venerdì 5 marzo 2010

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Servizio quotidiano - 05 marzo 2010

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Benedetto XVI chiede "un'evangelizzazione più profonda" dell'Africa
Ricorda ai Vescovi ugandesi la necessità di difendere la vita e il matrimonio

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Un'evangelizzazione “più profonda” del continente africano che inizi dalla difesa del “diritto sacro alla vita” e dell'istituzione del matrimonio è l'auspicio per il futuro che Benedetto XVI ha rivolto questo venerdì ai Vescovi dell'Uganda, ricevuti in udienza in occasione della loro visita ad limina apostolorum.

Il Pontefice ha accolto i presuli dedicando un primo pensiero “a quanti sono stati colpiti dalle recenti frane nella regione Bududa”, pregando Dio “affinché possa concedere l'eterno riposo alle anime dei defunti e forza e speranza a tutti coloro che soffrono per le conseguenze di questo evento tragico”.

Le catastrofi naturali non fanno altro che aggravare la situazione generale dell'Uganda, che come ha ricordato monsignor Matthias Ssekamanya, Vescovo di Lugazi e presidente della Conferenza Episcopale, nel suo saluto al Pontefice, è già difficile.

“Otteniamo qualche successo, ciononostante abbiamo ancora molte sfide da affrontare per soddisfare le necessità spirituali, pastorali e materiali del nostro popolo”, ha affermato il presule.

“Sappiamo che bisogna ancora fare molto”, ha riconosciuto. “Siamo determinati a lavorare in unità 'con un solo cuore' per utilizzare al massimo le risorse disponibili”.

Eredità per il futuro

Nel suo discorso, il Papa ha ricordato l'importanza della seconda Assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, svoltasi in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2009 e che ha definito un evento “memorabile per la sua esortazione a compiere rinnovati sforzi al servizio di una più profonda evangelizzazione” nel continente africano.

“La forza della parola di Dio e la conoscenza e l'amore di Gesù non possono che trasformare la vita delle persone, migliorando il loro modo di pensare e di agire”, ha affermato.

In questo contesto, ha lasciato ai Vescovi dell'Uganda una serie di legati, iniziando dall'esortazione ad essere “consapevoli della necessità di incoraggiare i cattolici dell'Uganda ad apprezzare pienamente il sacramento del matrimonio nella sua unità e indissolubilità e il diritto sacro alla vita”.

Allo stesso modo, ha raccomandato di “aiutare sacerdoti e laici a resistere alla seduzione della cultura materialistica dell'individualismo che ha messo radici in così tanti Paesi”.

Il Papa ha anche invitato ad “esortare a una pace duratura, basata sulla giustizia e sulla generosità verso i bisognosi, in uno spirito di dialogo e riconciliazione”, mentre circa i rapporti tra le religioni ha chiesto di promuovere “un ecumenismo autentico”, esprimendo particolare vicinanza soprattutto “a quanti sono più vulnerabili alla diffusione delle sette”.

“Continuate a sostenere tutti coloro che, con cuore generoso, si prendono cura dei profughi e degli orfani delle zone lacerate dalla guerra – ha aggiunto –. Incoraggiate quanti assistono le persone afflitte dalla povertà, dall'Aids e da altre malattie, insegnando loro a vedere in chi servono il volto sofferente di Gesù”.

Rinnovare l'evangelizzazione

“Un'evangelizzazione rinnovata crea a sua volta una cultura cattolica più profonda che si radica nella famiglia”, ha constatato il Papa, riconoscendo che i programmi educativi nelle parrocchie, nelle scuole e nelle associazioni e gli interventi dei presuli su materie di interesse comune “stanno diffondendo una cultura cattolica più forte” in Uganda.

“Un grande bene può derivare da laici ben preparati e attivi nei mezzi di comunicazione sociale, nella politica e nella cultura”, ha osservato, sottolineando la necessità di incoraggiare questi fedeli “a essere attivi ed espliciti al servizio di ciò che è nobile e giusto. In questo modo, tutta la società beneficerà di cristiani ferventi e ben preparati, che assumeranno ruoli guida al servizio del bene comune”.

I Vescovi, in quanto primi agenti di evangelizzazione, sono chiamati a “rendere testimonianza della solidarietà concreta scaturita dalla nostra comunione con Cristo”.

In questo contesto, le Diocesi che hanno maggiori risorse, sia materialmente sia spiritualmente, dovrebbero assistere quanti hanno di meno, anche se allo stesso tempo “tutte le comunità hanno il dovere di adoperarsi per l'autosufficienza”.

“È importante che il vostro popolo sviluppi un senso di responsabilità verso di sé, verso la sua comunità e la sua Chiesa, e approfondisca ulteriormente uno spirito cattolico di sensibilità verso le necessità della Chiesa universale”, ha detto il Papa ai presuli.

In questo Anno Sacerdotale, i Vescovi devono poi offrire aiuto, esempio e insegnamento a tutti i presbiteri. “Esortateli alla preghiera e alla vigilanza, in particolare a proposito di ambizioni egoistiche, materiali o politiche, o di un attaccamento eccessivo alla famiglia o al gruppo etnico”, ha chiesto.

Sacerdoti e religiosi richiedono anche “un sostegno costante nella loro vita di celibato e di verginità consacrata”.

“Con il vostro esempio – ha esortato in conclusione – insegnate loro la bellezza di questo stile di vita, della paternità e della maternità spirituali con cui possono arricchire e rendere più profondo l'amore dei fedeli per il Creatore e datore di ogni bene”.

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Dolore di Benedetto XVI per il terremoto in Cile
Messaggio al Presidente della Conferenza Episcopale

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI si è detto “profondamente addolorato” per la notizia del terremoto che ha scosso il Cile all'alba di sabato scorso.

Secondo le autorità, le vittime identificate sono finora 279, anche se il bilancio non è definitivo.

In un messaggio al Presidente della Conferencia Episcopale Cilena, monsignor Alejandro Goic Karmelic, Vescovo di Rancagua, il Papa si dice “profondamente addolorato dalla dolorosa notizia del sisma che ha provocato numerose vittime, feriti e ingenti danni materiali”.

“Offro suffragi per il riposo eterno delle vittime ed elevo fervide preghiere al Signore perché conceda la sua consolazione alle persone colpite da una disgrazia così grande e ispiri in tutti sentimenti di speranza cristiana e di solidarietà fraterna per superare le avversità”, aggiunge.

Allo stesso modo, esorta “le comunità ecclesiali, le istituzioni civili e le persone di buona volontà perché, in questi momenti difficili, prestino un aiuto efficace, con spirito generoso e carità sollecita”.

Il sisma, di magnitudo 8,8, ha avuto come epicentro la zona di Concepción e ha provocato un allarme tsunami in vari Paesi.

Il giorno dopo la tragedia, nei suoi saluti ai pellegrini dopo la recita dell'Angelus, Benedetto XVI ha confessato di essere “spiritualmente vicino alle persone provate da così grave calamità”, per le quali ha implorato da Dio “sollievo nella sofferenza e coraggio in queste avversità”.

“Sono sicuro che non verrà a mancare la solidarietà di tanti, in particolare delle organizzazioni ecclesiali”, ha sottolineato.

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I sacerdoti devono aiutare a vivere la novità della grazia
Prima predica di Quaresima di padre Cantalamessa al Papa e alla Curia

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il compito dei sacerdoti è quello di aiutare i fedeli a vivere la novità della grazia, che contraddistingue il cristianesimo da tutte le altre religioni. E' quanto ha affermato questo venerdì nella sua prima predica di Quaresima padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.

Con la predica tenuta nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, alla presenza di Benedetto XVI e dei membri della Curia romana, padre Cantalamessa ha iniziato le sue meditazioni in preparazione alla Pasqua di quest'anno incentrate sul tema “Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti”, in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

Riflettendo alla luce di 1 Corinzi 4, 1 (“Ognuno ci consideri come servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”) il predicatore della Casa Pontificia ha messo in luce i due compiti essenziali del sacerdote del nuovo Testamento: l'annuncio del Vangelo e l'amministrazione dei sacramenti corrispondenti ai due significati della parola misteri, come verità rivelate e segni efficaci della grazia.

“Per molti secoli – ha osservato – la funzione del sacerdote è stata ridotta quasi esclusivamente al suo ruolo di liturgo e di sacrificatore: 'offrire sacrifici e perdonare i peccati'. È stato il Concilio Vaticano II a rimettere in evidenza, accanto alla funzione cultuale, quella di evangelizzatore”.

Approfondendo poi la novità sostanziale del ministero della nuova Alleanza rispetto a quello dell’antica, il cappuccino ha richiamato l'opposizione tra lettera e Spirito di cui parlava l’Apostolo Paolo, dove “la lettera è […] la legge mosaica scritta su tavole di pietra e, per estensione ogni legge positiva esteriore all’uomo; mentre lo Spirito è la legge interiore, scritta sui cuori”.

E questa legge nuova, o dello Spirito, da cui si sprigiona “la vita nuova” “non è, in senso stretto, quella promulgata da Gesù sul monte delle beatitudini, ma quella da lui incisa nei cuori a Pentecoste”.

Da questo punto di vista, ha detto, “gli apostoli sono la prova vivente di ciò”, perché pur avendo ascoltato “dalla viva voce di Cristo tutti i precetti evangelici” è solo con la Pentecoste che “li vediamo completamente dimentichi di sé e intenti solo a proclamare 'le grandi opere di Dio'”.

Questa legge nuova, ha poi continuato, “agisce attraverso l’amore” che altro non è che “l’amore con cui Dio ama noi e con cui, contemporaneamente, fa sì che noi amiamo lui e il prossimo”.

In questo senso l'amore “crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama”.

Il dovere scaturisce quindi dal dono d'amore, e il decalogo e i precetti evangelici sono il “compimento” della legge che Gesù ha donato all'uomo. Ecco quindi che l’obbedienza diventa “la prova che si vive sotto la grazia”.

Padre Cantalamessa ha poi analizzato l'attualità del pensiero di San Paolo e Sant'Agostino secondo i quali “per salvarsi non basta la natura, il libero arbitrio e la guida della legge, occorre la grazia, cioè occorre Cristo”, che “è esattamente ciò che distingue oggi il cristianesimo da ogni altra religione”.

“Le forme sono cambiante, ma la sostanza è la stessa – ha osservato il cappuccino –. 'Opera della legge', o opera dell’uomo, è ogni pratica umana, quando da essa si fa dipendere la propria salvezza, sia, questa, concepita come comunione con Dio, o come comunione con se stessi e sintonia con le energie dell’universo. Il presupposto è lo stesso: Dio non si dona, lo si conquista!”.

