dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI
LICATA (AGRIGENTO) - Dov'è il sindaco? «Non c'è», sbuffa il vigile di guardia al Municipio. E dov'è? «Fuori, fuori sede», risponde avvilito. Poi invoca Sant'Angelo, il patrono della città: «Solo lui, il nostro santo, prima o poi lo farà tornare». Prima o poi. Quando, nessuno lo sa. Perché, questa che stiamo per raccontare, è l'avventura di un sindaco che fa il sindaco dal confino.
Governa ma da lontano, ha il "divieto di dimora" a Licata per motivi di giustizia e lui amministra in esilio, firma delibere a distanza, nomina assessori fra i tavolini dei bar, fa spostare i messi comunali di qua e di là, decide il destino della sua comunità da un trivani semiarredato alla periferia più malandata di Agrigento. A 38 chilometri dalla sua Licata. Resiste il sindaco Angelo Graci, resiste e non vuole dimettersi. Da novembre dell'anno scorso va in giro per tutta l'isola con addosso la fascia tricolore ma non può mettere piede a casa sua perché potrebbe - ha scritto il giudice - «reiterare il reato». Accusato di corruzione, è in attesa di verdetto. Però non cede, non molla la poltrona «per dignità di uomo e alto senso delle istituzioni».
Per raccontare un'oscenità italiana e rintracciare una piccola trama dietro il pagamento di una miserabile (presunta) tangente bisogna lasciare la Valle dei Templi e scendere verso le serre dei meloni cantalupi intorno a Licata, 40 mila abitanti fra ville liberty e un mare che sembra avventarsi su ficus e ulivi, chiese di pietra bianca e la monnezza che arriva quasi sotto il Municipio dove Angelo Graci c'è e non c'è, dove il sindaco è il sindaco ma qui non può
Gira in auto blu, presenzia alle manifestazioni. In municipio dicono che "è fuori sede"
più entrare.
Tutti a Licata sono devotissimi a Sant'Angelù e per sorte maligna questa storia è cominciata proprio in suo onore il 5 maggio del 2009, preghiere, luminarie, la processione dei pescatori con le barche che prendono il largo e la statua del patrono portata pericolosamente fra le onde («Sant'Angelù o ciova o coddra», Sant'Angelo fai piovere o ti affoghiamo) per allontanare la minaccia della siccità, poi i festeggiamenti notturni con suonatori e cantanti. E sarebbe stato proprio un impresario di spettacoli a mandare il sindaco di Licata al confino, una mazzetta di appena 6 mila euro da dividere in tre - con l'assessore Tiziana Zirafi e con il vicepresidente del consiglio comunale Nicolò Riccobene - la firma di Angelo Graci sulla delibera numero 44 e l'arresto per tutti.
Il sindaco, era il 24 novembre, è finito ai domiciliari e una settimana dopo fuori dalla sua città - con provvedimento del Tribunale - e con assoluto obbligo di non tornarci. Prima il prefetto di Agrigento l'ha rimosso, poi la sospensione è decaduta, poi ancora il consiglio comunale si è autosciolto. Grazie allo statuto speciale della Regione (siamo in Sicilia, terra di autonomia e astuzie) un sindaco al confino che non vuole lasciare può continuare la sua missione di primo cittadino nonostante il distacco forzato e tutto il resto. Angelo Graci è rimasto sindaco per se stesso e per la legge.
A Licata non ci sono più consiglieri ma un commissario straordinario, in carica lui e la sua giunta. Uno scenario da spavento. Come se a Roma non ci fosse più il Parlamento ma solo il Governo. A Licata le cose sono andate così. E dal giorno dell'arresto per l'ipotetico passaggio di mano dei 6 mila euro in città i suoi fedelissimi fanno e disfanno, montano e smontano, parlano e straparlano. E da quel giorno il sindaco ha cambiato 6 vicesindaci e 29 assessori. Molti sono venuti da fuori, ingaggiati dai paesi vicini, "stranieri" di Aragona, di Grotte, di Favara. L'ultimo della lista è stato suo cognato Paolino, un ex carabiniere che ha anche la delega agli Spettacoli.
