo l'abitudine dei rabbini, imparò ed esercitò un lavoro manuale, consistente nella fabbricazione di tende o coperte da campo, che si può intendere anche come lavorazione del cuoio (cfr. At 18,3: skenopoiòs). Anche come apostolo, egli non vorrà gravare sulle sue chiese, ma lavorerà con le proprie mani per provvedere alle necessità del sostentamento (cfr. At 20,34; e soprattutto 1Cor 9,7-15; 2Cor 12,13).

Qualche moderno ha suggerito che Paolo si fosse pure sposato, rimanendo poi vedovo o abbandonato dalla moglie in seguito alla sua conversione. Il matrimonio era sicuramente il normale costume rabbinico; il Talmud babilonese ci attesta l'unica eccezione di Rabbi Ben Azzaj, della fine del I secolo, il quale, rimproverato del suo celibato, rispondeva: «Che devo fare, se la mia anima brama la Torah? Il mondo può essere conservato da altri!»; certo Paolo era stabilmente solo, quando scriveva la Prima lettera ai Corinzi (cfr. 7,8; 9,5).

Non si ha nessun indizio di qualche contatto con Gesù di Nazaret, crocifisso probabilmente l'anno 30, anche se è verosimile che Paolo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell'anno. Il suo primo approccio sicuro con il nascente cristianesimo lo ebbe a Gerusalemme con il gruppo giudeo-ellenistico di Stefano e compagni; dev'essere stato per lui, fariseo, qualche cosa di scioccante, tanto da infuriarlo, sentirli «pronunciare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio», cioè contro la Torah e contro il Tempio (At 6,11-14). Di qui il suo zelo persecutorio, che egli stesso ricorderà ai cristiani di Galazia: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).

La sua attività si estendeva fino a Damasco. Ma proprio là subì il capovolgimento della sua vita e fu «ghermito da Cristo» (Fil 3,12), al punto che ciò che prima era un valore per lui diventò spazzatura (cfr. Fil 3,7ss.). Solo Luca negli Atti ci dà una dimensione narrativa del fatto; ma Paolo nelle sue Lettere parla sempre e soltanto, in termini sobri e personalistici, di un decisivo incontro con il Signore risorto, che fece di lui insieme un cristiano e un apostolo (cfr. 1Cor 9,1; 15,8-10; 2Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,7-12). Secondo il racconto degli Atti, la repentinità dell'evento si combinò con una specifica iniziazione da parte della comunità cristiana tramite lo sconosciuto Anania (cfr. At 9,1-18). Si era attorno all'anno 33 (o 35).

D'ora in poi tutte le energie dell'ex fariseo sono poste al servizio di Gesù Cristo e del vangelo. Il suo temperamento focoso (cfr. 1Cor 4,19-21; Fil 3,2), non alieno da momenti di vera tenerezza (cfr. 1Ts 2,7-9; Gal 4,18-19), rimane intatto, ed è la prova concreta che il cristianesimo non mortifica l'umanità di nessuno. Ma ormai la sua è l'esistenza appassionata di un apostolo che si fa «tutto a tutti» (1Cor 9,22). Ha un primo significativo incontro con «Cefa», cioè Pietro, a Gerusalemme (Gal 1,18). Strutturalmente teso verso nuovi orizzonti, soprattutto sentendo acuto il problema dell'accesso dei pagani al Dio biblico della grazia, che in Gesù Cristo si è reso scandalosamente disponibile a tutti senza eccezioni, egli non trova vita facile all'interno della Chiesa-madre di Gerusalemme, di tendenza conservatrice. È costretto a rifugiarsi a Tarso.

Il primo viaggio missionario

Intanto, a seguito della persecuzione contro il gruppo di Stefano, alcuni di questi sono giunti ad Antiochia di Siria, dove per la prima volta il vangelo viene predicato ai pagani e da essi accettato, così che i discepoli di Gesù in quella metropoli vengono chiamati per la prima volta «cristiani», alla greca (At 11,25-26). E Barnaba, un giudeo-cristiano di origine cipriota ma appartenente alla Chiesa di Gerusalemme, allora si reca a Tarso a prelevare Paolo perché collabori alle promettenti prospettive missionarie nella città siriana. Qui si impegnano insieme per un anno intero. Poi ancora insieme, mandati dalla Chiesa antiochena, intraprendono un viaggio missionario come nuova esigenza di espansione del vangelo (cfr. At 13-14). Salpati da Seleucia, predicano a Cipro, incontrandovi il proconsole romano Sergio Paolo; di qui proseguono per l'Anatolia centro-meridionale, toccando i seguenti centri abitati: Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, e poi le città della Licaonia, Listra e Derbe; di volta in volta, il racconto di Luca fa vedere che, mentre i giudei si oppongono attivamente all'annuncio evangelico, i pagani invece lo accolgono gioiosamente.