“Ogni religione umana o filosofia religiosa – ha quindi affermato – comincia con il dire all’uomo quello che deve fare per salvarsi: i doveri, le opere, siano esse opere ascetiche esteriori o cammini speculativi verso il proprio io interiore, il Tutto o il Nulla”.

Al contrario, ha continuato, “il cristianesimo non comincia dicendo all’uomo quello che deve fare, ma quello che Dio ha fatto per lui. Gesù non cominciò a predicare dicendo: 'Convertitevi e credete al vangelo affinché il Regno venga a voi'; cominciò dicendo: 'Il regno di Dio è venuto tra voi: convertitevi e credete al vangelo'”.

“Non prima la conversione, poi la salvezza, ma prima la salvezza e poi la conversione”, ha sottolineato.

Non stupisce, ha quindi osservato, che al giorno d'oggi l'uomo moderno sembra nutrire un “istintivo rifiuto” e “una difficoltà ad ammettere l’idea di grazia”. Salvarsi “per grazia”, ha detto, “significa riconoscere la dipendenza da qualcuno e questo risulta la cosa più difficile”.

“Il rifiuto del cristianesimo – ha evidenziato ancora –, in atto a certi livelli della nostra cultura occidentale, quando non è rifiuto della Chiesa e dei cristiani, è rifiuto della grazia”.

Da qui il compito dei sacerdoti di “aiutare i fratelli a vivere la novità della grazia, che è come dire la novità di Cristo”, o meglio predicare “Cristo crocifisso”.

Questo, ha però precisato, “non significa parlare sempre e solo del Cristo del kerygma o del Cristo del dogma, cioè trasformare le prediche in lezioni di cristologia. Significa piuttosto 'ricapitolare tutto in Cristo' (Ef 1,10), fondare ogni dovere su di lui, far servire ogni cosa allo scopo di portare gli uomini alla 'sublime conoscenza di Cristo Gesù Signore'” (Fil 3, 8).

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No della Caritas allo sfruttamento di domestici, baby-sitter e badanti
Chiede per loro la stessa tutela di cui godono gli altri lavoratori

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Caritas Internationalis esorta i Governi e la comunità internazionale a difendere dallo sfruttamento i migranti – in alta percentuale donne – che lavorano come domestici, baby-sitter e badanti.

Chi svolge lavori domestici, afferma in un comunicato, è spesso vittima di traffico e abuso e beneficia raramente “di una qualsiasi forma di protezione legale”.

Gli abusi, riconosce, “possono essere difficili da individuare visto che il posto di lavoro è una casa privata”.

In questo contesto, la Caritas chiede che i domestici abbiano sul luogo di lavoro la stessa protezione legale garantita ad altri lavoratori.

“Al di là del rischio di abusi, i domestici possono non avere una tutela a livello di sicurezza sociale, lavorare troppo o essere sottopagati”, ha ricordato Martina Liebsch, direttore delle Politiche di Caritas Internationalis. “Molti hanno paura di subire rappresaglie da parte dei datori di lavoro se si lamentano con le autorità, e quindi continuano a vivere come schiavi moderni”.

L'Organizzazione Internazionale del Lavoro, l'organismo delle Nazioni Unite responsabile degli standard internazionali di impiego, prenderà in esame una bozza di convenzione per difendere i diritti dei lavoratori domestici nel giugno prossimo.

La Caritas chiede clausole specifiche per i lavoratori domestici migranti, tra cui il fatto che il loro lavoro e la residenza non siano legati a un certo datore di lavoro.

L'organizzazione esorta anche a creare un meccanismo per presentare rimostranze e uno schema di compensazione per i lavoratori domestici migranti che sia indipendente dal loro status legale.

Il lavoro domestico, aggiunge, “dovrebbe essere regolato dalla creazione di agenzie di impiego che agiscano come intermediari tra datori di lavoro e lavoratori migranti”.

Queste strutture dovrebbero anche “assicurare il rispetto degli standard lavorativi e la qualità del lavoro svolto”.

Di fronte alla richiesta sempre maggiore di lavoratori domestici e badanti, la Caritas esorta infine i Governi a creare canali per una migrazione lavorativa legale per chi desidera lasciare il proprio Paese.

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Il Papa nomina nuovi membri per il Comitato dei Congressi Eucaristici
Tra questi, i Cardinali Cañizares e Turkson

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha nominato i Cardinali Peter Kodwo Appiah Turkson e Antonio Cañizares e i sacerdoti Wojciech Giertych e Theodore Mascarenhas membri del Pontifício Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali.

Si tratta, rispettivamente, del presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, del prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, di un teologo domenicano della Casa Pontificia e di un officiale del Pontificio Consiglio della Cultura, appartenente alla Società dei Missionari di San Francesco Saverio.

Il Comitato Pontificio per i Congressi Eucaristici Internazionali promuove la preparazione e la celebrazione periodica di questi eventi.

Le nuove nomine per questa Commissione, diffuse dalla Sala Stampa della Santa Sede questo giovedì, avvengono mentre sono in atto i preparativi per il prossimo Congresso Eucaristico Internazionale, che si svolgerà a Dublino (Irlanda) nel 2012.

Il Congresso avrà come tema “L'Eucaristia: comunione con Cristo e tra di noi”, e sarà celebrato dal 10 al 17 giugno.

Oltre al Comitato Pontificio, in questo caso esiste anche un comitato locale che ha già avviato i suoi preparativi.

Questa commissione locale è presieduta dall'Arcivescovo dell'Arcidiocesi, monsignor Diarmuid Martin, e ha come segretario padre Kevin Doran, consultore della Congregazione per l'Educazione Cattolica.

I Congressi Eucaristici Internazionali si svolgono ogni quattro anni. L'ultimo è stato quello di Québec (Canada), nel giugno 2008.

Il Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici Internazionali è stato istituito nel 1879 da Papa Leone XIII, con statuto approvato nel 1986 da Giovanni Paolo II.

Il Comitato è situato nel Palazzo di San Callisto, in Vaticano, e i suoi fini e le sue competenze consistono, in base ai suoi statuti, nel “far sempre meglio conoscere, amare e servire Nostro Signore Gesù Cristo nel suo Mistero Eucaristico, centro della vita della Chiesa e della sua missione per la salvezza del mondo”.

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Notizie dal mondo


"E' ora di rimboccarsi le maniche e iniziare a ricostruire il Paese"
Lettera del Rettor maggiore dei Salesiani dopo aver visitato Haiti

di Nieves San Martín

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il Rettor maggiore dei Salesiani, padre Pascual Chávez, ha visitato dal 12 al 15 febbraio Haiti, sconvolta dal terremoto del 12 gennaio. Dopo il suo viaggio, ha scritto una lettera ai Salesiani in cui li invita a “rimboccarsi le maniche e iniziare a ricostruire il Paese”.

Fin dal primo giorno del terremoto, padre Chávez ha seguito da vicino la situazione, ma riteneva “necessario, importante e significativo andare personalmente ad Haiti per far sentire la vicinanza, la fraternità e la solidarietà della Congregazione nella persona del Rettor maggiore”, scrive.

“Volevo condividere da vicino la sofferenza e l'incertezza in cui vive la popolazione. Volevo conoscere meglio la situazione di quelle case salesiane che sono rimaste parzialmente o totalmente distrutte, soprattutto quelle della zona di Port-au-Prince, e riflettere con il superiore della Visitatoria e il suo Consiglio sulle opzioni per l'immediato futuro”, sottolinea.

“Sono rimasto sopraffatto dall'ampiezza della distruzione – scrive –, dal paesaggio apocalittico di morte, sofferenza e disperazione”. “Sembra che la città, in quei 28 secondi di durata della tremenda scossa, abbia perso la testa e il cuore. In effetti è proprio così, perché da quel momento c'è un'assoluta mancanza di leadership, e la vita, estremamente mortificata, continua ad andare avanti più per inerzia e lotta per la sopravvivenza che per un'organizzazione sociale che la sostenga e la stimoli”.

Mentre ascoltava le testimonianze dei sopravvissuti, segnala, cercava “di sentire la voce di Dio che, come il sangue di Abele, grida con la voce delle migliaia di morti sepolte nelle fosse comuni o ancora sotto le macerie”.

“Cercavo di ascoltare Dio che stava parlando attraverso il rumore sordo delle migliaia di persone che cercano di vivere nelle tende fornite dagli organismi internazionali o costruite con stracci uniti in qualsiasi modo. Cercavo di aprire le orecchie e il cuore al grido di Dio che si faceva sentire, in mezzo alla rabbia e alla sensazione di impotenza, di quelli che vedono come tutto ciò che avevano costruito – poco o molto – sia svanito nel fumo, nel nulla. Si calcola che le persone rimaste senza un tetto siano tra le 300.000 e le 500.000”.

“In questo caso la distruzione e la morte sono state ancor maggiori a causa della miseria in tutti i sensi”, ha sottolineato.

“Per questo, la sfida oggi non può essere solo rialzare i muri degli edifici, delle case e delle chiese distrutte, ma far rinascere Haiti costruendola in condizioni di vita davvero umana, dove i diritti, tutti i diritti, siano per tutti e non un privilegio di alcuni”.

“Anche se la situazione d'emergenza può durare almeno altri due mesi, se è vero quello che affermano coloro che stanno gestendo questa fase, è giunta l'ora di rimboccarsi le maniche e iniziare a ricostruire il Paese, ancora meglio, di farlo risorgere dalle sue ceneri”, esorta il rettor maggiore dei Salesiani.

“Perché questo sogno diventi realtà, non si parte dal nulla, ma in primo luogo dagli stessi haitiani – afferma –, chiamati più che mai ad essere protagonisti di questa nuova fase della loro storia. Non son soli. Ancor di più, esorta il fatto di vedere numerose organizzazioni (80) seriamente impegnate in questo difficile compito, insieme a moltissime persone di buona volontà desiderose di seminare speranza e di costruire un futuro per il popolo haitiano”.

“Per questo l'apertura delle nostre case, anche se gravemente danneggiate – mi riferisco a quelle dei Salesiani –, per accogliere gli sfollati, con lo sforzo di farli sentire bene pur se in mezzo alla loro tragedia, così come l'organizzazione di questi campi di rifugiati e la scelta di vivere in tende come loro mi hanno infuso una grande gioia e l'orgoglio per i miei confratelli salesiani”, segnala.