Dov'è il sindaco? «Abita al quinto piano», soffia un muratore di via Michele Lizzi al villaggio Mosè, banlieu agrigentina devastata dal cemento abusivo a ridosso del tempio della Concordia. Al quinto piano di una palazzina gialla al civico 28 c'è la sua nuova casa e il suo nuovo ufficio, il suo gabinetto da sindaco, il suo quartiere generale da quando sopravvive al confino. La mattina, per primi, in via Michele Lizzi arrivano i vigili urbani da Licata a fargli firmare le carte. Poi, a turno, su una Mercedes nera arriva Ignazio oppure Franco, i due autisti che lo scorrazzano in tutta la Sicilia. «Andiamo alla Provincia, andiamo a Palermo alla Regione, per motivi istituzionali qualche volta andiamo anche a Roma», racconta Ignazio.
A giugno l'hanno accompagnato a una fiaccolata antimafia ad Agrigento («Ha la faccia tosta di presentarsi anche in queste occasioni: sta provocando un danno alla città senza precedenti», accusa Daniele Cammilleri, capogruppo alla Provincia per il centro-sinistra e cittadino di Licata), a inizio settembre si è autoinvitato alla commemorazione dei giudici Saetta e Livatino portandosi dietro i vigili con il gonfalone, una settimana fa ha costretto altri sei sindaci del circondario a spostare una riunione sui rifiuti a Ravanusa. L'avevano organizzata a Licata ma là lui non ci poteva andare.
Convoca conferenze stampa al caffè Albatros di San Leone, riceve i funzionari al Roxy bar davanti al Tribunale di Agrigento, dicono che abbia riunito la sua giunta perfino nel suo appartamento di via Michele Lizzi e nella hall del Grand Hotel dei Templi. «Falsità, la giunta si è sempre tenuta qui in Municipio e senza il sindaco», reagisce il segretario generale del comune Caterina Moricca. Poi ammette: «Certo, in questa situazione ci sono difficoltà di raccordo ma è la democrazia».
Le voci che corrono nelle vie di Licata sono tante e tutte raccolte dai cronisti di Video Alfa che giorno dopo giorno martellano Angelo Graci e la sua corte. Ogni edizione del Tg è uno scoop su un rimpasto o un impasto governativo. L'altro lunedì hanno dato la notizia che il trivani del villaggio Mosè, dove abita, è di proprietà dell'ultimo vicesindaco Giuseppe Arnone. Ribatte l'interessato: «È della suocera di mio fratello, il sindaco paga regolarmente l'affitto ed è stato messo fuori gioco perché in campagna elettorale ha sbaragliato tutti sconfiggendo il vecchio potere di Licata».
Il sindaco non parla più su consiglio degli avvocati. Però manda avanti i suoi. Uno dopo l'altro tutti gli otto, ultimissimi, assessori investiti a rappresentarlo in sua assenza. Lo difendono in coro, dichiarano in fotocopia: «Un uomo integerrimo, vittima di un complotto: non si dimette perché è innocente».
E la tangente? E i 6 mila euro? Lo scandalo è praticamente "scoppiato" in diretta sugli schermi delle tivù locali quando un impresario di spettacoli - non quello che ha vinto, ma Gioacchino Farruggio detto Sergio - ha candidamente ammesso: «Per lavorare a Licata bisogna pagare qualche contributo». Dall'imprenditore che accusa alle "cimici" dei carabinieri, dagli appuntamenti fra il presunto corrotto e il presunto corruttore alle maldicenze (maldicenze?) su un altro notabile diventato famoso per una sua celebre frase («Mangio io, mangi tu, mangiamo tutti»), dal divieto di dimora ordinato per il sindaco alla sua ostinata scelta di non andarsene.
Scandalo e scompiglio. Con interrogazioni parlamentari, sospetti, con il leader siciliano di Legambiente Giuseppe Arnone (solo un omonimo del vicesindaco) che sfila con il suo posterbus davanti al palazzo del governatore Lombardo per chiedere la cacciata di Graci, con la sconcia giostra dei vice e degli assessori che lo tengono in sella sotto processo e confinato.
Lasciandoci dietro Licata e le maliziosità dei suoi amministratori, raccogliamo per strada l'ultimo sfogo sulla città più indicibile. Appalti milionari manovrati, intoccabili, vicinanze equivoche fra rappresentanti delle forze dell'ordine e imprenditori o altri amministratori sempre impuniti. Ogni fatto, luogo e personaggio citato in quest'ultima parte di cronaca non è puramente casuale. Al momento però il protagonista di Licata resta lui. Dov'è il sindaco? «Fuori sede», hanno imparato a ripetere i quattrocento impiegati del Comune.
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