Tornati sui propri passi ad Antiochia di Siria, alcuni cristiani venuti dalla Giudea si oppongono alla loro metodologia missionaria, che prescinde dalla circoncisione e in genere dalla legge mosaica; il contrasto rende così necessario quello che viene chiamato il concilio di Gerusalemme. Qui per l'intervento di Pietro e di Giacomo, fratello del Signore, si viene a un compromesso: è riconosciuto l'apostolato di Paolo, con l'accordo che egli si rivolga ai pagani (lasciando i circoncisi a Giacomo, Cefa e Giovanni), purché egli si ricordi di fare collette per i poveri della Chiesa gerosolimitana (cfr. Gal 2,1-10); Luca aggiunge anche la richiesta di quattro clausole mosaiche, a cui i pagani avrebbero dovuto attenersi pur rinunciando alla circoncisione (cioè: astenersi dalle carni immolate agli dei, dal sangue, dagli animali soffocati e dai matrimoni proibiti dalla legge levitica), ma Paolo nelle sue Lettere non dimostra di conoscere queste disposizioni. Siamo con ciò nell'anno 49 (o al massimo al 50).

Paolo ritorna ad Antiochia di Siria, dove in una non meglio precisata circostanza rimprovera Pietro, in nome della «verità del vangelo», per la sua doppiezza a proposito delle prescrizioni dietetiche giudaiche (cfr. Gal 2,11-14). La metropoli siriana, che era la terza città dell'impero dopo Roma e Alessandria, diventa per Paolo la sede abituale e il normale punto di riferimento dopo i suoi viaggi (un po' come Cafarnao per Gesù). Ma è poco più che un pied-à-terre. I viaggi per la fondazione e la cura pastorale delle molte chiese da lui suscitate lo impegnano per tutto il resto della vita, assorbendo le sue energie migliori, nonostante le noie di una non meglio identificabile malattia, che è stata variamente diagnosticata come cecità, disfasia, epilessia, febbri malariche (cfr. 2Cor 11,6; Gal 4,13-15; forse 2Cor 12,7-9).

Il suo metodo di evangelizzazione lo porta a privilegiare i grandi agglomerati urbani del tempo, dove si rivolge in ordine di preferenza ai poveri, agli intellettuali e ai benestanti (borghesia del commercio). Gli immancabili avversari giudeo-cristiani gli sono sempre alle calcagna (cfr. 2Cor 11,13-15.22-23; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17.18; e anche Col 2,8).

Il secondo viaggio missionario

Un secondo e più impegnativo viaggio missionario, senza Barnaba, ha il seguente itinerario: Paolo parte da Antiochia di Siria insieme a Sila, passa via terra per Listra, dove prende con sé Timoteo, poi per la Frigia, la Galazia, la Misia, fino a Troade sull'Egeo settentrionale; di qui salpa per l'Europa, toccando l'isola di Samotracia, e poi per le città di Neapoli, Filippi, Anfipoli, Apollonia, Tessalonica, Berèa, giunge ad Atene, dove tiene il celebre discorso dell'Areopago (At 17,16-34), e infine a Corinto. In quest'ultima città si ferma un anno e mezzo, scrive la Prima lettera ai Tessalonicesi, è osteggiato dai giudei che lo deferiscono al tribunale del proconsole romano Gallione (fratello di Seneca), ma suscita una delle chiese più vivaci di tutto il cristianesimo primitivo. Riparte da Cencre (il porto orientale di Corinto) e, toccando appena Efeso e poi Cesarea Marittima, sale fino a Gerusalemme per tornare ad Antiochia di Siria.

Di là intraprende il suo ultimo viaggio missionario: attraverso la Galazia e la Frigia, giunge a Efeso, dove si ferma per più di due anni. Qui, abbandonata la sinagoga, «continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certoTiranno» (At 19,9: il cosiddetto testo occidentale precisa che vi insegnava dalle ore 11 alle ore 16). Da Efeso intrattiene una nutrita corrispondenza con la Chiesa di Corinto, dove si reca una seconda volta via mare, subendo una non meglio precisata offesa (cfr. 2Cor 2,5-11). Di qui scrive anche la lettera ai Galati, vero manifesto della libertà cristiana, per opporsi al tentativo di giudaizzazione di queste chiese.