Padre Chávez afferma di sentire “la necessità di rinnovare il nostro impegno nella rinascita del Paese, rifondando allo stesso tempo la Congregazione con presenze che rispondano alle aspettative e alle necessità della società haitiana, della Chiesa e dei giovani”, e segnala che “più che alzare nuovamente i muri si tratta di un cambiamento di mentalità”.

In questo senso, spiega, “ha iniziato ad essere eseguito un piano immediato che prevede la riorganizzazione della Visitatoria a tutti i livelli, incluso quello della rifondazione delle opere, della revisione della programmazione pastorale in generale, e in certi ambienti specifici, tenendo sempre presenti, in modo particolare, le necessità della società, della Chiesa e dei giovani”.

Considerando il presente e il futuro, ritiene prioritario “continuare a far funzionare le scuole e i centri giovanili in cui si possano costruire o ricostruire il prima possibile le opere che sono state smantellate. La priorità della cura e dell'istruzione dei giovani è assoluta, tanto più che ciò che è in gioco è la creazione di una nuova cultura, attraverso una nuova educazione, capace di costruire la nuova Haiti”.

Ricorda anche che “il prossimo anno la Visitatoria ‘Beato Felipe Rinaldi’ di Haiti celebrerà il 75° anniversario della presenza nel Paese. Per i fratelli haitiani sarà un autentico giubileo, e il mio desiderio è che già allora possiamo vedere la rifondazione del carisma come un rinnovato dono di Dio per i giovani haitiani”.

Il Rettor maggiore conclude poi la sua lettera affidando “a Maria questa nuova fase della storia. Ella ci guidi per sapere essere all'altezza della sfida. E vi benedica tutti”.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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Le Chiese cercano un accordo nell'Est Europa
Cattolici e ortodossi dibattono su strategie di riconciliazione

VARSAVIA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Rappresentanti della Chiesa ortodossa russa e della Chiesa cattolica in Polonia hanno celebrato un incontro la scorsa settimana per discutere i passi da compiere in vista della riconciliazione tra i due Paesi.

Lo segnala un comunicato del Dipartimento per le Relazioni Ecclesiastiche Esterne del Patriarcato di Mosca.

Secondo il testo, la visita a Varsavia, giovedì e venerdì scorsi, ha aiutato a “dibattere la possibile partecipazione delle Chiese alla costruzione di buone relazioni di vicinanza tra le persone di Polonia, Russia, Ucraina e Bielorussia”.

L'incontro si è svolto su invito dell'Arcivescovo Jozef Michalik di Przemysl, presidente della Conferenza Episcopale Polacca, e del metropolita Savva di Varsavia e di tutta la Polonia, che guida la Chiesa ortodossa nel Paese.

I partecipanti hanno discusso sulle misure per il rafforzamento delle relazioni tra i Paesi dell'Est europeo.

Hanno deciso di istituire una commissione di lavoro per predisporre un documento congiunto sulla riconciliazione tra queste Nazioni, sottolineando il contributo delle Chiese a questo sforzo.

Hanno anche proposto di formare una commissione bilaterale e di dibattere temi per il dialogo futuro, suggerendo inoltre di includere membri della Chiesa ortodossa in Polonia e membri della Chiesa cattolica in Russia per partecipare a questa commissione.

Un comunicato finale dell'incontro segnala che “entrambe le parti hanno sottolineato l'importanza storica dell'iniziativa e delle conversazioni, che sono il primo, ed estremamente importante, passo nella via di avvicinamento delle nostre Chiese locali e della riconciliazione tra le nostre Nazioni”.

“Le due Chiese – segnala il comunicato – sperano nell'aiuto della Provvidenza divina e nell'intercessione della Santissima Madre di Dio”.

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Ordo Socialis e la Dottrina Sociale in Germania

di Giovanni Patriarca

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- L’Enciclica “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI è, sin dalla sua pubblicazione, al centro del dibattito culturale internazionale non solo tra gli addetti ai lavori ma anche, grazie ad una prosa chiara e diretta, fra chi è apparentemente estraneo alla riflessione economica. Questo ha dato vita ad un rinnovato interesse nei confronti dell’insegnamento sociale della Chiesa.

La lettura e l’eziologia della crisi finanziaria mondiale si è arricchita, quindi, di quella visione antropologica a cui sembrano estranei i grandi teorici perduti fra numeri ed ipotesi statistiche. La centralità della persona e la responsabilità individuale appaiono valori insostituibili e fattori “economicamente” indispensabili per comprendere l’evoluzione della società globale.

Negli ultimi anni la riflessione sulla Dottrina Sociale si è sviluppata anche grazie al prezioso apporto del cenacolo dell’Ordo Socialis. Fuori dai confini tedeschi, questa associazione sembra essere quasi del tutto sconosciuta. Eppure in Germania ha giocato un ruolo fondamentale nella diffusione della teologia morale e del pensiero sociale cattolico.

Ordo Socialis nasce all’indomani della conferenza “Chiesa ed Economia. Responsabilità per il futuro” tenutasi a Roma nel 1985 e a cui presero parte Giovanni Paolo II, il Card. Joseph Höffner, il Card. Agostino Casaroli e il Card. Joseph Ratzinger. Ordo Socialis ha sede a Cologna ed è direttamente legata all’Associazione degli Imprenditori Cattolici Tedeschi (BKU). Il suo obiettivo principale è quello di investigare e comprendere la società e analizzare l’effettivo apporto della Dottrina Sociale della Chiesa nelle politiche sociali.

La ricerca, infatti, si basa principalmente su alcuni temi portanti quali la famiglia, le imprese, le associazioni e la comunità internazionale alla luce dei principi di sussidiarietà e solidarietà. Dal punto di vista della riflessione politica interna, l’intenzione primaria dell’associazione è quella di analizzare il contributo dell’insegnamento sociale cattolico nell’evoluzione dell'economia sociale di mercato in Germania attraverso una serie di interessanti studi sull’ etica d’impresa e la responsabilità sociale nel settore pubblico.

Tra i fondatori dell’associazione si annovera il Card. Josef Höffner (1906-1987), già Arcivescovo di Colonia e Presidente della Conferenza episcopale tedesca dal 1949 al 1963. La sua ricchissima produzione ancora oggi stupisce per la lungimiranza degli assunti e la chiara comprensione delle dinamiche sociali. A lui si legano - oltre all’allora Card. Ratzinger - il Card. Karl Lehmann, Vescovo di Magonza,  l’Arcivescovo di Digione Roland Minnerath e un gruppo di professori e teologi di fama internazionale. 

Del cenacolo, infatti, fanno parte il prof. Lothar Roos (già docente all’Università di Magonza e alla Facoltà Teologica dell’Università della Slesia a Katowice, è il presidente della Josef-Höffner-Gesellschaft di Colonia), il prof.  Anton Rauscher, S.I. (docente alla Sophia University di Tokio dal 1957 al 1960 e ordinario all’Università di Augsburg dal 1971 al 1996, è, inoltre, fondatore e direttore della Katholische Sozialwissenschaftliche Zentralstelle di Mönchengladbach), il prof. Karl-Heinz Peschke, S.V.D. (già docente alla Pontificia Università Urbaniana dal 1984 al 1991, ha insegnato successivamente alla Philosophische-Theologische Hochschule St. Gabriel a Mödling, alla  Philosophische-Theologische Hochschule St. Agustin non lontano da Bonn e alla Philosophische-Theologische Hochschule Benedikt XVI di Heiligenkreuz in Austria) il prof. Wolfgang Ockenfels, O.P. (professore all’Università di Treviri, consigliere ecclesiastico dell’Associazione degli Imprenditori Cattolici Tedeschi e redattore della rivista domenicana “die Neue Ordnung”) e il prof. Herbert Schambeck (docente alle Università di Vienna e di Linz nonché consultore del Pontificio Consiglio per la Famiglia). 

Tra i più giovani studiosi si segnalano il prof. Markus Vogt (docente alla Ludwig-Maximilian-Universität di Monaco e membro del gruppo di lavoro sulle questioni Ecologiche della Conferenza Episcopale Tedesca)  e la prof.ssa Dr. Ursula Nothelle-Wildfeuer (ordinario all’Università di Friburgo, componente del gruppo di lavoro sulle politiche sociali della Conferenza Episcopale Tedesca, consultore della Konrad-Adenauer-Stiftung e docente alla Cattedra per lo studio dell’Economia Sociale di Mercato all’Università Card. S. Wyszynski di Varsavia).

Si deve, inoltre, ricordare il dr. Peter H. Warhahn (1916-1996), fondatore del BKU, per i suoi importanti contributi all’etica d’impresa.  

Ogni anno, sotto l’egida di Ordo Socialis, vengono pubblicati, non solo in lingua tedesca, alcuni saggi di indubbia importanza tanto da essere considerati punti di riferimento essenziali per qualsiasi riflessione futura in questo campo di studio.  


 

[Per maggiori informazioni: http://www.ordosocialis.de/http://www.bku.de/]

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Italia


Perseguitato in Ucraina il pronipote del cardinale Slipyj
Lo rivela una interrogazione firmata da senatori italiani

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il ventottenne Anatoliy Slipyj, pronipote di quel cardinale Josef Slipyj (1892-1984) che fu prigioniero per diciotto anni nei gulag sovietici, si trova attualmente rifugiato in Italia, dopo essere stato incarcerato, torturato e picchiato.

È questa l'accusa che lancia il Senato della Repubblica d'Italia, attraverso un'interrogazione presentata ai ministri degli Esteri e della Giustizia, Franco Frattini e Angelino Alfano, e firmata dai senatori Stefano De Lillo, Paolo Barelli, Raffaele Calabrò, Riccardo Conti, Ulisse Di Giacomo, Vincenzo Galioto, Piergiorgio Massidda, Paolo Tancredi e Achille Totaro.

I parlamentari interroganti assicurano che il signor Slipyj è “vittima di una persecuzione di carattere giudiziario nel suo Paese di provenienza, l'Ucraina”.

Le drammatiche vicende personali e della sua famiglia “parrebbero potersi ascrivere a notevoli pressioni politiche esercitate dal Governo allora in carica nei confronti del signor Slipyj per il grado di parentela che lo lega al cardinale Josyf Slipyj”, affermano i senatori.

“Come è noto il cardinale Slipyj è stato un coraggioso testimone di libertà e di fede per il mondo cattolico, mentre per il regime comunista ucraino, e non solo, egli è stato invece considerato la personificazione simbolica dell'opposizione al sistema di governo e figura di spicco della resistenza ucraina”, spiegano nel'interrogazione.

“L’11 aprile 1945, egli veniva arrestato insieme con altri quattro vescovi e condannato a otto anni di reclusione e di lavori forzati in durissimi campi di prigionia, insieme con altri detenuti comuni e altri perseguitati politici. Trascorsi gli otto anni, viene nuovamente condannato all’esilio in Siberia, dove è costretto a rimanere, fino al 1962”, spiega la nota.

“Nel 1963, papa Giovanni XXIII riesce ad ottenere la sua scarcerazione, e il 9 febbraio dello stesso anno Josyf Slipyj arriva a Roma, accolto con grande affetto”, ricordano i senatori. In questo contesto, spiegano che “la vicenda della famiglia del cardinale Slipyj è caratterizzata non solo dalla lunghissima detenzione del porporato, ma anche dalla deportazione dei suoi familiari, nonché dall'internamento nei manicomi per alcuni di essi”.

“Anatoly Slipyj è l'unico discendente maschio del cardinale, acceso ed irriducibile avversario del regime ex sovietico”, spiegano.

“È in atto una procedura giurisdizionale qui in Italia attivata su richiesta del Governo ucraino, il quale chiede l'estradizione di Anatoly Slipyj per l'esistenza di un procedimento penale a suo carico”, informano. “Per quanto risulta, la domanda estradizionale sembra fondarsi su elementi oltremodo fumosi e generici sospetti, in relazione ai quali non vengono allegati i dovuti elementi di prove a carico”.

“In data 9 aprile 2002, Anatoly Slipyj - all'epoca ancora ventenne - veniva tratto in arresto con l'accusa, a dir poco sinistra, di 'indocilità all'autorità'".

“Dopo otto giorni di detenzione veniva fatto oggetto, insieme alla madre, di un vero e proprio tentativo di estorsione, concretizzatosi nella minaccia di un nuovo arresto sempre per "indocilità all'autorità".

“Lo Slipyj e la madre denunciavano il gravissimo episodio al dipartimento del Ministero dell'interno ucraino della regione di Ternopil, il quale riscontrava la veridicità della denuncia e censurava l'operato dei responsabili”, indicano.

“Dopo pochi mesi Slipyj veniva tratto in arresto per i fatti, diversi, rispetto ai quali è stata avanzata la pretesa estradizionale del Governo ucraino”, si ricorda.

“Durante questo secondo periodo di arresto egli è stato sottoposto ad un durissimo regime di detenzione, evidentemente finalizzato ad ottenere una confessione”.

“Lo stesso Pubblico ministero del procedimento ucraino (Procura di Ternopil) in cui il signor Slipyj era imputato, con decreto del 12 novembre 2003, rendeva atto non solo dell'inconsistenza delle accuse, almeno con riguardo ad uno dei capi di accusa contestati, ma che, addirittura, anche la persona offesa, il signor Kovaljshjn, che ora sta scontando in carcere la pena per aver calunniato lo Slipyj, 'aveva testimoniato sotto la pressione psicologica degli agenti di Polizia che lo avevano indotto a calunniare lo Slipyj'".

“Il successivo 22 dicembre 2003 il Tribunale provinciale, deliberando in relazione alla residuale imputazione, rilevava che le prove contro l'imputato erano state ottenute con 'gravi violazioni delle norme del diritto processuale penale e del diritto di difesa', prendendo atto che la persona offesa aveva ammesso di aver calunniato lo Slipyj”.

“Rilevato che, in uno Stato di diritto, siffatte conclusioni avrebbero avuto come conseguenza l'immediata liberazione dell'imputato, mentre invece in Ucraina hanno semplicemente prodotto la restituzione degli atti al Pubblico Ministero per un supplemento di indagine, senza alcun mutamento della situazione dell'imputato”.

I senatori affermano che il procedimento del Governo ucraino “si fonda sulle affermazioni di un teste calunniatore” e che “sul piano politico, nonostante un recente tentativo di modernizzare il Paese, in Ucraina rimangono forti le spinte autoritarie”.

In Italia Anatoliy ha trovato lavoro, si è sposato e dal matrimonio è nato un bambino. Su di lui pende un mandato di cattura internazionale e la richiesta di estradizione da parte del governo ucraino. Inoltre, non riesce ad ottenere il permesso di soggiorno e il riconoscimento di rifugiato politico.

“Esiste il rischio obiettivo che lo Slipyj, se estradato, possa essere fatto oggetto di persecuzioni dovute a motivi politico/religiosi”, denuncia l'interrogazione.

Per questo motivo, i senatori chiedono di sapere “quali iniziative urgenti di competenza i Ministri in indirizzo intendano assumere per impedire che sia dato corso all'estradizione del signor Anatoly Slipyj”.

E chiedono anche “se non prevedano, per l'immediato, di attivarsi presso le competenti autorità centrali ucraine, affinché recedano dalle azioni intraprese”.

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Interviste


Così è nato il libro "Storia di un'amicizia"
Intervista con l'editore polacco del libro scritto da Wanda Poltawska su Karol Wojtyla

di Renzo Allegri

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il libro “Storia di un’amicizia”, nel quale la dottoressa polacca Wanda Poltawska racconta l’amicizia sua personale e della propria famiglia con Karol Wojtyla, sta diventando un “best seller”.

In Polonia, dove è uscito all’inizio dello scorso anno, ha avuto e continua ad avere un grande successo; da noi, in libreria da poco più di un mese, è già esaurito e l’editore italiano, la San Paolo edizioni di Milano, sta provvedendo a una veloce ristampa. Sono in arrivo poi le edizioni francese, spagnola, inglese, brasiliana, e altre.

Il successo di casa nostra è straordinariamente genuino soprattutto perchè ottenuto praticamente senza pubblicità. Si allarga continuamente sostenuto dal “passa parola”. Tutti coloro che lo leggono, sentono il bisogno di consigliarlo agli amici. E’ curioso, però, che l’uscita di questo libro in Italia abbia avuto pochi riscontri nei media. Quei media che, nel giugno dello scorso anno, all’arrivo della notizia della pubblicazione in Polonia, avevano riempito pagine con articoli di tono scandalistico, meravigliandosi che Karol Wojtyla avesse coltivato per tanti anni l’amicizia con una donna e che avesse continuato a scriverle lettere perfino da Papa.

Nelle loro critiche adombravano chissà quali retroscena, e accusavano la dottoressa Poltawska di protagonismo pubblicitario al punto di trascurare il pericolo che un simile libro potesse bloccare la causa di beatificazione.

Nella ragnatela delle critiche e delle polemiche erano cadute perfino alcune personalità ecclesiastiche, che, con le loro dichiarazioni, avevano in realtà contribuito a montare un “caso” inesistente. Infatti, ora, di fronte al libro tradotto in italiano, che può essere quindi comodamente consultato da chiunque, le polemiche hanno lasciato il posto al silenzio. Proprio perché nel libro non vi è neppure una virgola che possa essere messa sotto processo. Invece, ci si trova di fronte a un racconto meraviglioso, ricco di valori umani e spirituali grandissimi, vissuti in una trasparenza solare.

Un libro che si stacca nettamente dagli innumerevoli su Giovanni Paolo II. E che poteva scrivere solo la dottoressa Wanda Poltawska perché nessun altra donna aveva avuto l’avventura di poter considerare Karol Wojtyla un componente della propria famiglia, e di conoscerlo quindi veramente molto bene.

L’accusa, fatta alla dottoressa Poltawska, di aver agito in modo imprudente, rischiando di danneggiare il processo di beatificazione, è ulteriormente smentita ora da questa nostra intervista esclusiva con il primo editore del libro, padre Tomazs Lubas, “managing director” delle Edizioni San Paolo polacche.

Come egli afferma, la dottoressa Poltawska ha agito con lodevole prudenza e saggezza. Ha voluto pubblicare il libro perché questo era un preciso desiderio di Giovanni Paolo II, che aveva letto e approvato tutto il testo, tranne l’ultimo capitolo. Ma prima di consegnare il manoscritto all’editore ha voluto avere tutte le assicurazioni da parte delle autorità ecclesiastiche che nel suo libro non c’era niente che potesse minimamente ostacolare il processo di beatificazione .

Padre Tomazs Lubas, come è nata l’idea di questo libro? 

Padre Lubas: Il primo “imput” l'ha dato lo stesso Santo Padre Giovanni Paolo II, scrivendo a Wanda Poltawska nella lettera del 20 ottobre 1978: “Desidero anche che tu faccia quella selezione di testi, della quale ti parlavo, e che il resto semplicemente lo distrugga. Ma la selezione bisogna farla assolutamente, perché ci sono delle pagine stupende...”. Poi, nel 1993, il Santo Padre, durante il pranzo con la dott.ssa Poltawska e mons. Jozef Michalik, ha raccomandato a Wanda: “Devi scrivere le memorie”. Come ha detto più volte Wanda Poltawska, tutto il testo, eccetto l'ultimo capitolo, fu letto e approvato da Giovanni Paolo II.

Io dell'esistenza di questo libro ho saputo già qualche anno fa. Però, ne conoscevo solo il titolo, senza alcun cenno riguardo il contenuto.  Il titolo polacco e' "Beskidzkie Rekolekcje" (Gli esercizi spirituali sui Monti Beskidy). Ogni lettera di Karol Wojtyla è per Wanda Poltawska una reliquia. Per questo in un primo momento, per la fotocomposizione del libro, abbiamo ricevuto solo le fotocopie delle lettere. Quando la scannerizzazione dalle fotocopie era uscita male, e la Dottoressa voleva che il libro fosse “bello”, siamo riusciti a convincerla a darci la possibilità di scannerizzare gli originali. Ciò avvenne a casa sua, e il risultato è bello e piace tanto all'Autrice.

Che impressione ha avuto leggendo il manoscritto?

Padre Lubas: Ho subito intuito che il testo era una “bomba” sotto diversi punti di vista e che faceva vedere un Giovanni Paolo II veramente “inedito”. Da una parte sono rimasto incantato della cura spirituale che Karol Wojtyla aveva verso la Famiglia Poltawski e della loro profonda amicizia; dall'altra parte sono rimasto meravigliato, nonostante conoscessi la Famiglia Poltawski da diversi anni, della loro vicinanza al Santo Padre.

Si è convinto subito che il libro doveva essere pubblicato, oppure ha avuto delle perplessità?

Padre Lubas: Di fronte a un testo del genere, non si possono avere tanti dubbi. Per me era ovvio che le Edizioni San Paolo in Polonia dovevano pubblicare questo volume che senz'altro è un faro di luce molto potente per illuminare l'anima di Giovanni Paolo II.  Del resto, la nostra Casa Editrice è editore di tutti libri che Wanda Poltawska ha scritto - attualmente sono 8.