A Efeso sperimenta anche una sollevazione ostile, provocata dall'argentiere Demetrio in nome della dea Artemide, di cui la città ospitava il tempio Artemision (computato tra le sette meraviglie del mondo). È qui che probabilmente conosce anche una prigionia, dalla quale scrive la Lettera ai Filippesi e il biglietto a Filemone. Lasciata la capitale della provincia d'Asia, Paolo si dirige verso nord e, attraversata la Macedonia, giunge in Grecia (probabilmente a Corinto), da dove scrive la sua lettera più importante, quella ai Romani, in cui tra l'altro annuncia il progetto di recarsi in Spagna.

Ripartito dalla Grecia in direzione settentrionale, dalla macedonica Filippi salpa verso Troade, e sempre per via mare, toccando Asso, Mitilene, Chio, Samo, Mileto (dove tiene un importante discorso agli anziani della Chiesa di Efeso fatti venire là), Cos, Rodi, Pàtara, Cesarea Marittima, giunge finalmente a Gerusalemme per recarvi le collette messe insieme soprattutto in Macedonia e in Acaia.

A Gerusalemme si ripresenta il contrasto con Giacomo e l'interpretazione giudeo-cristiana del vangelo. E in occasione di un subbuglio suscitato contro di lui da alcuni giudei della provincia d'Asia, con l'accusa di opporsi alle istituzioni del giudaismo, viene arrestato da un tribuno della coorte romana. Paolo si difende ripetutamente, sia in pubblico di fronte ai giudei della città sia di fronte al sinedrio, e anche davanti al procuratore Antonio Felice a Cesarea Marittima, dove viene trasferito. Avvenuto poi il cambio del procuratore, di fronte a Porcio Festo il prigioniero Paolo si appella all'imperatore e, dopo un altro discorso di difesa davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice (che sarà amante dell'imperatore Tito), viene deferito a Roma.

Alla volta di Roma

Il viaggio verso la capitale dell'impero seguì questo percorso: con una nave, salpati da Cesarea e passando per Sidone e Cipro, giunsero a Mira di Licia; qui con un'altra nave costeggiarono la Licia fino all'altezza di Cnido, da dove puntarono a sud ovest verso l'isola di Creta, raggiungendo una località chiamata Buoni Porti; nonostante la pericolosità della navigazione per l'avanzata stagione autunnale, ripartono verso l'Italia, ma li sorprende una lunga e violenta tempesta che si risolve in un fortunoso naufragio all'isola di Malta; salpano di nuovo dopo tre mesi con un'altra nave, che aveva svernato nell'isola, e approdano a Siracusa in Sicilia, poi a Reggio Calabria, per giungere infine al porto di Pozzuoli; percorrendo di qui la via Campana fino a Capua e poi la via Appia, gli vennero incontro alcuni cristiani di Roma fino al Foro Appio (circa 72 chilometri dalla capitale); giunto finalmente a Roma, vi trascorse sotto custodia militare due anni interi nella casa che aveva preso a pigione. A seconda della cronologia adottata, come abbiamo detto sopra, questa scadenza ci porta all'anno 58 oppure all'anno 63.

Dopo questa data non abbiamo più notizie sicure, non sapendo con esattezza se il processo ebbe esito negativo o positivo. Probabilmente comunque il viaggio in Spagna non ebbe luogo; nessuna fonte antica lo descrive: solo gli apocrifi Atti di Pietro, della fine del secolo II, narrano della partenza di Paolo da Roma, ma probabilmente per pura dipendenza da Rm 15,24.28 (il testo della Lettera di Clemente, capitolo 5, è troppo generico). La tesi tradizionale di un nuovo viaggio in Oriente (Efeso, Creta, Nicopoli in Epiro, Troade) è basata essenzialmente sulle lettere Pastorali, 1-2Tm e Tito, che però oggigiorno vengono diffusamente ritenute deuteropaoline, cioè scritte più tardi da un discepolo.

La morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma sotto l'imperatore Nerone e fu violenta, un martirio. La data del 64, in concomitanza con l'esecuzione dei cristiani accusati dell'incendio della città, non è chiaramente proposta dalla tradizione (cfr. 1Clem 5,6, secondo cui Paolo fu consegnato «per gelosia e invidia», forse dei giudeo-cristiani della capitale). La data del 67 è suggerita da san Gerolamo, De viris illustr. 5 e 12 (due anni dopo la morte di Seneca); da parte sua, Eusebio nel Chronicon suggerisce il 68. Ma, come abbiamo detto, è possibile pensare già al 58.

La più antica testimonianza circa il suo sepolcro sulla via Ostiense risale al presbìtero Gaio sul finire del II secolo: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli; se vorrai recarti al Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa chiesa» (Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. 2,22,2). Una tradizione successiva specifica il martirio come decapitazione alle Acque Salvie, oggi Tre Fontane (Atti di Pietro e Paolo, 80: non anteriori ai secoli IV-V).

Prof. Romano Penna

Pontificia Università Lateranense

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