Avevamo qualche perplessità riguardo il tempo della pubblicazione per non disturbare il processo di beatificazione. Per questo motivo l'Autrice stessa ha sottoposto il manoscritto alla Postulazione della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II. Ottenuta la conferma che il libro non disturbava il processo di beatificazione, Wanda Poltawska, nel febbraio 2009, ci ha dato il “via libera” per la pubblicazione.

Quali sono state le ragioni che l’hanno convinta a pubblicare il libro?

Padre Lubas: Come ha scritto padre Adam Boniecki sul settimanale cattolico polacco “Tygodnik Powszechny”, “un libro del genere su Giovanni Paolo II non ci è stato dato finora da nessuno...”. Credo che questa sia una delle rispose più significative riguardo i motivi della pubblicazione. Un libro del genere su Giovanni Paolo II non è stato scritto finora da nessuno, perchè… nessuno poteva scriverlo. E non pubblicarlo significava nascondere quella straordinaria parte umana di Giovanni Paolo II che altrimenti non sarebbe mai stata conosciuta. Dal libro veniamo a sapere anche di tante cose “inedite” riguardanti la grande figura della dottoressa Wanda Poltawska, tra l’altro il suo diario del 1962 dei giorni nei quali fu guarita miracolosamente dal cancro per intercessione di Padre Pio, sollecitata da una lettera di Karol Wojtyla, che allora era un giovane Vescovo.

E’ vero che, prima della pubblicazione, è stata richiesta una preventiva autorizzazione della Conferenza Episcopale Polacca?

Padre Lubas: Non si tratta tanto di una “preventiva” autorizzazione della Conferenza Episcopale Polacca, quanto della premura della dottoressa Wanda Poltawska di non creare confusione nella Chiesa con questo libro. Per questo motivo, prima di farlo pubblicare, Wanda Poltawska lo ha fatto leggere a 10 persone ritenute da lei autorevoli e degne di fiducia. Tra queste persone c’erano anche due Arcivescovi, uno dei quali era l’Arcivescovo Jozef Michalik, Presidente della Conferenza dei Vescovi Polacchi, che poi ha scritto una bella introduzione di 6 pagine.

Ottenuto i pareri positivi di queste 10 persone, e avendo la certezza di non creare “guai” nella Chiesa con la sua opera, la dottoressa ha deciso di consegnare il manoscritto all'editore. Interessante è la data di consegna del manoscritto all'editore, e cioè a me. Dopo alcuni spostamenti (lei era occupata, io ero via) abbiamo stabilito che il manoscritto sarebbe stato ritirato da me il 7 agosto 2008 a Cracovia. Leggendo poi il libro ho saputo che, esattamente 30 anni prima, proprio in quella data, Karol Wojtyla lasciava il loro amato campeggio sul fiume Wislok, andando “verso il mondo” e non è più tornato in quei luoghi. Così, per un “curioso ed enigmatico caso”, nello stesso giorno, 30 anni dopo, il suo messaggio, i ricordi dei suoi esercizi spirituali fatti in quel bellissimo posto, (descritto anche dal Papa nel "Trittico Romano"), sono partiti “verso il mondo" per poter evangelizzare e fruttificare. Altra curiosa coincidenza: il giorno della presentazione ufficiale del libro nella Sala Plenaria della Conferenza Episcopale Polacca fu il 17 febbraio 2009, giorno del settantesimo anniversario dell'arresto di Wanda da parte della Gestapo.

So che il libro ha suscitato in Polonia anche delle critiche: le aveva previste?

Padre Lubas: Supponevo che un testo così "forte" potesse suscitare qualche critica. Ma ero anche convinto che, dopo aver letto il libro fino in fondo, fosse difficile criticarlo più di tanto. Nei primi mesi dopo la pubblicazione, ci sono state accuse e varie illazioni e supposizioni, ma non vere critiche.  Adesso, dopo la pubblicazione del libro in Italia, i commentatori italiani si meravigliano delle accuse fatte nel giugno 2009, e soprattutto del fatto che qualcuno sostenesse che questo libro poteva essere di disturbo alla beatificazione di Giovanni Paolo II. Della opportunità di pubblicare “Beskidzkie Rekolekcje” testimoniano invece tantissime lettere di ringraziamento che riceve la dottoressa Poltawska, e molte che arrivano anche alla nostra Casa Editrice.

    

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Tutto Libri


L'Aids non si ferma con il condom

di Antonio Gaspari

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- “Il Papa ha ragione! L’Aids non si ferma con il condom”: è questo il titolo del saggio scritto da Cesare Davide Cavoni e Renzo Puccetti e pubblicato dall’editrice "Fede & Cultura".

Il libro ricostruisce in maniera precisa l'ennesimo caso di disinformazione che nel marzo del 2009, nel corso del suo primo viaggio in Africa, ha coinvolto il Pontefice Benedetto XVI. Al centro delle polemiche allora c'erano il condom e l'Aids.

Nella prima parte del volume viene ricostruita la cronaca di come e perché le parole del Papa sono state prima inascoltate e poi travisate; mentre nella seconda parte vengono riportati gli studi scientifici che attraverso i dati pubblicati nella letteratura medica internazionale mostrano che il profilattico non solo non è la soluzione dei mali del continente africano, ma addirittura che la distribuzione a pioggia di preservativi porta a condotte che aggravano ancora di più il problema.

Nella prefazione Francesco Agnoli sottolinea che il vero problema in Africa è culturale e cioè “la concezione dell’uomo e della donna” e che questa non si può risolvere con “una maggiore o minore disponibilità di caucciù”.

Si chiede Agnoli: possono bastare camionate di preservativi, con il loro indice, per quanto basso di fallibilità, a cambiare il modo di pensare di un continente? Serviranno a ridare alla donna e al rapporto coniugale la loro dignità e grandezza? Presentare il preservativo come la ricetta contro l’Aids non significa forse proporre una falsa sicurezza, che finisce alla lunga per determinare un aumento dei contagi?

Nel volume Cesare Cavoni scrive: “la Chiesa è da molto impegnata a far fronte all’emergenza generata dal sorgere del virus ma, nello stesso tempo, ha l’ardire di affermare che uno dei metodi da molti considerato ineludibile per impedire il contagio, è in realtà un mezzo non solo fallace ma addirittura peggiorativo della situazione”.

Mentre il dott. Renzo Puccetti spiega: “se davvero si è convinti che mediante la diffusione dei preservativi si possa efficacemente contrastare l’epidemia nel continente africano, allora paesi e istituzioni internazionali avrebbero il dovere di provvedere ad una massiccia intensificazione della quantità di condom donati all’Africa”.

Dagli studi di due ricercatori, James Shelton e Beverly Johnston, apparsi sulla rivista British Medical Journal nel 2001 risulta infatti che nel 1999, 724 milioni di preservativi, di cui oltre 500 milioni derivanti dalle donazioni estere, sono stati messi a disposizione dei paesi sub-africani, dove vivono i due terzi dei 33,2 milioni di persone colpite nel mondo dall’HIV.

È stato calcolato che tale cifra corrisponde ad una provvista annuale di 4,6 preservativi per ogni uomo che vive nella regione di età compresa tra i 15 e i 59 anni. Ipotizzando per ciascuno di essi un rapporto sessuale a settimana, è abbastanza facile comprendere come il numero di preservativi messi a disposizione sia del tutto insufficiente ad assicurare quel livello di protezione che il Papa avrebbe minacciato con le sue parole.

L’insufficienza della copertura della popolazione mediante preservativi è confermata dal rapporto tecnico finale di un gruppo di esperti che sotto l’egida dell’organizzazione inter-governativa Southern African Development Community si è riunita a Maseru, in Lesotho, dal 10 al 12 maggio 2006. Secondo tale rapporto il condom maschile è assicurato solamente al 19% della popolazione sub-sahariana.

L’inefficacia del profilattico è dimostrata da un rapporto pubblicato dalle autorità sanitarie del Distretto di Columbia in cui si scopre che nella capitale degli Stati Uniti, dove l’accesso ai preservativi è indiscutibilmente oltremodo ampio e senza interruzioni, la percentuale di adolescenti e adulti sieropositivi per l’HIV è pari al 3%, un livello nettamente superiore a quell’1% che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera la soglia oltre la quale si può parlare di epidemia.

La prevalenza individuata a Washington, seppure anche frutto di un miglioramento della rete diagnostica e delle possibilità terapeutiche, è paragonabile a quella dell’Uganda e di certe zone del Kenia, dove il numero di preservativi disponibili non è certo equivalente.

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Parola e vita


Aborto in Europa: magnitudo 1000 ogni 11 secondi
III Domenica di Quaresima, 7 marzo 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Diceva anche questa parabola: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: 'Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo: Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?' Ma quello rispose: 'Padrone, lascialo ancora quest’anno, finchè gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no lo taglierai'” (Lc 13,1-9).

Il modo del perire di cui parla Gesù (“Se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”), non deve far pensare ai terremoti (perire sotto le macerie), o alla violenza omicida degli attentati (la strage ordinata da Pilato), ma alla sorte che ci aspetta nell’altra vita se non ci convertiamo prima che la morte ci colga all’improvviso. Ma qualunque sarà il modo della nostra morte, essa non ci coglierà impreparati davanti a Dio se il modo della vita sarà stato l’ascolto della sua Parola. Al contrario: chi sceglie di vivere come se Dio non ci fosse, corre il pericolo reale e sempre attuale di vivere eternamente nel tormento infernale della separazione da Dio.

Anni fa fui invitato ad un matrimonio di amici. Il padre della sposa, un cardiopatico grave, mi raccontò a tavola che la sera prima, dopo molti anni di lontananza dalla Chiesa, aveva sentito il bisogno di confessarsi, ma...era sabato sera. Suonò al campanello della sua canonica, ma si sentì rimandare al giorno dopo, data l’ora tarda. La stessa risposta ebbe al campanello successivo, in un’altra parrocchia. Al terzo tentativo, finalmente, con gran sollievo gli fu dato di riconciliarsi con Dio. Quest’uomo morì improvvisamente poche ore dopo.

Confrontando le vittime di Pilato e della torre crollata con “tutti i Galilei” e “tutti gli abitanti di Gerusalemme”, Gesù sottrae gli uni e gli altri al meccanismo della cosidetta “retribuzione”, per il quale, secondo la tradizione di allora, alla colpa seguiva, inesorabilmente, la giusta punizione divina. Perciò il fatto di essere stati risparmiati da repressioni cruente e disgrazie, era ritenuto una conferma della propria “giustizia” davanti a Dio.

In tal modo veniva anestetizzata, negli incolumi, la coscienza di essere anch’essi peccatori e bisognosi di quella divina Misericordia che dona a tutti il tempo e il modo di pentirsi e convertirsi. In questo senso è da intendere anche la parabola del fico sterile.

Gesù non interpreta le tragedie e i cataclismi naturali come castighi del Padre suo, (che fa piovere indifferentemente sui giusti e sugli ingiusti), ma ciò non significa che il Vangelo svuoti di significato spirituale gli eventi tragici della cronaca quotidiana. In realtà essi recano un messaggio vitale. Dio non vuole la morte del peccatore, ma che “si converta e viva”; perciò questi gemiti terribili della creazione, nel disegno misterioso e sapiente della sua volontà, sono scosse di morte al servizio della vera vita, la vita eterna dell’anima. Per chi non rifiuta di ascoltare il sismografo interiore il messaggio è questo: “l’uomo, nella prosperità non comprende, è simile alle bestie che muoiono” (Salmo 49,21).

A differenza delle bestie all’uomo è dato dal Creatore il dono della libertà, l’intelligenza per conoscere la verità, la coscienza per scegliere nel suo cuore il bene e rigettare il male, la volontà per agire di conseguenza. Anestetizzare la coscienza morale vuol dire perciò distruggere la dignità dell’uomo, abbassandolo al rango animale degli istinti e del piacere. Questa è l’opera della cultura della morte, radicata in quelle leggi che autorizzano la soppressione volontaria della vita umana, dal suo primo inizio al suo ultimo istante naturale. Il terremoto e il maremoto sono evento tragici che mietono centinaia e migliaia di vite umane, separando i sopravvissuti dai loro cari, dalle loro case, dalla loro terra. Conseguenza positiva è però quella solidarietà umana che è sempre pronta a scattare in tutto il mondo verso i luoghi del disastro.

Un singolo aborto volontario è un evento che causa una separazione ben più grave ed estesa: la separazione da Dio. L’energia maligna che si sprigiona in Europa ogni 11 secondi (tale è il ritmo mortale degli aborti), non si misura sulla scala dei sismografi fisici, ma su quella dei sismografi dello spirito. Magnitudo infinita che separa dal Dio della vita e fa crollare la società nel baratro dell’autodistruzione.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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Documenti


Discorso del Papa ai Vescovi dell'Uganda in visita "ad limina"
Sostegno a quanti si prendono cura di profughi, orfani e malati di Aids

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo venerdì da Benedetto XVI nel ricevere in udienza i Vescovi dell'Uganda, in occasione della loro visita “ad limina Apostolorum”.

 


 

* * *

Eminenza,

Cari Fratelli Vescovi,

sono lieto di salutarvi, Vescovi dell'Uganda, in occasione della vostra visita ad limina sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo. Ringrazio il Vescovo Ssekamanya per i sentimenti affettuosi di comunione con il Successore di Pietro che ha espresso a vostro nome. Li ricambio volentieri e vi assicuro delle mie preghiere e del mio affetto per voi e per il Popolo di Dio affidato alla vostra sollecitudine. In particolar modo, rivolgo i miei pensieri a quanti sono stati colpiti dalle recenti frane nella regione Bududa del vostro Paese. Prego Dio Onnipotente, Padre di ogni misericordia, affinché possa concedere l'eterno riposo alle anime dei defunti e forza e speranza a tutti coloro che soffrono per le conseguenze di questo evento tragico.

La seconda Assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, di recente celebrazione, è stata memorabile per la sua esortazione a compiere rinnovati sforzi al servizio di una più profonda evangelizzazione nel vostro continente (cfr. Messaggio al Popolo di Dio, n. 15). La forza della parola di Dio e la conoscenza e l'amore di Gesù non possono che trasformare la vita delle persone, migliorando il loro modo di pensare e di agire. Alla luce del messaggio evangelico, siete consapevoli della necessità di incoraggiare i cattolici dell'Uganda ad apprezzare pienamente il sacramento del matrimonio nella sua unità e indissolubilità e il diritto sacro alla vita. Vi raccomando di aiutare sacerdoti e laici a resistere alla seduzione della cultura materialistica dell'individualismo che ha messo radici in così tanti Paesi. Continuate a esortare a una pace duratura, basata sulla giustizia e sulla generosità verso i bisognosi, in uno spirito di dialogo e riconciliazione. Promuovendo un ecumenismo autentico, siate vicini in particolare a quanti sono più vulnerabili alla diffusione delle sette. Spingeteli a rifiutare sentimenti superficiali e una predicazione che renderebbe vana la croce di Cristo (cfr. 1 Cor 1, 17). In questo modo, continuerete, come Pastori responsabili, a mantenere loro e i loro figli fedeli alla Chiesa di Cristo. A questo proposito, sono lieto di apprendere che il vostro popolo trova conforto spirituale in forme popolari di evangelizzazione come i pellegrinaggi organizzati al Santuario dei Martiri ugandesi a Namugongo, dove l'attiva presenza pastorale dei Vescovi e di numerosi sacerdoti guida la pietà dei pellegrini verso un rinnovamento come individui e comunità. Continuate a sostenere tutti coloro che, con cuore generoso, si prendono cura dei profughi e degli orfani delle zone lacerate dalla guerra. Incoraggiate quanti assistono le persone afflitte dalla povertà, dall'Aids e da altre malattie, insegnando loro a vedere in chi servono il volto sofferente di Gesù (cfr. Mt 25, 40).

Un'evangelizzazione rinnovata crea a sua volta una cultura cattolica più profonda che si radica nella famiglia. Grazie ai vostri resoconti quinquennali so che i programmi educativi nelle parrocchie, nelle scuole e nelle associazioni e i vostri interventi su materie di interesse comune, di fatto, stanno diffondendo una cultura cattolica più forte. Un grande bene può derivare da laici ben preparati e attivi nei mezzi di comunicazione sociale, nella politica e nella cultura. Dovrebbero essere offerti corsi per una formazione adeguata, in particolare nella dottrina sociale cattolica, avvalendosi delle risorse dell'Università dei Martiri ugandesi o di altre istituzioni. Incoraggiateli a essere attivi ed espliciti al servizio di ciò che è nobile e giusto. In questo modo, tutta la società beneficerà di cristiani ferventi e ben preparati, che assumeranno ruoli guida al servizio del bene comune. Anche i movimenti ecclesiali meritano il vostro sostegno per il loro contributo positivo alla vita della Chiesa in molti settori.

I Vescovi, quali primi agenti di evangelizzazione, sono chiamati a rendere testimonianza della solidarietà concreta scaturita dalla nostra comunione con Cristo. In spirito di carità cristiana, le Diocesi che hanno maggiori risorse, sia materialmente sia spiritualmente, dovrebbero assistere quanti hanno di meno. Nello stesso tempo, tutte le comunità hanno il dovere di adoperarsi per l'autosufficienza. È importante che il vostro popolo sviluppi un senso di responsabilità verso di sé, verso la sua comunità e la sua Chiesa, e approfondisca ulteriormente uno spirito cattolico di sensibilità verso le necessità della Chiesa universale.

I vostri sacerdoti, come devoti ministri di evangelizzazione, già beneficiano grandemente della vostra sollecitudine e della vostra guida fraterne. In questo Anno Sacerdotale offrite loro il vostro aiuto, il vostro esempio e il vostro chiaro insegnamento. Esortateli alla preghiera e alla vigilanza, in particolare a proposito di ambizioni egoistiche, materiali o politiche, o di un attaccamento eccessivo alla famiglia o al gruppo etnico. Continuate a promuovere le vocazioni, provvedendo al necessario discernimento dei candidati e delle loro motivazioni, e alla loro formazione, in particolare alla formazione spirituale. I sacerdoti devono essere uomini di Dio, in grado di guidare gli altri lungo le vie del Signore attraverso l'esempio e sagge raccomandazioni.

In Uganda, i religiosi, uomini e donne, sono chiamati a essere esempio e fonte di incoraggiamento per tutta la Chiesa. Con i vostri consigli e le vostre preghiere assisteteli mentre si adoperano per raggiungere lo scopo della perfetta carità e per rendere testimonianza del Regno.

Sacerdoti e religiosi richiedono un sostegno costante nella loro vita di celibato e di verginità consacrata. Con il vostro esempio insegnate loro la bellezza di questo stile di vita, della paternità e della maternità spirituali con cui possono arricchire e rendere più profondo l'amore dei fedeli per il Creatore e datore di ogni bene. Anche i vostri catechisti sono una grande risorsa. Continuate a prestare attenzione alle loro necessità e alla loro formazione, e, per incoraggiarli, portate loro l'esempio di martiri quali il beato Daudi Okello e il beato Jildo Irwa.

Cari fratelli Vescovi, con l'Apostolo Paolo, vi esorto: «Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (2 Tm 4, 5). I Martiri ugandesi sono per voi e per il vostro popolo modelli di grande coraggio e sopportazione nella sofferenza. Contate sulle loro preghiere e lottate sempre per essere degni della loro eredità. Affidando voi e quanti sono a loro volta affidati alla vostra sollecitudine pastorale alla protezione amorevole di Maria, Madre della Chiesa, vi imparto la mia Benedizione Apostolica.

[Traduzione dal testo originale in inglese a cura de “L'Osservatore Romano”]

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Prima predica di padre Cantalamessa per la Quaresima 2010
"Misteri di una alleanza nuova"
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la prima predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

Il tema delle meditazioni di quest'anno è “Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti”, in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

Le due prediche successive avranno luogo il 12 e il 26 marzo.

 



* * *

Il Signore mi concede di essere testimone della grazia straordinaria che si sta rivelando per la Chiesa quest’anno sacerdotale. Non si contano i ritiri del clero che si tengono in varie parti del mondo. A uno di questi ritiri, organizzato a Manila dalla conferenza episcopale delle Filippine, nel gennaio scorso, hanno preso parte 5.500 sacerdoti e 90 vescovi. È stato, a detta del cardinale di Manila, una nuova Pentecoste. Durante un’ora di adorazione guidata, all’invito del predicatore, tutta quella immensa distesa di sacerdoti in bianche vesti ha gridato a una sola voce: “Lord Jesus, we are happy to be your priests”: Signore Gesù, siamo felici di essere tuoi sacerdoti!”. E si vedeva dai volti che non erano solo parole. La stessa esperienza, in numero più ridotto, l’ho vissuta in diversi altri paesi. Tutti mi hanno pregato di trasmettere al Santo Padre il loro grazie e il loro saluto e io lo faccio con gioia in questo momento.

1. I “misteri” di Dio

La parola di Dio che ci guida in queste riflessioni per l’anno sacerdotale è 1 Corinzi 4, 1: “Si nos existimet homo, ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei”; quello che ognuno deve pensare di noi è che siamo "ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio”. Abbiamo meditato in Avvento la prima parte di questa definizione: il sacerdote come servitore di Cristo, nel potere e nell’unzione dello Spirito Santo. Ci resta, in questa Quaresima, di riflettere sulla seconda parte: il sacerdote come dispensatore dei misteri di Dio. Naturalmente quello che diciamo del sacerdote, vale a maggior ragione per il vescovo che possiede la pienezza del sacerdozio.

Il termine “misteri” ha due significati fondamentali: il primo è quello di verità nascoste e rivelate da Dio, i divini propositi annunciati velatamente nell’Antico Testamento e rivelati agli uomini nella pienezza dei tempi; il secondo è quello di “segni concreti della grazia”, in pratica i sacramenti. La Lettera agli Ebrei riunisce i due significati nell’espressione: “le cose che riguardano Dio” (ta pros ton Theon, ea que sunt ad Deum); accentua anzi proprio il significato rituale e sacramentale, dicendo che il compito del sacerdote (l’autore parla però qui del sacerdozio in genere, dell’Antico e del Nuovo Testamento) è quello di “offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1).

Questo secondo significato si afferma soprattutto nella tradizione della Chiesa. Sacramentum è il termine con cui, nel latino ecclesiastico, viene tradotta la parola mysterion. Sant’Ambrogio scrive due trattati sui riti dell’iniziazione cristiana, visti come compimento di figure e profezie dell’Antico Testamento; uno lo intitola “De sacramentis” e l’altro “De mysteriis”, anche se trattano in pratica lo stesso argomento.

Ritornando alla parola dell’Apostolo, il primo di questi due significati mette in luce il ruolo del sacerdote nei confronti della parola di Dio, il secondo il suo ruolo nei confronti dei sacramenti. Insieme delineano la fisionomia del sacerdote come testimone della verità di Dio e come ministro della grazia di Cristo, come annunciatore e come sacrificatore.

Per molti secoli la funzione del sacerdote è stata ridotta quasi esclusivamente al suo ruolo di liturgo e di sacrificatore: “offrire sacrifici e perdonare i peccati”. È stato il Concilio Vaticano II a rimettere in evidenza, accanto alla funzione cultuale, quella di evangelizzatore. In linea con quello che la Lumen gentium aveva detto della funzione dei vescovi di “insegnare” e “santificare”, la Presbyterorum ordinis scrive:

“Dato che i presbiteri hanno una loro partecipazione nella funzione degli apostoli, ad essi è concessa da Dio la grazia per poter essere ministri di Cristo Gesù fra le nazioni mediante il sacro ministero del Vangelo, affinché le nazioni diventino un'offerta gradita, santificata nello Spirito Santo (Rom 15,16). È infatti proprio per mezzo dell'annuncio apostolico del Vangelo che il popolo di Dio viene convocato e adunato [...] Il loro servizio, che comincia con l'annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo”[1].

Delle tre meditazioni di Quaresima (il Venerdì 19 Marzo, si omette la predica per la festa di san Giuseppe) ne dedicheremo una al tema del sacerdote come ministro della parola di Dio, una al sacerdote come ministro dei sacramenti e una più esistenziale, al rinnovamento del sacerdozio mediante la conversione al Signore.

2. La lettera e lo Spirito

A partire dal III secolo si nota una tendenza a modellare -nei requisiti, nei riti, nei titoli, nelle vesti - il sacerdozio cristiano su quello levitico dell’Antico Testamento[2]; una tendenza che si riflette in documenti canonici come le Costituzioni apostoliche, la Didascalia siriaca e altre fonti simili. Proprio questa assimilazione esterna, fa sentire più urgente il bisogno di riscoprire, in una occasione come questa, la novità e alterità sostanziale del ministero della nuova alleanza rispetto a quello dell’antica. È l’energica affermazione paolina che vorrei mettere al centro della presente meditazione:

“La nostra capacità viene da Dio. Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di una nuova alleanza, non di lettera, ma di Spirito; perché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica. Or se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, fu glorioso, al punto che i figli d'Israele non potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a motivo della gloria, che pur svaniva, del volto di lui,  quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito?” (2Cor 3, 5-8).

Che cosa l’Apostolo intende con l’opposizione lettera – Spirito, lo si deduce da quello che ha scritto poco sopra, parlando della comunità del Nuovo Testamento: “È noto che voi siete una lettera di Cristo, scritta mediante il nostro servizio, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne” (2 Cor 3, 3).

La lettera è dunque la legge mosaica scritta su tavole di pietra e, per estensione ogni legge positiva esteriore all’uomo; lo Spirito è la legge interiore, scritta sui cuori, quella che altrove l’Apostolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù e che libera dalla legge del peccato e della morte” (cf. Rom 8, 2).

Sant’Agostino ha scritto un trattato sul nostro testo – il De Spiritu et littera - che è una pietra miliare nella storia del pensiero cristiano. La novità della nuova alleanza rispetto all’antica, egli spiega, è che Dio non si limita più a comandare all’uomo di fare o non fare, ma fa egli stesso con lui e in lui le cose che gli comanda. “Dove la legge delle opere impera minacciando, la legge della fede impetra credendo…Con la legge delle opere Dio dice all’uomo: ‘Fa’ quello che ti comando’, con la legge della fede l’uomo dice a Dio: ‘Da’ quello che mi comandi’”[3].

La legge nuova che è lo Spirito è ben più che una “indicazione” di volontà; è un’“azione”, un principio vivo e attivo. La legge nuova è la vita nuova. L’opposizione lettera – Spirito equivale in san Paolo, all’opposizione legge – grazia: “Non siete più sotto la legge, scrive, ma sotto la grazia” (Rom 6,14).

Anche nell’antica alleanza è presente l’idea di grazia, nel senso di benevolenza, favore e perdono di Dio (la hesed): “Farò grazia a chi vorrò far grazia” (Es 33,19); i salmi sono pieni di questo concetto. Ma ora la parola grazia, charis, ha acquistato un significato nuovo, storico: è la grazia che viene dalla morte e risurrezione di Cristo e che giustifica il peccatore. Non è più solo una benevola disposizione, ma una realtà, uno “stato”: “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi” (Rom 5, 1-2).

Giovanni descrive il rapporto tra antica e nuova alleanza allo stesso modo di Paolo: “La legge –scrive - è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17).

Da ciò si deduce che la legge nuova, o dello Spirito, non è, in senso stretto, quella promulgata da Gesù sul monte delle beatitudini, ma quella da lui incisa nei cuori a Pentecoste. I precetti evangelici sono certo più elevati e perfetti di quelli mosaici; tuttavia, da soli, anch’essi sarebbero rimasti inefficaci. Se fosse bastato proclamare la nuova volontà di Dio attraverso il Vangelo, non si spiegherebbe che bisogno c’era che Gesù morisse e che venisse lo Spirito Santo; non si spiega perché il Gesù di Giovanni fa dipendere tutto dalla sua “elevazione”, cioè dalla sua morte di croce (cf. Gv 7, 39; 16, 7-15).

Gli apostoli sono la prova vivente di ciò. Essi avevano ascoltato dalla viva voce di Cristo tutti i precetti evangelici, per esempio che “chi vuol essere il primo deve farsi l’ultimo e il servo di tutti”, ma fino alla fine li vediamo preoccupati di stabilire chi fosse il più grande fra di loro. Solo dopo la venuta dello Spirito su di loro li vediamo completamente dimentichi di sé e intenti solo a proclamare “le grandi opere di Dio” (cf. At 2, 11).

Senza la grazia interiore dello Spirito, anche il Vangelo, dunque, anche il comandamento nuovo, sarebbe rimasto legge vecchia, lettera. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino scrive: “Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[4]. Ancora più esplicito è ciò che ha scritto un po’ prima: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[5].

3. Non per costrizione, ma per attrazione

Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova che è lo Spirito? Agisce attraverso l’amore! La legge nuova altro non è se non quello che Gesù chiama il “comandamento nuovo”. Lo Spirito Santo ha scritto la legge nuova nei nostri cuori, infondendo in essi l’amore (Rom 5, 5). Questo amore è l’amore con cui Dio ama noi e con cui, contemporaneamente, fa sì che noi amiamo lui e il prossimo. È una capacità nuova di amare.

Non è un controsenso parlare dell’amore come di una “legge”? A questa domanda si deve rispondere che vi sono due modi secondo cui l’uomo può essere indotto a fare, o a non fare, una certa cosa: o per costrizione o per attrazione. La legge esterna ve lo induce nel primo modo, per costrizione, con la minaccia del castigo; l’amore ve lo induce nel secondo modo, per attrazione. Ciascuno infatti è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione dall’esterno. L’amore è come un “peso” dell’anima che attira verso l’oggetto del proprio piacere, in cui sa di trovare il proprio riposo[6]. La vita cristiana va vissuta per attrazione, non per costrizione.

L’amore dunque è una legge, “la legge dello Spirito”, nel senso crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama.

Che posto ha, ci domandiamo, in questa economia dello Spirito, l’osservanza dei comandamenti? Anche dopo la venuta di Cristo sussiste infatti la legge scritta: ci sono i comandamenti di Dio, il decalogo, ci sono i precetti evangelici; a essi si sono aggiunte, in seguito, le leggi ecclesiastiche. Che senso hanno il Codice di diritto canonico, le regole monastiche, i voti religiosi, tutto ciò, insomma, che indica una volontà oggettivata, che mi si impone dall’esterno? Sono, tali cose, come dei corpi estranei nell’organismo cristiano?

Ci sono stati, nel corso della storia della Chiesa, dei movimenti che hanno pensato così e hanno rifiutato, in nome della libertà dello Spirito, ogni legge, tanto da chiamarsi, appunto, movimenti “anomisti”, ma essi sono stati sempre sconfessati dall’autorità della Chiesa e dalla stessa coscienza cristiana. La risposta cristiana a questo problema ci viene dal Vangelo. Gesù dice di non essere venuto ad “abolire la legge”, ma a “darle compimento” (cf Mt 5, 17). E qual è il “compimento” della legge? “Pieno compimento della legge – risponde l’Apostolo – è l’amore!” (Rom 13, 10). Dal comandamento dell’amore – dice Gesù – dipendono tutta la legge e i profeti (cf Mt 22, 40).

L’obbedienza diventa così la prova che si vive sotto la grazia. “Se mi amate, osservate i miei comandamenti” (Gv 14,15). L’amore, allora, non sostituisce la legge, ma la osserva, la “compie”. Nella profezia di Ezechiele si attribuiva precisamente al dono futuro dello Spirito e del cuore nuovo, la possibilità di osservare la legge di Dio: “Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36, 27). “È stata data la legge –scrive lapidariamente Agostino – perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [7].

4. Attualità del messaggio della grazia

Fin qui le conseguenze che il messaggio paolino sulla nuova alleanza può avere sul modo di concepire e vivere la vita cristiana. In questa occasione vorrei però mettere in evidenza soprattutto la luce che esso getta sul problema dell’evangelizzazione nel mondo attuale e del dialogo interreligioso e, di conseguenza, sul ruolo del sacerdote come ministro della verità di Dio.

Agostino scrisse il suo trattato su La lettera e lo Spirito per combattere la tesi pelagiana secondo cui per salvarsi è sufficiente che Dio ci abbia creati, dotati del libero arbitrio e dato una legge che ci indica la sua volontà. In pratica, la tesi che l’uomo può salvarsi da solo e che la venuta di Cristo è, certo, un aiuto straordinario, ma non indispensabile per la salvezza.

Si può discutere – e oggi si discute tra gli studiosi – se il santo abbia interpretato correttamente il pensiero del monaco Pelagio. Ma questo non dovrebbe sorprenderci. I Padri che si sono trovati a combattere delle eresie hanno spesso esplicitato quelle che (dal loro punto di vista!) erano le implicazioni logiche di una certa dottrina, senza tener conto sempre del punto di vista e del linguaggio diverso dell’avversario. Erano più preoccupati della dottrina che delle persone, della verità dogmatica che di quella storica. Agostino, anzi, si mostra assai più rispettoso e cortese nei riguardi di Pelagio di quanto non lo fosse, per esempio, Cirillo d’Alessandria nei confronti di Nestorio.

La rivalutazione moderna di autori come Pelagio o Nestorio non significa dunque minimamente rivalutazione del pelagianesimo o del nestorianesimo. Questa distinzione ha contribuito, in tempi recenti, al ristabilimento della comunione con le chiese cosiddette nestoriane o monofisite d’oriente.

Tutto questo, però, ci interessa relativamente. La cosa importante da ritenere è che Agostino ha ragione sul problema principale: per salvarsi non basta la natura, il libero arbitrio e la guida della legge, occorre la grazia, cioè occorre Cristo. Pensare diversamente significherebbe rendere superflua la sua venuta e con essa la sua morte e la redenzione; significherebbe considerare Cristo un esempio di vita, non “causa di salvezza eterna per chiunque crede” (Eb 5, 9).

È su questo punto che il pensiero di Agostino – e prima di lui quello di Paolo – si rivela di una straordinaria attualità. Quello che, secondo l’Apostolo, distingue la nuova dall’antica alleanza, lo Spirito dalla lettera, la grazia dalla legge, fatte le debite distinzioni, è esattamente ciò che distingue oggi il cristianesimo da ogni altra religione.

Le forme sono cambiante, ma la sostanza è la stessa. “Opera della legge”, o opera dell’uomo, è ogni pratica umana, quando da essa si fa dipendere la propria salvezza, sia, questa, concepita come comunione con Dio, o come comunione con se stessi e sintonia con le energie dell’universo. Il presupposto è lo stesso: Dio non si dona, lo si conquista!

Possiamo illustrare la differenza così. Ogni religione umana o filosofia religiosa comincia con il dire all’uomo quello che deve fare per salvarsi: i doveri, le opere, siano esse opere ascetiche esteriori o cammini speculativi verso il proprio io interiore, il Tutto o il Nulla. Il cristianesimo non comincia dicendo all’uomo quello che deve fare, ma quello che Dio ha fatto per lui. Gesù non cominciò a predicare dicendo: “Convertitevi e credete al vangelo affinché il Regno venga a voi”; cominciò dicendo: “Il regno di Dio è venuto tra voi: convertitevi e credete al vangelo”. Non prima la conversione, poi la salvezza, ma prima la salvezza e poi la conversione.

Anche nel cristianesimo –lo abbiamo già ricordato – esistono i doveri e i comandamenti, ma il piano dei comandamenti, compreso il più grande di tutti che è amare Dio e il prossimo, non è il primo piano, ma il secondo; prima di esso, c’è il piano del dono, della grazia. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). È dal dono che scaturisce il dovere, non viceversa

Noi cristiani non entreremo certo in dialogo con altre fedi, affermando la differenza o la superiorità della nostra religione; questo sarebbe la negazione stessa del dialogo. Insisteremo piuttosto su ciò che ci unisce, gli obiettivi comuni, riconoscendo agli altri lo stesso diritto (almeno soggettivo) di considerare la loro fede la più perfetta e la definitiva. Senza dimenticare, del resto, che chi vive con coerenza e in buona fede una religione delle opere e della legge è migliore e più gradito a Dio di chi appartiene alla religione della grazia, ma trascura completamente sia di credere nella grazia che di compiere le opere della fede.

Tutto questo non deve però indurci a mettere tra parentesi la nostra fede nella novità e unicità di Cristo. Non si tratta neppure di affermare la superiorità di una religione sulle altre, ma di riconoscere la specificità di ognuna, di sapere chi siamo e cosa crediamo.

Non è difficile spiegare il perché della difficoltà ad ammettere l’idea di grazia e del suo istintivo rifiuto da parte dell’uomo moderno. Salvarsi “per grazia” significa riconoscere la dipendenza da qualcuno e questo risulta la cosa più difficile. È nota l’affermazione di Marx: “Un essere non si presenta indipendente se non in quanto è signore di se stesso, e non è signore di se stesso se non in quanto deve a se stesso la sua esistenza. Un uomo che vive per la “grazia” di un altro si considera un essere dipendente [...]. Ma io vivrei completamente per la grazia di un altro, se egli avesse creato la mia vita, se egli fosse la sorgente della mia vita e questa non fosse mia propria creazione”[8].Il motivo per cui si rifiuta un Dio creatore è anche quello per cui si rifiuta un Dio salvatore.

È la spiegazione che san Bernardo da del peccato di Satana: egli preferì essere la più infelice delle creature per merito proprio, anziché la più felice per grazia altrui; preferì essere “infelice ma sovrano, anziché felice ma dipendente: misere praeesse, quam feliciter subesse[9].

Il rifiuto del cristianesimo, in atto a certi livelli della nostra cultura occidentale, quando non è rifiuto della Chiesa e dei cristiani, è rifiuto della grazia.

5. “Noi predichiamo Cristo Gesù Signore”

Qual è, in questo campo, il compito dei sacerdoti in quanto amministratori dei misteri di Dio e maestri della fede? Quello di aiutare i fratelli a vivere la novità della grazia, che è come dire la novità di Cristo.

Gesù nel vangelo usa l’espressione “i misteri del Regno dei cieli” per indicare tutto il suo insegnamento e, in particolare, ciò che riguarda la sua persona (cf. Mt 13, 11). Dopo la Pasqua si passa sempre più spesso dal plurale al singolare, dai misteri al mistero: tutti i misteri di Dio si riassumono ormai nel mistero che è Cristo.

San Paolo parla del “mistero di Dio, cioè Cristo,  nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Col 2, 2-3). Ci invita a pensare a Cristo come a un palazzo, addentrandosi nel quale si passa di meraviglia in meraviglia. L’universo materiale, con tutte le sue bellezze e la sua incalcolabile estensione, è l’unica immagine adeguata dell’universo spirituale che è Cristo. Non per nulla esso è stato fatto “per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16).

L’Apostolo ha individuato con più chiarezza di tutti il centro e il cuore dell’annuncio cristiano e lo ho espresso in maniera programmatica, a modo di manifesto: “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1, 23) e “Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore” (2 Cor 4,5). Tali parole giustificano in pieno l’affermazione secondo cui il cristianesimo non è una dottrina ma una persona.

Ma cosa significa, nella pratica, predicare “Cristo crocifisso”, o “Cristo Gesù Signore?” Non significa parlare sempre e solo del Cristo del kerygma o del Cristo del dogma, cioè trasformare le prediche in lezioni di cristologia. Significa piuttosto “ricapitolare tutto in Cristo” (Ef 1,10), fondare ogni dovere su di lui, far servire ogni cosa allo scopo di portare gli uomini alla “sublime conoscenza di Cristo Gesù Signore” (Fil 3, 8).

Gesù deve essere l’oggetto formale, non necessariamente e sempre l’oggetto materiale, della predicazione, quello che la “informa”, che fa da fondamento e da autorità a ogni altro annuncio, l’anima e la luce dell’annuncio cristiano. “Arido è ogni cibo dell’anima – esclama san Bernardo - se non è condito con questo olio; insipido se non è condito con questo sale. Ciò che scrivi non ha sapore - non sapit mihi – se non vi palpita dentro il cuore di Gesù – nisi sonuerit ibi Cor Jesu”[10].

Nella Liturgia delle ore di lingua tedesca, il Stundengebet, c’è un inno (Lodi del Martedì della seconda settimana) che mi è divenuto caro fin dal primo momento che l’ho recitato. Comincia così: "Göttliches Wort, der Gottheit Schrein, für uns in dein Geheimnis ein”. “Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci penetrare nel tuo mistero“. L’espressione “il mistero di Cristo” è la più comprensiva di tutte: racchiude il suo essere e il suo agire, la sua umanità e la sua divinità, la sua preesistenza e la sua incarnazione, le profezie dell’Antico Testamento e la loro realizzazione nella pienezza dei tempi. Possiamo ripeterlo come una giaculatoria: “Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci penetrare nel tuo mistero".



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1) PO, 2.

2) Cf. J.-M. Tillard, “Sacerdoce”, in DSpir. 14, col.12.

3) Agostino, De Spiritu et littera, 13,22.

4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 2.

5) Ibid., q. 106, a. 1; cf. Agostino, De Spiritu et littera, 21, 36.

6) Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26, 4-5: CCL 36, 261; Confessioni, XIII, 9.

7) Agostino, De Spir. et litt. ,19,34.

8) C. Marx, Manoscritti del 1844, in Gesamtausgabe, III, Berlino 1932, p. 124 e Critica della filosofia del diritto di Hegel, in Gesamtausgabe, I, 1, Francoforte sul M. 1927, p. 614 s.

9) Bernardo di Chiaravalle, De gradibus humilitatis, X, 36: PL 182, 962.

10) Bernardo di Chiaravalle, Sermones super Canticum, XV, 6: Ed. Cistercense, Roma 1957, p.86.

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